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lunedì 4 febbraio 2013

Il primo capitolo di La bellezza salverà il mondo PDF Stampa E-mail
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LA DITTATURA DI UN NUOVO PARADIGMA CULTURALE: IL RELATIVISMO
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Il relativismo, cioè il lasciarsi portare «qua e là da qualsiasi vento di dottrina», appare l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.
(Joseph Ratzinger, «Omelia per il funerale del Santo Padre Giovanni Paolo II»)


Tutti a spasso con i lanternini
A noi uomini [...], nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita [...] era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti sulla terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce.

Nel celeberrimo romanzo di Pirandello, Il fu Mattia Pascal, durante il soggiorno romano, il protagonista, assunta la nuova identità di Adriano Meis, conversa con l’affittuario dell’appartamento di nome Anselmo Paleari. In realtà, il logorroico appassionato di filosofia racconta allo stupito Adriano la propria visione della modernità attraverso alcune immagini mutuate dal mondo del teatro.

L’immagine del lanternino è utilizzata da lui per rappresentare il concetto di visione del mondo, della vita o ancora, con termine tedesco, Welthanschauung. Ebbene, a detta di Pirandello, in alcune epoche storiche, questi lanternini individuali, connotati da colori differenti, assumono, invece,  lo stesso colore. Afferma, infatti, Anselmo Paleari:

A me sembra [...] che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana?[...] Il lume d’una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell’idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che sono detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternini.
A questo punto i lanternini si muovono nel buio, si scontrano, tornano indietro in mezzo ad una grande confusione. Tutti i lanternoni sono spenti e gli uomini non sanno più a chi rivolgersi! Questa è la descrizione della modernità. Non più un lanternone comune che permetta di inoltrarsi  nel reale illuminando con  una luce comune, ma tante piccole luci che vagano come lucciole nella campagna estiva, troppo piccole per produrre un’illuminazione più vasta.
L’immagine di Pirandello traduce in chiave poetica l’espressione paradigma culturale coniata dal filosofo statunitense T. Kuhn:

Il paradigma è una costellazione di credenze, valori e tecniche condivise dai membri di una comunità scientifica.
In altre parole potremmo dire che un paradigma culturale include in sé un modo di guardare, di concepire e analizzare la realtà, che contraddistingue una particolare epoca storico-culturale e che è connotato dall’uso di particolari strumenti gnoseologici da applicare in ogni disciplina.
Così, in età moderna, si è diffuso nel Settecento il paradigma illuministico incentrato sulla ragione come ratio sui et universi, misura della realtà e possibilità di conoscibilità di tutto il reale. L’Illuminismo ha inteso rifondare tutto il sapere e le discipline attraverso quello che è considerato l’unico strumento che permette di conoscere il reale: la ragione, per l’appunto. Anche le discipline artistiche e la metafisica avrebbero acquisito un loro statuto ontologico solo attraverso la loro ricostituzione e ridefinizione a partire dall’uso della ragione. Celebre è, ad esempio, il conio dell’espressione della poesia come «sogno in presenza della ragione».


