LE STELLE E IL MARE DI AGOSTO
***
C’è qualcosa di strano, di metafisico in queste città d’agosto,
abbacinate dal sole. E ancor più in questo affollarsi di corpi sulle
rive del mare. Tutti ben inquadrati, in reggimenti, come tanti soldati
in fila. Davanti all’infinito del mare e alla potenza del sole che entra
nella carne.
E’ quasi un’adorazione inconsapevole.
Quella delle claustrali o degli eremiti è un’adorazione cosciente:
contemplano un volto in cui si racchiudono tutti i mari e i soli e le
stelle, tutte le albe e tutti i tramonti, Colui che dà consistenza a
ogni granello di sabbia, a ogni cristallo di neve delle alte montagne,
all’universo intero.
Ma forse anche noi, turisti del tempo, siamo pellegrini dell’eterno e
in questo periodo sospeso delle città deserte, delle spiagge affollate o
delle alte vette delle Dolomiti, contempliamo senza saperlo il
“misterio eterno/ dell’esser nostro” (Leopardi)
Cesare Pavese ha dedicato un libro memorabile a questo momento di
sospensione, dove le “ferie” dal lavoro spalancano davanti una voragine,
quella del tempo vuoto, così insolita e allarmante da dover essere
riempita affannosamente di distrazioni o di torpore.
Forse uno dei modi migliori di gustare l’estate è proprio la lettura. Anche – perché no? – di “Feria d’agosto”.
“In verità” scriveva Pavese in questo strano libro “siamo tutti in
attesa (…) La compagnia che ci facciamo serve a distrarci dalla varia
attesa, dal vuoto instabile che la tentazione di tacere crea dentro di
noi”.
E ancora: “Non si sfugge, nemmeno nell’acqua, alla solitudine e
all’attesa (…). Che cosa deve dunque accadere? (…). Ma siamo tutti
inquieti: chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi
c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda”.
Certo, Pavese è ipersensibile alle normali risacche della vita. Era
vulnerabile come i bambini che non hanno la corazza dell’abitudine e
della distrazione a difenderli dagli urti dell’esistenza e avvertono
tutto sulla carne viva.
Nel “Mestiere di vivere”, Pavese ci dà ancora due suggestioni che
bisognerebbe ascoltare e contemplare a lungo… La prima: “Com’è grande il
pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai
promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”.
Il primo pensiero ci fa accorgere di essere come i fortunati
destinatari di una grande eredità, i principi di un regno che – nascendo
– con la vita stessa ci viene elargito, non si sa da chi e perché.
Certo senza alcun merito da parte nostra. Senza che – appunto – ci
fosse dovuto alcunché. Per pura liberalità, per un’assoluta gratuità.
Ma subito dopo subentra la sensazione che questa incomprensibile
situazione debba essere – per forza – solo la premessa, la preparazione
di qualcosa. Aspettiamo spiegazioni, insomma. Che qualcuno venga a
svelarci chi siamo e perché ci troviamo qui. E quale scopo ha questa
donazione che abbiamo ricevuto.
Può sembrare assurdo questo aspettare perché – secondo lo scrittore –
nessuno ci ha promesso qualcosa. Eppure non è proprio così. Perché
intanto tutto ci è stato “dato” e tutto è una promessa. E anche una
premessa.
Tutto è qualcosa di incompiuto, come un sipario che deve aprirsi. E
questo è il compito di un sipario: esiste solo per aprirsi a un certo
momento.
L’attesa di questa rivelazione non è per nulla passività, ma forse è
la vita stessa. Ciò che fa dire ancora a Pavese: “Aspettare è ancora
un’occupazione. E’ non aspettar niente che è terribile”.
Perché senza nulla da aspettare è solo il baratro del nulla che ci si
spalanca davanti. E non domani, ma da subito e ingoia già le cose, le
ore, i volti amati.
E’ orribile. Noi avvertiamo che non siamo fatti per questo. Infatti
tutti noi, volenti o nolenti, aspettiamo. Il mare in un modo tutto
speciale suggerisce questa attesa.
Anche Flaubert lo coglie e lo rappresenta nell’anima della sua Madame Bovary:
“In fondo all’anima tuttavia ella attendeva un
avvenimento. Come i marinai che si sentono perduti essa volgeva di qua e
di là degli sguardi disperati, cercando in lontananza qualche vela
bianca, tra le nebbie dell’orizzonte. Non sapeva che cosa aspettasse,
quale caso; né da qual vento questo sarebbe portato, né a qual riva
condurrebbe lei; se fosse scialuppa o bastimento grande, se carico
d’angosce o pieno di felicità fino alle murate”.
In fondo il mare è una grande metafora della vita. Apparentemente
siamo tutti dei poveretti che dalla riva vedono allontanarsi sempre più,
all’orizzonte, il naviglio delle cose e delle persone amate, perché
l’esistenza è un continuo addio. E alla fine arriva la notte che
inghiotte tutto.
Ma c’è un’altra possibilità, che sussurriamo al nostro cuore e che tacitamente desideriamo per i nostri figli.
Che in realtà noi viventi siamo lì, sulla riva, in attesa di un nave
che arrivi dall’orizzonte con il grande Amore della vita, con la
Felicità che un giorno si avvicinerà e sbarcherà sulle spiagge della
nostra esistenza.
Anche se si crede – come Pavese – che nessuno ce l’ha promessa (ma in
realtà ci è stata promessa), questa è l’attesa che abbiamo davvero nel
cuore. Ed è inestirpabile. Luminosa come il sole d’agosto.Antonio Socci
Da “Libero”, 17 agosto 2012
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