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domenica 23 dicembre 2012

beato José Sánchez del Río

beato José Sánchez del Río
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Carissimi in Gesù Cristo,

oltre a salutarvi con tutto il mio affetto, mi dirigo a voi per annunciarvi che da questo momento il beato José Sánchez del Río, più comunemente conosciuto come il «martire di Sahuayo», adolescente di 14 anni ucciso durante la guerra cristera messicana per difendere e proclamare la propria fede in Cristo, sarà il nuovo patrono dell’ECYD, insieme a sant’Ignazio di Antiochia e a sant’Agnese, attuali patroni rispettivamente del ramo maschile e di quello femminile.

Era da tempo che nutrivo il vivo desiderio di proporvi questa figura come esempio da seguire per i membri dell’ECYD. Lo faccio adesso, tramite questa lettera, approfittando del fatto che il 22 giugno del presente anno il Papa Giovanni Paolo II ha promulgato il suo decreto di beatificazione.

La testimonianza di José Sánchez del Río è molto attraente ed è piena di lezioni per la nostra vita. Rappresenta poi un modello di santità molto più vicino a noi, non solo nel tempo ma, come vi spiegherò di seguito, per il riferimento alle origini della mia vocazione e della fondazione della Legione di Cristo e dell’ECYD. Eravamo buoni amici, nonostante il fatto che avesse sette anni più di me e, da quando lo conobbi, ho nutrito per lui una profonda ammirazione.

1) Eroe, soldato e martire a 14 anni

José Sánchez del Río nacque il 28 marzo 1913 a Sahuayo de Díaz, paesino dello Stato di Michoacán, molto vicino a Cotija. Era il terzo di quattro fratelli. La sua famiglia, discendente degli Spagnoli, era benestante. Aiutava sempre i poveri e i bisognosi con i mezzi di cui disponeva. Gli piacevano i cavalli e sapeva cavalcarli come pochi. Aveva molti amici e andava d’accordo con tutti. Non approfittò mai della sua altezza o della sua forza per dominare i suoi compagni. Lo ricordo come un ragazzo sano e di buon carattere, irrequieto e vivace, gentile e semplice, molto obbediente e affettuoso con i suoi genitori; ma soprattutto, assai fervoroso, partecipava ai sacramenti e pregava il rosario tutti i giorni.

Quando aveva 13 anni, scoppiò la persecuzione più sanguinosa e crudele che il Messico ha conosciuto, la cosiddetta “guerra cristera”, simile per la durezza a quelle dei primi secoli del cristianesimo. Ma furono anche gli anni nei quali si scrissero le pagine di maggiore eroismo e nobiltà della storia del mio paese. Furono tempi duri, tempi adatti a cristiani coraggiosi, dal cuore integro. Molti Vescovi furono espulsi dalle loro diocesi, come successe a mio zio, il beato Rafael Guízar y Valencia. I sacerdoti furono perseguitati e assassinati barbaramente, furono confiscati i beni della Chiesa, chiusi i seminari, le chiese utilizzate come stalle e carceri; si bruciarono le immagini sacre, si profanarono i tabernacoli. L’odio del Governo contro Cristo e la sua Chiesa non si fermò davanti a niente, neppure davanti ai più giovani e alle donne.

Io stesso ho potuto vedere decine di cristiani impiccati ai pali della luce lungo la strada, e la piazza del mio paese si convertì frequentemente in scenario di crudeli fucilazioni. Non dimenticherò mai i volti e i corpi appesi di quegli uomini; li ho talmente vivi nella mia memoria che, dopo quasi ottant’anni, mi sembra di ascoltare ancor oggi il loro grido: «Viva Cristo Re!», pronunciato prima che la scarica del plotone o la corda del patibolo ponesse fine di un sol colpo alle loro vite. Una lezione di fede e d’amore per Dio che si impresse a fuoco nella mia anima di bambino!

