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di Tat'jana Kasatkina
17-01-2012
Per gentile concessione dell'editore Itaca, anticipiamo alcune pagine della preziosa raccolta di saggi Dal paradiso all'inferno. I confini dell'umano in Dostoevskij di Tat'jana Kasatkina, a cura di Elena Mazzola.
Gesù è entrato nella nostra vita, ma noi non facciamo neanche un passo verso di Lui. Per questo ci muoviamo sempre nelle regioni della speranza.
La vita dell’uomo nella sua essenza ci mostra che egli non è autonomo, non fa tutto da sé: l’uomo è co-autore, collaboratore, cooperatore, e quindi è sempre quello che deve fare il secondo passo, perché il primo passo in realtà è stato già fatto nel momento della creazione. La caratteristica dell’uomo come creatura è quella di avere inscritta in sé l’immagine di Dio, un’immagine inestirpabile: si può trattarla come si vuole, si può dimenticarla, si può non prenderla sul serio e si può anche ferirla, offenderla; l’immagine rimane, sempre.
L’idea fondamentale di Dostoevskij è che nell’uomo l’immagine di Dio è assolutamente indistruttibile, e questo avviene in qualsiasi uomo incontriamo, per quanto tremendo possa essere, per quanto terribile e disumano possa sembrarci. Nel profondo dell’uomo, nonostante tutto e sempre, l’immagine di Dio permane e risplende.
Egli l’ha compreso in circostanze molto gravi, nei quattro anni passati ai lavori forzati. Ciò che lo ripugnava di più nella vita di prigionia non era il fatto di essere condannato, di essere obbligato a svolgere un lavoro durissimo, di avere le catene ai piedi, ma accorgersi che attorno a lui c’era sempre gente e che mai, neanche per un istante, avrebbe potuto rimanere da solo. Era circondato da uomini ferini, ridotti allo stato di bestie. Erano persone nelle quali sembrava che tutto l’umano si fosse spento. Non solo il divino, anche l’umano.
Una scena particolarmente terribile si era verificata in occasione della Pasqua, una Pasqua che i forzati festeggiavano a modo loro: tutti rinchiusi in uno stanzone, si ubriacavano, si azzuffavano, bestemmiavano, e facevano tutto quello che possiamo immaginarci pensando a un modo di divertirsi disgustoso. In quel campo i detenuti politici erano pochi; tra loro c’erano tre polacchi, persone che non erano nate e cresciute in Russia e che non avevano alcun legame con quel popolo che dava così brutta prova di sé.
Alla ricerca di un momento di solitudine, Dostoevskij incrocia uno di questi polacchi che gli dice: «Come odio questi delinquenti!». A quelle parole Dostoevskij, che provava per loro esattamente gli stessi sentimenti, si è come fermato, si è soffermato a guardare dentro di sé, a riflettere, a ricordare. Questo episodio è avvenuto quando Dostoevskij aveva ventinove anni, e lì gli è tornato in mente un fatto che si era verificato quando aveva solo nove anni: era un ragazzino e viveva nella proprietà del padre, era estate e lui si era allontanato da casa addentrandosi in un boschetto per prendere dei ramoscelli; all’improvviso aveva sentito una voce, o forse gli era soltanto parso di sentirla, e si era spaventato terribilmente, si era messo a correre a più non posso e correndo aveva incrociato un contadino di suo padre, che si chiamava Marej. Arrivato vicino a lui, il ragazzo si era fermato e aveva detto: «Arriva il lupo!». Erano soli, intorno non c’era nessuno. Allora il contadino Marej aveva iniziato a tranquillizzarlo, a consolarlo, gli aveva sorriso con dolcezza, e con le sue grossa dita gli aveva sfiorato le guance dicendogli: «Ma no, stai tranquillo, non c’è nessuno».
Questo è il ricordo che torna in mente a Dostoevskij venti anni dopo. E in quel momento egli si rende conto che il contadino non aveva assolutamente alcun obbligo verso di lui, un ragazzino spaventato, e che a parte Dio nessuno li poteva vedere, nessun occhio umano stava osservando la scena. Certo, chiunque avrebbe tranquillizzato un bambino, ma lui aveva dimostrato una tenerezza e una carità così grandi verso il figlio del suo padrone, l’aveva saputo confortare con tale dolcezza, che Dostoevskij, venti anni dopo, se lo ricordava ancora come una delle cose più belle della sua vita e a ventinove anni si era sorpreso a pensare: «Ecco, io adesso ho intorno ubriaconi, gente corrotta, eppure ciascuno di loro potrebbe essere quel contadino Marej, perché, in altre circostanze, quello stesso Marej avrebbe potuto finire anche lui qui nel reclusorio, e quindi in ciascuno di questi uomini che ho intorno adesso potrebbe esserci, in fondo, quel contadino che mi ha mostrato tanta carità, dolcezza e affetto». E riflettendo era giunto a constatare: «Certo, per me è molto più facile che per questo polacco, perché lui non ha ricordi come i miei».
È in questa occasione che Dostoevskij ha definitivamente imparato a vedere nell’uomo, nonostante tutto il fango e il male che si può essere incrostato su di lui, l’immagine di Dio. Allora ha capito che questo è quello che noi dobbiamo e possiamo sperare nell’uomo. Perché in qualsiasi momento, anche nell’ultimo istante, qualsiasi uomo può far tornare alla luce quella profonda tenerezza, quella delicatezza umana che è stata posta in lui da Dio stesso.
Abbiamo dunque detto che la speranza indica qualcosa che non c’è, ma che d’altra parte c’è sempre, immancabilmente. E qui abbiamo visto un esempio relativo alla memoria, un ricordo: anche il ricordo è un qualcosa che c’è di qualcosa che non c’è; è un tipo di speranza che si sviluppa in un’altra direzione, verso il passato, eppure funziona esattamente come la speranza. L’immagine che un tempo era apparsa chiaramente al bambino lo aiuta a vedere nel momento attuale, in persone che non rivelavano niente di simile, quella stessa immagine umana splendente che ha sempre la possibilità di riemergere e mostrarsi. Occorre capire che se Dio spera sempre nell’uomo, anche l’uomo deve sperare nell’uomo, e questo è, di fatto, ciò che unisce gli uomini.
Dostoevskij ha sempre costruito le proprie opere ponendo alle fondamenta un’immagine che, celata in profondità, dal profondo traluce, emana luce: questa immagine può essere quella stessa di Cristo, può essere rappresentata da un fatto che ha un significato evangelico, o ancora può essere l’immagine della Vergine; in ogni caso si tratta di un’immagine, alla base c’è sempre un’immagine. Questa caratteristica è stata notata da molti studiosi di Dostoevskij, eppure non è mai stata considerata come uno dei principi generativi di tutta la sua opera. Invece si tratta esattamente di questo, perché non è soltanto il principio secondo cui lo scrittore componeva le sue opere, ma è anche quello con cui l’uomo Dostoevskij guardava il mondo.
Prendiamo ad esempio quanto scrive su un fatto di cronaca. È la storia di una giovane donna che aveva buttato la figliastra dalla finestra. La ragazza (aveva appena vent’anni ed era incinta) era subito andata a costituirsi e l’avevano giudicata colpevole. Dostoevskij, che era convinto che il suo gesto fosse stato causato da una reazione nervosa, isterica, legata alle sue condizioni fisiche, per cui era stata presa da un impulso incontrollabile, espone il suo punto di vista nel Diario di uno scrittore e riesce a convincere della sua opinione alcuni lettori che poi si impegneranno personalmente nel tentativo di mitigare la sentenza di condanna. Uno di questi, in particolare, gli aveva scritto enumerando tutte le azioni intraprese per difendere e aiutare la ragazza, e Dostoevskij avvia con lui una corrispondenza assolutamente – questo è importante sottolinearlo – professionale, strettamente inerente al caso in questione, ma poi termina la lettera in modo del tutto sorprendente. Senza interrompere il filo del discorso, senza nemmeno andare a capo, scrive: «A Gerusalemme c’era una piscina, Betzaetà, e un malato si era lamentato con Cristo perché non c’era nessuno che potesse immergerlo nell’acqua. A giudicare da questa lettera, per il nostro malato questa persona vuole essere lei: non lasci passare il momento in cui l’acqua si agiterà».
Da un fatto di cronaca molto concreto Dostoevskij passa direttamente, senza interruzione, a un episodio evangelico, un testo che è inscritto nella storia eterna dell’umanità. Nel profondo di un evento dell’attualità egli vede riemergere la dinamica universale della storia evangelica; ma non si tratta di una storia che, semplicemente, si ripete, è una storia che si rinnova, prende forme nuove per ogni singolo uomo, ogni volta in maniera diversa. Cristo osserva la scena: Egli guarda e aspetta di vedere se ci sarà un uomo pronto a collaborare con Lui o se dovrà invece, ancora una volta, intervenire personalmente, uomo e Dio in una stessa persona.
La speranza di Dio, quindi, è costantemente riposta nell’uomo: Dio perennemente spera che l’uomo sia suo collaboratore. E questo è ciò che ci permette di sperare nelle persone che abbiamo accanto, perché chiunque può essere lo strumento di Dio.
