La soavità del Natale nella notte del mondo
CANTI
In piedi diciamo l’angelus guardando l’immagine della Madonna che è così pietosa, è così piena di affetto, di pietà per coloro che la invocano – come è scritto in alto –[Maria clemens liberando pia largiendo].
ANGELUS-ANGELO DI DIO-VENI SANCTE SPIRITUS
Potete venire avanti se in fondo non ci sono dei posti. Anche qui ai lati dell’altare ci sono dei posti. Quando l’abbiamo ricantato qualche momento fa, Iesu dulcis memoria, questa sera la frase che più mi ha confortato era: /nec lingua valet dicere/. Perché sentendomi così impacciato nel parlare [mi ha confortato] questo /nec lingua valet dicere/ la lingua non è capace di dire, la lingua può dire quello che il Signore sul momento dona di dire. Così che se diciamo cose nostre – tante volte S. Agostino ripete questa cosa anche al termine della sua opera teologica più importante, possiamo dire così, il De trinitate –, se abbiamo detto cose nostre perdonateci. Se diciamo cose che sono date da Dio imparate da Lui e ringraziate Lui. E quindi anche l’impaccio nel parlare può essere utile suggerimento di preghiera.
Questa sera [è] per aiutarci a vivere il Natale, cioè per aiutarci a pregare, innanzitutto in questo momento, qui in questo santuario. È la prima volta che vengo in questo santuario, ma mi ha subito colpito il fatto – non lo sapevo – che il cardinale Ferrari, arcivescovo di Milano, sia nato proprio qui vicino e anzi da piccolo abbia ricevuto una grazia, la grazia di una guarigione dalla Madonna di questo santuario a cui era devoto. C’è una frase sulla statua del cardinal Ferrari [posta qui] fuori che è molto bella che dice che i giorni più belli della sua esistenza sono legati al ricordo di questo santuario. E poi vicino c’è la statua di monsignor Conforti che io ricordo perché quando da piccolo in quarta ginnasio sono entrato in seminario ho letto, credo il primo anno, la vita di monsignor Conforti che è stato vescovo a Parma e che ha fondato questo istituto missionario, i Saveriani.
Quindi così immediatamente l’ospitalità così cordiale di padre Daniele mi ha fatto trovare familiare questo luogo, anche se è la prima volta che venivo. E soprattutto lo sguardo della Madonna! In fondo l’unica cosa, quello che vorrei suggerire, prende lo spunto dalla lettera del Santo Padre Spe Salvi, salvi nella speranza, per dire che salvi nella speranza vuol dire salvi nella preghiera. [Come] quando il cardinal Ratzinger in alcuni esercizi spirituali che ha predicato a metà degli anni ottanta – cui ho avuto la fortuna di partecipare – ha ripetuto questa frase di S. Tommaso d’Aquino: petitio interpretativa spei/ la domanda è la voce della speranza, la domanda è l’espressione della speranza. [È] questa immagine che la speranza vuol dire la preghiera, sperare vuol dire domandare. Sperare, il dono della speranza si esprime nel domandare, la speranza vive come domanda. Tanto è vero che dice ancora S. Tommaso d’Aquino che Gesù per insegnarci a sperare, cioè per donarci la speranza, ha insegnato il Padre Nostro. E dicendo il Padre Nostro, cioè ripetendo le parole della preghiera, ci dona e ci insegna che cosa sia la speranza. Dice ancora il papa nella sua enciclica commentando un versetto della lettera di S. Paolo agli Efesini che senza Cristo, senza l’incontro con Cristo non c’è speranza, che vuol dire anche che se Gesù non si avvicina non domandiamo. Se lui non si avvicina non si domanda, per domandare bisogna essere attratti. Non si può domandare una cosa da cui non si è attratti, non si può domandare una cosa che non si desidera. Desiderium praesuppostum spei/ il desiderio è il presupposto della speranza, così ancora S. Tommaso inizia il trattato ultimo sulla speranza – non lo ha neppure concluso –. Per sperare bisogna desiderare ciò che si spera e per desiderare bisogna essere attratti da ciò che si desidera. Il desiderio non ce lo possiamo dare noi, il desiderio nasce dall’attrattiva della cosa. E così senza l’attrattiva Gesù – per dire questa espressione che secondo me è l’espressione più bella di Giussani ed è l’espressione che più dice la grazia che il Signore ha donato a Giussani – non si può neppure domandare Gesù. Senza l’attrattiva Gesù non si può neppure desiderare Gesù. Almeno sull’ultimo orizzonte questa attrattiva deve brillare per il cuore, altrimenti non lo si può desiderare – non si può desiderare! – non si può domandare. Se un bambino non avesse esperienza che la mamma viene quando la chiama non la chiamerebbe, non potrebbe chiamarla! Bisogna avere esperienza della risposta per potere chiamare, per potere domandare.