Il popolo cattolico messicano non ebbe altro rimedio che sollevarsi prendendo le armi per difendere ciò che amava di più: la propria fede in Cristo e i diritti della sua Chiesa. In breve tempo, al grido di «Viva Cristo Re! Viva la Madonna di Guadalupe!», giunsero volontari di tutti i ceti sociali, sia dalle grandi città che dai villaggi più nascosti, che formarono un esercito di soldati di Cristo, i “cristeros”, che in quel momento ricevette la benedizione dei Vescovi e perfino del Papa Pio XI. José Sánchez, o José Luis, come lo chiamavamo noi amici poiché questo era il suo nome di battaglia, fu uno di questi soldati che non ebbero paura di dare la propria vita per guadagnarsi il cielo.

A pochi mesi dal suo arruolamento, dopo aver superato molte difficoltà per far sì che lo accettassero nonostante la sua giovane età, si giunse a un forte scontro con le truppe federali. Durante la «battaglia di Cotija», il cavallo del generale dei cristeros fu abbattuto e José Luis, senza pensarci due volte, scese dalla sua cavalcatura e pregò con insistenza il generale affinché salisse sul suo cavallo per poter così scappare. «Mio Generale - ripeteva José Luis - prenda il mio cavallo e si salvi: lei è più necessario di me alla causa». Con queste parole aveva dichiarato la propria condanna a morte. Sapeva infatti che lo avrebbero senz’altro ucciso, dato che l’ordine del Governo era quello di far fuori ogni cristero che riuscissero a catturare. José Luis, con il fucile in mano, affrontò il nemico, coprendo le spalle al suo Generale, finché non gli finirono i colpi. «Eccomi – disse a quelli che lo catturarono – solo perché mi sono finiti i colpi, ma non mi arrendo».

Cominciarono così per il nostro amico quattro lunghi giorni di agonia prima della sua ultima battaglia, la più difficile: quella per il cielo. Torture, interrogatori, bastonate, notti insonni, quasi senza mangiare, proposte di corruzione per obbligarlo a tradire la sua fede... niente. In risposta, egli pregava con maggior intensità e ad ogni colpo o domanda dei suoi carnefici rispondeva: «preferisco morire, prima di tradire Cristo e la mia patria». Seguendo l’esempio del suo Maestro durante la Passione, José Luis si mantenne fermo e restò fedele a Cristo e alla sua coscienza.

Giunse il 10 febbraio 1928, giorno del suo ingresso nell’eternità. Non ci fu nessun giudizio e non gli diedero neppure la possibilità di difendersi. Lo fecero uscire con le mani legate. Erano circa le undici di sera. I suoi carnefici scelsero quest’ora, dopo il coprifuoco, perché non volevano che qualcuno si rendesse conto di quello che stavano per fare al ragazzo. Con un coltello gli spellarono lentamente la pianta dei piedi e lo obbligarono a camminare scalzo sopra del sale; poi lo condussero al cimitero per una strada selciata.

Durante il tragitto i soldati, con l’intenzione di fargli rinnegare la sua fede, lo colpivano e gli davano spintoni e, come se fosse un toro da corrida, con piccoli coltelli appuntiti lo pugnalavano in varie parti del corpo. Ad ogni pugnalata, José Luis gridava con maggior forza «Viva Cristo Re! Viva la Madonna di Guadalupe!». Le pietre della strada si tinsero di sangue. La gente, dalle proprie case, sentiva le grida e piangeva vedendo quello che gli stavano facendo. Alcuni di noi lo seguimmo e assistemmo a tutta la scena. Volevano ucciderlo a pugnalate, per non far rumore con gli spari. Vedendo che non smetteva di gridare «Viva Cristo Re!» uno dei soldati gli diede un colpo così violento con il calcio del fucile che gli ruppe la mandibola.


