UN DITO PUNTATO AL CUORE. LA TESTIMONIANZA DI PIGI BERNAREGGI
È uno dei primissimi giessini del Berchet di don Giussani. Da cinquant'anni è missionario in Brasile. Al Centro culturale di Milano ha raccontato come tutto è iniziato, e come continua oggi. In ogni istanteOggi, a 78 anni, si sente ancora addosso quel dito puntato. Non come un ricordo, ma come qualcosa che sta accadendo ora. Anche tra i senza tetto di Belo Horizonte con i quali sta lavorando negli ultimi anni. Si è capito bene, ieri sera, durante l’incontro organizzato dal Centro culturale di Milano, in un dialogo con Davide Perillo, direttore di Tracce. In platea ci sono gli amici della GS degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma anche i ciellini di oggi, che spesso don Giussani non l’hanno neanche mai sentito parlare. Nel 1954 don Pigi era un rampollo della borghesia milanese, oggi uno di quei preti di periferia tanto amati da papa Francesco.
Il video dell'incontro (1:20:10)
Per descrivere quel dito, lo paragona a quello dipinto da Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina e che tocca il dito di Adamo, dandogli la vita. «Una volta, Rosetta Brambilla (anche lei missionaria in Brasile, ndr) mi ha raccontato che alla festa del suo asilo venne anche uno dei boss locali dello spaccio di droga. Lei lo fissò tutto il tempo e quello si infastidì. “Perché mi fissa così?”. E lei: “Perché vedo Dio dentro di te”. Risposta: “Ma sa chi sono io?”. “Sì, lo so”. E lui ancora: “Posso domani tornare per parlare ancora un po’?”. Non tornò mai, perché lo uccisero la notte stessa. Ecco: quando ci sentiamo guardati così sentiamo rinascere la nostra natura di uomini. Perché Cristo è morto per tutti, non solo per i bravi cristiani».
«Che cosa cercavi quando sei partito per il Brasile?», chiede Perillo. «Io sono cresciuto in un clima in cui si prendeva sul serio il tema della vocazione, in modo spudorato. Era il nostro tarlo. Iniziai ad andare al Gruppo del lunedì (gli incontri che don Giussani teneva per chi voleva verificare la vocazione alla verginità, ndr) in seconda liceo. Un giorno, eravamo a Madonna di Campiglio, stavamo guardando il tramonto sulle Dolomiti. Sembrava che il Brenta prendesse fuoco. Eravamo tutti lì in silenzio. Don Giussani si avvicina e mi dice: “Ehi, non vuoi mica andare in Brasile a fare il prete?”. E io: “Ma fai sul serio?”. “Sì, pensaci e domani mi dici”. Non chiusi occhio tutta la notte. Mi presentai da lui a colazione: “Che cosa hai deciso?”, mi fa. E io: “Non ho nulla in contrario”. Sono andato in Brasile perché non avevo nulla in contrario». E qui don Pigi, improvvisamente, passando dalla narrazione alla lirica, inizia a recitare a memoria i versi di Rebora: «Verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro, / verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / verrà, forse già viene / il suo bisbiglio».
Il direttore di Tracce cita la lettera di papa Francesco a don Carrón, quando scrive: «Andiamo dai poveri, non perché sappiamo già che il povero è Gesù, ma per tornare a scoprire che quel povero è Gesù». Che cosa scopre don Pigi stando con i poveri? «Io quel dito indice me lo sento sempre sul naso. Da quando, la mattina, scendo dalla mia amaca. È come se quel Gesù che ho conosciuto tramite don Giussani e gli altri amici continuasse a sollecitare la mia umanità. Mi viene in mente quella formula del rito antico della messa: Introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat iuventutem meam, “Salirò all’altare di Dio/ a Dio che allieta la mia gioventù”. Non viviamo nel passato, né viviamo nel futuro. È nel fluire dell’istante la nostra esistenza. Per cui si può rinascere in ogni istante, Dio ci crea ad ogni istante, Gesù ci salva in ogni istante, in ogni istante sei fatto nuovo. Io è questo che scopro. Non perché sono in Brasile a fare il missionario, ma perché continuo a sentirmi puntato da quel dito».