Innanzitutto questa domanda ha come una promessa. Questa domanda o questa attesa ha come una promessa ed è il gesto con cui il Signore ci crea. Il Signore ci crea come domanda, il Signore crea il nostro cuore come domanda. E così questo gesto creatore di per sé potrebbe rendere possibile la domanda del cuore, il Signore crea il nostro cuore come domanda. La frase di Pavese che tante volte Giussani ci ha ricordato intuisce questo: «Forse qualcuno ci ha promesso qualcosa? Allora perché attendiamo?». Se attendiamo vuol dire che qualcuno ci ha promesso qualcosa. Se attendiamo vuol dire che il gesto con cui Dio crea il cuore lo crea – il cuore dell’uomo – come attesa, come attesa di felicità, come attesa quindi di quella felicità che è l’incontro con Gesù. Perché questa per l’uomo, per l’uomo fatto di anima e di corpo, è la possibilità della felicità. La possibilità della felicità è l’incontro con Gesù. Così questo è il cuore dell’uomo.
Ma c’è una preghiera che mi è tanto cara della liturgia ambrosiana, che dice come concretamente è questo cuore dell’uomo. Il cuore dell’uomo è attesa di felicità, è attesa di incontrare la felicità resa carne, il paradiso reso presenza umana. È attesa di questo. Ma dice la liturgia in una preghiera dei vespri – l’antica liturgia in una preghiera dei vespri dice –: oratio captiva peccatis/ ma questa domanda è schiava del peccato /quae, inimico impediente, fuscatur/ ed è impedita dal diavolo ed è offuscata. Così è la domanda del cuore, la domanda del cuore è prigioniera ed è impedita. Come è bello questo – come è bello cioè come è vero: non è bello che sia così, ma è vero che è così – che è impedita, la domanda del cuore è impedita, l’attesa del cuore è impedita, la domanda è offuscata, la domanda del cuore non sorge dal cuore. /Quae, inimico impediente, fuscatur, vultus tui candore purgetur/ occorre che il volto della felicità si riveli, si riveli nella sua bellezza, occorre che il volto della felicità si faccia vicino allora la domanda viene purificata, allora la domanda sorge dal cuore. Se il volto della felicità non si avvicina il cuore non domanda, il cuore non attende più. Occorre che il volto /vultus tui candore/ la bellezza del volto si avvicini, si faccia visibile, tangibile e vicina; allora il cuore ritorna puro; allora il cuore ritorna cuore, cioè ritorna domanda.
