Giovani svegliatevi,
non vi stanno rubando il futuro ma il presente
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dicembre 8, 2012
Ubaldo Casotto
Non sono la precarietà e la crisi
a rovinare la vita ai giovani italiani, ma il conformismo dei loro
padri e l’ideologia dei diritti. Educandoli a pensare che tutto è
dovuto, li abbiamo annichiliti
“Ai giovani abbiamo rubato il futuro”. Nel mese in cui viene
immancabilmente rispettata la liturgia delle occupazioni scolastiche e
dei cortei studenteschi, il vertice del giustificazionismo della “loro
sacrosanta rabbia” è in questa frase ripetuta come un mantra: “Ai
giovani abbiamo rubato il futuro”. In Italia l’atteggiamento dei
cinquantenni già “splendidi quarantenni” nei confronti dei figli in
piazza è duplice: chi li compiange perché vittime del furto di cui sopra
e chi li detesta perché “figli di papà che vogliono fare la rivoluzione
con la paghetta in tasca”.A un gruppo di genitori che, anni fa, andò a lamentarsi da lui per tutte le mancanze, le fesserie, gli errori e l’ingratitudine dei figli, don Luigi Giussani, dopo aver ascoltato in silenzio le loro lamentele, rispose: «Bisogna solo ringraziare Dio che ci sono». Tutti tesi a conformarli a sé (magari anche nello spirito sedicente anticonformista) i padri e le madri figli di quell’epoca che solo per comodità chiamiamo Sessantotto (dibattito, no grazie!) non hanno questa ultima semplicità di sorprendersi per l’esserci dei loro figli. E non ce l’hanno perché, fatto lo sconto a tutte le parole sulla libertà, l’autostima, l’indipendenza, l’autodeterminazione dei figli, in fondo li considerano “cosa loro”. In un bel libro Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli (Rizzoli), Antonio Polito, che di quegli anni si considera pienamente erede, usa un’immagine efficace: siamo come Crono, che divorava i suoi figli, noi che da genitori siamo diventati i “sindacalisti dei nostri figli”, accudendoli, proteggendoli, scusandoli, non correggendoli, è come se li mangiassimo perché li consideriamo nostro possesso. Diciamo che abbiamo loro rubato il futuro, in realtà non gli abbiamo mai concesso il presente. Abbiamo teorizzato con Freud che per essere se stessi avevano bisogno di assassinare simbolicamente il padre, mentre per riconoscerli nel loro essere e nella loro libertà basta l’esperienza di quella madre che quando vide nascere il suo primogenito disse: «Che impressione, era appena nato e già capivo che andava via». I figli sono fatti per altro, non per le nostre soddisfazioni. E la risorsa per il futuro ce l’hanno in se stessi, loro più della generazione dei loro padri hanno capito che quando tutto sembra cospirare contro di te è il segno che è «venuto il tempo della persona». Non sarà questo il sentimento della maggioranza, certo, ma allargava il cuore lo striscione innalzato da un gruppo di studenti in corteo, di fronte a chi li compiangeva flagellandosi perché “vi abbiamo rubato il futuro” hanno scritto: «Quando mai il futuro è stato una minaccia e non una promessa?». Sì, parafrasa l’aforisma di uno scrittore americano, ma che importa? È vero, e c’è chi l’ha capito.