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dostoevskij
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Quel volto nascosto in tutto ciò che è bello
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di Giovanni Fighera
06-08-2011
Qual è l’«utilità» della bellezza nella nostra vita? Qual è il legame tra il bello e la civiltà, tra il bello e le altre discipline, tra il bello e le dimensioni concrete dell’esistenza? Affermare che la bellezza sia «disinteressata» coincide con l’attestazione della inutilità della bellezza?
Iniziamo col dire che la bellezza ha una suprema funzione educativa. Se, infatti, il bello produce sull’uomo l’effetto della contemplazione, allora esso ci educa a cogliere la realtà per quella che è. Di fronte al bello, cioè, l’uomo è portato, come primo, iniziale e puro impeto, a contemplarlo: è, quindi, educato a trasformare l’amore di concupiscenza in amore per l’oggetto in sé stesso. Questo sguardo puro, distaccato e contemplativo di fronte alla bellezza del reale si chiama verginità. Dostoevskij non aveva dubbi nel riconoscere l’importanza della bellezza. Scriveva nei Demoni: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno più in alto della liberazione dei contadini, più in alto dello spirito popolare, più in alto del socialismo, più in alto della giovane generazione, più in alto della chimica, quasi più in alto dell’umanità intera, giacché sono già un frutto, il vero frutto dell’umanità intera e, forse, il frutto più alto che mai possa essere! ».
Bisogna, però, sfatare un inveterato luogo comune, quello che la bellezza riguardi solo le discipline artistiche. La bellezza riguarda ogni ambito della vita e della realtà come scrive Dante nel Paradiso: «Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/ che l’universo a Dio fa simigliante». Quindi, la bellezza è alla base di ogni passione e interesse umano. Così si esprime lo scienziato italiano Antonino Zichichi sullo sviluppo della scienza a partire da G. Galilei: «La scienza nasce da questo atto di umiltà intellettuale: dare a oggetti volgari dignità intellettuale, studiandoli. Questa umiltà intellettuale aveva in Galileo Galilei radici profonde: la fede nel fatto che in ciascun oggetto, fosse esso volgare o inutile, ci doveva esser la mano del Creatore […]. Le grandi scoperte galileiane sono le prime impronte di colui che ha fatto il mondo. Esse sono state ottenute partendo non da tecnologie, ma da semplicissime pietre, spaghi e legni. […] E invece Galilei considera quegli oggetti depositari delle impronte del Creatore».
Senza lo stupore per il creato e per l’ordine nascosto ivi presente, l’indagine scientifica non partirebbe. Quindi, non solo l’arte, ma anche la scienza deriva dall’osservazione e dallo stupore per la bellezza. Anche Albert Einstein afferma che il sentimento religioso dello scienziato «consiste nell’ammirazione estasiata delle leggi della natura; gli si rivela una mente così superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri non è al cospetto di essa che un riflesso assolutamente nullo […]. La più bella sensazione è il lato misterioso della vita. È il sentimento profondo che si trova sempre nella culla dell’arte e della scienza». Stupore, contemplazione, estasi di fronte alla bellezza della realtà: questi sono gli sproni che inducono il «vero uomo di scienza» a ricercare le leggi che descrivono (cioè dicono il «come», ma non il «perché») quell’ordine e quell’armonia che tralucono dal creato. Senza la certezza di un ordine nascosto non vi sarebbe ricerca.
L’uomo medioevale, che certo non possiede gli strumenti tecnici per l’indagine, è, però, convinto dell’esistenza di un ordine e lo comunica attraverso la presenza del numero tre (con valore religioso di richiamo alla Trinità) ovunque. La certezza di quest’ordine appartiene all’uomo prima che questi sia in grado di dimostrarlo scientificamente. È lo sguardo che si fa contemplazione delle cose che lo percepisce e fa scaturire il desiderio di coglierlo più in profondità. La bellezza ha, quindi, la capacità di muovere l’uomo all’ardore della conoscenza e alla ricerca della verità, nel contempo lo sprona al desiderio di bene come il protagonista del bellissimo film Le vite degli altri dimostra quando si chiede: «Come si fa ad essere cattivi dopo aver ascoltato questa musica?».
La bellezza e l’arte, poi, consolano l’uomo dalle sofferenze quotidiane. È questa una convinzione da sempre presente nell’espressione artistica. La storia letteraria è un monumento, cioè una testimonianza imperitura, del valore dell’arte come consolazione delle afflizioni, tentativo, seppur sempre parziale e imperfetto, di lenire le sofferenze per la perdita di un caro. Indubbiamente, gli esempi al riguardo si sprecano. Come non ricordare le poesie di Pascoli dedicate alla morte del padre, assassinato nel 1867 («X agosto», «La cavallina storna», …) oppure il resoconto diaristico composto da Ungaretti durante la Prima guerra mondiale, intitolato Il porto sepolto, in cui il poeta si sofferma sulla scomparsa dei compagni di guerra («Veglia», «Soldati», …)? Come scordarsi versi come «Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…», scritti sempre da Ungaretti quando vuole raccontare la sua sofferenza per la morte del figlio di soli nove anni?
La funzione eternatrice dell’arte scaturisce, poi, in concomitanza stessa della sua nascita: essa può rendere immortale il nome di chi è stato e non c’è più. Basti pensare ai poemi omerici o, per addurre esempi tratti dalla nostra letteratura, alla poesia dantesca. Quanti personaggi nell’Inferno chiedono che la propria memoria sia rinverdita e procrastinata da Dante, evidentemente attraverso il suo racconto memoriale! Pensiamo a Ciacco che si congeda da Dante viator con una richiesta: «Quando sarai nel dolce mondo, / priegoti ch’a la mente altrui mi rechi».
Cinquecento anni più tardi, Foscolo costruirà un intero poema sulla bellezza, sull’arte e sull’efficacia che esse hanno nel rendere immortale il nome dei grandi: I sepolcri. Si pensi all’icastica catena di trionfi in cui Foscolo raffigura le Pimplee (ovvero le muse, cioè la poesia) vincere sul tempo e sulla dimenticanza che ogni cosa avvolge: «Siedon custodi de’ sepolcri, e quando / Il tempo con sue fredde ale vi spazza/Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti/Di lor canto i deserti, e l’armonia/ Vince di mille secoli il silenzio». È somma poesia, questa, ove Foscolo tocca uno dei vertici della letteratura di sempre. Se Foscolo afferma che la bellezza dell’arte e della poesia avrebbe trionfato sul deserto del tempo, Dostoevskij arriverà a scrivere nei Demoni che «il mondo sarà salvato dalla bellezza». Che cosa significa?
Papa Giovanni Paolo II commenta nella «Lettera agli artisti» chiosando che la bellezza genererà sempre quello stupore da cui sorgerà l’entusiasmo che permetterà all’uomo di rialzarsi. Rivolgendosi sempre agli artisti Papa Benedetto XVI spiegherà, poi, che «speranza è vera figlia di bellezza». Charles Moeller scrive in Saggezza greca e paradosso cristiano: «Una sola cosa supera la bellezza della Divina Commedia sulla Terra ed è la bellezza del volto dei santi». Per questo nei primi secoli la Didaché spronava i cristiani a guardare sempre il volto dei santi e a trarre conforto dai loro discorsi. La bellezza del santo deriva dal suo amore per Cristo, il bello e il buono per eccellenza, via verità e vita.
La ricerca della bellezza nella vita riguarda, quindi, la felicità dell’uomo. Ne è ben cosciente Dante che ha scritto la Commedia per «accompagnare gli uomini dalla condizione di peccato e di infelicità alla condizione di felicità e di beatitudine» (si veda la lettera a Cangrande della Scala). Nella poesia «Alla sua donna» Leopardi, poi, scrive rivolgendosi alla bellezza che se l’uomo la incontrasse e la amasse allora la sua vita sarebbe felice, addirittura sarebbe come quella che «nel ciel india».
Per questo san Giustino martire poteva affermare: «Tutto il bello ci interessa, perché il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del Logos nella sua pienezza. Ne consegue che tutto ciò che di buono è stato espresso da chiunque appartiene a noi cristiani». La bellezza è cioè una modalità con cui Dio ci attira a sé
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Meriti e limiti del Risorgimento
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Il Cardinale Giacomo Biffi spiega i benefici e i problemi dell’Unità d’Italiadi Antonio Gaspari
Tratto dal sito ZENIT, Agenzia di notizie l'11 marzo 2011 Il Risorgimento fu positivo sotto molti aspetti. Anche l’Unità d’Italia apportò molti benefici, ma attenti alle esagerazioni, perché l’Italia era grande anche prima dell’Unità. Questo è quanto sostiene il Cardinale Giacomo Biffi nel libro “L’Unità d’Italia” appena pubblicato dalla Cantagalli.
In questo saggio di 88 pagine l’Arcivescovo emerito di Bologna, con la consueta arguzia, ricorda quanto gli eserciti francesi ‘liberatori’ siano stati dei ladri, non solo a Bologna, ma in tutte le città d’Italia.
“Prima di allora i nostri conquistatori austriaci o spagnoli – ha scritto il porporato - non si erano mai permessi di derubarci delle nostre opere d’arte”. Solo a Bologna “asportarono trentun dipinti dei più rinomati maestri (quali il Guercino, i Carracci, Guido Reni, Raffaello ecc.) e allo stesso modo si comportarono in tutte le altre città”.
