Seguire
non è attaccarsi a una
persona
sentimentalmente
o personalisticamente
***
Seguire
non è ripetere la frase di don Giussani, non è attaccarsi a una
persona
sentimentalmente
o personalisticamente, perché questo attaccamento personalistico è
la modalità con cui noi nascondiamo la nostra mancanza di sequela,
che invece è rivivere l’esperienza della persona che ti ha
provocato. E
qual è la persona che ha provocato tutti noi? La persona di
Giussani:
seguendolo, a che cosa ci conduce? «Il desiderio di partecipare alla
vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro».
Se per noi seguire la persona che ci ha provocato non giunge fino a
rifare e a rivivere la sua esperienza, noi non seguiamo, anche se
diciamo di seguire. Non lo dico
come un rimprovero; è perché poi non possiamo lamentarci che non
succeda quello chedescrive
lui! Basta che uno si prenda tutto il tempo di cui ha bisogno per
farlo, senza scandalizzarsi,
e
capisce dove porta: «Partecipare
alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro,
ed è questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri». La
nostra aspirazione è a questo Altro, non alla persona che mi
introduce a questo Altro. Se io mi blocco lì, se io mi fermo lì, io
non seguo e quindi non faccio l’esperienza, e per questo continuo a
dire che è astratto, perdendo tempo in continuazione.
Solo uno che fa tutta questa esperienza può rendersi conto che il
Mistero è così concreto, come ha descritto questa lettera, è
radicalmente concreto, tanto che se non trovo una risposta, io non
respiro, io sono stufo, io sono triste. È così concreto il Mistero
che non possiamo vivere niente senza fare il paragone tra questo
essere fatti per l’infinito e quel che troviamo; altro che
astratto, è la cosa più concreta! E se noi non capiamo questo, se
non stabiliamo un paragone tra quello che desideriamo e ogni fibra
dell’essere che è fatta per l’infinito, qualsiasi cosa
incontriamo ci delude, non capiamo e ci arrabbiamo con noi stessi
perché ci sembra tutto ingiusto. Invece niente è più reale, più
concreto, più radicale del fatto di essere fatti così, per
l’infinito, in ogni fibra dell’essere. Questo è rifare
l’esperienza, che è molto diverso dal fare un discorso
sull’esperienza, lo vediamo subito dal respiro che provoca. È
questo che dicevo la volta scorsa parlando di san Pietro, di quando
ha tirato fuori la spada per difendere il suo Amico. E una di voi mi
dice: «Ma che commento hai fatto?! Pietro non si è mosso per
cattiveria, come noi non ci muoviamo per cattiveria tante volte
pensando di seguire, come uno che si attacca a un altro, si muove per
un’affezione a quest’altro, non è cattiveria; voleva difendere
l’Amico secondo la sua misura e io avrei fatto forse uguale, anzi,
tante volte agisco mossa da un’idea buona, ma poi il risultato non
lo è altrettanto.
