Foscolo e la nostalgia della fede perduta |
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Letterato
italiano di maggior spicco del periodo napoleonico, Ugo Foscolo nasce a
Zacinto, oggi Zante, nel 1778, figlio del medico veneziano Andrea Poli
e della madre greca Diamantina Spathis. Nel 1785 con l'intera famiglia
si trasferisce a Spalato ove studia nella scuola del seminario. Perso
il padre a soli dieci anni, nel 1792 si ricongiunge con la madre che si
è, nel frattempo, trasferita a Venezia (1788). Nel sonetto In morte del padre Foscolo ricorda la notte in cui vede il genitore morente «obbliato ogni terreno obbietto/ erger la fronte ed affisarsi in Dio».
Da quel momento in poi il suo costante punto di riferimento sarà la madre Diamantina Spatis, fulgido esempio di costante fede. A lei chiederà spesso la benedizione in forma epistolare, sentendo la nostalgia di quella fede che aveva in gioventù. Formatosi una solida cultura classica e illuministica, Foscolo non si allontanerà mai dalla lettura della Sacra Scrittura. Quel Foscolo che ha già scritto l'Ortis (prima edizione autorizzata nel 1802), la raccolta Le poesie (1803), I sepolcri (1807) e di cui sovente i libri di testo scolastici presentano solo il materialismo e l'ateismo come fossero note costanti e uniche della sua esistenza, l'11 aprile 1811 scrive all'amico Conte Giovio: «Voglio pienamente spendere la settimana santa a rileggere Isaia: ei mi darà vigore all'immaginazione, e consolazione all'anima, e speranza per la nostra disgraziata Gerusalemme». Nella stessa lettera Foscolo riconosce all'amico di non credere al sacramento della confessione e che per questo adempirà «in parte agli uffici della […] religione meditando i libri più belli, più sapienti e più sacri che […] conosca». Dalla Bibbia Foscolo si aspetta di recuperare la fede perduta come lo scrittore confessa in una lettera del settembre 1813: «Questo gran libro della Bibbia non mi somministra, purtroppo, molta persuasione intorno alle cose soprannaturali». E ancora in un'altra lettera Foscolo scrive: «Diceva l'Alfieri furori di Bibbia; io invece dico malinconia di Bibbia» (6 dicembre 1815).
Da quel momento in poi il suo costante punto di riferimento sarà la madre Diamantina Spatis, fulgido esempio di costante fede. A lei chiederà spesso la benedizione in forma epistolare, sentendo la nostalgia di quella fede che aveva in gioventù. Formatosi una solida cultura classica e illuministica, Foscolo non si allontanerà mai dalla lettura della Sacra Scrittura. Quel Foscolo che ha già scritto l'Ortis (prima edizione autorizzata nel 1802), la raccolta Le poesie (1803), I sepolcri (1807) e di cui sovente i libri di testo scolastici presentano solo il materialismo e l'ateismo come fossero note costanti e uniche della sua esistenza, l'11 aprile 1811 scrive all'amico Conte Giovio: «Voglio pienamente spendere la settimana santa a rileggere Isaia: ei mi darà vigore all'immaginazione, e consolazione all'anima, e speranza per la nostra disgraziata Gerusalemme». Nella stessa lettera Foscolo riconosce all'amico di non credere al sacramento della confessione e che per questo adempirà «in parte agli uffici della […] religione meditando i libri più belli, più sapienti e più sacri che […] conosca». Dalla Bibbia Foscolo si aspetta di recuperare la fede perduta come lo scrittore confessa in una lettera del settembre 1813: «Questo gran libro della Bibbia non mi somministra, purtroppo, molta persuasione intorno alle cose soprannaturali». E ancora in un'altra lettera Foscolo scrive: «Diceva l'Alfieri furori di Bibbia; io invece dico malinconia di Bibbia» (6 dicembre 1815).
Dunque, il Foscolo che emerge dalla produzione epistolare è un uomo che è animato da un profondo senso religioso, ma non riesce a credere, anche se vorrebbe credere. Un chiaro segno della nostalgia della fede perduta di Foscolo è presente anche nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, il primo romanzo della letteratura italiana, che ha risvolti in gran parte autobiografici, opera alla quale lo scrittore si dedicherà per tanti anni, modificandola più volte fino all'edizione zurighese del 1816.
Ortis è animato da profonde domande sulla vita e sul destino, come quando si chiede, rifacendosi ai Pensieri di Pascal: «Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo; né cosa io stesso mi sia. E s'io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d'una ignoranza sempre più spaventosa. […] Invano io tento di misurare con la mente questi immensi spazj dell'universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo spazio di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell'eternità che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo». Ortis percepisce che la ragione umana si spalanca all'immensità del creato tutta protesa a coglierne l'oltranza e il senso, attratta dal mistero infinito per cui l'uomo sembra essere fatto. Così emerge nella lettera del 13 maggio 1798, quando Ortis scrive, dopo essere stato in «estatica contemplazione»: «Scintillavano tutte le stelle, e mentr'io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva non so che di celeste, ed il mio cuore s'innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai delle terra».