I lanternoni del passato prossimo
Un paradigma culturale, è bene dirlo, non tramonta mai del tutto; spesso, le sue apofisi, le sue appendici, approdano in altre epoche e germogliano in nuovi paradigmi. É per l’appunto questo il caso del paradigma illuministico che, a metà dell’Ottocento, porterà alla nascita di quello positivista.
Il termine «Positivismo» deriva dall’espressione «scienze positive», ovvero le discipline sperimentabili, basate su «fatti» che si possono riprodurre e studiare, quindi, nella loro meccanicità. I positivisti vogliono applicare questo criterio scientifico a tutte le discipline, anche a quelle filosofiche  e letterarie (anche al romanzo e al teatro). Gli ambiti e le discipline che non si prestano all’applicazione del metodo sperimentale perdono il loro statuto ontologico: così, i positivisti si convincono di poter sancire la fine della religione e della metafisica. Un giorno, infatti, tutto l’ignoto sarà conosciuto dalla scienza, secondo questi «padri della modernità».
La diffusione di questo nuovo approccio gnoseologico e culturale avviene negli anni in cui lo scienziato Charles Darwin (1809-1892) pubblica L’origine della specie (1859) e il filosofo Herbert Spencer (1820-1893) contribuisce alla nascita della psicologia moderna con l’ Introduzione alla psicologia sperimentale (1865). Il fisiologo francese Claude Bernard (1813-1878) influirà non poco sull’avvento della medicina sperimentale, così come il filosofo August Comte (1798-1857) sarà padre della sociologia moderna. Di nuovo, come nell’epoca illuministica, l’uomo si convince di avere rivoluzionato il mondo della cultura. Con una perfetta consonanza rispetto agli illuministi, anche i positivisti aprono la strada di una nuova religione, quella del Progresso e dell’Umanità.
I cardini di questo paradigma culturale si possono così sintetizzare:
-  un marcato materialismo, secondo il quale ha valore solo ciò che è concreto, visibile, materiale e può essere colto dai sensi umani;
- il conseguente determinismo, ovvero ogni effetto può essere fatto risalire ad una causa organica e, viceversa, ad ogni causa organica corrisponde una conseguenza necessaria, dunque ineluttabile. Quindi, una persona, se nasce in un certo ambiente, non ha per sé la possibilità di migliorare;
- lo scientismo consistente in una fiducia illimitata nella scienza, indicata profeticamente come «vera salvezza dell’umanità»;
- un ottimismo illimitato derivato dalle infinite possibilità di evoluzione della scienza.
Senza dilungarci anche in questo caso troppo nell’analisi, è bene sottolineare almeno un paio di aporie in questo tipo di approccio alla cultura.
In primo luogo, in ogni disciplina il metodo è suggerito dall’oggetto di studio proprio della disciplina stessa, non può essere imposto dal soggetto in maniera aprioristica a prescindere dalla materia presa in considerazione. Il metodo della letteratura sarà determinato dalle opere letterarie, quello della fisica dall’osservazione e dallo studio della natura, quello della storia dai fatti ricostruiti a partire dai documenti diretti e indiretti pervenuti. Il Positivismo vuole, invece, imporre un metodo unico a tutti gli ambiti dello scibile umano.
In secondo luogo, è evidente che, in una simile prospettiva culturale, nella considerazione della persona vengono sottovalutate o del tutto ignorate la libertà e la storia individuale (costituita da incontri, eventi,…); in poche parole, dati un ambiente sociale e dei cromosomi, l’uomo sarebbe, per i positivisti, stabilito in maniera deterministica.
Nella prima metà del Novecento si è, poi, diffuso il paradigma neopositivista di cui abbiamo traccia ancora oggi, quasi quotidianamente, quando leggiamo notizie relative a scoperte scientifiche che tendono ad interpretare le azioni umane come esclusiva conseguenza di componenti genetiche dell’uomo. Echi profondi di questa lettura scientista (positivista o neopositivista) della realtà si trovano un po’ in tutti gli ambiti. Per questo motivo una disciplina per essere considerata tale deve assurgere al ruolo di scienza, per cui si parla di scienza della comunicazione, di scienze storiche, di scienze politiche. Si arriverà, forse, a coniare la dicitura «scienze letterarie o umanistiche» disgregando la tradizionale distinzione tra discipline scientifiche e umanistiche.


Un nuovo «lanternone»: la dittatura del relativismo

Ebbene, negli ultimi decenni sembra imperversare  anche un altro paradigma, quello che potremmo definire relativismo culturale.
Il cardinale Joseph Ratzinger, allora decano del collegio cardinalizio,  nell’aprile 2005, nella omelia durante la Missa pro eligendo romano pontefice, parla di dittatura di un nuovo paradigma culturale:

il relativismo, cioè il lasciarsi portare «qua e là da qualsiasi vento di dottrina», appare l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.
Siamo nell’epoca in cui ogni affermazione sull’esistenza della  verità viene tacciata di «fondamentalismo religioso» o di «conservatorismo culturale», di «anacronistico atteggiamento» non al passo con i tempi. Ebbene, in quest’epoca in cui le persone cercano le risposte alle loro domande solo dagli esperti, che possano infondere serenità per le loro inquietudini, tutti si improvvisano esperti, tutti pensano di poter giudicare tutto e di poter dire la propria verità su tutto. Ciò che è importante è che nessuno osi  parlare di verità. Ognuno può esprimere la sua opinione. Tutte le opinioni sono importanti allo stesso modo secondo l’espressione che, spesso, ricorre nei discorsi «io sono del mio parere, tu del tuo».
Bene, in questo modo, il dialogo non può avvenire. Paradossalmente, il presupposto che la verità non ci sia oppure che ci siano tante verità (che è come dire che la verità non esista) annienta all’origine ogni possibilità di reale comunicazione, di dialogo interculturale,  ogni tentativo di educazione, ogni possibile e reale crescita culturale.
Non ci può essere comunicazione, perché non si può pensare di arrivare a mettere in compartecipazione una verità che sia portata da uno dei due interlocutori o che sia derivata da altri. Quando la verità è negata alle radici, ognuno continua a camminare nel proprio tunnel di vetro trasparente in cui potrà vedere gli altri, senza, però, entrare realmente in contatto con loro. Manca, infatti, anche solo il presupposto iniziale che si faccia un tentativo per trovare un percorso insieme. L’aprioristica negazione dell’esistenza della verità nega ogni possibilità di cammino, di dialogo, di ricerca; mina alle radici ogni possibile sviluppo umano, crea le basi di uno scetticismo che, nel tempo, diventerà motivo di sconforto, di aridità, di poca volontà di costruire e di realizzare per il bene di sé e degli altri.
Non ci può essere vero dialogo interculturale tra popoli diversi, perché nel dialogo bisogna avere piena consapevolezza della propria posizione e della propria identità. Per poter dire «tu», bisogna prima saper dire «io». Devo sapere chi sono io, per chiedere all’altro chi sia lui.
Non può esistere una reale educazione, perché si educa introducendo qualcuno nella realtà secondo una ipotesi esplicativa della stessa, ipotesi che deve essere, quindi, considerata come buona, reale, attendibile. Non ci si può addentrare in una stanza completamente al buio senza alcuno strumento di illuminazione, occorre l’uso di una luce che in qualche modo illumini qualche particolare della stanza.
Non ci può essere cultura, perché tutto il sapere, la crescita e l’evoluzione nel campo della cultura e della tecnologia partono dal presupposto di tributare  fiducia,  fede alla tradizione che ti è stata consegnata fino a quel momento: se l’uomo dovesse rifare tutti i passi dello sviluppo scientifico dalla ruota e dal fuoco, ogni volta per verificarli, non procederebbe più lo sviluppo umano. Tutti coloro che negano ideologicamente e aprioristicamente l’esistenza della verità sono costretti in maniera surrettizia a reintrodurla e a considerarla valida nei loro discorsi. Non può darsi, infatti, discorso umano senza il presupposto dell’esistenza di una verità, non può darsi cultura, non esiste sviluppo, saremmo tutti ancora all’età della pietra.


Le radici della modernità

Ebbene, invece, qualche tempo fa, in una lezione in un’università italiana, un professore di filosofia sosteneva di fronte agli studenti che un atteggiamento serio avrebbe dovuto indurli a dubitare che lui stesso stesse parlando e che quella fosse una cattedra. Una studentessa ha allora alzato la mano per controbattere tali disquisizioni, sostenendo che la conseguenza più ragionevole di tale impostazione del problema sarebbe stata uscire dall’aula, dal momento che nessuno era certo che in quel momento si stesse tenendo una lezione di filosofia. Una tale impostazione negava anche l’evidenza stessa della realtà.
Certo, la modernità è proprio ben rappresentata da questo dubbio applicato a tutto, quel dubbio metodico che Cartesio ha introdotto come unico possibile punto di partenza nella conoscibilità del reale.

La modernità ha inizio con la filosofia cartesiana […].
Uno dei più grandi filosofi della politica contemporanei, Hannah Arendt, osserva che l’età moderna è stata determinata da tre grandi eventi storici: le grandi scoperte geografiche, e segnatamente la scoperta dell’America, la Riforma protestante, l’invenzione del telescopio e il conseguente rinnovamento e sviluppo dell’astronomia. Questi fenomeni, così disparati, hanno in realtà un punto in comune essenziale: sono tutte esperienze di quella che si potrebbe chiamare «l’alienazione dalla terra» da parte dell’uomo […]. L’esito dunque non fu che una radicale insecuritas, ossia la nascita di un radicale scetticismo […]. Il pensiero cartesiano sorge proprio da questo terreno di cultura.

Nel pensiero cartesiano

da una parte, il rifiuto di penetrare nei consigli di Dio, rifiuto dettato da un giusto rispetto della trascendenza divina, si associa a un ideale di vita umana puramente umana e «mondana»; dall’altra parte, l’idea che la certezza della conoscenza umana dipenda in ultima istanza dalla esistenza di Dio e dalla sua bontà, si associa all’idea di un Dio che è ridotto a semplice garanzia della nostra scienza e, tramite essa, della possibile restaurazione per la sola opera dell’uomo dell’originale e perduto stato paradisiaco. Dio è invocato e, nel contempo, del tutto allontanato dalla concreta vicenda umana.

