Luigi Pirandello: c’è un oltre in tutto
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di MARIA DI LORENZO
“Sono caduto, non so di dove nè come
nè perchè, caduto una notte di giugno in un’arida campagna di secolari
olivi saraceni, di mandorli e di viti affacciata sotto l’ondata azzurra
del cielo, sul nero mare africano”. Questa notte così poeticamente
evocata era quella del 28 giugno 1867 ed il luogo era il “Caos”, una
contrada a 4 km da Agrigento dove nacque il grande drammaturgo Luigi
Pirandello, l’autore che forse più di ogni altro ha impresso un segno
forte, agli albori del Novecento, alla letteratura non solo italiana ma
europea, con le sue innovazioni stilistiche, il suo ricco immaginario, i
suoi romanzi e soprattutto le sue commedie, ancora oggi rappresentate
in tutto il mondo.
“Tre scrittori hanno attraversato questo
secolo dando nome – il loro nome – alle nostre inquietudini, ai nostri
smarrimenti, alle nostre paure e al tempo stesso, per quella catarsi o
misura di contemplazione che è nelle rivelazioni dell’arte,
permettendoci di viverle con temperata ansietà e disperazione. Sono,
questi tre scrittori, Pirandello, Kafka, Borges.” Lo sosteneva Leonardo
Sciascia, profondo conoscitore della letteratura, e in modo particolare
dell’opera del suo più illustre conterraneo.
Luigi Pirandello, secondo di sei figli,
era nato il 28 giugno 1867 ad Agrigento (l’antica colonia greca di
Akragas che si chiamerà Girgenti fino al 1927) da Stefano Pirandello e
da Caterina Ricci-Gramitto, in una casa colonica che si trovava nella
tenuta paterna denominata “Caos”, qualche chilometro fuori dalla città,
sulla strada che conduce verso Porto Empedocle, in una contrada
suggestiva che dall’alto di un costone da un lato guarda verso il mare e
dall’altro è delimitata da una ripido e piccolo valloncello che porta
direttamente alla spiaggia.
Assai precoce nella scrittura, pubblica
la sua prima raccolta di poesie, “Mal giocondo”, nel 1889. Il 1892,
invece, è l’anno delle sue prime novelle, appena conseguita la laurea in
Germania, e in cui incomincia pure a comporre quello che sarà il suo
primo romanzo, “L’esclusa”. Due anni più tardi, nel 1894, il definitivo
trasferimento a Roma a seguito del matrimonio con Antonietta Portulano,
figlia di un socio in affari del padre, da cui avrà tre figli: Stefano,
Fausto e Lietta.
Nel 1903 l’allagamento di una miniera di
zolfo causa alla famiglia Pirandello un grave dissesto economico: il
padre Stefano perde insieme al proprio capitale anche la dote della
nuora. In seguito alla notizia dell’improvviso disastro finanziario,
Antonietta, già sofferente di nervi, cade in una gravissima crisi che
durerà per tutta la vita sotto la forma di una grave paranoia. Vani
saranno i tentativi di Pirandello di dimostrare che la realtà non è come
invece pare alla moglie. Abbandonata la tentazione del suicidio, che
sublimerà nel romanzo “Il fu Mattia Pascal”, lo scrittore cerca di
fronteggiare la disperata situazione, assistendo la moglie Antonietta
(che verrà internata in una casa di cura soltanto vari anni dopo, nel
1919) e per arrotondare il magro stipendio di professore, impartisce
lezioni private ed intensifica la sua collaborazione a riviste e a
giornali.
Sono anni molto difficili, che mettono a
dura prova il suo spirito e durante i quali elabora quella sua personale
poetica letteraria che riverserà in poesie, saggi, romanzi e novelle,
ma soprattutto nelle opere teatrali, affermandosi come massimo
drammaturgo negli anni successivi alla prima guerra mondiale. “Liolà”,
“La giara”, “Il berretto a sonagli”, “Pensaci, Giacomino!”, “Così è (se
vi pare)”, “Il piacere dell’onestà” sono i lavori più significativi del
periodo 1915-20, mentre è del 1921 la prima rappresentazione dei “Sei
personaggi in cerca d’autore” con cui la fama del drammaturgo siciliano
varca i confini dell’Italia, acquisendo il consenso unanime di pubblico e
di critica.