Ma l'aspirazione umana all'infinito non regge di
fronte al senso della precarietà del vivere e alla percezione della
sproporzione tra la nostra miseria e l'infinito a cui aneliamo: «Da
qualunque parte io corressi anelando alla felicità, dopo un aspro
viaggio pieno di errori e di tormenti, mi vedeva spalancata la
sepoltura». Ortis è da un lato attratto dalla forte fede della madre a
cui chiede benedizioni e preghiere fino alla fine, dall'altro percepisce
che non ha mai amato Dio tanto quanto ama Teresa che è per lui
divenuta un vero e proprio idolo. Un'urgenza di Dio, un anelito di
pienezza e di senso emergono nelle sue parole quando scrive,
rivolgendosi al Creatore: «Io non t'adoro, appunto perché ti pavento – e
sento pure che ho bisogno di te. […] Odimi dunque. Questo cuore ti
sente, ma non t'offendere del gemito a cui la Natura costringe le
viscere dilaniate dell'uomo. E mormoro contro di te, e piango, e
t'invoco, sperando di liberare l'anima mia – di liberarla? Ma e come,
se non è piena di te?».
Teresa o Dio? Questa opzione è sintomo della spaccatura che vive Ortis.
Il cielo o la terra? L'amore per Dio o per la sua creatura? Dio non
c'entra più con la vita. Scegliere lui significa allontanarsi dalla
vita. Nel contempo, Ortis, che non vive la carnalità del cristianesimo
in seno alla chiesa, ritorna al Dio disincarnato, distante e vendicativo
dell'Antico Testamento tanto da apostrofarlo con le parole dell'Esodo:
«Dio forte, prepotente, geloso, che rivedi le iniquità de' padri ne'
figli, e che visiti nel tuo furore la terza e la quarta generazione». Il
passo dalla percezione di un Dio lontano alla sua negazione è breve.A Ventimiglia, quando medita di fuggire in Francia, nella lettera del 19 e 20 febbraio del 1789, Ortis sembra approdare a un materialismo integrale che non ammette opposizioni. È solo un'impressione. Le ultime lettere sono intrise, infatti, di religiosità, di desiderio di Dio, di struggimento per la fede perduta. Sul comodino della sua camera da letto sta la Bibbia, nel taschino della giacca si trovano le lettere della madre a cui lui chiede la benedizione. Ortis si trafigge nel costato con un pugnale. Le ultime parole scritte all'amico Alderani richiamano quelle pronunciate da Gesù in croce nel Vangelo di Luca. I giorni che precedono il suicidio sono percorsi da evidenti richiami alla passione di Cristo. L'analisi sarebbe qui lunga. A titolo di esempio si ricordi che Ortis si ferma a casa di un contadino e chiede da bere, che muore con un pugnale conficcato nel costato, che affida la madre all'amico Lorenzo Alderani come se fosse un figlio e affida l'amico alla madre (come Gesù in croce di fronte alla Madonna e a Giovanni). Vi è, poi, una lunga serie di citazioni evangeliche, come ad esempio: «Se il Padre degli uomini mi chiamasse a rendimento di conti, io gli mostrerò le mie mani pure di sangue, e puro di delitti il mio cuore. Io dirò: Non ho rapito il pane agli orfani ed alle vedove; non ho perseguitato l'infelice; non ho tradito; […] Ho spartito il mio pane con l'indigente». La morte avviene il 25 marzo 1799, data fortemente simbolica per la tradizione cristiana: infatti, quando il venerdì santo cade in quella data, la morte di Cristo coincide con l'incarnazione.
Ribelle e raffinato, sensibile ed elitario, Ortis è animato dallo Streben, una sete di assoluto che gli fa percepire che l'uomo è fatto per il Cielo. È figlio, però, della sua epoca. Lui, che percepisce tutti i limiti di quell'Illuminismo che ha esaltato una ragione come misura di tutta la realtà, è imbevuto di quella cultura materialistica secondo la quale nulla di ciò che è materia si distrugge, ma si trasforma. Lui che ha nostalgia della fede di quando era piccolo, che guarda la Via Lattea indagando il Mistero, è solo e non riesce a sostenere la vertigine del senso religioso umano. Ha rescisso i ponti dalla comunità, dalla chiesa, vittima in ultima analisi non tanto della società, ma di quella cultura illuministica che ha voluto creare una terra desolata, dove Cristo e la chiesa non avessero più diritto di cittadinanza. Senza la chiesa e nella solitudine la domanda dell'uomo rimane senza risposta e il dramma umano si tramuta in tragedia. (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 13-1-2013)
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