In Cartesio il dubbio sostituisce la meraviglia, che nella filosofia antica ha sempre rappresentato il punto di partenza di ogni riflessione.

Da questo punto di vista, si può dire che  tutta la filosofia moderna si presenterà come articolazione e ramificazione del dubbio. Ce lo testimonia Nietzsche che la definì «una scuola del sospetto» e ben la descrive Bertrand Russel quando osserva che «solo sul fondamento di un’ostinata disperazione si può d’ora in avanti costruire una sicura abitazione dell’anima».
Il dubbio cartesiano investe i sensi, la ragione e la fede. Così, di fronte ad ogni certezza,

Cartesio trovò sopravvissuta un’unica ultima certezza, la certezza logica che nel dubitare io sono almeno certo di un processo che avviene nella mia coscienza.
L’unica certezza risiede nella coscienza e la forma conoscitiva più alta sarà allora quella matematica, ovvero quella che si raggiunge attraverso uno strumento che è prodotto della propria mente.
La verità, così, non è più qualcosa di oggettivo che si rivela, ma è un prodotto soggettivo della mente umana. Quindi, alla contemplazione (posizione umana che rappresenta il vertice supremo di fronte alla realtà) è sostituita l’azione e

il pensiero viene totalmente subordinato all’azione, e la filosofia viene del tutto svalutata […]. Da ricerca razionale della verità essa diventa un organo dello zeitgeist, dello spirito dell’epoca, e i filosofi vengono destinati a diventare i semplici portavoce degli umori generali del proprio tempo portati a chiarezza concettuale.
In maniera conseguente, la modernità si è sempre più interessata al come, cioè al processo di realizzazione di un oggetto o di accadimento di un fenomeno, e si è disinteressata alle domande sul perché e sull’Essere. L’uomo moderno, l’homo faber, è, così, esposto al rischio di percepirsi come nuovo Dio che si sostituisce al Creatore.
Dunque, la storia non sarà più racconto delle vicende umane e delle sofferenze, ma sarà considerata prodotta dalle mani dell’uomo. Da qui consegue l’idea della storia umana come progresso inesauribile, da cui Dio è definitivamente esiliato.

L’enfasi della verità come risultato della nostra azione ci ha condotti in una situazione in cui noi possiamo fondarci su qualsiasi ipotesi per agire verificando che essa funziona sempre, il che poi sta a significare che tutto è possibile, ma quest’ultimo principio altro non è che il principio guida di quel terribile fenomeno sperimentato nel nostro secolo e che identifichiamo con nome di totalitarismo, principio che giustamente già Dostoevskij, ne I fratelli Karamazov, poneva come il primo frutto dell’ateismo: se Dio non c’è tutto è permesso.
L’esito di questo processo è

la proiezione dell’uomo in se stesso, e per di più  in un se stesso che ha come unico contenuto oltre alla propria mente solo i propri appetiti e i propri desideri, in una parola gli incessanti bisogni del proprio corpo. Se a ciò si aggiunge che la perdita della prospettiva cristiana implica anche la perdita della prospettiva della immortalità individuale, noi ci troviamo di fronte a un uomo che a differenza dell’uomo cristiano è ritornato ad essere mortale così come lo erano stati gli uomini dell’antichità, ma che a differenza di questi ultimi non possiede più neanche un mondo nel quale, grazie alla propria virtù etica e politica, possa cercare di immortalarsi […]. L’unica cosa che allora rimane immortale è la vita stessa, ossia il processo vitale della specie umana, intesa nella sua più semplice accezione di processo biologico, e la regola etica fondamentale diventa allora una regola etologica  e ecologica.


L’uomo moderno: Amleto o Oreste?

Sono parole che sembrano drammaticamente descrivere quanto accade nel mondo odierno o quanto si discute negli incontri tra gli intellettuali più a la page.
Talvolta, le immagini poetiche sono, però, molto più efficaci di tante parole e di tante spiegazioni. Così, è ancora Pirandello che viene in nostro soccorso per spiegarci la modernità nel dubbio che caratterizza l’uomo e nella perdita dell’orizzonte ultimo della trascendenza.
Siamo nel capitolo XII de Il fu Mattia Pascal, il capitolo precedente rispetto  a quello dove è contenuto il discorso sulla lanterninosofia prima citato.
Ebbene, l’esperto di filosofia, Anselmo Paleari, descrive il dramma della modernità con un’immagine teatrale.

