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domenica 20 gennaio 2013

Lettera a Jacopssen del 23 giugno 1823

Lettera a Jacopssen del 23 giugno 1823


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Centinaia di lettere indirizzate agli amici, ai familiari, alle donne da lui amate, agli intellettuali costituiscono il romanzo autobiografico di Leopardi e rivelano un cuore che palpita, che prova grandi affetti, che desidera in maniera instancabile la felicità. La lettura delle epistole scagionerebbe l’autore una volta per tutte dalle malevole accuse di misantropia da cui dovette difendersi in vita e che gli furono mosse anche dopo morte. Il cuore del corpus epistolare è il desiderio di vivo affetto, l’entusiasmo per le persone che si accompagna alla ricerca di rapporti che siano di totale condivisione dell’anima, la perenne ricerca di una felicità che non sia banale, ma completa.
Particolarmente significativa è una lettera che Leopardi indirizza all’amico belga A. Jacopssen il 23 giugno 1823, pochi mesi prima della composizione della poesia «Alla sua donna». La riportiamo, qui, per intero, perché testimonia bene il cuore di Leopardi e il nucleo delle domande vive che lo animano:
Mio caro amico. Comincerò col ringraziarvi delle tante espressioni di benevolenza di cui mi onorate nella vostra incantevole lettera, e soprattutto dei segni di confidenza che voi mi date parlandomi del vostro tenore di vita, dei vostri pensieri, dei vostri sentimenti e dello stato della vostra anima.
Tutto ciò mi interessa infinitamente, e  io non saprei esprimere il piacere che voi mi avete procurato intrattenendomi su questi particolari. È veramente dolce vedere i segreti di un cuore come il vostro. Ma io crederei di non tenere nel debito conto l’affetto che mi testimoniate, se mi lasciassi andare a qualche frase che apparisse cerimoniosa. Non vi ringrazio, dunque; mi accontento di assicurarvi che il mio cuore è tutto vostro per sempre.
Senza dubbio, mio caro amico, bisognerebbe o non vivere proprio o sempre sentire, sempre amare, sempre sperare. La sensibilità sarebbe il più prezioso di tutti i doni, se lo si potesse far valere, o se ci fosse a questo mondo qualche oggetto a cui applicarlo. Vi ho detto che l’arte di non soffrire è di questi tempi la sola che mi sforzo di imparare. Questo accade precisamente perché ho rinunciato alla speranza di vivere. Se dalle prime esperienze non fossi stato convinto che quest’arte era assolutamente vana e frivola per me, io non vorrei, non conoscerei altra via che quella dell’entusiasmo. Per un certo periodo ho sentito il vuoto dell’esistenza come se si trattasse di una cosa concreta che pesasse gravemente sulla mia anima. Il nulla era la sola cosa che esistesse. Mi era sempre davanti come un fantasma terribile; io non vedevo altro che un deserto intorno a me, non concepivo come ci si potesse assoggettare alle cure che la vita quotidianamente esige, pur essendo del tutto certi che non sarebbero approdate mai a niente. Questo pensiero mi occupava tanto che io credevo per causa sua quasi di perdere la ragione.
In verità, mio caro amico, la gente non conosce affatto il proprio reale interesse. Io converrò, se si vuole, che la virtù, come tutto ciò che è bello e tutto ciò che è grande, non sia che un’illusione. Ma se questa illusione fosse comune, se tutti gli uomini credessero di potere e volessero essere virtuosi,  se fossero compassionevoli, caritatevoli, generosi, magnanimi, pieni d’entusiasmo; in una parola, se tutti fossero sensibili (giacché io non faccio alcuna differenza tra la sensibilità e quello che si chiama virtù), non si sarebbe forse più felici?  Ogni individuo non troverebbe mille risorse nella società? Questa, poi, non dovrebbe impegnarsi a realizzare le illusioni degli uomini per quanto le fosse possibile, dal momento che la felicità dell’uomo non può consistere in ciò che è reale?
Nell’amore, tutte le gioie che provano le animi volgari, non valgono il piacere che dà un solo istante di rapimento e d’emozione profonda. Ma come far sì che questo sentimento sia duraturo, o che si rinnovi spesso nella vita?  dove trovare un cuore che gli corrisponda? In più d’una occasione  io ho espressamente evitato per qualche  giorno di  incontrare l’oggetto che mi aveva  affascinato in un sogno delizioso. Io sapevo che quel fascino sarebbe svanito accostandosi alla realtà. Tuttavia io pensavo sempre a   quell’oggetto, ma non lo consideravo per quel che era; lo contemplavo nella mia immaginazione, tale quale mi era apparso nel sogno. Era una follia? Son io romantico? Voi giudicherete.