«Che cosa cercavi quando sei partito per il Brasile?», chiede Perillo. «Io sono cresciuto in un clima in cui si prendeva sul serio il tema della vocazione, in modo spudorato. Era il nostro tarlo. Iniziai ad andare al Gruppo del lunedì (gli incontri che don Giussani teneva per chi voleva verificare la vocazione alla verginità, ndr) in seconda liceo. Un giorno, eravamo a Madonna di Campiglio, stavamo guardando il tramonto sulle Dolomiti. Sembrava che il Brenta prendesse fuoco. Eravamo tutti lì in silenzio. Don Giussani si avvicina e mi dice: “Ehi, non vuoi mica andare in Brasile a fare il prete?”. E io: “Ma fai sul serio?”. “Sì, pensaci e domani mi dici”. Non chiusi occhio tutta la notte. Mi presentai da lui a colazione: “Che cosa hai deciso?”, mi fa. E io: “Non ho nulla in contrario”. Sono andato in Brasile perché non avevo nulla in contrario». E qui don Pigi, improvvisamente, passando dalla narrazione alla lirica, inizia a recitare a memoria i versi di Rebora: «Verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro, / verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / verrà, forse già viene / il suo bisbiglio».
Il direttore di Tracce cita la lettera di papa Francesco a don Carrón, quando scrive: «Andiamo dai poveri, non perché sappiamo già che il povero è Gesù, ma per tornare a scoprire che quel povero è Gesù». Che cosa scopre don Pigi stando con i poveri? «Io quel dito indice me lo sento sempre sul naso. Da quando, la mattina, scendo dalla mia amaca. È come se quel Gesù che ho conosciuto tramite don Giussani e gli altri amici continuasse a sollecitare la mia umanità. Mi viene in mente quella formula del rito antico della messa: Introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat iuventutem meam, “Salirò all’altare di Dio/ a Dio che allieta la mia gioventù”. Non viviamo nel passato, né viviamo nel futuro. È nel fluire dell’istante la nostra esistenza. Per cui si può rinascere in ogni istante, Dio ci crea ad ogni istante, Gesù ci salva in ogni istante, in ogni istante sei fatto nuovo. Io è questo che scopro. Non perché sono in Brasile a fare il missionario, ma perché continuo a sentirmi puntato da quel dito».
Perillo incalza: «Non ti capita mai di affrontare le cose pensando che quel che sai già basta?». I riferimenti letterari giussaniani emergono continuamente dalla memoria del missionario: «L’Ulisse dantesco, che sfida le Colonne d’Ercole, è una delle immagini più belle per descrivere che cos’è l’uomo. Non è vero che tutto deve rimanere lo stesso. Non è vero, perché io non sono mai lo stesso. E neanche l’altro lo è. Facciamo parte di questo fluire della realtà, ma ne siamo protagonisti perché Dio ci sta facendo in questo istante». Qui Bernareggi fa riferimento a uno degli episodi più dolorosi della sua vita e della storia di CL quando, dopo la tempesta del 1968, gli amici con cui andò in Brasile abbandonarono il movimento: «Non ho mai avuto l’impressione di essere rimasto solo, a farmi compagnia ho sempre avuto quel dito puntato. Non era un ricordo, ma una memoria!».
«E di questo Papa? Che cosa ti colpisce di più?». «L’idea di Chiesa in uscita. A noi, in GS, insegnavano a vivere nella scuola, nell’ambiente. Non chiusi bigottamente nelle mura di casa o solo in parrocchia. La Chiesa in uscita è una coralità che avviene in mezzo alla gente. A scuola, in università, c’erano i giovani lavoratori, gli insediamenti. Oggi spero che questi gruppi di Fraternità non siano dei luoghi chiusi. Non è vero che in Brasile siamo in una situazione privilegiata. L’ambiente incomincia tra le quattro mura di casa propria».