-La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! [...] Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
- Non saprei - risposi, stringendomi ne le spalle.
- Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe sconcertato da quel buco nel cielo. [...] Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cadere le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.
Come non rammentare il celeberrimo monologo di Amleto «Essere o non essere»! Amleto non sa se il fantasma che gli è apparso vicino al castello e che si è rivelato come il fantasma di suo padre sia reale oppure no. Deve verificarlo, deve sospendere tutta la sua vita, inibire i legami affettivi (l’amicizia con Laerte, l’amore che prova per Ofelia), interrompere gli studi (il corso universitario di filosofia in Germania), rinunciare al suo futuro (la successione al trono del Regno di Danimarca). Il dubbio lo paralizza, gli impedisce di agire, di vivere, lo rende inerte, accidioso, nulla vale più davvero la pena.
L’emblema di questo dubbio che porta al relativismo gnoseologico è Anselmo Paleari che dubita addirittura del limite ontologico per eccellenza, la morte. Anche la morte, infatti, potrebbe essere frutto di una percezione nostra, del nostro lanternino che si spegne. Così, prosegue la sua disquisizione filosofica:

E se tutto questo bujo, quest’enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all’indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non ci colora? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d’ombra fittizia, oltre il breve àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo della vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento d’esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste.
É qui doveroso riflettere sul fatto che Anselmo Paleari più che rappresentare la concezione della vita di Pirandello  sintetizzi nel suo pensiero la modernità e il suo approccio gnoseologico. Pirandello non vuole certo costruire un sistema filosofico fondato sul relativismo, né tantomeno dimostrare che la realtà non esiste, bensì proporre la difficoltà dell’uomo di arrivare a cogliere la realtà e, quindi, la verità. Basti a dimostrare tale affermazione la trilogia del mito scritta tra il 1928 e il 1936 (anno della morte del Drammaturgo) per evidenziare le verità nell’ambito socio-politico, artistico e religioso: La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna. Qui è evidente la necessità dell’Agrigentino di porre pochi cardini fissi.  A conforto della nostra affermazione ci soccorre anche l’intervista a Carlo Cavicchioli del 1936 in cui Pirandello afferma:

Nel Lazzaro do la risposta più netta al dissidio fondamentale del mio teatro: Cristo è carità, amore. Solo dall’amore che comprende, e sa tenere il giusto mezzo fra ordine e anarchia, fra forma e vita, è risolto il conflitto. Sono anche lieto che nessuna autorità religiosa abbia trovato da condannare. […] La “Civiltà Cattolica” ne ha parlato a fondo […] e conviene della sua perfetta ortodossia […] Perfetta ortodossia in quanto posizione di problemi. E tali problemi non comportano che una soluzione cristiana.


La frammentazione dell’io ...

Dal discorso fin qui tracciato emerge come la modernità abbia smarrito il metodo, cioè la giusta strada, per arrivare alla verità: se la Luna rappresenta la verità, è come se l’uomo moderno avesse smarrito il mezzo per arrivare sulla Luna.
Pensiamo che questo sia ben sottolineato nella produzione pirandelliana, ad esempio nel romanzo Suo marito. Nel testo una donna è scacciata dal marito perché accusata di tradimento  quando lei è, invece, innocente. A questo punto la presunta colpevole si fa ospitare in casa dall’uomo sospettato di essere il suo amante. Tra i due nasce davvero una relazione sentimentale. Il marito, riconosciuta, però, l’innocenza della donna, la riaccoglie in casa quando davvero si è macchiata della colpa. Per il lettore appare chiara l’oggettività della realtà. Sono i personaggi dell’opera che, come marionette sul palco,  risultano limitati e incapaci di coglierla. Così, la realtà si presenterà differente a seconda del punto di vista da cui si osserverà la scena.
La realtà sarà come uno specchio, frantumato in centinaia di pezzi: lo spettatore che vi sta di fronte vedrà immagini riflesse differenti, parziali e grottescamente deformate. Noi stessi appaiamo diversi a seconda dell’osservatore che ci sta davanti e del punto di osservazione in cui si trova.
Paradigmatico di questa frammentazione dell’io e della realtà è un altro romanzo pirandelliano, Uno, nessuno e centomila. Il protagonista Vitangelo Moscarda viene messo in crisi nelle sue certezze da una considerazione della moglie sul suo naso. Scosso dal fatto di non aver mai visto un difetto che aveva tutti i giorni sotto gli occhi, si immagina che su tanti aspetti della sua persona, magari meno visibili, ci possano essere grandi divergenze tra la sua percezione e quella altrui. Si rende conto che gli altri lo considerano usuraio ed egoista; così, per provare l’inconsistenza di questa posizione, sfratta una persona che vive in affitto in un appartamento di sua proprietà, in realtà, però, per offrirgliene una più grande. Le voci che circolano, però, al riguardo sono che è uno strozzino, insensibile. Lui che si credeva uno, unitario, non scisso appare agli occhi dei più dotato di centomila volti. L’esito di questo processo di distruzione delle tante forme e delle tante maschere adottate dal personaggio non è la scoperta di sé, bensì l’annichilimento del proprio io. Così, il personaggio conclude la propria storia nell’ultimo capitolo del romanzo:

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, […] ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento […]. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai.  Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.

Per poter vivere, o meglio sopravvivere, l’uomo deve annientare la propria consapevolezza di sé.
Tanta produzione pirandelliana documenta questa cultura che gradualmente, già all’inizio del secolo scorso, è diventata dominante, anche se i più non se ne sono resi conto.
La genialità di un autore riesce ad avvertire la cultura della propria epoca, attraverso segni che i contemporanei non sono in grado di cogliere.  Le opere di Pirandello, genio profetico del Novecento, non potevano essere comprese nei primi decenni in cui circolavano. Solo ora, a distanza di tanti anni, appare chiaro come descrivessero in maniera drammatica la perdita della bussola dell’uomo contemporaneo.


...e la perdita del centro nel Novecento
All’inizio del Novecento, tale relativismo dilaga nelle arti più che nel pensiero comune e popolare in cui si affermerà soltanto molti decenni dopo.
Si impone in campi apparentemente molto lontani tra loro. Nelle arti figurative la rivoluzione avviene nel 1907 quando Pablo Picasso realizza «Les damoiselles d’Avignon», opera nella quale vengono disegnate le differenti sfaccettature che, nella realtà, non sarebbero visibili dal punto di vista dello spettatore. In un certo senso, l’opera richiama in sé tante diverse immagini osservate da punti di vista variabili.
Nell’ambito psicologico non si deve dimenticare la portata straordinaria e, in un certo senso, eversiva dell’introduzione della psicanalisi che sgretola la tradizionale idea giudaico-cristiana dell’anima in nome della scomposizione dell’io in Es, Ego e Superego.
In ambito fisico, poi, la relatività einsteniana  integrerà e, talora, controverterà quella newtoniana presentando l’universo da un punto di vista del tutto nuovo.
É in crisi tutto un sistema di certezze. In qualche modo, anche l’atteggiamento scientista è fortemente messo in discussione da questi cambiamenti che inficiano analisi e considerazioni spesso trattate per assiomi o dogmi di fede, quando erano, in realtà, semplici ipotesi scientifiche.
Chiedendosi che cosa influisca maggiormente nell’affermazione del relativismo gnoseologico, lo storico dell’arte austriaco Hans Sedlmayr (1896-1984) risponde la perdita del centro, ovvero la perdita della centralità dell’io.
Solo in un autentico rapporto di riconoscimento della dipendenza dal Mistero, dal significato del Tutto, da Dio possono persistere la consapevolezza di sé dell’uomo, un  vero umanesimo e una proficua fecondità. Così, il grande filosofo russo contemporaneo N. A. Berdjaev (1874-1948) si è espresso al riguardo:

La persona umana cerca per sé qualcosa di sacro, agogna sottomettersi liberamente per ritrovare se stessa. Si ripete cosí la verità paradossale che l’uomo acquista e afferma se stesso se si sottomette a un principio supremo sovrumano e trova in un sacro sovrumano il contenuto della propria vita; al contrario l’uomo perde se stesso se si sbarazza del contenuto sovrumano supremo e non ritrova in sé che il suo piccolo mondo umano chiuso. L’affermazione dell’individualità umana presuppone l’universalismo; lo dimostrano tutti i risultati della cultura e della storia moderna nella scienza, nella filosofia, nell’arte, nella morale, nello stato, nella vita economica, nella tecnica, lo dimostrano e lo provano con l’esperienza. È provato e dimostrato che l’ateismo umanistico porta all’autonegazione dell’umanesimo, alla degenerazione dell’umanesimo in antiumanesimo, al passaggio della libertà in costrizione. Così finisce la storia moderna e incomincia una storia diversa che io per analogia ho chiamato nuovo medioevo. In essa l’uomo deve di nuovo legarsi per raccogliersi, deve sottomettersi al supremo per non perdersi definitivamente.

