Pavese. Lo scrittore in attesa della buona novella |
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La
contemporaneità ha esaltato quell’autonomia e quell’individualismo
dell’uomo moderno che coincide, in realtà, con una condizione di
solitudine. Così scrive Charles Taylor ne Il disagio della modernità: «Il
lato oscuro dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io, che a un
tempo appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il
significato e le allontana dall’interesse per gli altri e la società».
Per questo Cesare Pavese (1908-1950) annota in una pagina del suo diario
Il mestiere di vivere, datata 1939: «La massima
sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto - la
religione - consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La
preghiera è lo sfogo come con un amico [...]. Tutto il problema della
vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come
comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio,
della paternità, delle amicizie. Perché poi qui stia la felicità, mah!
Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando
soli, è strano. Forse è solo un'illusione: si sta benissimo soli la
maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui
versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che
abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e
ci occorra riavere noi dagli altri». L’uomo si può conoscere e
riavere solo nel rapporto con l’altro, proprio perché l’io è rapporto
strutturale con un tu.
Le righe sopra riportate appartengono alle pagine di riflessioni
personali, di diario privato che furono trovate in una cartella verde,
alla morte di Cesare Pavese, fogli sciolti per lo più manoscritti
(tranne quattordici pagine dattiloscritte). Su una pagina bianca compare
il titolo Il mestiere di vivere di Cesare Pavese. La prima
edizione dell’opera sarà postuma (1952). Pavese aveva chiuso i suoi
giorni in una camera d’albergo a Torino, suicida. Nell’ultima confidenza
affidata al diario annotava (18 agosto 1950): «La cosa più
segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?
Basta un po’ di coraggio. […] Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto
questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». Non aveva
ancora compiuto quarantadue anni, aveva già pubblicato tantissime
opere, sillogi poetiche (tra cui Lavorare stanca, La terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) e romanzi (La spiaggia, Il compagno, La casa in collina, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, La bella estate, La luna e i falò,
…), aveva conseguito la palma del migliore ottenendo il Premio Strega
proprio due mesi prima e il 14 luglio aveva scritto facendo presagire
quanto sarebbe poi successo: «Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma,
apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla». Il mestiere di vivere è, forse, il più bel diario che sia mai stato steso insieme allo Zibaldone di
Leopardi, da leggersi a sorsi, come si assaggia un vino pregiato. Vi
dominano la vita, la dimensione dell’esperienza, la ricerca della
maturità (per Pavese «Ripeness is all» ovvero «la maturità è
tutto»), la consapevolezza che l’animo umano è strutturato come attesa.
Il 27 novembre del 1945 Pavese annota: «Com’è grande il pensiero che
veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E
allora perché attendiamo?». Nessuna delusione, per grande che sia, può
estirpare questa innata aspettativa del compimento. Disumano,
addirittura tragico, sarebbe non attendersi più nulla: «Aspettare è
ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile» (15
settembre 1946). Nel 1942 Pavese aveva intuito, così almeno ci sembra di
capire, che l’attesa scaturisce da un’esperienza già vissuta e
sperimentata. Scriveva, infatti, il 28 gennaio: «Le cose si scoprono
attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa
vederla- ora soltanto- per la prima volta. Devi creare un nesso tra il
fatto che nei momenti più veri tu sei inevitabilmente ciò che fosti in
passato […] e il fatto che soltanto le cose ricordate sono vere». La
memoria di quanto è stato è ciò che permette all’uomo di essere
pienamente tale. È il ricordo dell’evento, di quanto sarà e si ripeterà
sempre. Altrove Pavese usa il termine «mito», parola a lui così cara
che alla dimensione del mito dedicherà l’intera opera Dialoghi con Leucò e
la poesia «Mito» («Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo/
senza pena, col morto sorriso dell’uomo/ che ha compreso»).
L’idea del viaggio, di una vita in cui si prende consapevolezza di sé
e della realtà, in cui si possa giungere a cogliere l’essenza stessa
di ciò che sta oltre il tempo, proprio perché permane, invariabile, è
sottesa a tutta la produzione di Pavese, da quella poetica (si pensi a I mari del sud)
a quella narrativa. La vita dell’uomo permette viaggi, ma non ritorni.
L’impossibilità di un ritorno è raccontata nell’ultimo romanzo La luna e i falò (pubblicato
nel 1950). Tornato dall’America dopo la liberazione e dopo aver fatto
fortuna, Anguilla cerca invano nel paese natio delle Langhe il proprio
passato e i compagni cari dell’infanzia. Molti, infatti, sono morti.
Rivive nella figura del piccolo Cinto, adottato dal contadino Valino, la
sua stessa storia di orfano nell’infanzia. Infine, scopre che quei
falò che nella tradizione mitica, ancestrale e contadina rinnovano di
anno in anno la fecondità della terra sono nell’orizzonte storico lo
strumento della tragica morte durante la guerra, in cui ha perso la vita
giovanissima la bella ragazza del paese, Santa, divenuta spia dei
tedeschi. Ora che è tornato capisce che «un paese vuol dire non essere
mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa
di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», «un paese ci
vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Anguilla non può
restare, deve ripartire, ora che sa e ha capito. La maturità dell’uomo è
questa consapevolezza della vita, questa accettazione del destino che,
se non si tramuta in amore, lascia solo tanta tristezza e malinconia.
Annotava Pavese il 15 febbraio del 1950: «Ragioni sempre: le cose prima d’esser conosciute, le cose dopo conosciute… Il problema è sempre quello – razionalizzare, prender coscienza, fare storia».
Ma non tutto si comprende. «Poesia è rappresentare il nodo irrisolto
come tale, farne sentire il mistero, il selvaggio. Ma allora dov’è lo
sforzo di conoscere del poetare?» (15 febbraio 1950). La poesia e l’arte
più in generale nascono dal mito, non da un concetto. I «compagni»
comunisti di Pavese non concordano con questa visione dello scrittore,
lo trovano un cattivo compagno, come lo scrittore precisa nello stesso
giorno sul diario.
Il 1950 è l’anno in cui Pavese vince il Premio Strega con La bella estate, una trilogia che raccoglie brevi romanzi: La bella estate (1940), Il diavolo sulle colline (1948), Tra donne sole (1949).
Pavese annota nel suo diario: «C'è una cosa più triste che fallire i
propri ideali: esserci riusciti». La vittoria era stata la conferma
dell’inutilità di ogni sforzo umano di darsi la felicità. L’adesione al
Comunismo (Pavese si era tesserato al PCI nel 1945 per «tacitare i
rimorsi e […] rompere l’isolamento» come scrisse Davide Lajolo nel Vizio assurdo,
fondamentale biografia dello scrittore) aveva mostrato l’inconsistenza
dell’ideologia e la sua incapacità a cogliere la complessità del
reale. L’uomo è in attesa della buona novella, che il Mistero (così
presente in tutta la produzione di Pavese) condivida la strada con noi,
si faccia compagnia e presenza umana, rompendo così la solitudine.
Questa era stata l’intuizione di Pavese descritta nella pagina di
diario del 1939. (pubblicato su La bussola quotidiana del 22-10-2011)
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