L'assurda illusione smascherata da Camus |
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cent'anni dalla nascita, Albert Camus, romanziere e filosofo francese,
resta un autore straordinariamente attuale. Ha saputo cogliere, con
impietosa lucidità, l'assurda illusione dell'uomo di saziare da sé il
proprio desiderio di felicità infinita.
Romanziere e filosofo francese, autore di opere celeberrime come Lo straniero, Il mito di Sisifo, La peste,
Albert Camus è il più giovane letterato a essere insignito del premio
Nobel per la letteratura nel 1957 a soli quarantaquattro anni. Tre anni
più tardi morirà per un incidente stradale (1960). Quest’anno si
celebrano i cent’anni dalla nascita (7 novembre 1913).
Ogni epoca si è sempre considerata moderna,
troppo moderna per il passato. «Ogni generazione si crede destinata a
rifare il mondo» scrive Albert Camus. «La mia sa che non lo rifarà. Il
suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si
distrugga». Questa è la descrizione che fa Camus negli anni Cinquanta
riguardo alla sua generazione.
Oggi l’eterno mito dell’uomo di sostituirsi a Dio
e di ricreare un mondo migliore, quel mito che Camus descriveva morto
negli anni Cinquanta, forse perché era ancora vivo nella mente
l’abominio della Seconda guerra mondiale, forse perché gli erano chiare
le violenze perpetrate nel mondo dai regimi comunisti, è ritornato vivo
più che mai, in mezzo ad una miriade di ideologie che sorgono proprio
là dove Dio non è riconosciuto. La situazione culturale in cui si
affermano queste ideologie è, in realtà, in parte simile a quella che
descrive lo scrittore francese nelle opere appartenenti alla trilogia
dell’assurdo, Lo straniero (1942), Caligola (rivisitato dal 1937 al 1958) e il Mito di Sisifo
(1942). In particolar modo, in quest’ultima opera Camus identifica in
Sisifo la situazione dell'uomo. Sisifo è stato condannato dagli dei a
far risalire su un monte un macigno, ma proprio quando sta per arrivare
in cima il macigno ricade giù. Egli riprende, così, in eterno la sua
fatica, senza sosta. Non c’è nulla di più assurdo che lavorare e
faticare senza ottenere mai alcun esito dalle proprie azioni. Camus
reinterpreta il mito considerando Sisifo addirittura felice: «Tutta la
silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il
macigno è cosa sua […]. L’uomo assurdo, quando contempla il suo
tormento, fa tacere gli altri idoli […]. Anche la lotta verso la cima
basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».
Perché, ci chiediamo noi, Sisifo dovrebbe essere felice? Per il
suo sterile lavoro, perché è cosciente del suo destino, perché opera
in maniera indefessa senza uno scopo? Potremmo più facilmente
rispondere che l’assenza di una ragione per cui lavorare, faticare e
alzarsi al mattino può solo rendere la vita disperata e tragica. Aveva
giustamente scritto Cesbron che «tutto l’errore della vita è che l’uomo
vuole essere perfetto e non santo», cioè felice. Nonostante la sua
titanica fatica, Sisifo non giungerà mai neppure alla perfezione, cioè
al compimento, perché la sua opera non si concluderà mai. Ecco perché,
sostiene Camus, la reazione più naturale a tale condizione esistenziale è
quella della rivolta, della ribellione. Sappiamo bene dove porterà di
lì a pochi anni questa teorizzazione.
Non c’è, infatti, sforzo umano che possa saziare quel desiderio infinito di felicità che Camus descrive così bene nell’opera teatrale Caligola.
L’opera, incentrata sui deliri di onnipotenza dell’Imperatore Caligola
che resse l’Impero romano tra il 37 e il 41 d. C., fu rielaborata più
volte dal 1937 al 1958. La grandezza dell’uomo autentico consiste nel
non recedere dal desiderio infinito di felicità, continuando a
desiderare quello che sembrerebbe impossibile, ma che anche solo una
volta è stato sperimentato e, di conseguenza, è diventato possibile. Nel
dialogo con l’Imperatore Caligola Elicone cerca di informarlo sulla
congiura che è stata tramata contro di lui. L’Imperatore non se ne cura e
continua imperterrito a manifestare il desiderio del suo cuore.
Nell’Atto III (scene III e IV) Caligola vuole la Luna che ha già ha
avuto nella vita: «Io l’ho avuta completamente. Soltanto due tre volte, è
vero. Ma insomma sì, l’ho avuta. […] Io voglio soltanto la luna,
Elicone. So bene in che modo morirò. Non ho ancora esaurito tutto ciò
che può alimentare la mia vita. Perciò voglio la luna […]. Se qualcuno
ti portasse la luna sarebbe tutto diverso, non è così? L’impossibile
diventerebbe possibile e qualsiasi cosa cambierebbe, così d’un colpo. E
perché poi Elicone non dovrebbe portarti la Luna».
Altrove, nel celeberrimo romanzo La peste,
Camus descrive la vita dell’uomo nella iperbolica e paradigmatica
condizione della città di Orano, dove si diffonde gradualmente il morbo
mietendo morte senza che nessuna autorità voglia riconoscerlo. Il male e
la distruzione devastano quelle che sembravano isole di felicità
mostrando all’uomo il volto di un destino cui non ci si può
contrapporre. Unica posizione umana auspicabile è quella del dottor
Rieux che combatte in maniera energica non per sé, ma per tutti, fino a
che il morbo non è debellato. La solidarietà appare l’unica risposta
possibile all’assurdità dell’esistenza, al dolore e alla sofferenza. È
una posizione che in parte richiama quella di Leopardi nella Ginestra (1836). Ma è una vittoria momentanea.
Senza un senso e un Mistero che possano dare significato a tutto,
anche al male, alla sofferenza e al dolore, anche la lotta più
indefessa assume i contorni di un titanico agire contro una forza più
grande di noi. Così, alla fine, si assiste al trionfo dell’assurdo,
perché non c’è sforzo umano che possa dare consolazione da solo di
fronte alla morte.
(pubblicata su La nuova bussola quotidiana del
17-3-2013)