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martedì 4 febbraio 2014

Max Planck: “in alto, verso Dio”

Max Planck: “in alto, verso Dio”

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Tra i nomi dei grandi fisici della storia, campeggia quello di Max Planck, il padre della fisica quantistica che nel 1900 “avanzò l’ipotesi che l’energia venisse irradiata in quantità discrete che chiamò quanti e formulò la legge che collega proporzionalmente l’energia di un singolo quanto alla frequenza della radiazione, secondo una costante universale nota come costante di Planck” (Bersanelli-Gargantini, Solo lo stupore conosce). Non è dei quanti che vorrei né saprei parlare, quanto della persona e della filosofia di Planck. Mi servirò soprattutto della sua “Autobiografia scientifica”, una raccolta di brevi saggi che comincia così: “La decisione di dedicarmi alla scienza fu conseguenza diretta di una scoperta che non ha mai cessato di riempirmi di entusiasmo fin dalla giovinezza: le leggi del pensiero umano coincidono con le leggi che regolano la successione delle impressioni che riceviamo dal mondo intorno a noi, sì che la logica pura può permetterci di entrare nel meccanismo di quest’ultimo. A questo proposito è di fondamentale importanza che il mondo esterno sia qualcosa di indipendente dall’uomo…”.
Siamo, mi sembra, di fronte ad un atto di fede di tipo tomista, realista, nella realtà. Planck, che fu anche accademico pontificio, procede sostenendo che le conoscenze scientifiche mostrano che “l’assoluto” è “molto più radicato nell’ordine delle leggi naturali di quanto si fosse creduto per molto tempo”, “poiché tutto ciò che è relativo presuppone qualcosa di assoluto, e ha un significato solo quando è confrontato con l’assoluto”. Se non ho frainteso, in questa introduzione Planck esprime una concezione filosofica che potremmo riassumere così: la scienza, lungi dall’essere una conferma del relativismo gnoseologico ed etico, è, come scrive Paolo Musso, uno dei pochissimi luoghi in cui viene ancora preservato un pensiero che afferma una pretesa di verità, una esigenza di rigore e una apertura alla realtà a cui la nostra cultura ha ormai quasi completamente abdicato. “Pretesa di verità” che, nei grandi ingegni, non è mai né riduzionismo né illusione di comprensione totale. Ce lo spiega sempre Planck nel momento in cui da una parte condanna lo scetticismo, e dall’altra stigmatizza chi non è più capace “di meravigliarsi più di nulla”; chi, abituato alle leggi che “regolano la sua immagine del mondo”, ignora che “il problema del perché queste e non altre leggi valgano, resta stupefacente e inesplicabile come per il bambino”.
Ancora più chiaramente: “come vi è un oggetto materiale dietro ad ogni sensazione, così vi è una realtà metafisica dietro tutto ciò che l’esperienza umana dimostra essere reale”. Per Planck ci sono due vie per arrivare al “reale metafisico”, cioè a Dio: la “vita pratica”, cioè la vita morale, i “valori assoluti dell’etica”, che dimostrano in noi l’esigenza di Bene, e la via della conoscenza, che è tensione verso il vero assoluto, attraverso il reale relativo. Puntualizza il grande fisico: “per quanto vicina sembri la meta sospirata, rimane sempre un abisso, incolmabile dal punto di vista della scienza esatta, fra il mondo reale della fenomenologia e il mondo reale della metafisica. Questo abisso è la sorgente di una tensione costante, che…è la fonte inesauribile dell’insaziabile sete di conoscenza del vero scienziato. Ma al tempo stesso noi possiamo dare un rapido sguardo ai confini che la scienza esatta è incapace di valicare. Per quanto i suoi risultati possano essere profondi e ricchi di conseguenze, essa non può riuscire a fare l’ultimo passo che la porterebbe nel regno della metafisica. Così, in ultima analisi, “la scienza esatta non può fare a meno della realtà nel senso metafisico della parola”, “ma il mondo reale della metafisica non è il punto di partenza, ma lo scopo di tutte le ricerche scientifiche, un faro che brilla e indica la via da una distanza inaccessibile”.
Detto tutto ciò, è chiaro che Planck ragiona come un teologo cattolico medioevale: fonda la realtà dell’essere sull’esistenza dell’Essere, la verità del reale, sull’esistenza della Verità. Proponendosi di esplorare l’esplorabile e di “venerare silenziosamente l’inesplorabile”. Si capisce allora perché analizzando alcuni “pseudoproblemi”, affermi che “la scienza e la religione mirano, dopotutto, allo stesso scopo, il riconoscimento di un intelletto onnipotente che regola l’universo” (benchè lo facciano con metodi diversi).
Per Planck, insomma, se Dio è all’inizio, per la religione, Egli è “alla fine del pensiero”, per la scienza. Ed entrambe sono chiamate a combattere insieme “scetticismo” e “miscredenza”, da una parte, e “superstizione” dall’altra (netta la condanna di Planck verso monismo, teosofia e le “nuove religioni” vagamente new age di inizio Novecento). “In alto, verso Dio”: questa celebre espressione, contenuta in una conferenza del 1937, riassume dunque lo sforzo conoscitivo e morale di un grande uomo di scienza, che -secondo la ricostruzione di J. Heilbron- patì per anni l’opposizione del regime e di due premi Nobel tedeschi, Lenard e Stark, che non comprendevano “perché un così buon tedesco, un ariano così puro” si rifiutasse “di usare la sua enorme influenza a favore della nuova Germania” nazista. Il Foglio, 13 febbraio 2013

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