È vero che l’abitudine di riflettere, che è sempre propria degli spiriti sensibili, li priva spesso della facoltà d’agire e persino di gioire. La sovrabbondanza della vita interiore spinge sempre l’individuo verso l’esterno, ma al tempo stesso essa fa in modo che egli non sappia come condursi. Egli abbraccia tutto, egli vorrebbe sempre essere pervaso; viceversa tutti gli oggetti gli sfuggono, proprio perché essi sono più piccoli della sua capacità. Egli esige anche dalle sue azioni più insignificanti, dalle sue parole, dai suoi gesti, dai suoi movimenti, più grazia e più perfezione di quanto non sia possibile all’uomo raggiungere. Così, non potendo mai essere contento di sé, né cessare di esaminarsi, e diffidando sempre delle proprie forze, egli non sa fare ciò che tutti gli altri fanno.
Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non esiste, che cos’è dunque la vita? Io non ne so nulla; vi amo, vi amerò sempre così teneramente, così fortemente come ho altre volte amato quei dolci oggetti che la mia immaginazione si compiaceva di creare, quei sogni nei quali voi fate consistere una parte della felicità. In effetti non spetta che all’immaginazione di procurare all’uomo la sola specie di felicità positiva di cui egli sia capace. È vera saggezza cercare questa felicità nell’ideale, come voi fate. Quanto a me, io rimpiango il tempo in cui mi era concesso ricercarla, e vedo »»con una sorta di sgomento che la mia immaginazione sta diventando sterile, e mi rifiuta tutto quel soccorso che mi offriva in passato.
Questa lettera è già troppo lunga. Il piacere di discorrere con voi su degli argomenti che voi affrontate con tanta ragionevolezza e profondità, mi ha fatto dimenticare quella parte della vostra lettera in cui mi chiedete quali siano i nostri migliori filosofi. Io procurerò di rispondere a questa domanda in un’altra occasione. Per ciò che riguarda i teologi, io non so quasi se noi ne abbiamo, assai meno se ne abbiamo che siano eccellenti. Io ignoro persino se ci possa essere eccellenza in questa materia. Il vostro amico, il signore barone de Hert (credo di non saper scrivere il suo nome) è tornato in patria? come sta? Fategli i miei complimenti, e datemi sue notizie, vi prego. Il buon abate Cancellieri si diverte sempre a far dei libri e a pubblicarli. Mio zio Antici lascerà Roma per venire a passare l’estate a Recanati. La mia salute è buona. Io vivo qui come in un eremo; i miei libri e le mie passeggiate solitarie occupano tutto il mio tempo. La mia vita è più uniforme del movimento degli astri, più sciocca e insipida delle parole della nostra opera lirica. Addio, mio caro amico; amatemi, se è possibile, quanto voi meritate d’essere amato. Parlatemi delle vostre occupazioni, dei vostri progetti, delle vostre osservazioni filosofiche: più vi dilungherete su questi soggetti, più mi farete piacere. Io sono, con il più vivo attaccamento e la più intera devozione, il Vostro tenero e sincero amico.
Colpisce il tono affettuoso che anima il testo, caratteristico delle lettere in cui Leopardi si rivolge ad amici con cui condivide profondamente pensieri, esperienze di vita, aspettative e domande  sull’esistenza. Jacopssen è ripetutamente apostrofato proprio con il termine «amico», colui che ha «confidenza» con l’altro e  conosce «i segreti di un cuore», che è oggetto di «devozione» e del «più vivo attaccamento». Appare interessante il fatto che l’amicizia è così richiamata proprio in una lettera in cui Leopardi mette a tema la domanda di felicità che alberga nel cuore dell’uomo.
All’età di venticinque anni Leopardi è già ben cosciente che il cuore dell’uomo è desiderio e capacità di Infinito, proprio come se fosse un contenitore che non può mai essere colmato da beni terreni finiti. Nello Zibaldone lo scrittore aveva usato l’immagine del cavallo:
se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come un piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto e senti un vuoto nell’anima, perché quel desiderio che tu avevi effettivamente non resta pago.
Nei Pensieri, scritti più tardi, Leopardi descriverà questo desiderio di felicità infinita con il termine “noia”. Essa è 