Quando l’uomo non ha più la consapevolezza del proprio io, potremmo anche dire della natura del proprio cuore, fatto per l’amore, per il bene, per la bellezza, allora emergono il brutto, la negatività, la perdita di senso delle cose. Morte, oscenità, bruttezza, abnorme uso della sessualità sostituiscono desiderio di vita, sacralità, bellezza e tenerezza amorosa: ecco in parte chiariti alcuni scenari artistici, pseudoartistici e cinematografici della contemporaneità. Su questo ci soffermeremo meglio, però, nel secondo e nel terzo capitolo.


Qualche breve conclusione sulla contemporaneità

La contemporaneità ha perso il senso della morte (completamente esorcizzata o massificata, perciò resa estranea a noi). La morte pubblica, collettiva, infatti, è presentata in forma impersonale e cinematografica, non ci tocca, perché pensiamo che non ci riguardi. La morte privata è, invece, rivendicata come diritto personale di scelta, da difendere contro ogni tentativo di tutela della vita debole e fragile. Sta trionfando la cultura della morte contro la cultura della vita.
La contemporaneità ha smarrito anche il senso della tradizione e dell’identità in nome del pluralismo e del multiculturalismo con la conseguenza che si rischia di far crescere le nuove generazioni senza un «padre», senza «una madre». Pensiamo che cosa significherebbe presentare ad un bimbo tante donne e fosse lui a dover scegliere tra queste la madre: impazzirebbe, probabilmente; certamente, crescerebbe nell’insicurezza e nell’instabilità affettiva.
Conseguenza di questo rifiuto del padre, della tradizione,  è l’odio per l’Occidente, per la nostra cultura, per il cristianesimo. La perdita del padre in senso figurato va di pari passo alla svalutazione della paternità nell’epoca contemporanea. Basti riflettere sulla confusione di ruoli, sull’assenza di distinzione tra figura paterna e materna diffusasi negli ultimi decenni, sulla perdita di riferimento dell’autorevolezza del padre, sempre più presentato come valida alternativa alla mamma nelle risposte biologiche da fornire al neonato: il padre è, spesso, diventato il «mammo». Perciò

c’è nostalgia di un padre più coraggioso, […] più coraggioso negli affetti, e in particolare, in quello verso i figli. Un padre, insomma, che non abbia paura di fare il suo mestiere. Questo padre però […] oggi è assente. Innanzitutto perché di solito non ha avuto, a sua volta, un padre che gli insegnasse ad essere tale. Poi perché, comunque, la società secolarizzata del divorzio facile, e dell’aborto praticabile senza neppure interpellare il padre, non gli lascia grandi spazi per esprimersi […]. Anzi in genere questo padre, già insicuro perché nessuno gli ha insegnato come si fa ad esserlo, viene caldamente pregato, dalla cultura sociale dominante, di tacere sui sentimenti e sulle decisioni che contano per i figli. Parli pure di soldi, organizzi senz’altro un buon livello di vita per la famiglia, ma quanto al resto, per cortesia, taccia.
La figura del padre è, perciò, la grande assente nella cultura contemporanea.
Quest’assenza, tuttavia, è inaccettabile. La figura del padre è, infatti, costitutiva della creazione, della vita, e del suo sviluppo. Senza una significativa presenza paterna l’organismo vitale tende a indebolirsi, e a perdere interesse alla stessa esistenza. Tutto l’umano assume una forma definita, e acquista il suo dinamismo, nel segno del padre, che lo genera. Così come acquista tranquillità e sicurezza affettiva nell’esperienza della madre positiva, che lo accoglie.

Proprio per questo motivo, a detta di Berdjaev, la contemporaneità si caratterizza per il grande spreco di energie spirituali, che induce ad un impoverimento dell’uomo, della sua capacità produttiva e della sua fecondità artistica.

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