Gertrud von Le Fort: scrittura e trascendenza
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Quando Edith Stein decise di lasciare il mondo per entrare nel Carmelo di Colonia furono in molti a stupirsi di quella scelta: lei che era stata una filosofa, un’intellettuale, con il suo grande bagaglio culturale e un passato di brillante studiosa, abbandonava ogni cosa per inabissarsi in una vita totalmente povera, oscura, senza privilegi. Una vita nascosta, fatta di immolazione e di sacrificio. Tante persone allora le scrivevano e cominciarono a farle visita, secondo le possibilità e gli orari del Carmelo, e tra queste la scrittrice tedesca Gertrud von Le Fort, una aristocratica protestante che a Roma si era convertita al cattolicesimo, autrice di romanzi assai famosi, fra cui L’ultima al patibolo. Un giorno Gertrud andò a trovare la Stein al convento per vedere con i propri occhi se Edith fosse davvero felice al Carmelo: davanti a sé trovò una creatura radiosa, trasfigurata dalla gioia.
Gertrud von Le Fort, la “più grande poetessa trascendentale contemporanea“,
ed Edith Stein, “la più grande donna nel cielo dei filosofi tedeschi”
del Novecento, come le definirono i loro contemporanei, divennero
amiche. Erano due convertite: l’una dal protestantesimo, l’altra
dall’ebraismo. Fu il padre gesuita Erich Przywara il mediatore, per così
dire, di questa singolare amicizia umana ed intellettuale. La
scrittrice tedesca ebbe a dire: “Nella mia vita ho visto solo due volte
un volto umano che mi travolgesse: suor Teresa Benedetta della Croce,
Edith Stein, e Papa Pio X”.
Gertrud von Le Fort nacque nel 1876 in Westfalia.
Il padre era un ufficiale prussiano, e lei potè studiare privatamente
fino all’età di 14 anni in casa per poi intraprendere alcuni viaggi.
Studiò Teologia evangelica, filosofia e storia, ma senza immatricolarsi
perché priva del titolo statale per accedere all’Università. Nel 1914
frequentò ad Heidelberg un seminario del giovane C. Jaspers dedicato a
Kierkegaard e la definì “la tappa più importante e decisiva della mia
vita”.
Allieva prediletta del celebre filosofo delle religioni Ernst Troeltsch, del quale nel 1925 curò la pubblicazione del libro Dottrina della fede (Glaubenslehre), la coltissima baronessa tedesca di confessione protestante abbracciò la fede cattolica durante un viaggio a Roma
quando era alla soglia dei cinquant’anni. Evento misterioso e segreto,
come ogni conversione che si rispetti, ma di cui abbiamo una lieve
traccia in uno dei suoi testi: “Quel vecchio, rigido crocefisso a metà
cancellato, quel crocefisso della più cadente basilica di Roma, vuota di
preghiere improvvisamente mi aperse le braccia e mi costrinse a
inginocchiarmi. Mi sembrò che qualcuno alzasse una tenda sul fondo della
mia anima, in cui riconobbi, simile a stigmata d’amore, la stessa
immagine dinanzi alla quale mi trovavo inginocchiata: ricevuta,
rinnegata, dimenticata eppure intatta, perché quell’amore si era
conservato per me”.
E ancora lei scrive: “Sapevo che né in cielo né in
terra né fino alla fine dei tempi né nell’eternità, mai vi potrebbe
essere cosa alcuna capace di eguagliare quell’amore in forza e dolcezza.
Avviluppata ad esso, strappata a me stessa, e già quasi immersa nella
sua immensità, credetti di morire. Ma lo stesso infinito mi teneva in
vita con un comando dolce e commovente: amami ancora“.
Soltanto un anno prima della sua conversione, e forse non a caso, Gertrud von Le Fort aveva pubblicato gli Inni alla Chiesa (Hymnen an die Kirche),
versi solenni come Salmi, che della Chiesa cantavano nascita e natura,
missione e santità, amore e destino. Esaltandone l’eterna, universale e
soprannaturale potenza ordinatrice, l’autrice intendeva riconoscere alla
Chiesa il fatto di aver raccolto e purificato in sé ogni pensiero e
fermento religioso della storia millenaria del mondo. Pagano o profano,
ateo o agnostico fosse stato il passato contesto dell’intera umana
avventura, da Cristo in poi tutto è stato posto sotto il segno della
Redenzione del mondo.