Un’arcana voce profonda
“Batte nel cuor di tutti una campana;
/
ma della vita nel vario frastuono /
il dolce suono / nessuno ascolta. /
Pure, talvolta, d’un tratto giunge come un’arcana /
voce profonda, non
udita mai. /
È la lontana /
chiesetta antica dell’abbandonata /
nostra
città… /
“Ave Maria… Ave Maria…”
– Che fai, / anima sconsolata? /
Lagrime amare ha chi pregar non sa”.
Sono versi limpidi e accorati di una sua
poesia intitolata “Che fai?”. Versi che esprimono quella interrogazione
metafisica che permea tutta l’opera pirandelliana. La dialettica
dell’Oltre è infatti al cuore della sua potente espressione artistica.
Pirandello non è un nichilista, perché conosce la pietà, è un autore ma
prima ancora un uomo che dalla constatazione dell’assurdo del vivere
trae motivo di dolorosa fraternità con l’uomo.
Il problema religioso allora è il
problema centrale della sua opera perché tutta la sua opera è
un’interrogazione metafisica, è una domanda di senso sull’esistenza che
fuori da una fede si percepisce solo come assurda. Personaggi che si
dibattono nel carcere della loro solitudine, con l’angoscia di non poter
sapere perché si debba amare, perché si debba morire, con la sofferenza
di non poter comunicare e di non poter dare il proprio amore perché non
c’è nessuno pronto a riceverlo e a capirlo. Sono i temi, a ben vedere
universali, della sua scrittura.
Il contrasto tra apparenza e realtà, lo
sfaccettarsi della verità (tante verità quanti sono coloro che presumono
di possederla), l’assurdità della condizione dell’uomo, fissato – pur
nella molteplicità del suo sentire e del suo agire – nel letto di
Procuste della catalogazione (adultero, innocente, ladro ecc.) in una
forma che impastoia e soffoca la vita, come nota il critico letterario
S. Guglielmino, sono i cardini dell’espressione letteraria
pirandelliana, coniugata drammaticamente in una ricerca continua di
senso, che viene sempre delusa o illusa, in un tormento che genera una
sete inestinguibile che poi, scavando ogni giorno negli abissi di
solitudine degli uomini, altro non è se non sete, sete ardente, seppur
misconosciuta, di Dio.
Ne “I quaderni di Serafino Gubbio operatore”, Pirandello scrive: “C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo”.
C’è un oltre in tutto. Lo comprende anche
il protagonista di “Dono della Vergine Maria”, e il dolce colloquio di
Nuccio con la Madonna è fra i suoi testi più belli e più toccanti:
“Tanto ho penato, tante ne ho viste, e ancora non ho finito… Vergine
Santa, e sempre V’ho lodata! Morire io prima, no, Voi non avete voluto:
sia fatta la Vostra santa volontà! Comandatemi, e sempre, fino
all’ultimo, V’ubbidirò! Ecco io stesso, con le mie mani sono venuto a
offrire l’ultima mia figlia, l’ultimo sangue mio: prendetevela presto,
Madre degli afflitti; non me la fate penare più. Lo so, né soli né
abbandonati: abbiamo l’aiuto Vostro prezioso, e a codeste mani pietose e
benedette ci raccomandiamo. O sante mani, o dolci mani, mani che sanano
ogni piaga: beato il capo su cui si posano in cielo!”
Il testamento
La fama del drammaturgo siciliano si
consolida sempre di più e negli ultimi anni Pirandello gira per il
mondo, al seguito delle sue opere che vengono rappresentate con grande
successo nei più importanti teatri. Nel 1934 riceve il premio Nobel per
la letteratura. Due anni dopo, nel dicembre del 1936 si ammala di
polmonite e muore nella sua casa romana: non ha ancora compiuto
settant’anni.
Il regime fascista avrebbe voluto per lui
le esequie di Stato. Invece vennero rispettate le sue volontà così come
le aveva espresse nel suo testamento: essere avvolto nudo in un
lenzuolo e messo in una cassa sul carro dei poveri. Lui, un premio
Nobel, uno scrittore di fama internazionale, morire alla stregua dei più
derelitti della terra. Ma questo era il suo sentire, ciò che esprimeva
il suo stare religiosamente dentro la vita del mondo, la sua incessante
ansia di assoluto, che finalmente adesso trovava un approdo.
(c) Maria Di Lorenzo – all rights reserved / articolo pubblicato sul mensile Madre di Dio di luglio 2014 – tutti i diritti riservati.
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