Il Cardinale Biffi precisa che “per quel che se ne sa, nessuna voce di vergogna o di rammarico è giunta poi fino a noi dalla Francia per questo odioso comportamento”.
“L’esito del Risorgimento - scrive Biffi - fu indubbiamente positivo per molti aspetti”. Anche se “è costato sacrifici”.
L’Arcivescovo emerito di Bologna precisa poi come l’identità nazionale fosse già ben presente tra le genti che hanno popolato lo stivale. Già i poeti Giovanni Petrarca e Dante Alighieri parlavano, infatti, del Bel paese dove il “sì suona”. La grandezza letteraria, artistica, scientifica, religiosa e sociale dell’Italia esisteva ed era ben solida già prima del 1861.
A questo proposito il Cardinale Biffi riporta i commenti originalissimi e poco conosciuti di due grandi scrittori russi: Fëdor Michailovic(Dostoevskij e Vladimir Soloviev.
Dostoevskij scrisse infatti che “l’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour” e che, nonostante ciò, “anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è stato geniale, ha raggiunto il suo scopo ha fatto l’Unità d’Italia. Ma guardate più addentro e cosa vedete? L’Italia porta con sé da duemila anni un’idea grandiosa, reale, organica: l’idea di una unione generale dei popoli del mondo, che fu di Roma e poi dei Papi”.
“E il popolo italiano si sente depositario di un’idea universale e chi non lo sa lo intuisce – continuava –. La scienza e l’arte italiana sono piene di quella idea grande. Ebbene, che cosa ha fatto il conte di Cavour? un piccolo regno di secondo ordine, che non ha importanza mondiale, senza ambizioni, imborghesito”.
Dal canto, Soloviev nell’Opravdanie dobra (La giustificazione del bene) elenca i contributi che l’Italia ha dato al mondo, tra cui “il primo europeo a penetrare in Mongolia e in Cina” e cioè “l’italiano Marco Polo. Un altro italiano scopre il Nuovo mondo (Cristoforo Colombo) e un terzo estendendo questa scoperta, gli lascia il proprio nome (Amerigo Vescpucci)”.
“L’influenza della letteratura italiana – aggiungeva Soloviev – resta predominante per diversi secoli; gli italiani vengono imitati nell’epica, nella lirica, nei romanzi; Shakespeare prende da loro i soggetti e la forma dei propri drammi e delle proprie commedie, (...) la lingua e i costumi italiani dominano dappertutto nelle sfere superiori della società”.
L’Arcivescovo emerito di Bologna sottolinea che l’identità nazionale dell'Italia non è frutto solo di ciò che è avvenuto nel XIX secolo e ricorda che “molti tra i frutti più nobili e preziosi maturati tra noi dallo spirito umano in tutti i campi (del pensiero, della poesie, dell’arte) portano incancellabili i segni della loro dipendenza dalla visione cristiana”.
Detto ciò il Cardinale Biffi afferma che l’unificazione “è indubbiamente un valore” che “non deve essere messa in pericolo né da ideologie senza apprezzabile fondamento né da particolarismi egoistici” e indica in almeno tre i “guadagni provvidenziali del Risorgimento”.
Il primo è quello di “aver definitivamente liberato l’Italia da ogni dominazione non italiana”; il secondo è quello di “aver radunato tutti gli italiani nella realtà politica di un solo Stato”; mentre “il terzo ‘guadagno’ rallegra in modo speciale i veri credenti ed è la scomparsa del potere temporale pontificio che nessun cattolico si sogna più di rimpiangere”.
Nelle conclusioni il Cardinale Biffi affronta anche il tema della immigrazione e della identità culturale italiana, affermando che “ai forestieri si fa spazio non demolendo la nostra casa, ma ampliandola e rendendola ospitale sì, ma nel rispetto della sua originaria architettura e della sua primitiva bellezza”.
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L'UOMO NON PUO' VIVERE SENZA DIO
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Alla fine Ivan, sentendosi colpevole per la morte del padre e per l’ingiusta condanna dell’altro fratello, il violento e passionale Dimitrij, impazzisce; Smerdiakòv, l’omicida materiale, si uccide, e Dimitrij, che tanto aveva odiato il padre sino a volerlo eliminare in cuor suo, verrà condannato, pur essendo innocente. Con la figura di Dimitrij ricompare la dialettica sopra illustrata: "Fratello - dice ad Alioscia - ho sentito nascere in me , dopo il mio arresto, un essere nuovo; un uomo nuovo è risorto. Esisteva in me, ma non si sarebbe mai rivelato senza quel colpo di folgore. Che cosa mi può importare di scavare vent'anni nelle miniere? Non ho paura. Ma un'altra cosa io temo: che quest'uomo risorto se ne vada da me…Anche laggiù, nelle miniere, si può amare, vivere, soffrire. Si può rianimare il cuore intorpidito di un forzato, si può ricondurre dall'ombra alla luce un'anima grande, rigenerata dalla sofferenza, risuscitare un eroe…Non ho ucciso mio padre, ma accetto l'espiazione. Sì, noi forzati saremo uomini sotterranei, privati della libertà, tenuti a catena, ma nel nostro dolore risusciteremo alla gioia, senza la quale l'uomo non può vivere, né Dio esistere, poiché è lui che dona la gioia…Un forzato non può vivere senza Dio, ancor meno di un uomo libero. E allora noi, uomini di sotto terra, dalle viscere della terra faremo salire un tragico inno al Dio della gioia. Viva Dio e la sua divina gioia”. E ancora: "Io voglio soffrire, e la sofferenza mi purificherà…sono innocente della morte di mio padre! Accetto il castigo, non perché io abbia ucciso quel vecchio, ma perché avevo desiderato di ucciderlo".
Dostoevskij "I fratelli Karamazov"
da:Libertà e Persona - Associazione culturale
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La Libertà dono di Dio
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«Invece di impadronirti della libertà umana, l’hai moltiplicata, e hai oppresso per sempre col peso dei suoi tormenti il regno spirituale dell’uomo. Tu volesti il libero amore dell’uomo, volesti che Ti seguisse liberamente, incantato e conquistato da Te. Al posto dell’antica legge fissata saldamente, da allora in poi era l’uomo che doveva decidere con libero cuore che cosa fosse bene e cosa fosse male, e come unica guida avrebbe avuto davanti agli occhi la Tua immagine: ma è possibile che Tu non abbia pensato che alla fine avrebbe discusso e rifiutato anche la Tua immagine e la Tua verità, se lo si opprimeva con un peso così spaventoso come la libertà di scelta?»
Fëdor Dostoevskij – il Grande Inquisitore
Postato da: giacabi a 12:08 |
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dostoevskij, libertà
150 ANNI/
Con buona pace di Cavour,
è il Papa che unisce l’Italia.
Parola di Dostoevskij
Renato Farina è il Papa che unisce l’Italia.
Parola di Dostoevskij
mercoledì 5 maggio 2010
La domanda è semplice. Perché la Chiesa, in particolare la Chiesa italiana (anche se i puristi direbbero “la Chiesa che è in Italia”) adesso è la più forte sostenitrice dell’unità di questo Paese, quando a suo tempo la visse come un sopruso? È impazzita? Ha cambiato la sua essenza e il suo giudizio? Lo fa per convenienza? O per che altro?
C’è una risposta che discende dall’amore per il popolo, per la sua ricchezza. Provo ad analizzare.
L’unità d’Italia fu cercata certo in nome - da parte di molti, anche da intellettuali cattolici - dell’amore per il suo destino, perché non fosse più in balia dello straniero. Ma la mossa politica e ideologica fu a partire da un disegno illuministico e massonico, tale per cui il popolo in grande maggioranza cattolico andava emancipato dal suo attaccamento a ciò che ostacolava un nuovo ordine, comandato da interessi finanziari di sottomissione della povera gente, e per strappare Dio dalla vita pubblica consegnandolo ad una sfera privata, senza peso nel costruire la società.E ostacolo a questo era il papato. Una chiesa fatta di carne, di iniziativa sociale costruita al di fuori del controllo dei poteri forti. I libri cosiddetti revisionisti ricordano come furono incarcerati vescovi e sacerdoti solo perché non agitarono il turibolo al nuovo Dio che era lo Stato. Il Papa fu fatto prigioniero in casa sua. I beni della Chiesa erano in realtà i beni del popolo. Furono confiscati e rivenduti, impoverendo in particolare il nostro Sud, da cui fu drenato il risparmio intero della Sicilia e del mezzogiorno. Il modello era quello napoleonico. Lo Stato come fonte di ogni diritto. La Chiesa invece, essendo contro il liberalismo che arricchiva i lupi, stava a favore della libertà.
Estremizzo, ovvio. Ma va detto. C’era Dio in prigione, come si faceva a stare dalla parte del suo aguzzino?
La Chiesa - e in particolare Pio XI - ha ottenuto alla fine quel che voleva: con il Concordato e soprattutto i Patti Lateranensi poté avere un minimo territorio (a lui bastava un metro quadrato) che fosse sottratto alla potestà temporale, con la facoltà di imbavagliarlo.
Il tempo passa. La storia si sviluppa. Il popolo - dopo le due grandi guerre - si è trovato dinanzi alla possibilità di dar forma democratica ai suoi ideali. Si è generata una solidarietà. Un sentimento patrio, l’idea di una comunanza basata proprio sul suo sentimento profondo cristiano. È stato questa percezione di sé a permettere la ricostruzione.
