UN «PADRE» FORTE E MISERICORDIOSO
A tutti è nota la parabola del Padre misericordioso che accoglie il figlio prodigo, mille volte raccontata e imitata nella storia cristiana. Qui vogliamo darne una esemplificazione storicamente accaduta, in cui tale paternità è colta nell’atto di una misericordiosa “rigenerazione” della creatura perduta, che si converte proprio mentre uccide colui che la rigenera. È la storia sconvolgente di padre Tito Brandsma (1881-1942)1, carmelitano olandese, deportato e ucciso dai Nazisti nel campo di Dachau.
Aveva allora 59 anni; era professore di Filosofia e di "Storia della Mistica" all'Università Cattolica di Nimega, di cui era stato anche Rettore Magnifico. Già nel 1936, quando ancora le notizie non erano così diffuse né così certe, aveva collaborato a un libro intitolato «Voci olandesi sul trattamento degli ebrei in Germania», scrivendo: «Ciò che si fa ora contro gli ebrei è un atto di vigliaccheria. I nemici e gli avversari di quel popolo sono davvero meschini se ritengono di dover agire in maniera così disumana, e se con questo pensano di manifestare o di aumentare la forza del popolo tedesco, ciò è l'illusione della debolezza».
In Germania reagirono definendolo “Un professore maligno”. Ma Brandsma, consapevole della sua responsabilità di educatore, non desistette. Nell'anno scolastico 1938-39 già offriva ai suoi studenti dei corsi sulle «funeste tendenze» del nazionalsocialismo, in cui affrontava tutte le tesi nodali: valore e dignità di ogni singola persona umana (sana o malata), uguaglianza e bontà di ogni razza, valore indistruttibile e primario delle leggi naturali rispetto ad ogni ideologia, presenza e guida di Dio nella storia umana contro ogni messianismo politico e ogni idolatria del potere. E sapeva di avere tra i suoi ascoltatori anche delle spie del partito.
Nel 1941 scoppiò in Olanda la questione della pubblicazione sui quotidiani cattolici degli annunci del “Movimento Nazionalsocialista Olandese”. La circolare di Tito (Assistente ecclesiastico delle testate giornalistiche cattoliche) non si fece attendere: «Le direzioni e le redazioni sappiano che dovranno rifiutare formalmente tali comunicati, se vogliono conservare il carattere cattolico dei loro giornali; e questo anche se un tale rifiuto conducesse il giornale ad essere minacciato, ad essere multato, ad essere sospeso temporaneamente o anche definitivamente. Non c'è niente da fare. Con questo siamo giunti al limite. In caso contrario non dovranno più essere considerati cattolici... e non dovranno né potranno più contare sui lettori e sugli abbonati cattolici, e dovranno finire nel disonore».
Qualche mese dopo il prof. Brandsma venne arrestato e deportato nel campo di Dachau, dove fu assoggettato ad ogni angheria e a vere torture. E quando fu necessario ricoverarlo nella sezione ospedaliera del campo, la sua sorte fu segnata. Quello che avvenne lo sappiamo oggi da una testimone di eccezione: proprio da colei che lo uccise e che si è poi convertita perché il ricordo di P. Tito non l’aveva più abbandonata. Faceva l'infermiera, ma obbediva per paura agli ordini disumani dell'ufficiale medico. È stata lei a raccontare che Tito «al suo arrivo in infermeria stava già nella lista dei morti». È stata lei a raccontare gli esperimenti che si facevano sui malati, anche su Tito, e di come le si scolpivano dentro, senza che lei lo volesse, le parole con cui egli sopportava i maltrattamenti: «Padre, sia fatta non la mia volontà, ma la tua». È stata lei a raccontare come tutti i malati la odiassero e la insultassero sempre con i titoli più infamanti, odio che lei cordialmente ricambiava; e come fosse rimasta scossa perché quell'anziano prete la trattava, invece, con la delicatezza e il rispetto di un padre: «Una volta mi prese la mano e mi disse: “Che povera ragazza sei, io pregherò per te!”».
Ed è a lei che il prigioniero regalò la sua povera corona del rosario, fatta di rame e di legno, e quando costei irritata ribatté che quell’oggetto non le serviva perché non sapeva pregare, Tito le disse: «Non occorre che tu dica tutta l'Ave Maria, di' soltanto: “Prega per noi peccatori”».
Ed è a lei che, quel 25 luglio 1942, il medico del reparto diede l'iniezione di acido fenico perché glielo iniettasse in vena. Era un gesto di routine, l’infermiera l’aveva ormai compiuto centinaia e centinaia di volte, ma la poveretta ricorderà poi «d’essere stata male per tutta quella giornata». L'iniezione venne fatta alle due meno dieci e alle due Tito morì: «Ero presente quando spirò... Il dottore era seduto vicino al letto con uno stetoscopio per salvare le apparenze. Quando il cuore cessò di battere, mi disse: “Questo porco è morto!”».
Dei suoi aguzzini, P. Tito aveva sempre detto: «Sono anch'essi figli del buon Dio, e forse rimane in loro ancora qualche cosa...». E Dio gli concesse proprio quest'ultimo miracolo. Il dottore del campo chiamava sarcasticamente quella iniezione di veleno «iniezione di grazia». Ed ecco che, mentre l'infermiera gliela iniettava, era l'intercessione di Tito che infondeva davvero in lei la grazia di Dio. E la poveretta, ai processi canonici, spiegò che il volto di quel vecchio prete gli era rimasto impresso nella memoria per sempre perché vi aveva letto qualcosa che ella non aveva mai conosciuto. Disse semplicemente: «Lui aveva compassione di me!». Come Cristo.
Note:
1 Per tutta la documentazione, cfr. F. Millán Romeral, Il coraggio della verità. Il Beato Tito Brandsma, ed. Ancora, 2012
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