Bernareggi parla dell’idea di “periferia”, dello «sciamare di umanità che dalle favelas spande nel centro della città». In questi anni ha lavorato perché le favelas non venissero estirpate («aiutano la città ad essere se stessa, sono in funzione della città»), ma perché venissero urbanizzate. E ora, anche grazie al suo lavoro, esistono in Brasile leggi che garantiscono alle favelas di esistere senza che vengano spazzate via da speculazioni edilizie. Eppure, spiega don Pigi, prima di qualunque altro “fare”, c’è la chiamata a far vivere la comunità cristiana. Questa è l’urgenza primordiale. E poi, si dovrebbe conoscere la Dottrina sociale della Chiesa, di cui pochi sanno qualcosa».
L’ultima domanda di Perillo è sull’oggi: «Che effetto ti fa essere qui dopo sessant'anni, in questa sala dove tante volte hai sentito parlare don Giussani? Che effetto ti va vedere che il Movimento è ancora vivo?». «Mi sento scavato dentro. Siamo tutti in movimento. La parola “movimento” non può indicare un’appartenenza chiusa, ma il fatto che ciascuno è in movimento. C’è un’evoluzione che avviene, di cui dobbiamo sentirci parte. Non perché siamo bravi, ma perché c’è Cristo che ci abbraccia. La misericordia presuppone da una parte un cuore, quello di Dio, e dall’altra una miseria, che è la nostra. La misericordia è il nostro posto. Ma questo ci investe di una grande responsabilità. Gesù avrebbe potuto cambiare il mondo con un soffio. Invece ha scelto di mettere qui noi. E il cambiamento del mondo avverrà, pian piano, lungo le generazioni. Questo mi dà pace. Io mi sento bene dentro questa dinamica».
«E di questo Papa? Che cosa ti colpisce di più?». «L’idea di Chiesa in uscita. A noi, in GS, insegnavano a vivere nella scuola, nell’ambiente. Non chiusi bigottamente nelle mura di casa o solo in parrocchia. La Chiesa in uscita è una coralità che avviene in mezzo alla gente. A scuola, in università, c’erano i giovani lavoratori, gli insediamenti. Oggi spero che questi gruppi di Fraternità non siano dei luoghi chiusi. Non è vero che in Brasile siamo in una situazione privilegiata. L’ambiente incomincia tra le quattro mura di casa propria».
Bernareggi parla dell’idea di “periferia”, dello «sciamare di umanità che dalle favelas spande nel centro della città». In questi anni ha lavorato perché le favelas non venissero estirpate («aiutano la città ad essere se stessa, sono in funzione della città»), ma perché venissero urbanizzate. E ora, anche grazie al suo lavoro, esistono in Brasile leggi che garantiscono alle favelas di esistere senza che vengano spazzate via da speculazioni edilizie. Eppure, spiega don Pigi, prima di qualunque altro “fare”, c’è la chiamata a far vivere la comunità cristiana. Questa è l’urgenza primordiale. E poi, si dovrebbe conoscere la Dottrina sociale della Chiesa, di cui pochi sanno qualcosa».
L’ultima domanda di Perillo è sull’oggi: «Che effetto ti fa essere qui dopo sessant'anni, in questa sala dove tante volte hai sentito parlare don Giussani? Che effetto ti va vedere che il Movimento è ancora vivo?». «Mi sento scavato dentro. Siamo tutti in movimento. La parola “movimento” non può indicare un’appartenenza chiusa, ma il fatto che ciascuno è in movimento. C’è un’evoluzione che avviene, di cui dobbiamo sentirci parte. Non perché siamo bravi, ma perché c’è Cristo che ci abbraccia. La misericordia presuppone da una parte un cuore, quello di Dio, e dall’altra una miseria, che è la nostra. La misericordia è il nostro posto. Ma questo ci investe di una grande responsabilità. Gesù avrebbe potuto cambiare il mondo con un soffio. Invece ha scelto di mettere qui noi. E il cambiamento del mondo avverrà, pian piano, lungo le generazioni. Questo mi dà pace. Io mi sento bene dentro questa dinamica».
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