Di queste cose ho molto discusso con un grande cattolico liberale e statista: Francesco Cossiga. Mi disse una volta: «Mi interessa l’Italia. Le volte che ho detto “Viva-l’Italia-Viva-la-Repubblica!” sono state tante. E ho sempre pensato allo Stato, a questo Stato, mentre lo dicevo. Ma anche a qualche cosa di più forte e intimo. All’Italia che senza questo Stato ora non ci sarebbe, eppure è più grande dello Stato. Ha un destino spirituale unico. C’è in questa Patria nostra, nei popoli che la costituiscono, un compito universale. Papa Giovanni Paolo II non ha mai compreso questa stranezza italiana. Questa frammentazione di popoli e la Chiesa che amava così tanto l’Italia da non desiderare l’unità nazionale. Un giorno, si decise a chiedermelo. “Senta, lei mi deve spiegare: come mai la Chiesa italiana era contro l’unità nazionale?” Per un polacco era inconcepibile. Io risposi: “Santo Padre, il giorno che Antonio Rosmini verrà fatto beato sarà una cosa molto più importante della conciliazione tra la Santa Sede e lo Stato italiano, perché sarà la conciliazione tra la nazione italiana e la Chiesa italiana”. Perché Rosmini aveva in mente un’Italia che fosse insieme Stato e la Chiesa non fosse libera “in” esso. Ma libera “con” lo Stato. Così come il popolo non era da lui fatto coincidere con lo Stato. È stato fatto beato Rosmini. La Chiesa ora riconosce pienamente l’Italia, si è riconciliata anche simbolicamente con la nazione italiana». Fin qui Cossiga.
Da parte mia sto con Fëdor Dostoevskij,citato dal cardinal Giacomo Biffi. Ricordo che Joseph Ratzinger ha definito questo meraviglioso genio russo come “il più grande letterato cristiano del XIX secolo”. E non era certo papista, da slavofilo ortodosso.
In una sua pagina tratta dal Diario di uno scrittore scrive: “L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro e che cosa vedete? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa ha ottenuto al suo posto? (…) è sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa assolutamente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti e soprattutto soddisfatto di essere un regno di second’ordine. Ecco la creazione del conte di Cavour”.
Io credo che l’Italia debba ricordarsi di essere questa intensità unica al mondo. Essere piccoli rispetto a tanti numeri, ma coscienti di essere il luogo dove il particolare può diventare universale: nell’arte, nella scienza, anche nella visione politica.
Continua a irrorare ogni italiano, credente o ateo, di questo spirito universale. Qualche idiota vorrebbe strappare questo segno dall’Italia. Invece è questa presenza che può renderci unici, alla maniera intuita da Dostoevskij. Anche quando il Papa è polacco o tedesco, il Papato è italiano in essenza e per saecula saeculorum. Ed incarna e diffonde quell’idea e quella pratica di universalità, di cuore grande, di mente che non si ferma a Chiasso o a Capo Passero, ma come Ulisse che era di una piccolissima isola, però andava al largo, era mosso da qualcosa di impalpabile per cui gli batteva il petto: così noi. Ulisse voleva tornare a casa, ma non resisteva al desiderio più forte della volontà di prendere vento, e andare, andare come dei pazzi, come Cristoforo Colombo, come Amerigo Vespucci. Come Dante negli inferi e in cielo. Pensando allo Stato, a questo Stato, che oggi ha bisogno dell’unità, dentro una forma federale, ma conservando insieme unità e slancio universale. Per questo sentiamo l’appello del cardinale Angelo Bagnasco all’unità d’Italia come la cosa più bella sentita di questi tempi sul nostro Paese e sul suo futuro.
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dostoevskij
IL FANCIULLO PRESSO GESÙ
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Prefazione
Il bambino «con la manina»
I bambini sono creature strane, vi appaiono in sogno e vi immaginate di vederli.
Poco
prima di Natale e nel giorno della vigilia mi accadeva sempre di
incontrare nella via, al solito angolo, un piccino che non poteva
avere più di sette anni. Con quel gelo terribile era vestito quasi
come d’estate, ma aveva al collo un vecchio cencio, e ciò significava
che vi era ancora chi lo vestiva prima di mandarlo fuori casa, lo
mandava in giro «con la manina»: termine tecnico che vuol dire
chiedere l’elemosina. Sono stati i bambini stessi a coniarlo. Ce n’è una
moltitudine come lui, si aggirano per le vostre strade e ripetono in
tono lamentoso quelle formule imparate a memoria; ma questo non si
lamentava e parlava in un certo modo inusuale e ingenuo e mi guardava
fiducioso negli occhi: doveva esser solo agli inizi della professione.
Alle mie domande replicò che aveva una sorella a casa, senza lavoro e
malata; forse era la verità, ma solo in seguito scoprii che di
piccini così ve ne sono a miriadi; li mandano in giro «con la manina»,
anche nel gelo più terribile, e se non raccolgono nulla, vi sono
senz’altro le botte ad attenderli. Racimolate le copeche, il bimbo
ritorna con le dita intorpidite ed arrossate in qualche cantina dove
si sta ubriacando una compagnia di perdigiorno, di quelli che
«smettono di lavorare in fabbrica il sabato in vista della domenica e
non vi fanno ritorno prima del mercoledì sera». Là nelle cantine, si
ubriacano con loro anche le mogli affamate e maltrattate, e ancora lì
vagiscono affamati i lattanti. Vodka, sporcizia, e depravazione, ma
soprattutto vodka. Con le copeche raccolte il piccino viene subito
spedito all’osteria, da cui torna con dell’altra vodka. Per
divertimento versano anche a lui talvolta in bocca una mezzetta e
sghignazzano quando, col respiro mozzato, cade sul pavimento quasi
privo di sensi:
... e in bocca l’orribile vodka
senza pietà mi versava...
Una
volta cresciuto, verrà spedito senza indugio da qualche fabbrica, ma
tutti i suoi guadagni li porterà ancora a quei perdigiorno, che di
nuovo se li berranno. Tuttavia già prima della fabbrica questi bimbi
diventano dei perfetti delinquenti. Vagabondano per la città e
conoscono vari posti nelle cantine dove pernottare indisturbati. Uno
di loro pernottò per alcune notti di seguito da un portiere dentro una
cesta, senza che questi se ne accorgesse neppure. Va da sé che
diventano dei ladruncoli. Il furto si trasforma in passione persino per i
bambini di otto anni e talvolta senza che siano minimamente
consapevoli della criminosità della loro azione. Alla fine sopportano
tutto: fame, freddo, botte solo per un’unica cosa, per la libertà, e
fuggono dai loro perdigiorno per vagabondare ormai da soli. Sono dei
selvaggi e talvolta non paiono neppure in grado di intendere nulla, né
dove vivano, da che nazione provengano, né se vi sia Dio o se esista
un sovrano; sul loro conto circolano voci tali da sembrare
incredibili, ma tuttavia corrispondono ai fatti.
Ma
io sono romanziere, e, mi pare, ho inventato una “storia”. Perché
scrivo “mi pare”? Io stesso infatti so di sicuro di averla inventata,
ma ho sempre l’impressione che questo sia accaduto chi sa
dove e chi sa quando, che sia accaduto precisamente la vigilia di
Natale, in qualche immensa città, e con un terribile gelo.
Mi
si presenta l’immagine di un fanciullo, molto piccino ancora, di
forse sei anni o anche meno. Questo fanciullo si destò un mattino in
un sotterraneo umido e freddo. Aveva indosso una specie di giubboncino
e tremava. Il suo alito si sprigionava come un bianco vapore, ed
egli, stando seduto in un angolo, su un baule, di proposito emetteva
quel vapore e si divertiva a vederlo uscir dalla bocca. Aveva però una
gran voglia di mangiare. Più volte, fin dal mattino, si era accostato a
un tavolaccio dove, sopra un misero pagliericcio e con un fagotto
sotto il capo a mo’ di guanciale, giaceva la sua madre inferma. Come
mai ella si trovava lì? Probabilmente era venuta col suo bambino da
un’altra città e d’improvviso si era ammalata. La padrona di quei
“cantucci”[1]
la polizia l’aveva arrestata due giorni prima; gli inquilini erano
andati in giro, poiché la giornata era festiva, tranne un
rivendugliolo rimasto in casa, che già da ventiquattro ore giaceva
ubriaco morto, non avendo atteso la festa per ubriacarsi. In un altro
angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchia ottantenne che
un tempo era stata bambinaia e ora se ne moriva solitaria,
sospirando, borbottando e brontolando contro il fanciullo, tanto che
questi temeva ormai di avvicinarsi al “cantuccio” di lei. Da bere egli
ne aveva trovato in qualche posto, nell’andito, ma una crosta di pane
non aveva potuto scovarla, e forse già per la decima volta si era
accostato alla mamma per destarla. Infine cominciò ad aver paura del
buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma non era stato acceso un
lume. Palpato il viso della mamma, si meravigliò che ella non facesse
alcun movimento e fosse diventata fredda come il muro. “Fa troppo
freddo”, qui pensò, e attese un poco, dimenticandosi, inconsciamente,
di levar la mano dalla spalla della morta, poi si soffiò sui ditini
per riscaldarli, e a un tratto, avendo a tastoni trovato sul
tavolaccio il suo berrettino, uscì alla chetichella e a tentoni dal
sotterraneo. Sarebbe già andato via prima, ma aveva sempre avuto paura
d’un grosso cane che stava disopra, sulla scala, e ululava tutto il
giorno presso la porta dei vicini. Ma il cane ora non c’era, ed egli a
un tratto uscì in strada.