“Poetessa della trascendenza”, l’ha definita il
critico P. Ferdinando Castelli SJ. Per la forte tensione metafisica che
pervade tutta la sua opera, per il rigore della ricostruzione storica
che molto spesso le fa da sfondo, per il vigore dell’ideale cristiano
cui questa si ispira nonché dei personaggi in cui si incarna, oltre che
per la profondità dell’analisi psicologica, la Von Le Fort è senza
dubbio una delle figure più interessanti della cultura cattolica tedesca
del secolo scorso. La sua opera narrativa forse più importante, L’ultima al patibolo
(1931), su una vicenda di suore ghigliottinate durante la rivoluzione
francese, da cui successivamente lo scrittore francese Georges Bernanos
trasse ispirazione per I dialoghi delle carmelitane, la rese celebre in tutto il mondo.
Le sue pagine vengono accostate senza esitazioni a
quelle di Claudel, Bernanos, Mauriac, Dostoevskij, Péguy. Prolifica e
raffinata, Gertrud von Le Fort fu autrice di oltre venti libri, raccolte
di poesie, romanzi e racconti che, tra l’altro, sembra abbiano contato
molto anche nella formazione culturale di Joseph Ratzinger. Nel 1949
Hermann Hesse, insieme con Martin Buber, la propose per il premio Nobel.
Prima della conversione aveva scritto gli Inni alla Chiesa. Dopo scriverà molti romanzi, fra i quali: La fontana di Roma (in due riprese: Il lino della Veronica, 1928 e La corona degli angeli, 1946), Il Papa del Ghetto (1930), Le nozze di Magdeburgo (1938), La donna eterna (1934), L’estasi di suor von Barby (1940), La Consolata (1947), La figlia di Farinata (1950).
Il fascino delle opere della scrittrice è quello di
seminare elementi biografici nei suoi scritti, ma di non lasciare
traccia autobiografica, tanto che i critici hanno a lungo cercato ed
indagato, e chiesto a contemporanei che la conobbero di persona, e
perlustrato archivi ed articoli alla ricerca di elementi biografici.
Rimane a nostro avviso una lettera assai significativa, vergata di pugno
della stessa Gertrud, e datata 27 dicembre 1947, in cui rivolgendosi ad
una studentessa laureanda sulle sue opere, la scrittrice spiega che “di
autobiografico esiste poco, perché io credo che l’autore sia responsabile di fronte al pubblico con la sua opera e non con la sua persona…
Del resto – lei dice – questo mio modo di comportarmi è in stretta
relazione con il mio libro “La donna eterna” e cioè non si può esigere
che caratteristica della missione della donna sia il velo senza che essa
lo porti”.
La scrittrice pensava alla donna come al canale dei
grandi misteri del cristianesimo nel mondo: la nascita di Cristo,
l’annuncio della Pasqua, la discesa dello Spirito Santo che “mostra
l’uomo nell’atteggiamento femminile di chi riceve”, e che è la “cellula
primogenita della Chiesa”. Il femminile che innerva tutta la creazione, come viene bene espresso in “La donna eterna”.
E a buon ragione allora Bonaventura Tecchi potè
parlare di un “velo” che si stende su tutta l’opera dell’autrice
tedesca: caratteristica e compito della donna è di conservare cioè un
velo, qualcosa di misterioso, non solo nel suo corpo ma anche nella sua
anima, nell’abbandono e nella dedizione, nell’amore totale, come accadde
a Maria quando pronunciò il suo Fiat. Maria, la Donna per eccellenza,
da Gertrud tanto amata e che aveva celebrato nei suoi splendidi versi:
“Rallegrati, vergine Maria,/ figlia della mia terra,/ sorella dell’anima
mia,/ rallegrati, gioia della mia gioia./ Sono come un vagabondo nella
notte,/ ma tu sei un tetto sotto il firmamento./ Sono una coppa
assetata,/ ma tu sei il mare aperto del Signore./ Rallegrati Vergine
Maria,/ ala della mia terra,/ corona dell’anima mia;/ rallegrati, gioia
della mia gioia:/ felici coloro che ti proclamano felice!”.
(c) Maria Di Lorenzo – all rights reserved
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