Realtà e bene secondo Josef Pieper
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Scritto da Laura BOCCENTI
Il relativismo oggi imperante nega all’uomo la possibilità di conoscere ciò che è reale. Ma così non si può nemmeno distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Invece, conoscere la realtà è condizione necessaria per orientare bene il nostro agire.
La cultura filosofica contemporanea ha diffuso un modello di sapere che rifiuta la verità come possibilità del pensiero, dando origine a molteplici forme di relativismo che, pur nella loro diversità, concordano nel ritenere impossibile la conoscenza della realtà. La prima conseguenza del relativismo è la separazione della ragione pratica (la ragione umana che giudica sul bene e sul male) dalla ragione teoretica (la ragione umana che conosce la realtà): al soggettivismo e relativismo della conoscenza corrisponde il soggettivismo e relativismo dell’agire, dato che la libertà, una volta svincolata dal bene, ritenuto inconoscibile, si assolutizza in chiave individualistica.
Il terreno fertile del relativismo etico facilita il propagarsi di una mentalità in cui razionalità e irrazionalità, abitudini e preferenze, si mescolano giustificando la formazione di singole “morali individuali” più o meno legate al desiderio di bene presente nel cuore di ogni uomo, ma anche più o meno esposte alle inclinazioni al male che insidiano quello stesso cuore; perciò ad essere in gioco, alla fine, non sono dei generici “valori culturali” astratti, ma la vita umana, la vita della società e la stessa natura vivente della terra.
A causa del diffondersi del relativismo, oggi si assiste non solo al fronteggiarsi di diverse e opposte concezioni della realtà, ma all’oscuramento del senso stesso della vita umana, del suo fine, del valore e della dignità della persona, ridotti, come sempre più spesso accade, a realtà manipolabili secondo le appartenenze socio-politiche e le convenienze personali.
È in questa situazione di disorientamento che il realismo di Josef Pieper (1904-1997) mostra la propria attualità; infatti, come lui stesso scrive, «attuale non è soltanto ciò che un’epoca “vuole”, ma anche ciò di cui “ha bisogno”». E certamente oggi rimettere al centro la possibilità di esercitare la ragione cercando la verità del bene sembra l’unica vera opportunità di alimentare la speranza nel senso della vita.
Il saggio La realtà e il bene, scritto nel 1935 e sinora inedito in Italia, pone con chiarezza e rigore la tesi centrale del realismo etico compendiata nell’affermazione che la realtà è il fondamento del dovere: «Il bene è ciò che è conforme alla realtà.
Chi vuole conoscere e fare il bene deve indirizzare il suo sguardo all’essere del mondo che gli sta di fronte. Non alla sua “intenzione”, non alla “coscienza”, non ai “valori” [...]. Costui deve prescindere dal suo atto e guardare alla realtà». Si tratta di guardare la realtà in modo autentico cercando di conoscerla per quello che effettivamente è, e derivare l’orientamento per l’azione da questa conoscenza.
La conoscenza è un processo naturale per l’intelletto che, ricevendo le impressioni sensibili, coglie l’essenza intelleggibile della cosa sino a “corrispondere” alla cosa conosciuta. «La conoscenza come processo è un evento attivo-passivo: l’elemento attivo consiste nella liberazione del nocciolo intelleggibile e immateriale dell’essere delle cose dal velo sensibile della materia [...]. L’elemento passivo invece consiste [...] nella recezione [nella mente umana] della forma essenziale del reale». Il contenuto della conoscenza è perciò de terminato esclusivamente dalle cose; la volontà del soggetto gioca un ruolo decisivo nella intensità e direzione della conoscenza, senza tuttavia avere potere sul suo contenuto.
La ragione che coglie il senso delle cose, poi, è la medesima che si volge all’agire e al fare: «la catena che lega il bene alla realtà risulta quindi costituita da questi elementi: realtà oggettiva, ragione teoretica, ragione pratica, agire morale».
La ragione teoretica, cioè la ragione che conosce, diventa ragion pratica in quanto indirizza l’agire verso la verità conosciuta; ragione teoretica e ragion pratica non sono due facoltà dell’anima divise l’una dall’altra, né sono due modalità operative autonome della stessa facoltà: solo nella misura in cui la ragione conosce si orienta al volere e all’agire. La decisione di fare qualcosa di determinato nasce dalla conoscenza e si traduce in un “comando” interiore che precede l’azione libera.