Dio
mio, che città! Egli non ha ancora mai veduto nulla di simile!
Laggiù, donde è venuto, l’oscurità di notte è così nera, con un solo
lampione in tutta la via! Le basse casupole di legno hanno tutte le
imposte chiuse; sulla strada, appena si fa buio, non c’è più nessuno,
tutti si rinchiudono in casa, e solo i cani urlano e abbaiano l’intera
notte. Ma laggiù, in compenso, si stava così al caldo e gli davan da
mangiare. O Signore, se almeno potesse mangiare anche qui! E che
strepito, che chiasso c’è lì, quanta luce, e gente, e cavalli, e
vetture; e un gelo, un gelo! Un vapore gelido fluisce dai cavalli
frustati, dai musi che respirano ardenti; sulla neve soffice i loro
ferri tintinnano urtando nei sassi, e come tutti si sospingono! ed
egli ha tanta voglia di mangiare, o Signore, non fosse che un pezzetto
di pane, e a un tratto i ditini si son messi a fargli così male! Un
guardiano dell’ordine gli è passato accanto e si è voltato in là per
non vedere il fanciullo.
Ecco
un’altra via: oh, com’è larga! Qui lo schiacceranno certamente; e
come tutti gridano, corrono, a piedi o in carrozza, e quanta luce,
quanta luce! Ma che è questo? Oh, che vetro grande! e dietro quel
vetro una stanza, e nella stanza un albero che arriva al soffitto: è
un abete, e sull’abete quanti lumi, quante carte dorate e quante mele,
e lì intorno fantocci e cavallini; e per la stanza corrono dei bimbi
ben vestiti e lindi, che ridono, giuocano, mangiano e cantano. Ecco una
bambina che s’è messa a ballare con un ragazzo, che graziosa bambina!
Ed ecco anche una musica, attraverso il vetro la si sente. Il piccolo
guarda, è meravigliato e già ride, ma gli fanno male anche i ditini
dei piedi, e quelli delle mani si son fatti tutti rossi, non si
piegano più e muoverli è doloroso. E a un tratto il piccino s’è
accorto che le dita gli dolgono tanto, s’è messo a piangere ed è corso
oltre, ma ecco che attraverso un altro vetro torna a scorgere una
stanza, e anche lì degli alberi e, su tavole, pasticcini d’ogni sorta –
con mandorle, rossi, gialli – e lì stan sedute quattro ricche signore
che danno pasticcini a quanti vengono; la porta si apre ogni momento e
molti signori entrano e vanno verso quelle signore. Il piccino s’è
fatto avanti furtivo, d’un tratto ha aperto la porta ed è entrato. Oh,
come si son messi a sgridarlo e ad agitare le mani verso di lui! Una
signora gli si è avvicinata in fretta, gli ha ficcato in mano una
copeca e gli ha aperto la porta per farlo uscire. Come s’è spaventato!
E in quello stesso momento la copeca gli è scivolata di mano,
tintinnando sui gradini: egli non ha potuto piegare i ditini arrossati
per trattenerla. Il piccino è corso fuori e si è avviato lesto, ma
senza sapere egli stesso da che parte. Vorrebbe di nuovo mettersi a
piangere, ma ha troppa paura e corre, corre, soffiandosi sulle manine.
E l’angoscia lo afferra, perché improvvisamente si è sentito così
solo e pieno di paura. Ma a un tratto, o Signore, che c’è là ancora? Una
folla di gente che sta lì e guarda con ammirazione: in una finestra,
dietro il vetro, ci sono tre piccoli fantocci agghindati con vestitini
rossi e verdi, proprio, proprio come vivi! Uno di essi è un
vecchietto seduto che par che suoni un grosso violino, gli altri due
sono in piedi e suonano dei violini piccoli piccoli, chinando le
testine al ritmo della musica e guardandosi a vicenda; le loro labbra
si muovono e parlano, parlano proprio; solo che attraverso il vetro
non si sente nulla. Il piccino dapprima pensò che quelle fossero
persone vive, ma quando capì che erano fantocci scoppiò a ridere!
Aveva anche voglia di piangere, ma gli veniva tanto da ridere davanti a
quei fantocci! A un tratto gli parve che qualcuno lo avesse afferrato
di dietro per il giubboncino: un ragazzaccio cattivo gli stava
accanto, e d’improvviso lo colpì sulla testa, gli strappò via il
berrettino, e intanto gli diede uno sgambetto. Il piccino cadde a
terra, la gente si mise a gridare, egli rimase intontito, balzò su, e
via a correre, correre, e a un tratto entrò di corsa, senza rendersene
conto, in un portone, in un cortile, e si accucciò dietro un mucchio
di legna: “Qui non potranno trovarmi, e poi è buio”.
Si
accucciò e si raggomitolò, e intanto non poteva riprender fiato dallo
spavento, e a un tratto, proprio a un tratto, si senti così bene: le
manine e i piedini avevano cessato di dolere e gli era venuto caldo,
tanto caldo, come in vicinanza di una stufa; ma eccolo sussultar
tutto: ah, stava per addormentarsi! Com’era bello addormentarsi là:
“Rimarrò qui un momento, poi andrò di nuovo a guardare i fantocci”,
pensò il piccino e sorrise, ricordandosene: “proprio come vivi!”. E
all’improvviso sentì che la sua mamma s’era messa a cantare sopra di
lui: "Mamma, io dormo, ah! com’è bello dormire qui!”...
«Vieni da me a veder l’albero di Natale, piccino», mormorò a un tratto sopra di lui una voce sommessa.
Sulle
prime ha creduto che sia stata ancora la mamma a dir questo, invece
no, non è stata lei; egli non vede chi l’ha chiamato, ma qualcuno si è
chinato su di lui e lo ha abbracciato nel buio; il piccino gli ha
teso una mano e... e improvvisamente, oh, quale luce! Oh, che albero di
Natale! Anzi non è nemmeno un albero di Natale, egli non ha ancor
veduto simili alberi! Dove mai si trova, adesso? Tutto riluce, tutto
splende, e tutt’intorno non ci sono che fantocci... ma no, son tutti
bambini e bambine, così luminosi, però, e tutti gli turbinano attorno
volando, tutti lo baciano, lo prendono e lo portano con sé, e vola
anche lui, e vede la mamma che lo guarda e ride gioiosamente.
«Mamma,
mamma! Ah, com’è bello qui!» le grida il piccino, e torna a scambiar
baci coi bimbi e vorrebbe narrar loro, al più presto, di quei fantocci
nella vetrina. «Chi siete voi, bambini? Chi
siete voi, bambine?» domanda ridendo, pieno d’amore per essi. «Questo
è “l’albero di Natale di Gesù”», gli rispondono. «Gesù ha sempre, in
questo giorno, un albero di Natale per i piccoli bimbi che laggiù non
ne hanno uno proprio».
Ed
egli apprese che tutti quei bambini e quelle bambine erano stati come
lui, ma alcuni erano rimasti assiderati già nei panieri entro i quali
li avevano abbandonati sulle scale, davanti alle porte degli
impiegati di Pietroburgo, altri erano periti presso le balie finlandesi,
durante l’allattamento per conto dell’orfanotrofio; altri erano morti
sul seno inaridito delle loro madri (al tempo della carestia di
Samara); altri ancora erano morti dal puzzo nei carrozzoni di terza
classe, e tutti adesso erano lì, in veste di angeli, tutti presso
Gesù, ed Egli era in mezzo ad essi e tendeva loro le braccia,
benedicendoli insieme con le loro madri peccatrici... E anche tutte le
madri di quei bimbi erano lì, in disparte, e piangevano; ciascuna
riconosceva il suo bambino o la sua bambina, ed essi volavano verso di
loro e le baciavano e asciugavano con le manine le loro lacrime,
supplicandole di non piangere, perché lì essi erano tanto felici!...
E
laggiù, all’alba, il portiere trovò il cadavere del fanciullo che,
entrato là di corsa, era morto di freddo dietro il mucchio di legna;
scovarono anche la sua mamma... Era morta ancor prima di lui, ed
entrambi si erano incontrati in cielo, presso il Signore...
Fedor Michajlovic Dostoevskij
Da: Il fanciullo presso Gesù e altri racconti, a cura di Eva Amandola Kuhn, Milano 1953.
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Postato da: giacabi a 08:34 |
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natale, dostoevskij
Cristo solo uomo non sarebbe il salvatore ***
"Su
Cristo, potete discutere, non essere d’accordo… tutte queste
discussioni sono possibili e il mondo è pieno di esse, e a lungo
ancora ne sarà pieno.
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Postato da: giacabi a 11:12 |
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dostoevskij, gesù
Romano Scalfi: vi racconto la resistenza della Chiesa clandestina in URSS
***
Romano Scalfi
lunedì 23 novembre 2009
Oggi
è alla portata di tutti, in Russia come da noi, conoscere le vicende
della persecuzione contro la Chiesa e la fede nell’Urss ad opera del
comunismo sovietico; sempre che si sia interessati all’argomento.