E così questa sera vorrei innanzitutto suggerire l’immagine di queste cose se pensiamo ai pastori. E per pensare i pastori la notte di Natale vi leggo l’inizio del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia perché mi sembra che esprima in tutta la sua bellezza poetica la condizione di quelle persone, di quelli che erano gli ultimi, erano gli esclusi. Addirittura i pastori non avevano neppure la dignità di testimoniare nei processi nel popolo di Israele. Erano proprio le persone ai margini. Ebbene Leopardi secondo me comunque descrive la condizione non solo dei pastori ma anche la condizione di ciascuno di noi – di ciascuno di noi! – se quel volto non brilla vicino. Se quel volto – se il volto della felicità, il volto umano della felicità che è il volto di Gesù, quel volto di carne che Maria gli ha dato – non brilla vicino quello che Leopardi dice del pastore d’Asia vale per ciascuno di noi. L’inizio lo conosciamo: /Che fai tu luna, in ciel? dimmi, che fai, /Silenziosa luna? /Sorgi la sera, e vai, /Contemplando i deserti; indi ti posi. /… /Somiglia alla tua vita/ La vita del pastore./ Sorge in sul primo albore/ Move la greggia oltre pel campo [sorge all’alba e muove, accompagna, guida il gregge oltre], e vede /Greggi, fontane ed erbe [e vede tante cose durante la giornata]; /Poi stanco si riposa in su la sera: /Altro mai non ispera [ma non spera che capiti qualcosa, non spera che durante la giornata capiti qualcosa. È sempre così la giornata dal mattino alla stanchezza della sera. /Altro mai non ispera/ ma questa è la condizione anche nostra, anche di chi ha incontrato, se l’incontro non è presente. Come è importante per la vita cristiana – per la vita cristiana e per poter essere vicini agli uomini fratelli di oggi che siamo innanzitutto noi – la percezione di questa precarietà della vita cristiana, che il dogma della Chiesa in questo piccolo catechismo della Chiesa di Roma del secolo V – in cui la Chiesa di Roma ha raccolto tutta la dottrina dogmatica sulla grazia – esprime in termini che sono definitivi e semplicissimi: «come per sua grazia abbiamo vinto, così se di nuovo la sua grazia non ci viene data siamo vinti». Questa è la precarietà della nostra vita – anche noi! –. /Iterum/ dice proprio /iterum/, se di nuovo non ci viene dato siamo vinti. Se quel volto non brilla di nuovo a noi anche per noi: /altro mai non ispera/. Anche per noi! Non si spera più che qualcosa accada nella giornata. Se di nuovo la sua grazia non viene data siamo vinti. Per questo la vita cristiana è in speranza cioè è in preghiera, è in domanda. In domanda di questo rinnovarsi di questo volto vicino, del rinnovarsi di quando… Ma poi continua ancora Leopardi.]./Dimmi, o luna: a che vale/Al pastor la sua vita [a che vale la sua vita?],/La vostra vita a voi? dimmi: ove tende/Questo vagar mio breve,/Il tuo corso immortale?/. Così leggo di quella notte quando all’uomo che non sperava più nulla gli angeli hanno annunciato una grande gioia. Allora dice il Manzoni: /senza indugiar, cercarono/l’albergo poveretto/. Senza indugiare!
Ma mi ha colpito un pensiero di Padre Pio – nel prossimo numero di 30giorni come aiuto a vivere il Natale ho fatto pubblicare alcuni pensieri di Padre Pio. La semplicità di quella devozione del popolo cristiano nella sua povertà, nella sua semplicità come è grazia di Dio per tutta la Chiesa! –. Padre Pio mi ha colpito perché dice che Gesù chiama i pastori attraverso l’angelo, gli angeli, e Gesù chiama i magi attraverso la loro stessa scienza, perché guardavano il cielo e hanno visto questa stella eccezionale, e mossi dall’influsso della sua grazia corrono. Non basta essere chiamati se non si è attratti. Non basta essere chiamati, non basta ascoltare parole cristiane se non si è attratti. Non basta neppure l’annuncio degli angeli: bisogna essere attratti, bisogna che quell’annuncio tocchi il cuore. Perchè è così? Perché l’ha detto Gesù: “nessuno viene a me se non lo attira il Padre mio”. E questo – vedete – dà uno sguardo sugli uomini fratelli, dà uno sguardo sull’uomo che non crede che è innanzitutto di gratitudine per un dono immeritato. Non è innanzitutto un giudizio. S. Agostino in una delle pagine più stupende commenta il fatto che a Cafarnao quando Gesù promette il pane della vita, di dare da magiare la sua carne e da bere il suo sangue, si allontanano e non andavano più con lui. E dice ai suoi: “volete andarvene anche voi?”. Poi Agostino commenta: «“ma io so perché non comprendete e io so perché non domandate”. Perché? “Perché nessuno viene a me se non lo attira il Padre mio”». Non è innanzitutto un giudizio di condanna, è innanzitutto una gratitudine per coloro che il Padre attira. Questo è lo sguardo del cristiano sul mondo. È innanzitutto una gratitudine per un dono immeritato, per un dono immeritato! Siamo cristiani per un dono immeritato – così il catechismo di S. Pio X – per un dono che non abbiamo potuto meritare. Ma questo vale magari per i figli di qualcuno di voi che magari non frequentano la chiesa. Perché solo una domanda a colui che attira… Non basta ripetere le parole cristiane, le parole cristiane sono tutto quello che possiamo fare noi, cioè in fondo niente. È importante per noi ripetere le parole cristiane, ma ripeterle come domanda, come domanda a colui che muove attirando il cuore: “Nessuno viene a me se non lo attira il Padre mio”. Allora rileggo il Manzoni: /senza indugiar, cercarono/l’albergo poveretto/que’ fortunati/quei fortunati! Non erano i migliori, sono stati fortunati. /que’ fortunati, e videro,/siccome a lor fu detto/videro in panni avvolto,/in un presepe accolto,/[videro] vagire il Re del Ciel./ Sono stati fortunati e che cosa videro? Videro vagire il re del cielo.