Dov’è
l’inghippo?» Dov’è l’inghippo? Dobbiamo tornare di nuovo
costantemente a Gesù, al
dialogo
di Gesù con Pietro, perché una volta che lui ha detto: «Tu sei il
Messia», subito ha pensato che
aveva già colto la questione; e appena Gesù ha incominciato a
parlare della passione haesclamato:
«No, questo no, per carità, ci mancherebbe!». Allora
Gesù (Gesù!), che non vuole che si attacchi a Lui sentimentalmente,
ma che vuole introdurre all’esperienza che Lui fa, reagisce:
«Pietro, allontanati da me, perché tu pensi come gli uomini e non
come Dio. Se tu vuoi essere con me, tu devi fare la mia esperienza,
tu devi entrare fino a lì, altrimenti potrai dire che sei attaccato
a me, ma tu non mi segui, e quando tu cerchi di difendermi con la
spada tagliando l’orecchio al primo che passa, tu dici che lo fai
per difendere me. Io non ho bisogno di questa difesa, Io ti sfido di
nuovo a che tu faccia la mia esperienza. Ma non ti rendi conto che
mio Padre ha legioni di angeli, che potrebbe metterli in campo e
“asfaltare” tutti? Ma a me non interessa questo, ma che tu faccia
la mia esperienza». E quando i due di Emmaus si scandalizzano: «Ma
voi non capite che doveva succedere tutto questo?». Il Vangelo usa
il termine greco dein,
cioè «era necessario» che succedesse questo (che è una modalità
di dire Dio). Allora seguire non è soltanto attaccarci
personalisticamente, perché Gesù non lo vuole, non vuole questo
tipo di attaccamento, e se vuole attaccare a sé i discepoli, come ci
ha insegnato sempre don Giussani, è per condurli al Padre. Non gli
basta l’attaccarli a sé. Perché? Perché se bastasse un
attaccamento sentimentale o personalistico,
la
sua sarebbe una presa in giro. Perché non ci basta, perché siamo
fatti per l’infinito. Come la ragazza
che mi ha scritto: era qui contentissima di quel che stavamo dicendo,
ma se io non la sposto dicendo
che, se anche si compisse l’esito che desideriamo, questo non
basta, non sono amico suo.
L’unica
possibilità è che io ti dica: anche se tu affermi fino all’infinito
qualcosa, non è questo che ti compie,
perché quello che ti compie è riconoscere l’infinito. E se non ti
avessi detto così, anche al prezzo
che tu non capisca per un po’ non ci saremmo aiutati. Perché è
questo che don Giussani dicenel
capitolo sesto parlando della rinuncia a se stessi.
PDF - 28 novembre 2012. Appunti SdC con Carrón
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Il personalismo è un tentativo sbagliato di risolvere il problema della vita, di raggiungere quel compimento per cui valga la pena vivere. Peccato che quel tentativo nasca dall’incapacità di capire la natura dell’io e dal non aver trovato risposta adeguata alle sue esigenze. «La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito», abbiamo ricordato al Meeting scorso. Se non ci rendiamo conto che siamo «fatti per l’infinito», cerchiamo consapevolmente o inconsapevolmente di rispondere al nostro bisogno umano - dicevi - con un «accentramento su di sé» che non potrà mai soddisfare il desiderio d’infinito che ci costituisce. Oltre che sbagliato, il personalismo è inutile per rispondere all’esigenza per cui si fa.
Ma questo personalismo è possibile soltanto grazie alla connivenza di tutti coloro che pensano di risolvere il problema della loro vita scaricando la loro responsabilità su chi esercita tale personalismo, il cosiddetto «responsabile» (tutti possiamo essere conniventi con questo personalismo). Allora «il rapporto con il responsabile, quando è seguito perché è il capo dell’organizzazione sulla quale si sono scaricate tutte le speranze e dalla quale si pretende l’attuazione del proprio progetto, tende ad essere assolutamente chiuso in una dipendenza individualistica.
L’obbedienza che si instaura è obbedienza all’organizzazione, di cui il responsabile è il punto cruciale e il guardiano, e questo elimina la creatività delle nostre persone, perché tutto è stabilito e definito dalla struttura a cui si aderisce, tutto diventa schema» (L. Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino 1995, p. 63).
Come si esce dal personalismo?
Dal personalismo si esce come si esce da qualsiasi idolatria: trovando una presenza talmente vera che provoca per la promessa di compimento che la sua stessa esistenza pone davanti a noi. Solo chi si rende bene conto della vera natura del proprio bisogno umano può capire che quello che risponde ad esso è soltanto la sequela di quella presenza che ci provoca per la promessa che contiene. Ma la chiave sta nella concezione stessa della sequela. La sequela non può essere concepita come un eseguire ordini di uno sul quale si ha scaricato la propria responsabilità con la speranza che l’altro risolva il problema della propria vita.
«La sequela è il desiderio - diceva don Giussani - di rivivere l’esperienza della persona che ti ha provocato e ti provoca con la sua presenza nella vita della comunità, è la tensione a diventare non come quella persona nella sua concretezza piena di limiti, ma come quella persona nel valore a cui si dà e che redime in fondo anche la sua faccia di povero uomo; è il desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro, ed è questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri, cui vuoi aderire, dentro questo cammino» (Ibidem, p. 64).