SE C’È UN DIRITTO A TUTTO. L’incertezza del futuro è stata la condizione di tutte le generazioni, non è una novità. Nuova è stata la trasmissione della convinzione che le cose non potevano che andare sempre meglio in virtù di un assetto politico e sociale che si fa garante di questo progresso, il tuo impegno non serve. E se le cose vanno male «à qui la faute?», si chiedeva Jean-Paul Sartre negli anni Sessanta. Di chi è la colpa? Polito dice che da quarant’anni l’Italia è spaccata in due partiti: «Quelli che pensano che tutto ciò che non va sia colpa della società, e quelli che pensano che sia anche colpa nostra». Non si tratta di schieramenti, ma di una cosa più profonda, «noi italiani non siamo più d’accordo sull’essenziale». E l’essenziale è l’io, la persona, la sua responsabilità, la sua capacità di intrapresa e di sorpresa. L’incapacità di sorpresa è inversamente proporzionale alla programmazione con cui abbiamo perseguito l’obiettivo figlio. Polito ha il coraggio di toccare un tabù, la contraccezione facile, e di spezzare la catena che meccanicamente lega il figlio “voluto” alla responsabilità: «Da quando è comparsa la pillola a regolare maternità e paternità, i figli sono diventati tutti “voluti” (dei “non voluti”, d’altronde, non sappiamo molto perché tendono a non nascere). Un figlio “voluto” ha uno status diverso da un figlio “venuto”. Il figlio voluto deve avere tutto ciò per cui è stato voluto». In questo trionfo dei diritti la logica segue le premesse, ad esempio: «Se i nostri figli hanno diritto a un lavoro, perché mai dovrebbero cercarselo?». Spiegava all’Università di Torino negli anni Settanta Emanuele Samek Lodovici, filosofo prematuramente scomparso, che il tarlo della mentalità moderna è il concetto “negativo” di diritto che conduce alla deresponsabilizzazione. Se io penso che il diritto sia una disposizione positiva mi darò da fare perché non mi venga negato: ho diritto al lavoro, quindi mi metterò a cercarlo. Se io penso che diritto è ciò che mi è dovuto, aspetterò che altri lo realizzino per me: ho diritto al lavoro, qualcuno (lo Stato) me lo deve dare, ho diritto alla felicità, qualcuno (lo Stato) me la deve assicurare. Grazie al marxismo, al darwinismo e alla psicanalisi di cui ci siamo nutriti, dice Polito, abbiamo fatto credere ai nostri figli che «esiste un diritto al benessere». E, soprattutto, che sarà frutto non di conquista ma di lascito.
LA FATICA COME NEMICO. Ne sono la prova quei 20 giovani su 100 (15-24 anni) assolutamente inattivi, che né studiano né lavorano o cercano lavoro. In loro l’atteggiamento che prevale è quello dell’“eredità attesa”, direttamente proporzionale al patrimonio della famiglia e inversamente proporzionale al numero dei figli: più case meno figli è la fotografia immobiliar-demografica del nostro paese. Altro che giovani “affamati e folli”, secondo l’auspicio del fondatore di Apple, Steve Jobs, noi, scrive Polito, li preferiamo “sazi e conformisti” con il nuovo perbenismo progressista che prevede anche l’accudimento della prole presso la scuola occupata. «Noi papà di oggi vogliamo fare i fratelli, non i padri», loro saranno “bamboccioni”, ma noi siamo “babboccioni”. «Siamo la prima generazione che ha disobbedito ai padri e obbedito ai figli», consegnando loro oltre all’agiatezza un orizzonte di diritti che esclude il concetto di fatica; interveniamo quotidianamente per rimuovere ogni ostacolo gli si presenti sulla via del successo. Così ci siamo trasformati da genitori con un compito educativo che contempla anche lo scontro, cioè il confronto con la libertà dei figli, nei loro sindacalisti. A scuola i professori non sono più i collaboratori educativi, ma la controparte. Polito cita il caso estremo del Consiglio di Stato che ha dichiarato illegittima l’esclusione dall’esame di maturità di una ragazza colta in flagranza mentre copiava: troppa severità, ha sancito la giustizia amministrativa, che non ha tenuto conto dello “stato d’ansia” della maturanda. Ma ogni preside sa cosa può comportare rimandare uno studente a settembre o non ammetterlo a un esame, con i genitori pronti al ricorso, l’obbligo di fornire infinita documentazione, la ripetizione delle prove d’esame… uno si chiede: chi me lo fa fare?
I FALSI ALLARMI DELLA STAMPA. La stessa ansia di “sistemarli” ci assale nei confronti del lavoro, complice una situazione non certo favorevole ma artatamente gonfiata dalle tendenze apocalittiche della stampa. I dati sulla disoccupazione giovanile sono preoccupanti di loro, non ha senso, se non per alzare il livello del piagnisteo, falsarli con operazioni indebite (e ignoranti). L’ultima rilevazione Istat parla del 36 per cento. La traduzione dei gazzettieri semplifica dicendo che più di 1 giovane su 3 è senza lavoro, mostrando che anche quando la scuola elementare italiana era a livelli di eccellenza qualcuno non ha capito che non si possono sommare mele con pere. Fatto 100 il numero dei giovani dai 15 ai 24 anni, 50 studiano, 30 lavorano o cercano lavoro, 20 non fanno né l’uno né l’altro. Il 36 per cento di disoccupati va riferito ai 30 “attivi”, non a tutti, dal che, secondo i calcoli del professor Luca Ricolfi, si deduce che sul totale dei giovani non trova lavoro il 7-8 per cento (1 su 13 non 1 su 3), la stessa percentuale degli anni precedenti la crisi.