Giunti al luogo del «calvario», il cimitero, lo obbligarono a scavare la propria fossa con le poche forze che gli rimanevano. Poi, visto che non potevano fargli rinnegare la fede e che anzi continuava a proclamare la sua fede in Cristo, il capo della guardia, esasperato, si avvicinò a José Luis, estrasse la sua pistola e gli sparò a bruciapelo in testa. Le sue ultime parole furono: «Viva Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe!». Il suo corpo, bagnato di sangue, cadde al suolo. Gli tirarono addosso qualche palata di terra e se ne andarono. Un pezzo di carta con il suo nome dentro una bottiglia, a fianco del suo corpo, rimase a testimonianza del fatto che in quel luogo giaceva un eroe della patria, un soldato di Cristo e un martire della Chiesa, di soli 14 anni.

2) José Sánchez del Río, esempio di vita per il membro dell’ECYD

a) Amore appassionato per Gesù Cristo.

Per José Luis, Gesù Cristo fu sempre un grande amico, il migliore amico, il suo compagno di avventure e di combattimento. Conversava con Lui in ogni momento del giorno, in modo più naturale di quanto lo facesse con i suoi amici. Gli raccontava i suoi problemi e le sue difficoltà, ma gli piaceva anche trascorrere con Lui i momenti allegri, festeggiare un buon voto a scuola o la vittoria in una partita. Facevano tutto insieme. Avevano concluso, Cristo e lui, un patto di amicizia in base al quale sarebbero rimasti sempre uniti; neanche la morte li avrebbe separati.

La fedeltà a questa amicizia, tuttavia, gli costò sangue: pronunciò il nome di Gesù con il proprio martirio. «Potete tagliarmi la lingua e legarmi mani e piedi – diceva alle sue guardie durante la prigionia – ma perfino in quel caso ogni gesto e movimento del mio corpo sarà un modo per gridare: viva Cristo Re! ». In lui ogni cosa non aveva altra finalità che quella di trasmettere Cristo, annunciarlo e rendere testimonianza di questo amore a tutti: ai suoi compagni, ai suoi genitori e fratelli, ai cristeros, perfino ai suoi stessi carnefici.

Durante la sua prigionia, lo tentarono con ogni tipo di promesse e ricatti allo scopo di far sì che tradisse Cristo. Gli offrirono denaro per andare negli Stati Uniti a vivere tranquillo, gli proposero una carriera militare brillante, con tutte le facilitazioni… niente. Il risultato fu sempre lo stesso: «Piuttosto morto!». Chiese addirittura a suo papà di non pagare neanche un centesimo dei cinquemila pesos d’oro che il Governo aveva chiesto come riscatto. Non ci fu niente e nessuno che potesse convincerlo ad assassinare la propria coscienza o a vendere la propria fedeltà a Cristo. Fu un cristiano tutto d’un pezzo.

José Luis fu un vero leader. Con la sua sola presenza contagiava l’amore per Cristo dovunque passasse; si comportò come apostolo perfino in mezzo alle peggiori circostanze. Guadagnò subito il rispetto e l’affetto di tutti i cristeros, che lo battezzarono con il nome di «Tarcisio», non solo per la giovane età, bensì per la sua testimonianza di pietà e d’amore all’Eucaristia. Con quale devozione, in ginocchio, presentava le armi davanti a Cristo Eucaristia, mentre il sacerdote passava con il Santissimo Sacramento benedicendo le truppe dei cristeros prima del combattimento! La sua richiesta più ardente, poche ore prima di morire, fu quella di ricevere la santa comunione per poter affrontare l’ultimo tratto delle sue sofferenze con Cristo nel suo cuore. L’Eucaristia è stata sempre il suo alimento e la sua fortezza, il luogo abituale delle confidenze con il suo amico Gesù Cristo.

b) Amore coraggioso e filiale verso sua Madre, la Chiesa

Mosso dalla carità, non volle mai litigare con i suoi fratelli o compagni; usò la sua forza solo quando ci fu da difendere Cristo e la Chiesa, quando calpestarono la sua fede. Allora sì che nessuno lo batté nel combattere per la fede. Il coraggio non si misura in base ai muscoli, alle parole o alle apparenze, ma in base alla capacità di essere fedeli alle proprie convinzioni in mezzo alle prove più dure. José Luis è stato un cristiano coerente. La sua fede e il suo amore per Cristo non lo lasciavano tranquillo, non poteva restare con le braccia conserte: doveva fare qualcosa per difendere la Chiesa.