E così adesso vorrei leggervi tre preghiere di S. Ambrogio – e così finiamo con la lettura di queste tre preghiere –. Tre preghiere di S. Ambrogio in cui quello che ho tentato di dire è espresso con la dignità e la tenerezza di S. Ambrogio. La tenerezza di S. Ambrogio: come era facile a piangere S. Ambrogio! C’è una predica bellissima del cardinal Montini sulla facilità al pianto di Ambrogio, sulla facilità alla commozione di Ambrogio, tanto è vero che Ambrogio scrive che le armi di difesa di un sacerdote, di un vescovo, sono le sue lacrime. E allora il primo è proprio una breve preghiera nel commento al vangelo di Luca, nel commento alla nascita di Gesù a Natale.
«Così lui si è fatto piccolissimo [proprio piccolissimo, come diceva il canto che abbiam fatto: “un bimbo piccolissimo”], si è fatto [ripete ancora] /infantulus/ [che vuol dire proprio piccolo bambino, piccolo infante] perché tu possa essere uomo perfetto». Uomo perfetto! L’uomo perfetto è l’uomo che domanda. La perfezione dell’uomo è il cuore che domanda. Questa è la perfezione dell’uomo, la perfezione dell’uomo è domandare. Non può fare altro di perfetto l’uomo se non domandare. Tanto è vero che la Madonna ha sempre domandato. E ha sempre domandato perché è sempre stata amata. Perché mai – mai! – è stata toccata dalla ferita del peccato. Ha potuto sempre domandare perché dall’inizio, dall’inizio della sua esistenza, è stata prediletta. È stata sempre prediletta. Così è evidente che ha potuto pregare sempre perché la risposta alla sua domanda era sempre vicina. Era sempre abbracciata dalla risposta della sua domanda. Più la dolcezza della risposta cresce, più la dolcezza della risposta è vicina, e più – dice S. Agostino – il desiderio e più la domanda è potente. Anzi dice /avidius/ e più si domanda con avidità. Più la dolcezza aumenta, più l’abbraccio è dolce e più la domanda di essere abbracciati è potente. Si è fatto piccolo perché tu potessi sempre domandare. Perché se non si fosse fatto piccolo… non basta sapere che Dio è la felicità per domandare la felicità. Come è vero questo! Come è vera l’esperienza di Agostino che sapeva che Dio era la felicità! Era il vertice della filosofia neoplatonica che la felicità consisteva nell’unità con l’uno creatore. Sapeva che Dio è la felicità ma i piaceri del mondo erano più attraenti, perché si segue inevitabilmente – dice Agostino – ciò che piace di più: «E allora cercavo [non basta sapere che Dio è la felicità per godere della felicità] come godere – dice ancora Agostino – della felicità. E non potei godere della felicità finché non abbracciai, umile, l’umile mio Dio Gesù».