in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani,… il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile della spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo umano e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana (Pensieri, LXVIII).
Ebbene, nella lettera del giugno del 1823, il poeta descrive la grandezza dell’attesa dell’animo umano e, nel contempo, l’esperienza del deserto, dell’inutilità e dell’inanità del tutto, del vuoto dell’esistenza, della vanitas vanitatum di cui parla il libro di Qoelet. Le cose appaiono sempre insufficienti e inadeguate alla capacità dell’animo. La consapevolezza del proprio desiderio, della precarietà del proprio essere e della finitudine dei beni non si traduce, però, in cinismo o in scetticismo, ma in domanda, come accade in tutti gli spiriti grandi, sensibili e autentici. Così Leopardi chiede all’amico Jacopssen: “Che cos’è, dunque, la felicità? E se la felicità non esiste che cos’è dunque la vita?”.
Non è finta modestia o falsa umiltà, presente spesso in molti intellettuali o in tanti uomini di cultura, ma desiderio autentico di attingere una possibile risposta dall’esperienza di un amico. Questo è il punto centrale della lettera, qui è sintetizzata la ricerca che ha animato tutta la vita e la produzione letteraria e filosofica di Leopardi. La domanda più vera e connaturata al cuore dell’uomo riguarda la felicità, ma l’uomo può sostituirla con l’ambizione e la pretesa di essere buono o di essere sempre migliore in un titanismo che non dà sollievo all’umana arsura  oppure la rimpiazza con altre domande che riducono la statura della domanda di felicità o con risposte preconfezionate, in un atteggiamento da “bruto” dantesco o da “gregge” leopardiano. Nessuno sforzo umano può riuscire a colmare quel desiderio di infinito che sentiamo nel cuore né tanto meno può giungere a cogliere da solo la natura di quell’infinito a cui l’uomo anela.
Per questo l’atteggiamento del cuore che emerge in questa lettera potrebbe preludere alla conversione. Leopardi, infatti, si rende conto che è vera saggezza cercare la felicità nell’Ideale e ha nostalgia dell’epoca in cui ancora perseguiva ciò. Il Recanatese riconosce che l’amico affronta la questione con “ragionevolezza e profondità”.
Che cos’è questo Ideale a cui fa riferimento il poeta? Una risposta plausibile potrebbe già comparire nella lettera. Leopardi, infatti, dice chiaramente che la vita non può essere veramente tale senza l’esperienza di un grande amore. Quando uno ha sperimentato un grande amore, tutto il resto appare piccino. Dirà al riguardo Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito». Per questo, a detta di Leopardi, nella vita non bisogna perdersi in amori volgari, ma occorre ricercare l’amore vero, l’emozione profonda, quella che tocca il cuore. Perché la vita possa definirsi davvero tale deve essere caratterizzata dal “sempre amare, sempre sperare”. L’uomo deve, perciò, trovare o imbattersi in qualcosa o qualcuno su cui riversare il proprio amore, che diventi così oggetto della propria sensibilità. In questo caso l’uomo vivrebbe con entusiasmo. Se l’uomo si abbandonasse all’entusiasmo, alla virtù, alla generosità, sarebbe più felice. Quale dignità umana, quale attesa, quale domanda di compimento e di felicità animano questa lettera a Jacopssen!
Pochi mesi più tardi, nel canto “Alla sua donna” scritto nel settembre del 1823, il grande amore verrà identificato  con la Bellezza con la «B» maiuscola. Se qualcuno la amasse, la sua vita sarebbe più felice, sarebbe come quella che nel cielo “india”, cioè porterebbe a Dio. L’uomo che l’amasse cercherebbe la virtù e la bontà. Nell’ultima stanza Leopardi apostrofa la Bellezza invocandola ad accogliere quest’inno, sia nel caso in cui viva nell’Iperuranio come una delle Idee platoniche, sia nel caso in cui viva  nei cieli superiori, lontano da noi. È il desiderio che l’Ideale, il Bello, l’Infinito sia qui tra noi, possa essere esperienza “di qua dove son gli anni infausti e brevi”. È la preghiera che il Bello si faccia carne, possa assumere forma umana. È un grido umanissimo che si tramuta in preghiera  e in invocazione.
La tradizione critica vuole che Leopardi in maniera scettica e titanica abbia combattuto contro la natura, mai arrendendosi, ma si sia arreso al desiderio di felicità. La lettera a Jacopssen è la prova più incontestabile che la domanda di felicità non sia venuta meno in Leopardi anche nei momenti di maggiore sconforto.


Giovanni Fighera

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