Il cattolico Oscar Wilde, e il suo pentimento per la «perversione morale»
«Il cattolicesimo è la religione in cui muoio», così disse il celebre poeta e drammaturgo Oscar Wilde poco prima di morire a Parigi, il 30 novembre 1900. Lo scrittore e saggista esperto del mondo britannico Paolo Gulisano si è concentrato anche sulla conversione di Wilde nel suo libro “Ritratto di Oscar Wilde” (Ancora 2009) in cui ha definito «un mistero non ancora pienamente svelato» la sua complessa personalità, arrivando a descrivere il profondo e autentico sentimento religioso del celebre poeta.
Il cammino esistenziale di Oscar Wilde è stato un lungo e difficile itinerario verso il cattolicesimo, una conversione -ha spiegato Gulisano- «di cui nessuno parla,
e che fu una scelta meditata a lungo, e a lungo rimandata, anche se –
con uno dei paradossi che tanto amava- , Wilde affermò un giorno a chi
gli chiedeva se non si stesse avvicinando troppo pericolosamente alla
Chiesa Cattolica: “Io non sono un cattolico. Io sono semplicemente un
acceso papista”. Dietro la battuta c’è la complessità della vita che può essere vista come una lunga e difficile marcia di avvicinamento al Mistero, a Dio». Molte le persone che sono entrate in rapporto con lui e si sono convertite, come Robbie Ross, Aubrey Beardsley, e -ha continuato lo scrittore- «addirittura quel John Gray
che gli ispirò la figura di Dorian Gray che diventato cattolico entrò
anche in Seminario a Roma e divenne un apprezzatissimo sacerdote in
Scozia. Infine, anche il figlio minore di Wilde divenne cattolico». Wilde soleva ripetere: «Il cattolicesimo è la sola religione in cui valga la pena di morire» (R. Ellmann, “Oscar Wilde”, Rizzoli, Milano 1991, pag. 669).
Wilde è oggi celebrato sopratutto come “icona gay”, ma Gulisano ha spiegato che «non può essere definito
tout court “gay”: aveva amato profondamente sua moglie, dalla quale
aveva avuto due figli che aveva sempre amato teneramente e ai quali, da
bambini, aveva dedicato alcune tra le più belle fiabe mai scritte, quali
“Il Gigante egoista” o “Il Principe Felice”. Il processo fu un guaio in
cui finì per aver querelato per diffamazione il Marchese di
Queensberry, padre del suo amico Bosie, che lo aveva accusato di
“atteggiarsi a sodomita”. Al processo Wilde si trovò di fronte
l’avvocato Carson, che odiava irlandesi e cattolici, e la sua condanna
non fu soltanto il risultato dell’omofobia vittoriana». Tuttavia ebbe contemporaneamente diverse relazioni omosessuali, ma verso l’epilogo della sua vita si pentì del suo comportamento. Già nel celebre “De profundis”, una lunga lettera all’ex amante Alfred Douglas, scrisse: «Solo nel fango ci incontravamo», gli rinfacciò, e in una confessione autocritica: «ma soprattutto mi rimprovero per la completa depravazione etica a cui ti permisi di trascinarmi» (Ediz. Mondadori, 1988, pag. 17). Tre settimane prima di morire, dichiarò ad un corrispondente del «Daily Chronicle»: «Buona parte della mia perversione morale
è dovuta al fatto che mio padre non mi permise di diventare cattolico.
L’aspetto artistico della Chiesa e la fragranza dei suoi insegnamenti mi
avrebbero guarito dalle mie degenerazioni. Ho intenzione di esservi
accolto al più presto» (R. Ellmann, “Oscar Wilde”, Rizzoli, Milano 1991, pag. 669).
Mentre si trovava in punto di morte, il suo amico Robert Ross condusse presso di lui il reverendo cattolico irlandese Cuthbert Dunne.
Wilde rispose con un cenno di volerlo vicino a sé (era impossibilitato a
parlare), il sacerdote gli domandò se desiderava convertirsi, e Wilde
sollevò la mano. Quindi padre Dunne gli somministrò il battesimo condizionale, lo assolse dai suoi peccati e gli diede l’estrema unzione (R. Ellmann, “Oscar Wilde”, Rizzoli, Milano 1991, pag. 670).
Qui e qui due interessanti contributi per chi volesse approfondireda:UCCR
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