C’è poi un paradosso del quale prima o poi si dovrà venire a capo: i dati di 9 regioni (le uniche che li hanno forniti) dicono che nel periodo ottobre 2010-settembre 2011 sono stati registrati circa 4 milioni di contratti di lavoro, di cui 1 milione a tempo indeterminato (qualcuno ricorda la promessa di Berlusconi?). Negli stessi mesi in Veneto gli assunti a tempo indeterminato sono stati 145.600 e quelli che hanno perso il posto di lavoro 34.000. Quattro contratti per ogni licenziato. Il che non può consolare i licenziati, ma rivela una situazione meno apocalittica di quella descritta. Ancora: nello stesso periodo sono rimasti disponibili, perché nessuno si è presentato, 117.000 posti. Spesso non si trova lavoro perché non lo si cerca, o non lo si cerca dove si trova, o non si viene a sapere dov’è perché lo Stato non promuove gli strumenti per far incontrare domanda e offerta.
Il problema non origina nella politica economica (ha evidenti conseguenze economiche) ma ha radici culturali ed educative, dice Polito. Bisogna chiedersi perché l’80 per cento degli universitari italiani si laurea nella sua regione, frequentando l’ateneo sotto casa e magari con una tesi in sociologia di qualche cosa. In un dibattito con Giorgio Vittadini il presidente del Censis Giuseppe De Rita ricordava amaramente il tentativo di ridurre gli oltre 3.200 corsi riconosciuti dall’Università italiana, dopo estenuanti trattative ci si arrese sopra quota 2.000.
UNIVERSITÀ CHIUSE ALLE SETTE DI SERA. Non ci si sposta per studiare, non si è propensi a farlo neanche di fronte alla possibilità di un lavoro: «Solo il 38 per cento dei giovani italiani è disposto a farlo, contro il 70 degli spagnoli, il 60 dei francesi, il 54 dei tedeschi», scrive Dario Di Vico citando fonti Eurobarometro. Ma se poi si spostano, protesta Polito, perché piangere sulla “fuga di cervelli all’estero”? Innanzitutto, osserva Vittadini nei paper della Fondazione per la Sussidiarietà e nel suo La sfida per il cambiamento, se i cervelli fuggono è perché nonostante i suoi mali l’università italiana li produce. Non li sa trattenere perché non investe in master e specializzazione, allora chi vuole di più perché sa che quello in conoscenza e formazione è l’investimento migliore va all’estero. Ma non è detto che sia in sé un male: meglio un cervello all’estero che produce risultati o uno inutilizzato in patria? Meglio non fare danni alla scienza in nome di un malinteso patriottismo, risponde Polito. Ma il vantaggio della circolazione dei cervelli, dice ancora Vittadini, è che l’internazionalizzazione della ricerca cui partecipano anche i nostri laureati, se supportata da una rete di rapporti, può tornare come ricchezza per il paese d’origine. In questo senso bisogna favorire che i nostri giovani vadano all’estero, magari dando corso al riconoscimento dei master e PhD che frequentano, e attivarsi con iniziative simili perché i giovani di altri paesi vengano in Italia. «Perché le nostre università chiudono alle sette di sera? Perché d’estate sono offline? Perché, unico paese del mondo civilizzato, la grande formazione aziendale e professionale in Italia viene fatta ovunque ma non in università?», chiedeva Vittadini ai politici dell’Intergruppo per la Sussidiarietà.
Perché, chiede analogamente Polito, le famiglie italiane sono più propense a investire sul mattone per lasciare una casa ai figli che non sulla loro formazione nei migliori atenei? Ora tutti parlano di capitale umano, nei decenni passati sembrava un’eresia. Ma dire investiamo sul capitale umano può essere l’ultimo trasformismo di chi cerca di realizzare un assetto politico, economico e sociale che dia per se stesso i frutti desiderati. Il capitale umano farà la fine della merce lavoro se non si arriva al cuore educativo della persona: investire sull’io vuol dire educarlo.
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