Solo uno impegnato nel rivivere l’esperienza della persona che l’ha provocato, può arrivare all’Altro, a Colui in cui trova ciò a cui aspira: non avendo più bisogno di accentrare tutto e tutti su di sé, può finalmente liberarsi da ogni personalismo.
Solo un uomo così può suscitare nell’altro il desiderio di seguire, di implicarsi e, così facendo, aiuta i suoi collaboratori a diventare se stessi, mettendoli in condizione di offrire il proprio contributo all’opera comune. In questo modo, tutte le risorse umane sono messe al servizio dell’opera.
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Il personalismo è un tentativo sbagliato di risolvere il problema della vita, di raggiungere quel compimento per cui valga la pena vivere. Peccato che quel tentativo nasca dall’incapacità di capire la natura dell’io e dal non aver trovato risposta adeguata alle sue esigenze. «La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito», abbiamo ricordato al Meeting scorso. Se non ci rendiamo conto che siamo «fatti per l’infinito», cerchiamo consapevolmente o inconsapevolmente di rispondere al nostro bisogno umano - dicevi - con un «accentramento su di sé» che non potrà mai soddisfare il desiderio d’infinito che ci costituisce. Oltre che sbagliato, il personalismo è inutile per rispondere all’esigenza per cui si fa.
Ma questo personalismo è possibile soltanto grazie alla connivenza di tutti coloro che pensano di risolvere il problema della loro vita scaricando la loro responsabilità su chi esercita tale personalismo, il cosiddetto «responsabile» (tutti possiamo essere conniventi con questo personalismo). Allora «il rapporto con il responsabile, quando è seguito perché è il capo dell’organizzazione sulla quale si sono scaricate tutte le speranze e dalla quale si pretende l’attuazione del proprio progetto, tende ad essere assolutamente chiuso in una dipendenza individualistica.
L’obbedienza che si instaura è obbedienza all’organizzazione, di cui il responsabile è il punto cruciale e il guardiano, e questo elimina la creatività delle nostre persone, perché tutto è stabilito e definito dalla struttura a cui si aderisce, tutto diventa schema» (L. Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino 1995, p. 63).
Come si esce dal personalismo?
Dal personalismo si esce come si esce da qualsiasi idolatria: trovando una presenza talmente vera che provoca per la promessa di compimento che la sua stessa esistenza pone davanti a noi. Solo chi si rende bene conto della vera natura del proprio bisogno umano può capire che quello che risponde ad esso è soltanto la sequela di quella presenza che ci provoca per la promessa che contiene. Ma la chiave sta nella concezione stessa della sequela. La sequela non può essere concepita come un eseguire ordini di uno sul quale si ha scaricato la propria responsabilità con la speranza che l’altro risolva il problema della propria vita.
«La sequela è il desiderio - diceva don Giussani - di rivivere l’esperienza della persona che ti ha provocato e ti provoca con la sua presenza nella vita della comunità, è la tensione a diventare non come quella persona nella sua concretezza piena di limiti, ma come quella persona nel valore a cui si dà e che redime in fondo anche la sua faccia di povero uomo; è il desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro, ed è questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri, cui vuoi aderire, dentro questo cammino» (Ibidem, p. 64).
Solo uno impegnato nel rivivere l’esperienza della persona che l’ha provocato, può arrivare all’Altro, a Colui in cui trova ciò a cui aspira: non avendo più bisogno di accentrare tutto e tutti su di sé, può finalmente liberarsi da ogni personalismo.
Solo un uomo così può suscitare nell’altro il desiderio di seguire, di implicarsi e, così facendo, aiuta i suoi collaboratori a diventare se stessi, mettendoli in condizione di offrire il proprio contributo all’opera comune. In questo modo, tutte le risorse umane sono messe al servizio dell’opera.
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