Non
si può dire altrettanto dell’attività della Chiesa clandestina, di
cui si sapeva poco e molto confusamente. L’impressione generale era
che si trattasse di un fenomeno di poca rilevanza. A sfatare questa
opinione è uscito recentemente a Mosca il libro di Aleksej Beglov,
membro dell’Accademia delle Scienze, noto studioso del fenomeno
religioso che ha il merito di aver attinto largamente ai documenti
segreti del Soviet per gli affari della religione.
Dal
suo testo risulta che la Chiesa ortodossa russa, così ricca di
martiri, non ha accettato passivamente la persecuzione, ma è stata
molto feconda nell’inventare metodi sempre nuovi per conservare la
fede.
I
primi “monasteri domestici” nascono già nel 1920 e si diffondono
sempre più con la progressiva chiusura dei monasteri da parte dei
comunisti. In un primo tempo i monaci scacciati dalle loro sedi
trovano ospitalità singolarmente in famiglie private, ma ben presto,
per ricomporre la comunità monastica cercano di sistemarsi in gruppi
da tre fino a venti persone. Ogni monaco svolge un lavoro nella
società civile a seconda delle proprie attitudini, e alla sera si
ricompone la vita claustrale. I monasteri domestici, almeno
inizialmente, fanno di tutto per conservare stretti rapporti con i
superiori dell’ex monastero, ma con l’intensificarsi della
persecuzione i legami si indeboliscono fino al punto che la
maggioranza dei monasteri domestici è costretta a gestirsi
autonomamente.
Prima
dell’ottobre 1917 monaci e monache erano 94.477. Nella prima metà
degli anni 1920 i monasteri domestici raccolgono circa 30.000 persone;
soprattutto la parte occidentale del paese è coperta da una rete di
monasteri clandestini.
Contemporaneamente
ai monasteri domestici nascono delle comunità catacombali, che non
provengono da monasteri preesistenti ma sono formate da giovani
preoccupati di vivere seriamente la propria vita spirituale. Del
resto in questo periodo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare,
con l’incalzare della persecuzione crescono le vocazioni monastiche e
sacerdotali. Nello stesso tempo si registra il
ritorno alla Chiesa di diversi intellettuali, prima affascinati e poi
delusi dall’utopismo leninista.
Le
comunità catacombali giovanili sono meno legate alla regola monastica
e più disposte al lavoro pastorale nelle parrocchie (là dove la
chiesa è aperta) o in sostituzione della parrocchia quando la chiesa è
stata chiusa. Le
più famose sono le comunità illegali di Leningrado, promosse dal
metropolita Veniamin Kazanskij, in seguito fucilato (1873-1922), e la
comunità di Mosca guidata dall’arcivescovo Varfolomej Remov (1888-1935)
passato poi alla Chiesa cattolica e pure lui fucilato. Nel 1930 la
comunità arriva a contare 200 membri, impegnati per lo più nella
parrocchia di San Pietro; alcuni vescovi sostengono clandestinamente
le comunità illegali in varie città: Petr Ladygin (a Orenburg), Filipp
Gumilevskij e Pitirim Krylov (a Mosca), Aleksandr Trapicyn (a
Samara), Arsenij, Stadnickij (a Taskent). In base ai dati si può
affermare che l’episcopato ufficiale negli anni 1920-1930 non solo
giudicava positivamente la clandestinità cristiana, ma, nei limiti del
possibile, la sosteneva anche. La cattedra patriarcale era certamente al corrente del rapporto dei vescovi con le comunità clandestine e lo approvava.
Un
altro settore della vita clandestina della Chiesa sono “le parrocchie
non registrate”. Al primo settembre 1936 nella Repubblica russa le
chiese chiuse sono il 64,4 % del totale, in Ucraina il 90 %, in
Bielorussia l’89,1 %. Per questo, dal
1930 in poi, in seguito alla chiusura di moltissime chiese, la
fondazione di parrocchie clandestine diventa una faccenda normale:
quando una chiesa viene chiusa e la comunità parrocchiale smembrata, i
fedeli rimasti continuano a radunarsi in preghiera nelle case private,
oppure all’aperto. Se è presente un sacerdote (anche clandestino),
amministra i sacramenti, altrimenti a dirigere la comunità può essere
un diacono, una monaca o un semplice fedele.
Nel
1916 le parrocchie ortodosse in Russia erano 35.825, nel 1939 quelle
legali sono ridotte a 100, mentre quelle illegali sono 4.153.
Nell’anno 1937 il Soviet per gli affari religiosi è costretto a
constatare che: “I credenti di fede ortodossa hanno incominciato a
riunirsi per conversare, leggere libri religiosi, soprattutto dove sono
state chiuse le chiese”.
Anche
nella vita clandestina non tutto funziona al meglio. La mancanza di
un’autorità centrale effettiva che possa garantire l’unità pur nella
varietà delle sue espressioni lascia alle comunità un’autonomia che in
certi casi finisce per essere in contrasto con la dottrina della
Chiesa.
Nel
1944 il partito decide di mandare al confino nelle estreme regioni
orientale 1.500 membri della Chiesa dei “veri cristiani ortodossi”.
Appartengono a un gruppo staccatosi dalla Chiesa ufficiale perché
compromessa con il regime comunista considerato l’incarnazione
dell’Anticristo. Predicano l’imminente fine del mondo ed arrivano a
dichiarare la Chiesa ortodossa ufficiale serva dell’Anticristo. Partendo
da questa posizione esasperata sentono il dovere di boicottare tutte
le iniziative del governo. Per loro è opera dell’Anticristo andare a
votare, avere il passaporto sovietico, ascoltare la radio, andare al
cinema, pagare le tasse e perfino frequentale le chiese legalizzate
dal governo.
Il
fondamentalismo è sempre segnato, in tutte le correnti e in tutte le
ideologie, dall’ossessione di dover innanzitutto condannare il nemico,
addossare a lui ogni colpa per autogiustificarsi con maggior
facilità; tende a esaurirsi nella protesta illudendosi che qui si
manifesti la vera creatività dell’uomo. In
questo senso i “veri cristiani ortodossi” non si rendono conto di
avere molto in comune con gli ideologi del comunismo, dei quali
acutamente aveva profetizzato Dostoevskij: «Arditi
nella denuncia, eunuchi nella creatività. Sono capaci di distruggere
il mondo, ma incapaci di costruire una catapecchia».
Anche
nel ricco alveo della clandestinità cristiana in Russia, dunque, chi
ha ceduto all’esasperata condanna del nemico ha finito per vanificare
le migliori intenzioni, condannando se stesso alla sterilità.
da : http://www.ilsussidiario.net |
Postato da: giacabi a 22:18 |
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comunismo, dostoevskij, cristianesimo
La coscienza
***
La scienza senza la coscienza ad altro non può portare che alla rovina dell’uomo
Giovanni Paolo II
“ La coscienza senza Dio è spaventosa, può smarrirsi fino a commettere le cose più immorali. Non
basta seguire le proprie convinzioni: bisogna anche chiedersi se sono
vere le mie convinzioni. La loro unica verifica è Cristo. Questa però
non è più filosofia ma fede”
F.Dostoeskij
|
Postato da: giacabi a 17:00 |
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dostoevskij, giovanni paoloii
La pretesa
***
“Questa sarà la tragedia del secolo XX:
sarà il secolo di quelli che fanno valere i propri diritti”
F.Dostoevskij
|
Postato da: giacabi a 22:54 |
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dostoevskij
L’ateo crede più di quanto pensi
***
«Il perfetto ateo si trova in cima alla scala, sul penultimo gradino, che porta alla fede perfetta»
Dostoevskij
|
Postato da: giacabi a 08:39 |
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dostoevskij, ateismo
La bellezza
***
“...
La bellezza è una cosa terribile e paurosa. Paurosa perché è
indefinibile, e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che
enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni
coesistono. Io, fratello, sono molto ignorante, ma ho pensato molto a
queste cose.
Quanti misteri! Troppi enigmi sulla terra opprimono l'uomo. Scioglili, se puoi, e torna salvo alla riva!
La
bellezza! Io non posso sopportare che un uomo, magari di cuore
nobilissimo e di mente elevata, cominci con l'deale della Madonna e
finisca con l'ideale di Sodoma. Ancora più terribile è quando uno ha già
nel suo cuore l'ideale di Sodoma e tuttavia non rinnega nemmeno
l'ideale della Madonna, anzi, il suo cuore brucia per questo ideale, e
brucia davvero, sinceramente, come negli anni innocenti della
giovinezza.
No,
l'animo umano è immenso, fin troppo, io lo rimpicciolirei. Chi lo sa
con precisione che cos'è ? Lo sa il diavolo, ecco! Quello che alla mente
sembra un'infamia, per il cuore, invece, è tutta bellezza. Ma c'è forse
bellezza nell'ideale di Sodoma? Credimi, proprio nell'ideale di Sodoma
la trova l'enorme maggioranza degli uomini! Lo conosci questo segreto, o
no?
La
cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un
mistero. E' qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è
il cuore degli uomini.
Già, la lingua batte dove il dente duole... E ora veniamo al fatto. Ascolta.”
DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov ( trad. di Pina Mariani, Sansoni, 1966).
|
Postato da: giacabi a 19:01 |
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bellezza, dostoevskij
Il mistero di Dio
***
- Che cos'è i! mistero? Tutto è mistero, amico
mio, in tutto, c' è il mistero di Dio. In ogni
albero in ogni filo d'erba è racchiuso questo mistero.
Se un uccellino canta, o se tutte le stelle
splendono in folla di notte in cielo, è sempre lo
stesso identico mistero. E il mistero più grande è
in quello che aspetta l'anima dell'uomo all'altro
mondo. E' così, amico mio! (. . .)
- Fai male, amico, a non pregare; è bello, il
cuore si rallegra, e prima del sonno, e appena
svegli, e destandosi la notte. Ora ti dirò una cosa.
D'estate poi, nel mese di luglio, ci affrettavamo al
monastero della Vergine per la festa. Quanto più ci
avvicinavamo al luogo, tanta più gente si univa a
noi ed alla fine ci ritrovammo quasi in duecento,
tutti ansiosi di adorare le sante e integre reliquie
di entrambi i grandi taumaturghi Anikji e Grigorij.
Ci addormentammo, fratello, in aperta campagna,
e mi destai la mattina presto. Tutti ancora dormivano
e nemmeno il sole aveva fatto capolino da
dietro il bosco. Adersi, mio caro. il capo, girai intorno
lo sguardo e sospirai! Una bellezza indicibile
dovunque! Tutto è quieto, l'aria è leggera;
cresce l'erba - cresci, erbetta del Signore; canta
un uccellino - canta pure, uccellino del Signore;
un pargolo in braccio a una donna ha vagito - il
Signore sia con te. piccolo omino, cresci per essere felice, bambinello! Ed ecco che fu come se
allora per la prima volta, dacché ero al mondo,
avessi racchiuso tutto ciò in me ... Mi chinai di
nuovo, mi addormentai così leggermente. E' bello
il mondo, caro! lo, per esempio, se mi sentissi
meglio; andrei di nuovo in giro per la primavera.
E, quanto al mistero, è anzi meglio dà sgomento al
cuore e meraviglia, pure anche questa paura fa
allegrezza al cuore: «Tutto è in Te, Signore, e io
stesso sono in Te, accoglimi! ». Non mormorare,
giovane, è tanto più bello che ci sia il mistero -
soggiunse intenerito.
Dostoevskij Il pellegrino Makarij in L'adolescente
|
Postato da: giacabi a 15:54 |
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mistero, dostoevskij
L'idolo sociale
***
S'inseqna dacché mondo è mondo, ma che cosa si è insegnato di buono, perché il mondo fosse
una dimora più bella e allegra e piena di ogni
gioia? E dirò ancora: non hanno bellezza morale,
anzi non la vogliono; tutti
sono perduti, solo ciascuno loda la propria posizione, ma di rivolgersi
all'unica Verità non pensa, mentre vivere senza Dio non è che tormento. E n'esce che malediciamo
proprio quello che c'illumina e non lo sappiamo nemmeno. E poi, che costrutto c'é mai? Non può nemmeno esistere un uomo che non si pieghi, un uomo simile sarebbe impari a se stesso, a qualunque uomo in generale. E se rinnega Dio, si inchinerà a un idolo di legno o d'oro, oppure immaginario.
Sono tutti idolatri e non atei, ecco come bisogna chiamarli.
Dostoevskij Il pellegrino Makarij in L'adolescente
|
Postato da: giacabi a 20:42 |
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dostoevskij
Che cos’è l’inferno?
***
Padri e maestri, io mi domando: Che cos’è l’inferno? Io affermo che è il tormento di non essere capaci di amare .
Dostoevskij da: I fratelli Karamazov
|
Postato da: giacabi a 20:40 |
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dostoevskij
Postato da: giacabi a 20:43 |
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dostoevskij, gesù
Dio vero Padre
***
«Un'ora
dopo, tornando all'albergo, mi imbattei in una contadina con un bimbo
lattante; lei era ancora giovane, il bimbo avrà avuto sei settimane. Il
piccino le aveva sorriso, com'ella aveva notato, per la prima volta
dalla nascita, e la vidi d'un tratto farsi assai devotamente il segno
della croce.Perché lo fai, sposina? », domando. (Allora non facevo altro
che interrogare). «Ecco,
risponde la gioia che prova una madre, vedendo per la prima volta
sorridere il proprio bambino, la stessa gioia la prova precisamente
anche Dio, ogni volta che dal cielo vede che un peccatore si mette a
pregare di tutto cuore davanti a lui ». Così mi disse la
contadina, quasi con le stesse parole, esprimendo un pensiero così
profondo, così fine e così autenticamente religioso, un
pensiero in cui trova espressione tutta l'essenza del cristianesimo,
cioè la nozione di Dio come nostro vero padre e della gioia di Dio
davanti all'uomo come gioia del padre davanti al proprio figlio: il
pensiero fondamentale di Cristo. Una semplice contadina! E' vero che era una madre…. e,
chissà, forse quella donnetta era moglie di quel soldato. Senti,
Parfen, poco fa tu mi hai fatto una domanda, eccoti ia mia risposta: l'essenza
del sentimento religioso sfugge a qualsiasi ragionamento, a qualsiasi
colpa o delitto, a qualsiasi ateismo; c'è in esso qualcosa di
inafferabile e ci sarà eternamente, c'è in esso qualcosa su cui
sorvoleranno sempre gli atei, che parleranno eternamente di tutt'altra
cosa. Ma quello che più importa è che questo si nota più chiaramente e più facilmente nel cuore dei russi.»
Dostoevski, in L’Idiota
|
Postato da: giacabi a 14:34 |
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dio, dostoevskij
Il mistero
***
«- Che cos'è il mistero? Tutto è mistero, amico mio, in tutto, c'è il mistero di Dio. In ogni albero, in ogni filo d'erba è racchiuso questo mistero. Se un uccellino canta, o se tutte le stelle splendono in folla di notte in cielo, è sempre lo stesso identico mistero. E il mistero più grande è in quello che aspetta l'anima dell'uomo all'altro mondo. é così amicio mio! ».
Dostoevskij, l’adolescente
|
Postato da: giacabi a 14:13 |
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mistero, dostoevskij
Dov’è Dio
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Non nel freddo e nel vuoto del pensiero, ma nel caldo e nel pieno dell'amore troverai il volto del Dio vivente.
F. Dostoevskij
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Postato da: giacabi a 21:39 |
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dio, dostoevskij
Belli perché simili a Lui
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Tutta la vostra infelicità consiste nell'ignorare di essere belli! Ognuno di voi potrebbe rendere felici tutti; e questo potere è concesso a tutti, soltanto che è sepolto così profondamente dentro di voi stessi che non ci credete neppure più.
DOSTOEVSKIJ
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Postato da: giacabi a 19:48 |
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bellezza, dostoevskij
Per essere cristiani bisogna essere ragionevoli
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“ Invece nel dominio della vita reale, che non ha soltanto i suoi diritti, ma impone anche grandi doveri, in questo dominio, se vogliamo essere umani, cristiani insomma, abbiamo il dovere e l'obbligo di non portare che le convinzioni giustificate dalla ragione e dall'esperienza, passate per il crogiuolo dell'analisi, in una parola di agire in modo assennato, e non insensato come nel sonno e nel delirio, per non nuocere agli uomini, per non tarli soffrire e causarne la perdita. Allora sì sarà,la nostra, opera vera di cristiani,e non soltanto di mistici,e opera ragionevole, veramente umanitaria.”
§ Dostoevskij I fratelli Karamazov- Garzanti
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Postato da: giacabi a 08:44 |
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ragione, dostoevskij, esperienza
La giustizia viene da Dio
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Se Dio non c'è, l'uomo è il re della terra, della Creazione. Magnifico! Ma come farà ad essere virtuoso senza Dio? Ecco il busillis! lo me lo domando di continuo. Poiché l'uomo, allora, chi mai amerà? A chi sarà riconoscente, a chi canterà un inno? Rakltin dice che si può amare l'umanità anche senza Dio. Quel moccioso incimurrito lo può soltanto affermare, ma io non lo posso capire. Per Rakìtin vivere è facile: «Tu,
mi diceva oggi, occupati piuttosto dell'estensione dei diritti civili
dell'uomo, o magari di quanto occorre fare perché la carne non aumenti
di prezzo, con ciò dimostrerai il tuo amore per l'umanità in modo piu
semplice e immediato che con le tue filosofie ». Al che io risposi: «Ma tu stesso, se non credi in Dio, alzerai il prezzo della carne, se te ne verrà il destro, e guadagnerai un rublo per copeca.
§ Dostoevskij I fratelli Karamazov- Garzanti a P.