Se non si fosse fatto uomo l’uomo non avrebbe domandato, domandato di essere felice. Se non si fosse fatto vicino, se non avesse guardato Maria Maddalena, Maria Maddalena non avrebbe pianto. Non si piange per la verità di Dio, si piange per l’umanità di Gesù. Si piange nell’incontro con la sua umanità. La sua umanità è la felicità dell’uomo. /Ad hunc finem beatitudinis homines reducuntur per humanitatem Christi/Al loro destino di felicità – dice Tommaso d’Aquino – gli uomini sono ricondotti, ri–condotti dopo il peccato originale, per l’umanità di Cristo. «È stato avvolto in panni perché tu potessi essere liberato dai lacci del peccato. Lui nel presepe perché tu potessi accostarti all’altare».
E vi leggo ancora un piccolo pensiero di Padre Pio su questo: «Quanto mi rende allegro [lieto] Gesù! Quanto è soave il suo spirito! Ma io mi confondo e non riesco a fare altro se non che piangere e ripetere: “Gesù, cibo mio” ». Io «non riesco a fare altro se non che piangere e ripetere: “Gesù, cibo mio”». Si esprime così la felicità dell’uomo. /habet et laetitia lacrimas suas/ dice ancora S. Ambrogio. Si esprime in questo pianto di gratitudine. Non si riesce a fare altro che piangere perché si è così amati, perché si è così abbracciati. E poi continua: «la sua povertà è la mia ricchezza, la sua debolezza è la mia forza. Lui ha preferito essere mancante perché tutti potessero abbondare in grazia». E poi qui ci sono i vagiti: «il suo pianto di lui piccolo che vagisce [/infantiae vagientis/il suo pianto di lui piccolo che vagisce] mi ha purificato. Quelle lacrime hanno lavato i miei peccati». «Io debbo di più, debbo di più come riconoscenza, alla sua debolezza che mi ha salvato che non alla sua potenza che mi ha creato. /Non prodesset nasci, nisi etiam redimi profuisset/non sarebbe valso nulla il nascere se non avessi fatto esperienza di essere amato». Se non si fa esperienza di essere amato – perché redenti vuol dire essere amati –. Essere amati con quell’amore così potente che perdona, che rende puro, che rende innocenti più che non la purezza originale. A nulla sarebbe valso il nascere se non fossimo stati così amati.
La seconda preghiera. La seconda preghiera è il riconoscimento – la sapevo a memoria in seminario questa preghiera – di chi è Gesù Cristo per l’uomo, di chi è per ogni uomo. Di chi è come possibilità per ogni uomo e di chi è per colui che senza suo merito lo riconosce. «/Omnia igitur habemus in Christo/ noi in Cristo abbiamo tutto, tutto quello che abbiamo lo abbiamo in Cristo. Ogni anima si accosti a lui, sia l’anima malata per i peccati del corpo [malata di lussuria], sia l’anima che è schiava di qualche cupidigia mondana [malata di avarizia, malata di cupidigia di potere], sia l’anima ancora imperfetta ma che a lui guarda [e quindi cresce in questo guardare, in questo domandare lui], sia l’anima a cui già la sua grazia ha dato molte virtù. /Omnis in domini potestate est/ogni anima è nel potere del Signore». Come è bello questo «ogni anima è nel potere del Signore». E come i santi soprattutto più che i peccatori hanno riconosciuto questo: che erano nelle mani del Signore. Se la sua attrattiva non li attraeva cadevano. Se la luce del suo volto non brillava erano nell’oscurità. «Ogni anima è nel potere del Signore. /Et omnia Christus est nobis/e per questo Cristo è tutto per noi». Tutto noi abbiamo in Cristo e Cristo… lui! Non so se riesco a suggerire questo. Lui! Tutto è per lui. Lui vuol dire la sua presenza, non è una cosa di cui ci dobbiamo convincere noi. Lui è tutto per noi. Il bambino non si convince che la mamma è tutto, è la presenza della mamma che è di fatto tutto. «Se vuoi curare la ferita, lui è medico. Se sei febbricitante, accaldato per la febbre, lui è sorgente. Se sei appesantito per il peccato, lui è la giustizia». Come c’era nello studio di don Giussani in via Martinengo. Come era bella quella immagine dei pastori che guardavano Gesù bambino. E la scritta in latino – non me la ricordo tutta – diceva che guardandolo venivano perdonati i loro peccati. Guardandolo venivano perdonati. Guardando quel bambino! Era quel bambino il perdono dei loro peccati. «Se hai bisogno di aiuto, lui è la forza. Se hai paura della morte, lui è la vita. Se desideri il paradiso, lui è la strada. Se fuggi le tenebre, lui è la luce. Se cerchi il cibo, lui è il cibo. Gustate e vedete quanto soave è il Signore». Quanto soave! Dice il dogma della fede, del Vaticano I, che la fede è impossibile senza la grazia di Dio, senza la grazia dello Spirito Santo che dà la soavità nel riconoscerlo e nell’aderirlo. Senza questa soavità, senza questa dolcezza né lo si riconosce né vi si aderisce. «Gustate e vedete quanto soave è il Signore. Beato l’uomo che in lui spera».
