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sabato 2 febbraio 2013

Questa generazione che non vuol crescere mai

Questa generazione che non vuol crescere mai
Un tempo, si diventava adulti prestissimo. Oggi c'è una continua corsa all'immaturità

la repubblica 2 agosto 1999
di PIETRO CITATI

UN TEMPO, si diventava adulti prestissimo. Non voglio ricordare le epoche lontane della storia
umana, quando a ventun anni Alessandro posava il piede sul suolo dell'Asia, a ventiquattro veniva
riconosciuto figlio di Dio, a venticinque sconfiggeva Dario e conquistava l' impero persiano, a
trentadue moriva, carico del peso di cento vite. Penso a un uomo del Settecento, dell'Ottocento, o
anche a un figlio del nostro secolo. A venticinque anni i generali napoleonici attraversavano
vittoriosamente l'Europa, coi loro cavalli furibondi e i grandi pennacchi colorati: a ventuno, senza
essere mai uscito di casa, Leopardi aveva letto tutti i libri e scriveva L' Infinito, conoscendo con la
mente le cose pensabili e impensabili.
Allora non esistevano le scuole pubbliche dei nostri giorni, dove un ragazzo intelligente perde il suo
tempo assieme a migliaia di ragazzi mediocri. Alessandro aveva come precettore Aristotele:
qualche giovane europeo del 1793 aveva come precettore Hölderlin. Immagino cosa dovesse
significare, per un ragazzo desideroso di apprendere, avere ogni giorno accanto a sé il più grande
filosofo o poeta del proprio tempo.
ALLORA l'infanzia, che noi amiamo tanto, non possedeva una vera esistenza. Bisognava
attraversarla con la velocità di una folgore: consumarla, bruciarla, non indugiare nei giochi infantili,
apprendere rapidamente, e diventare adulti. Il bambino contemplava appena ciò che aveva attorno a
sé: guardava oltre, lontano, verso i re che avevano conquistato il mondo, e i poeti antichi e moderni
che avevano composto l'Odissea e le Metamorfosi. Non c'era nessun indugio: nessuna pigrizia;
nessuna tenerezza verso se stessi e le proprie immaginazioni infantili.
A tutti i costi, versando lacrime di sangue, sopportando dolori indicibili, un ragazzo diventava
maturo. A diciotto anni, imparava a conoscere chi era, abbandonando le personalità secondarie, che aveva indossato nella giovinezza: scopriva quell' adamantino nucleo di sé, che l' accompagnava sino alla morte. Conquistare la maturità era una rinuncia: la rinuncia. Di colpo, con un gesto ascetico, il ragazzo si lasciava alle spalle tutti i sogni impossibili, tutte le illusioni che avevano accompagnato la mente umana: tutte le speranze di restare immortali, come lo si è sempre nella giovinezza. Il giovane accettava la realtà: la durezza, complessità e compattezza della realtà, l' impossibilità di
ridurla a un desiderio o a un progetto. 
Se fino allora era stato Achille e aveva spezzato ogni limite,
ora diventava Ulisse: un uomo che impara a sopportare e torna nella sua isola, dove avrà, forse, una
vecchiaia felice. Accettava la morte: il pensiero che tutti i nostri attimi sono intessuti di morte e che
la morte è la misura naturale della nostra vita. Come diceva Shakespeare: "Gli uomini debbono
aspettare pazientemente la loro uscita da questo mondo - come la loro venuta. La maturità è tutto".
Appena diventava maturo, l'uomo innalzava delle altissime mura attorno a se stesso. Cosa
importava ciò che rimaneva al di là delle mura: possibilità dell'io che non si erano realizzate, terre
 lontane, donne amate, nuvole di tenerezza? Dentro e dietro le mura, viveva coscientemente la
propria maturità, lavorando con attenzione scrupolosa e meticolosa il suo piccolo campo.
Conosceva mirabilmente le proprie forze reali: ciò che voleva e poteva fare e ciò che non era suo;
diventava superbamente oggettivo verso se stesso, trattando il suo io come fosse un altro; sapeva
organizzare, costruire, contrapporre, raggiungendo il massimo effetto con il minimo sforzo. Così
l'io diventava una perfetta officina artigianale, che fabbricava ogni giorno una determinata quantità
di materiale.
Quanto splendido materiale è uscito da queste grandi officine virili, in special modo nel secolo
scorso. E che bellissimi esempi di maturità, che si avviavano dignitosamente verso la vecchiaia e la
morte, con appena un' ombra di malinconia verso le cose incompiute o impossibili. Ma conosco
esempi di maturità prematura. Molti esseri umani sono diventati adulti troppo presto: uccidendo in
sé la giovinezza, irrigidendosi e difendendosi, evitando le possibilità aperte all'orizzonte,
accelerando un processo che avrebbe dovuto essere più lento e sinuoso. Nulla è più rischioso, nelle
cose umane, dell'eccesso di volontà e di chiarezza. Nulla è più pericoloso che conoscere sino in
fondo, con l'occhio inflessibile dell'adulto, tutte le forme e gli svolgimenti del proprio futuro, e
conquistarli con la violenza e la coercizione. Allora si diventa prigionieri della maturità: stiamo lì,
soffocati, inariditi, vittime delle mura che abbiamo alzato, delle leggi e delle convenzioni che
abbiamo stabilito una volta per tutte.
Come scriveva giorni fa Alberto Ronchey, conosciamo i giovani e gli adolescenti di oggi. A
differenza dei loro nonni, non vogliono diventare maturi. Quanto tempo indugiano sui campi della
giovinezza: guardano le cose, attraversano il mondo, contemplano se stessi con una curiosità e una tenerezza infinite. Giocano. Rallentano il tempo della crescita. Non desiderano entrare nella cosidetta vita, che forse li impaurisce. La scuola è lentissima; ed essi aumentano questa lentezza tardando a laurearsi, tardando ad uscire dalla casa paterna, rinviando o aggirando il matrimonio, proiettando sempre più lontano il momento del lavoro. Non sanno chi sono. Forse non vogliono saperlo: si chiedono sempre quale sia il loro io, e non lo identificano in un carattere stabilito, ma in un complesso quasi inesauribile di possibilità. Non smettono mai di conoscersi: spostano l' oggetto della loro ricerca, sempre altrove, sempre più lontano, perché in realtà non desiderano avere nessun volto. Studiano gli altri esseri umani, cercando di ritrovare se stessi negli altri, o di prolungare negli altri se stessi.
Forse ciò che prediligono è l'esperienza: per amore dell' esperienza, e non dei suoi risultati. Perciò coltivano tanto l'arte del viaggio: un viaggio che presto viene sostituito da un altro viaggio, e da un altro ancora, e poi da un altro ancora, al fondo del quale non c'è nessuna Itaca. Come amano indugiare! Come amano la protrazione e l'indecisione! Non dire mai sì e mai no: sostare sempre davanti a una soglia che, forse, non si aprirà mai. Se compiono un lavoro, non si impegnano volentieri in uno solo: ne fanno contemporaneamente un altro, o immaginano di farlo. Non rinunciano a niente, perché non vogliono accettare la morte.
Non hanno volontà: non desiderano agire; preferiscono aderire, accogliere, lasciar affiorare in se stessi la voce degli altri, della vità e del destino. Preferiscono restare passivi, comportandosi in modo sinuoso e informe come l'acqua, trasformandosi in tutto ciò che viene loro proposto. Vivono avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo. L'unico loro tempo è una serie di attimi, che non vengono legati in una catena o organizzati in una storia.