Pieper sintetizza la struttura dell’azione morale nei seguenti momenti:
1. visione/conoscenza del vero dal punto di vista ontologico, cioè la conoscenza della natura di una cosa (ad esempio, la conoscenza di che cos’è la lealtà e di che cos’è la slealtà); 2. visione/conoscenza del vero dal punto di vista assiologico (ad esempio, la conoscenza della bontà morale della lealtà e della malvagità morale della slealtà); 3. dettame della coscienza originaria (la sinderesi di cui parla Tommaso d’Aquino), che consiste, perlomeno, nel giudizio-imperativo con cui la coscienza dice che «bisogna amare il bene ed evitare il male», cioè la coscienza esprime già un primo giudizio morale; 4. aspirazione a un bene determinato e concreto come fine dell’agire (qui la dipendenza della volontà dall’oggetto non annienta l’indipendenza del volere perchè la condizione del moto della volontà è il valore dell’oggetto, ciò per cui esso è bene); 5. riflessione della saggezza (che perfeziona i primi giudizi svolti dalla sinderesi) sui mezzi opportuni per raggiungere il fine; 6. consenso della volontà ai mezzi adatti a conseguire il fine; 7. decisione della volontà per qualcosa di concreto con l’esclusione di altre possibilità; 8. indicazione o comando diretto all’agire; 9. esecuzione di ciò che è comandato.
L’imperativo della coscienza originaria, che spinge l’uomo a raggiungere il bene, presuppone la conoscenza della realtà; infatti il bene a cui tutti gli esseri tendono è la loro stessa perfezione, che implica la realizzazione della loro essenza. Nell’uomo questa inclinazione immanente diventa la legge morale fondamentale di cui egli può avere consapevolezza in virtù della sua natura razionale. L’azione morale concreta si forma in seguito come frutto della libera decisione della volontà che può accogliere o rifiutare la verità del bene conosciuto e applicarla rettamente o meno alla situazione concreta. La realizzazione del bene presuppone perciò sia i principi generalissimi della coscienza («bisogna amare e attuare il bene e rifiutare il male»), sia la conoscenza della realtà e un giudizio veritiero su di essa. L’azione morale ha quindi la propria norma nella verità oggettiva colta dall’intelletto; è evidente che, se si assume l’idea che la verità delle cose non è conoscibile, l’agire buono non sarà più quello che persegue l’attuazione di un vero-bene naturale, che è dato a prescindere dalla volontà del soggetto, ma sarà frutto dell’attività del soggetto, che si pone come legge di se stesso.
Perciò, gli effetti della riduzione della verità si ripercuotono su tutto il complesso delle virtù umane, il cui scopo non sarà più quello di partecipare alla costruzione del bene contemplato, ma quello di trasformare il mondo inseguendo la propria visione e i propri desideri.
Pertanto, insegna Pieper, per fare il bene non è sufficiente «fare ciò che uno sente buono», perché non è detto che il sentimento sia sempre affidabile. E non è sufficiente nemmeno l’osservanza pura e semplice di una prescrizione esteriore. Il tentativo di fondare l’etica su prescrizioni esteriori è all’origine del moralismo, che insistendo in modo esclusivo su ciò che si deve fare nega la partecipazione, il coinvolgimento e la responsabilità della persona nella costituzione dell’atto buono. Alla luce di un’antropologia autentica, il moralismo rivela la sua natura di errore opposto a quello del soggettivismo relativistico, rispetto al quale costituisce una falsa soluzione.
In campo etico, sia personale che sociale, non ci sono scorciatoie: l’agire buono passa necessariamente attraverso la sinergia della ragione retta e della volontà buona, esige la conoscenza della verità e la responsabilità della libertà.
Per saperne di più…
Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor.
Josef Pieper, La realtà e il bene, Morcelliana, 2011.
Giacomo Samek Lodovici, L’emozione del bene. Alcune idee sulla virtù, Vita e Pensiero, 2010, pp. 229-263.
IL TIMONE n. 112 – Anno XIV – Aprile 2012 – pag. 32 – 33
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