Negri: «Eugenio Corti è un uomo che ha combattuto per il Regno»
Eugenio Corti si racconta: Io, il voto a Maria e il Corriere della Sera
Radio Vaticana e l’Osservatore Romano rendono omaggio alla figura di Eugenio Corti, il grande scrittore brianzolo scomparso il 4 febbraio.
La Radio della Santa Sede ha intervistato monsignor Luigi Negri,
arcivescovo di Ferrara-Comacchio. «Corti – ha spiegato Negri – è stato
un laico, un evangelizzatore ed un educatore. Ci conosciamo da più di 40
anni, dai tempi del referendum sul divorzio: quando un piccolo manipolo
di cattolici e uomini di cultura si è dato da fare per sostenere quella
che era certamente una battaglia di civiltà, anche se poi si è conclusa
negativamente. Io lo ho sempre considerato un punto di riferimento
sostanziale nel mio cammino culturale e anche pastorale». L’arcivescovo
si è soffermato anche sul capolavoro di Corti, Il cavallo rosso:
«È la grande epopea del popolo cristiano della Brianza: qui non si
vedono soltanto i protagonisti positivi, ma Corti ha saputo scrivere con
molta pietas anche i fenomeni di smarrimento e di tradimento
soprattutto a livello intellettuale, che hanno favorito la lenta ed
inevitabile crisi di tanta cattolicità italiana. Le pagine sull’ambiente
dell’Università Cattolica, dei suoi anni di studente, sarebbero da
rileggere oggi per ritrovare, al di là degli pseudonimi, i volti e i
nomi di coloro che hanno avuto la gravissima responsabilità di attivare
quel dualismo fra fede e cultura, fede ed impegno umano che è poi stato
l’origine di tante crisi».
SENZA BATTAGLIA NON C’E’ CRISTIANESIMO. È
stato un uomo «che ha combattuto per il Regno», ha spiegato Corti.
«Benedetto XVI diceva che “se non c’è battaglia, non c’è cristianesimo”.
Ma la battaglia è da intendere in positivo e il positivo è il Regno. Lo
scontro avviene dove siamo contestati e non è il nostro obiettivo: è
una condizione del nostro cammino di cristiani nel mondo». Una
condizione che lo stesso romanziere si trovò a subire: «Ha subito
l’emarginazione tipica del cristiano presente attivamente. Quando
cominciò tutto il lavoro – cui io detti la mia approvazione e il mio
aiuto – per il Premio Nobel gli dissi: “Non te lo daranno mai, Eugenio,
perché sei una presenza scomoda!”». Una scomodità rintracciabile in
tutta la sua produzione, non solo nel suo capolavoro. Infatti Negri
ricorda un’altra opera meravigliosa: «Il suo Processo e morte di Stalin:
rimane una lettura di una profondità assoluta del fenomeno ideologico
marx-leninista», così come la sua produzione saggistica: «Quella sul
marxismo e sul leninismo e quell’altra sulla crisi della cattolicità, Il fumo nel tempio.
La fede vera giudica la realtà: non nel senso di condannarla, giudica
nel senso di farla comprendere». Corti, conclude Negri, «lascia come
messaggio l’assoluta eccezionalità, irriducibilità al contesto mondano
dell’avvenimento di Cristo: “Sono venuto, perché abbiano la vita e
l’abbiano piena”. Eugenio Corti lo ha testimoniato tutti i giorni della
sua vita, nel suo lavoro per la difesa e la comunicazione della fede,
come condizione autentica di una vita autenticamente umana».
COME MASACCIO. Anche l’Osservatore romano ha dedicato al grande scrittore un articolo di Claudio Toscani, intitolato “Incisivo come Masaccio”. Eccolo di seguito.
Quando, nel 2000, a Eugenio Corti fu dedicata l’edizione tenutasi
quell’anno del Premio internazionale di cultura cattolica, per lui, al
suo nome — che nella sequela di quel riconoscimento veniva dopo Adriano
Bausola, Augusto Del Noce, l’editore Bompiani, il cardinale Ratzinger,
per non dire d’altri — venne evocato un altro grande alloro: il Nobel. A
Corti (morto il 4 febbraio all’alba dei 93 anni), alla sua figura
morale, alla sua carriera di scrittore e di saggista, a quelli che nel
lontano frangente erano i suoi imminenti ma non proprio incombenti
ottant’anni, il mondo dell’intelligenza cattolica, ma non solo, si
inchinava, riconoscendone il magistero assieme all’esito di avere quanto
a sé restituito alla letteratura italiana del secondo Novecento la sua
funzione e il suo ruolo di scandaglio del cuore umano per giungere,
attraverso l’analisi e la rappresentazione di caratteri, idee e
sentimenti, alla comprensione e alla valutazione delle vicende storiche.
