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Capita spesso di ascoltare nei discorsi abituali - sia dei
credenti sia (e forse più spesso) dei non credenti - che si
parli di «fede». A questo proposito, alcuni luoghi comuni
più frequenti meritano di essere richiamati, come premessa
alla nostra riflessione.
Una condizione fortuita?
L’opinione mondana più diffusa pur quando non è ostile
programmaticamente alla concezione cristiana pensa all’
atto di fede come a qualcosa di facoltativo, anzi di
fortuito e di occasionale. Si dice: «lo non h o lafede»
press’a poco come si dice: «lo non ho gli occhi azzurri» o
«lo sono basso di statura».
Anche quando sembra di avvertire una specie di nostalgia o
di rimpianto, perché il credere è ritenuto un valore e una
fortuna, l’atteggiamento mentale non cambia di molto:
«Purtroppo io non ho la fede», è detto con lo stesso spirito
con cui si può dire: «Purtroppo sono stonato», o: «Purtroppo
non riesco in matematica»; quasi supponendo cioè che
1’assenza della fede sia qualcosa che non dipenda da noi.
Ma la fede citata in questi termini non è certo quella di
cui ci ha parlato Gesù e di cui tratta la dottrina
cattolica. Basterebbe ricordare la finale del vangelo di
Marco: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non
crederà sarà condannato» (Me 16,16). Dove è chiaro
che per Cristo l’atto di fede è tutt’ altro che qualcosa di
facoltativo: determina la nostra «salvezza definitiva»; ed è
tutt’altro che fortuito e occasionale: dipende dalla
decisione responsabile dell’uomo, il quale per il mancato
raggiungimento della fede può essere accusato e condannato.
Un’alternativa alla ragione?
Anche più spesso si sente esprimere il convincimento che la
fede sia un’alternativa alla ragione: chi ragiona (si
ritiene) non ha bisogno di credere, e chi crede esce
dall’ambito della razionalità. Anche in questo caso il
vocabolo «fede» non ha niente in comune con la fede quale è
pensata entro la concezione cristiana. Nella prospettiva dei
discepoli del Signore Gesù degni di questo nome la fede è
addirittura l’esercizio estremo e più alto della ragione.
Sicché per noi l’alternativa al credere non è il ragionare:
è piuttosto il rassegnarsi all’irrazionalità e all’assurdo.
Si può ravvisare di ciò una piccola controprova
storico-sociologica nel fatto che in un’umanità dove la fede
si è illanguidita, non è che non si creda più a niente; si
finisce piuttosto col credere un po’ a tutto, anche alle
proposte razionalmente meno fondate: si crede agli oroscopi,
alla cartomanzia, alle previsioni degli indovini, agli
imbonitori di nuovi culti senza saggezza, agli
extraterrestri, alla pubblicità più improbabile; e purtroppo
si arriva anche ad affidarsi alle ideologie più disumane e
aberranti (come hanno dimostrato le multiformi tragedie
ideologiche del secolo ventesimo).
Un «mistero»da non approfondire?
Ma anche i credenti non hanno di solito le idee molto chiare
circa la loro fede. Si accontentano di accoglierla
rispettosamente, ma senza indagare troppo sulla sua natura,
la sua origine entro la vita dello spirito, le sue
prerogative, i problemi che essa suscita. Ma in tal modo ci
si espone al rischio di approdare, a proposito del credere,
su posizioni errate o almeno ambigue e imprecise.
Senza dire che l’omaggio più adeguato e più pertinente -
oltre che più conforme alla nostra indole di incontentabili
indagatori della realtà - che possiamo prestare alle verità
che il Signore ci ha rivelato (tra le quali c’è la necessità
del credere) sta proprio nel cercare di comprenderle per
quel che ci riesce (ben sapendo che l’intelligibilità piena
della Rivelazione divina potrà essere raggiunta soltanto nel
Regno dei cieli).
Questo è il senso e la finalità dell’indagine che qui
vogliamo proporre, su un tema che è tra i più rilevanti e i
più ardui della dottrina cattolica.
Rifletteremo successivamente:
- sull’atto di fede come atto intrinsecamente «integrale»;
- sulla funzione della ragione nell’atto di fede;
- sull’atto di fede in se stesso e nell’itinerario alla fede
entro la vita interiore dell’uomo.
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