L’occhio di Bauman sull’interregno
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el
sociologo anglo-polacco è da poco uscito «Cose che abbiamo in
comune». Secondo il teorico della modernità liquida, che nei giorni
scorsi ha preso parte al Festivaletteratura di Mantova, ci troviamo
oggi nella situazione descritta da Gramsci,
quando «il vecchio muore e il nuovo non può nascere» Sempre
più lucido, sempre più indignato, Zygmunt Bauman, 87 anni, è
arrivato a Mantova portando da solo la sua valigia, con
l’inseparabile pipa e un fascio di carte che gli servono per il
pamphlet sulla disuguaglianza che uscirà tra qualche mese dal suo
tradizionale editore, Laterza. Il grande sociologo inglese di origine
polacca, che i lettori del manifesto conoscono bene, è diventato
celebre per i suoi libri sul mondo moderno,
«un mondo che chiamo liquido perché come tutti i liquidi non può
restare immobile a lungo. In questo nostro mondo tutto, o quasi, è
in continua trasformazione: le mode che seguiamo, gli oggetti che
richiamano la nostra attenzione, ciò che sognamo o temiamo, che
suscita in noi speranza o preoccupazione». A
questa
fluidità, però, si accompagna un grandissimo aumento della
disuguaglianza e una forte resistenza al cambiamento e questo sembra
essere il suo nuovo interesse di ricerca: l’iniquità del sistema e
la sua capacità di resistere ai tentativi di regolarlo. Ne
abbiamo parlato con lui durante una lunga conversazione a Mantova, in
occasione del Festival Letteratura e dell’uscita del suo nuovo
libro, Cose
che abbiamo in comune
(Laterza 2012, pp. 212, euro 15).
Lei
è il teorico della «modernità liquida» e ha scritto mille volte
che tutti noi «veniamo trascinati via senza posa». Ma non ha
l’impressione che il mondo in cui viviamo stia però diventando
sempre più solido, immodificabile?
Se
per «solidità» lei intende che è diventato più resistente al
cambiamento, ha ragione. Negli ultimi anni ci sono stati molti
movimenti, gli indignados spagnoli, Occupy Wall Street e altri. Molte
spinte, grandi manifestazioni di massa e tuttavia non accade nulla.
Prendiamo Occupy Wall Street: è stato trattato bene dai giornali, la
televisione ne ha parlato, l’unica forza che non ha prestato alcuna
attenzione è stata la Borsa di Wall Street. Non è cambiato
assolutamente nulla.
.
C’è
solidità nel senso di resistenza al cambiamento, il sistema sembra
immune a tutte le pressioni. Tuttavia, se prendiamo una bistecca,
vogliamo tagliarla e non ci riusciamo, dobbiamo chiederci se è la
carne che è davvero troppo dura o se è il coltello che stiamo
usando che non è abbastanza affilato.La mia teoria è che il
sistema non è solido di per sé: ha sviluppato efficaci meccanismi
di autoriproduzione ma ha delle fragilità incorporate. Diventa
più iniquo ogni giorno che passa: oggi negli Stati Uniti, un
amministratore delegato guadagna in media 531 volte più del
lavoratore medio; nel 1960 il rapporto era 1 a 12.
La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando
capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il
capitalismo tradizionale funzionava sulla creazione di beni, mentre
ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il
denaro: l’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai
banchieri.
Questo significa che il sistema ha accentuato la sua tendenza interna
ad autodistruggersi, ma non potrà continuare a lungo.
Se la resistenza umana non sarà in grado di mettervi fine ci penserà
la natura. Ci sono ovviamente limiti precisi alle risorse del pianeta
e una società basata sulla crescita illimitata della produzione e
del consumo incontrerà questi limiti molto presto.
Proprio
qui a Mantova lei ha detto che la politica è locale, delimitata dai
confini degli Stati nazionali, mentre il potere è globale: è questo
che rende il sistema così indifferente alle manifestazioni di
resistenza alle sue logiche?
Certamente,
il potere è globale, il suo spazio è il pianeta, mentre le elezioni
americane sono una competizione attorno agli interessi degli Stati
Uniti: è questo che mette il potere in grado di fluire liberamente
ovunque, senza prestare troppa attenzione a ciò che succede qua e
là.
A
causa di questa fluidità ci troviamo in quello che Antonio Gramsci
chiamava un interregno, una situazione nella quale «il vecchio muore
e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i
fenomeni morbosi più svariati». Il vecchio ordine fondato sulla
stretta associazione di territorio, Stato e nazione sta morendo. La
sovranità non è più associata ad alcuno degli elementi della
triade territorio/Stato/nazione: tutt’al più è legata in modo
blando a alcune loro componenti. Oggi essa è difficile da definire e
controversa, porosa e scarsamente difendibile, disancorata e in balia
delle correnti. Ciò che dà un’impressione di solidità del
sistema è il fatto che il potere si è liberato dal controllo
politico mentre la politica ha un deficit di potere. Il potere è la
capacità di esercitare un comando. E la politica è la capacità di
prendere decisioni vincolanti. Gli stati-nazione avevano il potere di
decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato
completamente travolto dalla globalizzazione perché la
globalizzazione ha trasferito il vero potere al di là dei territori,
scavalcando la politica.
Gli Stati nazionali sono attraversati dal potere globale della
finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia,
del terrorismo. Ogni singolo potere si fa beffe delle regole e del
diritto locali, e anche dei governi ovviamente. I governi europei
dovrebbero fare ciò che gli elettori chiedono, cioè agire contro la
disoccupazione di massa, ma naturalmente non lo possono fare: sono
costretti ad ascoltare quanto le corporation e i banchieri dicono
loro.
Si trovano in quella situazione che uno psichiatra definirebbe di
double bind. I governi sono eletti per quattro anni e possono agire
solo su un territorio limitato, le
corporation sono permanenti e hanno come teatro d’azione il mondo.
Non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi
globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di rispettare
la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi
non sono stati ancora creati.
Fonte:
il manifesto
| Autore:
Fabrizio Tonello
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