In generale, la mia generazione di moribondi settantenni disprezza questi casi di adolescenza troppo
prolungata. Sostiene che bisogna - a tutti i costi - diventare maturi. E, certo, siamo circondati da una
moltitudine di cinquantenni giovanissimi, di quarantenni adolescenti, di trentenni appena nati: i
quali proiettano attorno a se stessi l'alone di un immenso narcisismo, chiedono, chiedono, non
amano la realtà, si lagnano sempre, non sopportano nessuna contrarietà e dolore. Abbiamo
l'esempio di Clinton: questo eroe del nostro tempo. Ha superato i cinquant'anni: è presidente degli
Stati Uniti (forse un ottimo presidente); eppure ha la psicologia di un bambino di tre anni che ruba
la marmellata e non ammette di averla rubata, sebbene abbia il viso, le mani e la camicia macchiate
di ribes.
Quanto a me, questi eterni adolescenti mi piacciono: mi piacciono i loro indugi, le loro lentezze, la
loro passività, e i lunghi sguardi contemplativi. Continuare a serbare nell'occhio la freschezza dello
sguardo giovanile: diventare maturi e poi vecchi quasi per caso: non disegnare mai il proprio io:
concepire la propria vita come un gioco indefinito di possibilità, che può portare a moltissimi volti;
rallentare, rallentare, non costruire e non irrigidirsi mai dietro mura...Ho avuto la fortuna di
conoscere alcuni grandi vecchi poeti: a ottant'anni posseggono un'immensa esperienza, che sembra
filtrata da centinaia di vite; eppure qualsiasi goccia di questa esperienza ha la stessa delicata e tenera
grazia di quella di un bambino che costruisce il suo castello di sabbia sulla riva del mare. Forse
qualcuno dei nostri pigri, indolenti e indecisi figli o nipoti ci preparerà lo stesso dono.

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