Celebrato per la sua lotta al neopaganesimo moderno, e in particolare
all’ateismo armato delle ideologie di morte del secolo breve, con il
filo conduttore del Vangelo e per traguardo il regno di Dio, Corti non
era né un utopista né un conservatore, ma un saldo e nobile
intellettuale, narratore, saggista, drammaturgo.
Predomina, nella sua biografia creativa, il romanzo-poema Il cavallo rosso (del
1983), tenuto a battesimo dalla Ares, l’audace editoria cattolica che
lo proponeva al mondo dei lettori contemporanei e futuri (una ventina di
edizioni con traduzioni in otto lingue) come cospicua sintesi
storico-etica, civile e morale, culturale, umana e psicologica di quasi
quarant’anni di vicende nazionali e continentali. Uno dei pochi casi
letterari dei nostri tempi capaci di rovesciare la cronaca in evento da
memoria.
Impegnando se stesso e i suoi giorni, giocando la propria creatività al
tavolo del testo oltre che della vita e al rischio della storia, Corti
ha guardato soprattutto ai momenti di guerra, coinvolgendo il suo
personale impegno nella trincea dei tanti, in quella plurima calligrafia
di sangue, di miseria e di stenti che ogni conflitto porta con sé. Ma
prima del Cavallo rosso, lo scrittore brianzolo aveva iniziato a costruire la sua bibliografia con I più non ritornano (1947),
diario di guerra sul fronte russo, libro dalla cruda intensità
drammatica e dalla spoglia severità della prosa: racconto bellico in
cui, tuttavia, fioriscono bontà e nobiltà umane, e fede nell’eterna
provvidenza.
Accanto a questi due poderosi titoli, non mancano prove altrettanto in grado di tenerne il livello. L’esperimento comunista,
ad esempio (libro composito e nato da scritti diversamente datati), che
espone con chiarezza e senza luoghi comuni, le ragioni per le quali nei
regimi dell’est (Russia, Cina e Indocina) non è stata realizzata la
società marxista, anzi, nessuna società, a partire dalla pratica del
cosiddetto socialismo reale, allo sterminio dei contadini kulaki. Così
come il Processo e morte di Stalin, testo che circolò clandestinamente in Russia mentre da noi veniva denigrato dalla stampa rossa.
Il 1994, poi, è l’anno di Gli ultimi soldati del re,
storia di uomini che pur inquadrati nell’esercito regolare combatterono
con gli Alleati contro i tedeschi, vicenda di guerra nient’affatto
conosciuta come meritava, tanto importante in quanto si trattava di
rischiare, oltre la patria la coscienza, oltre la vita la dignità.
Pochi ricordano che Eugenio Corti ebbe a suo tempo il consenso critico
di Benedetto Croce, ma molti si rammaricano che non riscosse la
rispondenza dell’editoria di parte, pur avendo per sé un numero ingente
di lettori. Come accadde con la sua nuova interpretazione
dell’ammutinamento del Bounty in L’isola del Paradiso (2000), non un libro d’avventure o di esotico folklore, ma una sorta di contre-Rousseau contro
l’idea dell’uomo come essere fondamentalmente buono (vero è che nasce
all’ombra del peccato originale). Come infine accadde nel 2005 con Catone l’antico,
dove dei grandi del passato Corti traduce eventi e sentimenti in una
letteraria rianimazione quasi visiva, per immagini, come lui stesso
diceva.
Con la padronanza strutturale e tematica che si direbbe di un Tolstoj e,
per converso, la rupestre incisività di segno che ci ricorda un
Masaccio, Eugenio Corti sarà sempre presente per il complesso della sua
intensa dedizione alla scrittura, per il suo specchiato umanesimo, per
la sua fede religiosa («che non è un merito — disse — ma un dono»).
Testimone di una “cattedrale” di libri, la sua personalità si afferma
nel panorama assai evasivo della produzione corrente, dei tanti sterili
esperimenti dell’editoria d’oggi.
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