E poi la terza preghiera. La terza preghiera è la più bella. Perché la terza preghiera… Permettete questo accenno alla mia vita, perché nel mio seminario quando sapevo a memoria /Omnia igitur habemus in Cristo. Et omnia Christus est nobis/ era per me, nell’ingenuità della mia infanzia così bella e della mia fanciullezza e della mia giovinezza così bella, un’evidenza bella che mi dava conforto. Ma gli anni della vita [l’]hanno resa domanda. Perché se è tutto per noi, la percezione che è tutto si esprime solo nel domandare, si esprime solo nel dire “vieni”. Il bambino non sa che la mamma è tutto per lui ma la domanda. Dice “vieni”. Viene prima il “vieni”, esistenzialmente viene prima il “vieni”, che non il sapere che è tutto. Viene prima il domandarlo. Non si può umanamente percepire che è tutto, che noi abbiamo tutto in lui, se non lo si domanda: è nel domandarlo, è quando lo si domanda. Per questo questa terza preghiera di Ambrogio è di una bellezza unica. Sta commentando il versetto del salmo 118: «/quaere servum tuum quia mandata tua non sum oblitus/cerca il tuo servo perché non ho dimenticato i tuoi comandamenti. /Veni ergo, Domine Iesu,/vieni dunque Signore Gesù, cerca il tuo servo. Cerca questa pecora spossata. Vieni pastore, cerca. [E poi c’è la frase più bella] /Erravit ovis tua, dum tu moraris,/mentre tu attendevi la tua pecorella si è smarrita. Se tu attendi, se tu indugi noi ci smarriamo. Mentre tu indugiavi noi ci eravamo smarriti. /Dimitte/lascia le novantanove pecore nell’ovile. Vieni a cercare quella sola che si è perduta. [Poi dice] Vieni senza i cani, vieni senza i cattivi operai, vieni senza i mercenari [anche questo come è attuale. Vieni senza i mercenari] che non entrano per la porta che sei tu. [Poi dice] /Veni sine adiutore,/vieni senza intermediari [perché la Chiesa non è un intermediario. La Chiesa è la possibilità dell’immediatezza del rapporto con lui. La Chiesa è il suo corpo – suo corpo! – di lui vivo. Pensate, la Chiesa è come la carezza della mamma al bambino. Ma se fosse morta la mamma come sarebbe mostruosa la carezza. Se non fosse vivo, se non fosse il suo corpo, immediatamente suo corpo, suo di lui vivo. Vieni senza intermediari], vieni /sine nuntio,/vieni senza neppure essere annunziato, è già tanto che ti attendo. Vieni improvvisamente senza essere neppure annunziato, è già tanto che aspetto, che aspetto che tu venga. Vieni senza la verga. Vieni con affetto e con tenerezza. /Ad me veni/ [e poi aggiunge] vieni a me che sono incorso nei morsi dei lupi. Vieni a me che sono stato scacciato dal paradiso e che sono tentato dal veleno del serpente per la ferita del peccato [è bellissimo questo. Per la ferita del peccato io sono continuamente tentato dal veleno del serpente]. /Quaere me, quia te requiro;/cercami perché ti cerco, [meglio] perché ti possa cercare. /quaere me, inveni me, suscipe me, porta me/cercami, trovami, sostienimi, rialzami, portami. Tu mi puoi trovare, tu mi puoi rialzare, tu mi puoi portare sulle tue spalle. Non ti sia di fastidio questo peso di tenerezza, questo peso pio, questo peso di mettermi sulle tue spalle. Non ti sia di fastidio. Non ti sia di peso questo gesto di giustizia, della tua giustizia. /Veni ergo, Domine/vieni dunque Signore. Vieni, perché se anche sono