Non andò sulle montagne in cerca di avventure o per divertimento ma, come nel caso degli altri cristeros, perché non gli permettevano di esercitare liberamente la propria religione e stavano perseguitando e oltraggiando i sacerdoti. Fu questa la scintilla che fece scoppiare la guerra cristera. Non potevano tollerare che calpestassero in questo modo Cristo e la sua Chiesa, nei suoi ministri e nei suoi templi. Il deputato del Governo che lo manteneva prigioniero, l’onorevole Rafael Picaso, che era suo vicino di casa e che, prima della guerra, era amico della sua famiglia e fu perfino suo padrino di prima comunione, teneva tre galli da combattimento sull’altar maggiore della chiesa dove era tenuto prigioniero, la stessa chiesa dove era stato battezzato e dove aveva ricevuto la Cresima. José Luis non esitò a ucciderli e a ripulire poi l’altare con la sua camicia. Quando Picaso, infuriato, gli domandò: «Non sai quello che valgono?», egli rispose: «L’unica cosa che so è che la casa di Dio, mio Padre, è per venire a pregare, non per tenerci gli animali». Questa risposta gli costò un bel pugno e qualche dente di meno.

Una delle lezioni forse più importanti che ci lascia José Luis è che per essere un gran santo e un apostolo, per fare grandi cose per Cristo e per la Chiesa, non importa l’età che si ha. Non importa neppure se ciò che fai è appariscente o meno agli occhi degli uomini, ma ciò che conta è la fede e l’amore con cui lo fai. «Sei ancora troppo giovane, non hai neanche le forze per reggere un fucile – gli diceva il generale dei cristeros – questo tipo di vita è troppo dura per un ragazzino come te, abituato alle coccole della mamma e a dormire in morbide lenzuola». «Non importa – insisteva José Luis – posso aiutare i soldati a togliersi gli speroni o a preparare le cavalcature; posso cuocere i fagioli, curare i cavalli o ingrassare le armi». La sua ferma decisione e la sincerità con la quale parlava, conquistarono la fiducia e la stima del generale, che lo accettò tra le sue truppe. Avrebbe portato la bandiera dei cristeros e dato fiato alla tromba per suonare l’assalto.

c) Desiderare il cielo più che la propria vita

«Non è mai stato così facile guadagnarsi il cielo». Furono queste le parole che disse alla sua mamma quando gli chiese perché voleva andare a combattere per Cristo. Diceva al suo amico di prigione, per fargli coraggio: «Non tirarti indietro. Le nostre pene durano quanto un batter d’occhio». Nelle lunghe notti della sua prigionia, per consolarsi e vincere la paura, gli piaceva cantare «In cielo, in cielo voglio andare!».

José Luis non perse mai di vista il fatto che il cielo era la meta della sua vita e che valeva la pena qualunque sacrificio o sofferenza pur di raggiungerla; sapeva infatti che lì avrebbe potuto godere di Dio per tutta l’eternità. Per questo seppe perdere la sua vita e  guadagnarla per il cielo: gli sono bastati 14 anni per viverla a fondo e conquistare il premio. Seguendo il consiglio del Vangelo, non ha avuto paura di coloro che potevano uccidere il suo corpo, bensì di coloro che potevano togliergli la sua fede e la sua amicizia con Cristo, rubargli la purezza del suo corpo e del suo cuore, fargli tradire le sue convinzioni (Cfr. Lc 12, 4-5). Meglio morire, piuttosto che peccare. Per questo preferì una vita corta, ma con Cristo, a una vita lunga e comoda senza di Lui e senza la vita eterna. Morì nello stesso modo in cui aveva sempre vissuto: in piedi, combattendo come cristiano autentico, con la lampada della sua fede e del suo amore accesa.