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Postato da: giacabi a 08:27 |
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giustizia, dostoevskij
Il grande profeta Dostoevskij
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"Guardate i laici e tutto questo mondo che si è innalzato sul popolo di Dio: il volto di Dio e la Sua verità non vi si sono deformati? Essi
hanno la scienza, ma nella scienza c'è appena quello che cade sotto i
sensi. Il mondo dello spirito invece, la metà superiore dell'essere
umano, la si ripudia completamente, la si bandisce con una cert'aria di
trionfo, anzi con odio. Il mondo, specialmente negli
ultimi tempi, ha proclamato la libertà, e che cosa vediamo in questa sua
libertà? Non altro che servitù e suicidio! Poiché
il mondo dice: «Tu hai dei bisogni; appagali dunque, ché tu hai gli
stessi diritti degli uomini più ragguardevoli e più ricchi. Non temere
di appagarli, moltiplicali anzi », ecco l'odierno insegnamento del
mondo. E in ciò scorgono la libertà. E che cosa mai scaturisce da questo
diritto alla moltiplicazione dei bisogni? Nei ricchi l'isolamento e il
suicidio spirituale, e nei poveri l'invidia e l'omicidio,perché si sono dati i diritti, ma non si sono ancora indicati i mezzi,per soddisfare i bisogni. Affermano
che il mondo si unirà ogni giorno di più e formerà una comunione
fraterna abbreviando le distanze, trasmettendo il pensiero attraverso
l'aria. Oibò! non credete a una simile unione degli uomini. Comprendendo
la libertà come moltiplicazione e pronto appagamento dei bisogni, essi
deformano la propria natura, poiché fanno nascere in sé molte insensate e
stolte brame e abitudini e le più assurde fantasie. Non vivono che per
la reciproca invidia, per la sensualità e l'ostentazione. Pranzi,
viaggi, carrozze, gradi e servitori si considerano ormai come necessità
per le quali si sacrificano anche la vita, l'onore e l'amore
dell'umanità, pur di soddisfarle e, se non è possibile soddisfarle, si
uccide perfino. In
quelli che non sono ricchi vediamo la stessa cosa, ma nei poveri
l'inappagamento dei bisogni e l'invidia si soffocano ancora con
l'ubriachezza. Presto però, anziché di vino, s'inebrieranno di sangue,
tale è la mèta a cui li guidano. Io vi domando: è libero un uomo simile?
Io conoscevo un « lottatore dell'idea », il quale raccontava che,
quando in carcere gli fu tolto il tabacco, soffri tal mente per questa
privazione che per poco non tradì la sua « idea », purché gli dessero
del tabacco. Ebbene, costui
diceva: «Vado a battermi per l'umanità ». Ma fin dove potrà giungere e
di che cosa sarà capace un essere simile? Di un'azione momentanea
magari, ma non di una lunga resistenza. E non è a stupire che gli
uomini, in luogo della libertà, abbiano trovato la servirtù e, invece di
servire la causa della fratellanza e dell'unione umana, siano caduti,
al contrario, nella disunione e nell'isolamento, come mi diceva nella
mia giovinezza il mio misterioso visitatore e maestro. E però in
questo mondo si va sempre più spegnendo l'idea di servire l'umanità,
l'idea della fratellanza e solidarietà degli uomini, e in verità questa
idea è accolta perfino con lo scherno; come infatti rinunzierà alle sue
abitudini e dove andrà questo prigioniero, dopo che tanto si è abituato a
soddisfare gli innumerevoli bisogni che egli stesso si è creati? Egli
vive nell'isolamento, e che cosa gli importa della collettività? E si è giunti a questo, che di beni materiali se n'è accumulata una maggior quantità, ma la gioia è diminuita."
Dostoevskij I fratelli Karamazov
§
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Postato da: giacabi a 21:04 |
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laicismo, dostoevskij
Se amerai il creato scoprirai il Mistero Divino
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« Fratelli,non abbiate paura dei peccati degli uomini,amate l’uomo
anche col suo peccato,perché questo riflesso dell’amore divino è
appunto il culmine dell’amore sulla terra. Amate
tutta la creazione divina,nel suo insieme e in ogni granello di sabbia.
Amate ogni foglia, ogni raggio di luce! Amate gli animali,amate le
piante,amate tutte le cose! Se amerai tutte le cose,scoprirai in esse il
mistero divino.
Una volta che lo avrai scoperto,comincerai a conoscerlo sempre meglio,ogni giorno più a fondo. E alla fine amerai tutto l’universo di un amore totale,completo. Amate gli animali: Dio ha dato loro un principio
di pensiero e una gioia senza inquietudine. Non li turbate,non li
tormentate,non togliete loro la gioia,non andate contro l’intenzione di
Dio. Uomo,non ti esaltare al di sopra degli animali: essi sono senza peccato,mentre
tu,con tutta la tua grandezza, insudici la terra al tuo apparire,lasci
dietro di te la tua sudicia traccia, e questo,purtroppo,è vero quasi per
ognuno di noi! Amate
specialmente i bambini,perché anche loro sono senza peccato,come gli
angeli,e vivono per purificare e commuovere i nostri cuori,sono per noi
come un monito. Guai a colui che offende un fanciullo!
Quanto a me,è stato padre Anfìm che mi ha insegnato ad amare i
bambini: nei nostri pellegrinaggi,con i soldini che gli regalavano,
quest’uomo caro e silenzioso comprava spesso dei piccoli panpepati e dello zucchero candito per distribuirlo ai bambini, e non poteva passare accanto a loro senza commuoversi,è un uomo fatto così.
Certe
volte ti sentirai perplesso,specialmente vedendo i peccati degli
uomini,e ti chiederai: “Devo ricorrere alla forza oppure all’umiltà e
all’amore?”. Decidi sempre per l’umiltà e per l’amore. Se prenderai
questa decisione una volta per sempre, potrai soggiogare anche tutto il
mondo. L’umiltà e l’amore uniti insieme sono una forza formidabile,la più grande forza che ci sia,non ce n’è un’altra uguale.
Ogni giorno, ogni ora,ogni minuto osserva te stesso e sorvegliati, bada che la tua figura sia bella. ».
Dostoevskij I fratelli Karamazov
a M.
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Postato da: giacabi a 14:58 |
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dostoevskij, senso religioso
L’isolamento dell’individuo
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«Per
rifare a nuovo il mondo, occorre che gli uomini stessi si mettano
psichicamente sopra una nuova strada. Finché tu non sarai diventato per
davvero il fratello di tutti, la fratellanza non spunterà. Mai
gli uomini sapranno, guidati dalla scienza e dall'interesse,
distribuire fra loro senza ingiustizia la loro proprietà e i loro
diritti. Nessuno ne avrà abbastanza e tutti mormoreranno, s'invidieranno
e si stermineranno a vicenda. Voi domandate quando sarà questo. Sarà, ma deve prima chiudersi il periodo dell'isolamento umano.» -«Che isolamento? », domando-« Quello
che regna adesso dappertutto, nel nostro secolo più che mai, ma che
ancora non si è concluso, ancora non è giunto al suo termine. Ognuno
infatti tende oggi a separare la sua personalità quanto più può, vuole
sperimentare in se stesso la pienezza della vita, ma intanto da tutti i suoi sforzi scaturisce, anziché la pienezza
della vita, soltanto un completo suicidio, perché, invece di
determinare pienamente l'essere proprio, si cade in un perfetto
isolamento. Infatti, tutti nel nostro secolo si sono separati come tante
unità, ciascuno si isola nel suo buco, ciascuno si allontana dagli
altri, si nasconde e nasconde quel che possiede, e finisce per rifuggire
dagli uomini, mentre li respinge da sé. Nel suo isolamento ammassa
ricchezze e pensa: "Quanto ora sono forte e ben provveduto! ", e non sa
il folle che, quanto più ammassa, tanto pio affonda in un'impotenza
suicida. Infatti si è abituato a non confidare che in se stesso e a
scindersi come un'unità dal tutto, si è avvezzato in cuor suo a non
credere nell'aiuto del prossimo, negli uomini e nell'umanità, e
trema soltanto all'idea che vadano perduti il suo denaro e i diritti
con esso acquistati. Dappertutto lo spirito umano diventa oggi
visibilmente incapace di comprendere che la vera guarentigia della
personalità non consiste nel suo sforzo individuale isolato, ma nella
solidarietà generale degli uomini. Ma verrà senza dubbio la fine anche di questo terribile isolamento, e tutti comprenderanno in una volta quanto fosse innaturale la loro reciproca separazione. Tale
sarà la tendenza del tempo e ci si stupirà di essere rimasti cosi a
lungo nella tenebra senza vedere la luce. Allora apparirà nel cielo il
segno del Figlio dell'Uomo... Ma
fino a quel giorno occorre custodire la bandiera e, anche da solo,
l'uomo deve dar l'esempio e trarre l'anima sua dall'isolamento per
l'opera di comunione fraterna, a costo di passare per un mentecatto. Questo perché non perisca una grande idea... ».
Dostoevskij I fratelli Karamazov
ad A.
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Postato da: giacabi a 13:47 |
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dostoevskij
Brillare veramente...
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Signore, facci ricordare
che il Tuo primo miracolo, alle nozze di Cana, lo facesti per aiutare alcuni uomini a fare festa. Facci ricordare che chi ama gli uomini, ama anche la loro gioia, perché senza gioia non si può vivere... Fammi comprendere, Signore, che il Paradiso è nascosto dentro di noi. Ecco, ora è qui, nascosto dentro di me. Se voglio, domani stesso, comincerà a brillare veramente per me e durerà tutta la vita.
Fedor Michajlovic Dostoevskij
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Postato da: giacabi a 22:43 |
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dostoevskij, felicità
La Bellezza
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