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martedì 18 febbraio 2014

DUE POVERTÀ CHE FANNO PIENEZZA

DUE POVERTÀ CHE FANNO PIENEZZA

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Per san Paolo era un «mistero grande», per il poeta Rilke un incontro fra due bisogni infiniti. Parliamo del Matrimonio, la sfida quotidiana di essere marito e moglie in Dio.

Una coppia in cucina

Credo che in amore – o almeno in quelle situazioni che chiamiamo col nome di amore – si soffra quando si dimentica che «c’è un paradosso nell’esperienza dell’amore: due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare» (R.M. Rilke) e che «soltanto nell’orizzonte di un amore più grande è possibile non consumarsi nella pretesa reciproca e non rassegnarsi, ma camminare insieme verso un Destino di cui l’altro è segno» (C.S. Lewis).
Uomo e donna sono due povertà che si incontrano e si donano. Quella che Lewis chiama «pretesa reciproca» è destinata a rimanere delusa a causa del nostro peccato e a causa delle differenze tra l’uomo e la donna. L’altro non potrà mai colmare tutte le attese, anche involontarie, o le pretese che noi riversiamo sulla persona che ci è a fianco. Avere un orizzonte più grande significa invece che le piccole mancanze e delusioni reciproche le possiamo vivere non come crepacci nei quali cercare di non cadere, né tanto meno come rivendicazioni, ma come “giogo soave”, un peso leggero che serve alla propria conversione, che è poi il fine della vita qui sulla terra.
Ogni attesa dunque non è che lo scartavetramento della vita sul nostro ego, su quella parte di noi che è ferita dal peccato originale e che quindi non funziona, non ci permette di entrare in un rapporto vero e personale con Dio. Ogni uomo e ogni donna sono chiamati a essere sposi prima di tutto del Signore, sia che siano consacrati, è allora lui il solo sposo, sia che siano invece sposati, e quindi l’altro diventa la via privilegiata per amare e ricevere amore da Dio, che rimane sempre però il nostro sposo. Quello che guarisce i rapporti è ricordare che, se il fine oggettivo del Matrimonio è quello di generare figli, quello soggettivo è generare se stessi, e lo sposo è la via per realizzare questa unione con Dio. Amando lo sposo, la sposa, si ama Dio.
L’altro dunque, così diverso, che così spesso ci fa arrabbiare, venire i nervi, ci delude, ci ferisce, non è sbagliato, ma è semplicemente il «segnaposto del totalmente Altro», come lo definisce il cardinal Scola, e ci costringe a una domanda sul senso, ci costringe alla conversione. Ci porta a una forma di “amore preterintenzionale”, che parte cioè dalla rinuncia a tutto o a molto di quanto si era atteso o proiettato sull’altro. Si abbraccia quasi la morte dell’amore come lo si era immaginato, e si accetta di perdere. Si ama non più con lo slancio dell’emozione, ma con l’amore di un monaco che scolpisce una minuscola scultura sotto la volta di una cattedrale, qualcosa di piccolo e prezioso che non vedrà quasi nessuno, soltanto coloro che avranno la pazienza di alzare lo sguardo. Preparare un pasto o accogliere le critiche, accettare cambi di programma, silenzi quando si vorrebbe parlare e parole quando si vorrebbe dormire, allegria quando si vorrebbe piangere e riposo quando si vorrebbe proporre. Nella fedeltà al Matrimonio partecipiamo dunque anche noi come parte della Chiesa a un’opera che ci trascende, il regno dei cieli, anche se a noi di tutta la cattedrale è stata affidata solo quella piccola scultura là in alto, che nessuno guarderà.
San Paolo nella lettera agli Efesini parla del Matrimonio tra un uomo e una donna come di un mistero grande, e sottolinea i punti cruciali, i nodi di peccato dell’uomo e della donna. La donna è invitata a essere sottomessa allo sposo, l’uomo a dare la vita per la sposa, in modo che replichino nel Matrimonio la dinamica tra Cristo e la Chiesa, quindi senza dominio o sopraffazione, ma in un dono reciproco.
La donna è invitata a essere sottomessa perché al contrario la sua costante tentazione è quella del controllo, di cercare di plasmare, di formattare coloro che le sono affidati. I figli ma anche lo sposo, spesso, e così la capacità di orientare al bene rischia continuamente di trasformarsi in tentazione di volere che le cose nel mondo vadano come vogliamo noi. Prendiamo un uomo che mediamente ci può andare, e lo vogliamo migliorare, così rischiamo di non permettere all’altro di essere. La donna invece è chiamata proprio a fare da specchio all’uomo, a rimandargli un’immagine positiva di sé, a mettere il lievito dell’amore nel rapporto. Serve una donna che sappia fare spazio, che non abbia paura di perdere posizioni, che parta da un pregiudizio positivo sull’uomo, che prenda l’impegno di fidarsi di lui e del suo sguardo sul mondo, lealmente decisa a riconoscere di non essere l’unica depositaria del bene e del male – Eva! – non perché debole, ma proprio perché solida, resistente, accogliente.
Questo atteggiamento, quando è onesto, limpido, non manipolatorio, è un lievito potentissimo perché l’uomo non resiste a una sposa che gli sta lealmente accanto, e comincia a fidarsi, a valorizzare ciò che vede di bello nell’uomo. E così l’uomo sente il desiderio di dare la vita come Cristo per la Chiesa. Gloria dell’uomo, come dice san Paolo, la donna è come uno specchio che riflette il volto dell’uomo, glielo rivela e così lo corregge. E così l’uomo si sente spinto a uscire fuori e dominare la terra, e a farlo non per sé ma per coloro che gli sono affidati, per i quali diventa pronto a prendere su di sé i colpi della vita.
Il nodo di peccato dell’uomo, infatti, quello per cui san Paolo lo invita a essere pronto a morire per la sposa, è l’egoismo. Il desiderio di tenere qualcosa per sé. Di coinvolgersi ma risparmiando qualcosa, di mettere da parte, di rifugiarsi ogni tanto nel suo spazio privato, senza interferenze. Per l’uomo è faticoso tenere lo sguardo sempre rivolto alla donna, al rapporto, alla casa. L’uomo infatti ha una diversa accentuazione esistenziale: va al di là del proprio essere, ha un carisma di espansione, aspira alla crescita di tutte le sue energie che lo prolungano del mondo, ha un diverso rapporto con il potere.
Sul piano dunque spirituale l’uomo esce e la donna accoglie, l’uomo si tende verso l’esterno e la donna verso l’interno, l’uomo è il muro, il senso della realtà, la donna l’accoglienza, e questo lo si vede sul piano educativo, nel rapporto con i figli, dove la donna ha il genio della relazione, tesse trame, mentre spesso l’uomo è più bravo nel potare i rami secchi.
La coppia dunque diventa così profondamente radicata in un amore più grande. Come diceva Karol Wojtyla, da vescovo, alle coppie di fidanzati: «Non dire “ti amo”, ma “partecipo con te dell’amore di Dio”».
Testo di Costanza Miriano

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