Qualche giorno prima della sua partenza, il mio amico José Luis mi domandò: «Marcial, perché non vieni con me?». Avrei voluto con tutta l’anima seguirlo per combattere per la Chiesa e dare la mia vita per Cristo; ma la mia mamma non mi lasciò: avevo solo sette anni. Più tardi, quando giunsi all’età in cui era morto José Luis, capì il perché. Dio mi aveva preparato un’altra missione: quella di dare la mia vita come sacerdote al servizio degli altri. Egli desiderava da me un altro tipo di martirio: morire ogni giorno, minuto dopo minuto, con il martirio dell’amore e della mia donazione senza limiti. Dio chiese a lui di morire per la fede; a me di vivere di fede. Di aiutare mia Madre, la Chiesa, con la mia donazione. Devo confessarvi che, se è vero che questa vita è stata dura, è stata anche molto bella, tanto che tornerei a viverla mille volte. Anche se, non posso negarlo, il solo ricordo del mio amico José Luis mi riempie di nostalgia. Come mi sarebbe piaciuto morire in quel modo!

Forse Dio non chiederà neanche a voi di versare il vostro sangue, come fece nel caso di José Luis; ma, come a me, vi chiederà senz’altro di essere cattolici fedeli, uomini e donne tutti d’un pezzo, coerenti con la vostra fede. A cosa ti serve la tua vita se non la dai per Cristo? Conosco molti giovani adolescenti che a 12, 13 o 15 anni non hanno dubitato di lasciare tutto per donare la propria vita, come sacerdoti o anime consacrate, per Cristo e per gli altri. Nel tuo cuore devi essere disposto a fare la stessa cosa, qualora Dio te lo chiedesse.

Cari membri dell’ECYD, se volete essere veramente soldati di questo esercito di Cristo, sappiate che dovete amare Cristo con passione, più di voi stessi; che dovete essere disposti a qualunque sacrificio pur di far sì che Egli regni nel maggior numero di cuori possibile; non potete rimanere seduti quando la vostra fede o la Chiesa, vostra Madre, sono perseguitate. La Chiesa ha bisogno di uomini e di donne coraggiosi, innamorati di Cristo e convinti della propria fede; apostoli che lottano per essere fedeli a Cristo, che quando cadono o sono feriti non rimangono a terra, ma si rialzano e continuano a lottare con più forza; che non si vergognano di Gesù quando qualcuno li segna a dito o ride di loro; che non gettano le armi di fronte alle difficoltà; che sono disposti a vincere il male con il bene e con la carità. In definitiva, chi vuol essere un buon figlio della Chiesa come membro dell’ECYD deve avere, dal primo fino all’ultimo istante della giornata, un unico motto: la mia vita per Cristo! E una sola missione: aiutare Cristo a salvare le anime.

Cari giovani dell’ECYD, José Sánchez del Río diventa, a partire da ora, vostro patrono: conoscetelo, contemplate l’esempio della sua vita, chiedetegli di aiutarvi a perseverare con fedeltà nella vostra amicizia con Cristo e nella vostra vita di grazia. Ma, soprattutto, cercate di vivere come Lui. Che le ultime parole che egli scrisse a sua madre, poche ore prima di morire, risuonino sempre nei vostri cuori e possiate ripeterle con la testimonianza coraggiosa della vostra vita: «Cristo vive, Cristo regna, Cristo impera! Viva Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe!».

Alla nostra cara Madre del cielo, la Madonna, chiedo di rendervi ogni giorno più simili a questo grande imitatore di suo Figlio Gesù Cristo. Vostro affezionatissimo in Cristo,


Marcial Maciel, L.C.

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