fuggito lontano, se anche sono andato lontano non ho dimenticato i tuoi comandamenti [e anche questo è bello. Non ho dimenticato. Non ho dimenticato di ripetere. Come da questo punto di vista è insostituibile il santo rosario! Di ripetere! Magari anche nella distrazione così che si offre anche l’umiliazione delle tante distrazioni. Di ripetere! Io non ho smesso di ripetere l’Ave Maria. Con l’Ave Maria non ci si può perdere. Non ho smesso di ripetere l’Ave Maria]. Vieni, o Signore, solo tu mi puoi ricondurre. [E poi qui è bello] E se mi riconduci non rendi tristi le novantanove pecorelle che sono rimaste. Anzi quando tu riconduci me le rendi più contente. /Veni ut facias salutem in terris, in coelo gaudium/vieni perché tu faccia la salvezza sulla terra e in paradiso la gioia [“C’è più gioia nel cuore di Dio per un peccatore che ritorna che non per novantanove giusti”]. /Veni ergo, et quaere ovem tuam/Vieni dunque e cerca la tua pecorella. Vieni non per i servi, non per i mercenari, ma vieni tu stesso. Ricevimi nella tua carne, quella carne che in Adamo è caduta [perché la sua carne, la carne che gli ha dato Maria nei nove mesi che l’ha portato nel grembo è senza peccato, ma ha le conseguenze di fragilità. Tanto è vero che ha la mortalità, la mortalità conseguenza del peccato. Tanto è vero che viene per morire.] /Suscipe/prendimi in braccio per Maria, da Maria [è bellissimo /suscipe me ex Maria/]. Prendimi in braccio da Maria che è vergine incontaminata, /sed virgo per gratiam/ma è vergine per tua grazia. Perché per tua grazia è preservata [dice /integra ab omni labe peccati/], per tua grazia non è mai stata toccata dal peccato. Portami sulla croce nella quale solo c’è riposo per me nel mio essere portato, nel quale solo c’è speranza per chi muore».
E poi finisco. Finisco con questa piccola frase ancora di S. Ambrogio. Questa frase non è una preghiera al Signore ma è una preghiera a ciascuno di noi. Anzi è una preghiera all’uomo fratello che è lontano e dice: «Vieni anche tu /Veni et tu/ [Sta commentando, Ambrogio, il brano in cui Giuseppe di Arimatea va da Pilato – dopo che Gesù è morto sulla croce – a chiedere di poter seppellire il corpo di Gesù]. Vieni anche tu. Vieni pure in ritardo, non importa se sei in ritardo. Vieni di notte, non importa se vieni dalla notte del peccato. In qualunque ora tu vieni /Iesum venientes ad suscipiendum paratum/ troverai Gesù che è pronto a riceverti. In qualunque ora tu vieni troverai Gesù che è pronto a riceverti. E non ti darà una felicità minore se vieni in ritardo. Colui che è venuto la prima ora [è la parabola degli operai] non è stato defraudato e colui che è venuto all’ultima ora ha ricevuto la stessa pienezza, la stessa pienezza di felicità. Vieni, vieni anche [non solo in ritardo ma vieni anche] di notte, anche dalla notte del peccato. Anche Nicodemo è venuto di notte. /Nox erat quia adhuc non erat ressurectio/ Era notte perché Gesù non era ancora risorto».
Così, perché è vivo, anche le parole non possono dire l’attrattiva di lui vivo: come lui vivo attrae e abbraccia il nostro povero cuore.
Usciamo possibilmente in silenzio così che possiamo rimanere magari anche solo un istante a guardare la Madonna e a dire un’Ave Maria.
Grazie
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