L’amica degli straccivendoli
***
di MARIA DI LORENZO
La chiamavano “la Madre Teresa del
Cairo”, e lei si schermiva, dicendo di non essere affatto una santa,
descrivendosi anzi come “vendicativa”, “collerica”, “un po’ femminista”.
Nel 2006 era stata eletta da un sondaggio commissionato dalla rivista
“Elle” come la donna più amata e rappresentativa di Francia.
Madaleine Cinquin, colei che sarebbe
diventata per tutti suor Emmanuelle del Cairo, era nata a Bruxelles nel
1908. Nel ’31, a ventitré anni di età, aveva preso i voti nella
Congregazione Nostra Signora di Sion.
Si era laureata in filosofia alla
Sorbona, e poi aveva insegnato letteratura e filosofia a Istanbul,
Tunisi, Il Cairo e Alessandria. Anni proficui e intensi, densi di
progetti e di idee. Anni preparati da un grande dolore. Un dolore senza
fondo, che l’aveva straziata ma non inebetita al punto di non farle
individuare il senso di svolta della sua vita e, con esso, la sua
incredibile rinascita.
“Giovanissima – raccontava lei – , a sei
anni, la felicità mi ha rivelato la sua volubilità. Mio padre, che
rappresentava ogni mia felicità di bambina fortunata, è annegato sotto i
miei occhi. Era una domenica mattina dell’autunno 1914. La ‘Prima
Guerra Mondiale’ era appena stata dichiarata. Prima di raggiungere il
suo reggimento, il papà aveva voluto passare qualche giorno in famiglia a
Ostenda. Buon nuotatore, aveva deciso di sfidare il Mare del Nord,
agitato da forti ondate. Non resistette a un flutto in tempesta che lo
portò al largo.
Mi ricordo di aver urlato sulla
spiaggia, con mia sorella e il mio fratellino. Abbiamo gridato con tutte
le nostre forze: “Papà, torna!”. Ma lui non poteva più sentirci. Il
mare ci restituì il corpo il giorno seguente. La felicità aveva lasciato
il posto all’amarezza. Si era trasformata in tristezza. La bellezza
selvaggia del mare era diventata la maschera tragica del mio dolore. La
bella schiuma bianca sulla cresta delle onde si era tramutata in acqua
salata – l’acqua delle mie lacrime. Lacrime che ho versato molto a
lungo. La mia vita si costruì su quel dramma.
Ho saputo da sempre la fragilità della
nostra gioia sulla terra. Il dolore per la morte di mio padre ha
colorato tutte le felicità della mia vita. Quell’esperienza
indimenticabile dell’infanzia si confermò durante gli anni. Ho tanto più
potuto gioire delle felicità semplici della vita quanto meno vi sono
stata legata. Ho sempre saputo che non erano fatte per durare. Le ho
gustate con intensità, nella pienezza del momento, come istanti di
meravigliosa grazia che rendono incantata la vita qua e là. Non ho
cercato di prolungare o trattenere le felicità che mi capitavano. Ho
accettato la loro natura effimera, simile alla schiuma.
Ho sentito il vuoto fin da molto
giovane. Mi piaceva divertirmi, ballare, andare al cinema. Ma tutto
questo non mi lasciava nulla. Quando ho abitato a Bruxelles, facevo
spesso una ‘scappata’ a Londra. Mi divertivo. Tornavo. E poi? Andavo a
Parigi. Mi divertivo. Tornavo. C’era sempre quel vuoto. Quel vuoto che
‘azzannava’ la mia giovinezza. Ho tentato di riempirlo. Molto presto ho
cercato in Dio un amore duraturo e senza limiti, quello che la vita
terrestre mi aveva rifiutato. Ho voluto un assoluto.
Quell’assoluto sarebbe stato l’amore di
Cristo nel mio cuore, che avrei portato a migliaia di bambini messi da
parte dal mondo… Sono entrata in convento a 21 anni. Da ‘postulante’
portavo una grande veste nera e un piccolo velo traforato, tenuto da un
nastro annodato. Era una divisa ridicola. Ero vestita quasi come una
vedova! E tuttavia, quando indossai quella veste, ho sentito una
felicità incredibile – la felicità di essere infine libera!
Prima non avevo mai abbastanza soldi per
i miei vestiti. Oramai non avevo più bisogno di correre dietro ai
cappelli o alle scarpe di moda. Avevo voluto essere bella ad ogni costo.
Avevo cercato di piacere e di essere ammirata, facendo parecchi sforzi
perché lo sguardo degli uomini si posasse su di me. Improvvisamente ciò
non era più necessario. Era l’inizio di una pienezza. Finalmente il mio
cuore era soddisfatto”.
Suor Emmanuelle aveva un modo molto
franco e schietto di parlare, senza tanti giri di parole, ed era questa
una delle caratteristiche che più la faceva amare dalla gente.
Il suo segreto? La condivisione.
Dall’età di sessantadue anni, aveva vissuto con i quattromila poveri di
Ezbet el-Nakhl, sulla sponda occidentale del Canale di Suez, dopo che,
finalmente in pensione dall’insegnamento, aveva potuto dedicarsi
interamente alla sua vocazione: amare i “diseredati”, i dimenticati
della terra.
A Ezbet el-Nakhl, era arrivata un
giorno, povera tra i poveri, con un carretto e un materasso e vi aveva
fatto nascere un dispensario medico, un ambulatorio, una casa per
anziani, un asilo, e un centro di accoglienza intitolato “Salam”, pace.
Nel 1980 aveva dato vita a una
associazione che porta il suo nome e che continuerà – dopo di lei – ad
aiutare bambini poveri in tutto il mondo, dall’Egitto al Sudan, dal
Libano alle Filippine, dall’India al Burkina Faso.
“Yalla, avanti, fratelli e sorelle! La
vita è bella quando si ama”, diceva lei. E ancora: “Provo una immensa
riconoscenza per tutti coloro che mi hanno insegnato che l’amore è più
forte della morte e porta in sé un seme di eternità”.
Dove l’occhio del mondo occidentale non
vedeva che sottosviluppo, nelle periferie delle metropoli del Sud del
mondo, come tra gli “zabbalin”, gli uomini delle immondizie, nei
sobborghi del Cairo, suor Emmanuelle – che era stata soprannominata non a
caso la “petite soeur des chiffonniers” – aveva trovato tanta
ricchezza spirituale e culturale, sperimentandovi la gratuità di
relazioni umane autentiche e totalmente disinteressate.
Lì la religiosa aveva scoperto, in sé e
negli altri, quella pienezza che dà senso alla vita, e che infonde gioia
ad ogni azione compiuta. Il suo messaggio, quasi un testamento, letto
nel giorno dell’addio alle sue spoglie, è stato ancora una volta un inno
alla gioia e alla speranza: “La vita non si ferma mai per coloro che sanno amare”.
“Nella ‘bidonville’ – diceva lei – ho
vissuto nella gioia. Mi è stato concesso di salvare dei bambini dalla
morte. È stato straordinario. Tuttavia, ciò che faccio oggi nel silenzio
e nel ‘nascondimento’ non è meno appassionante. Vivo nel mio corpo
‘usurato’ la sofferenza della povertà. Non la povertà materiale. Oggi la
mia povertà è l’‘inazione’. L’azione mi dava la sensazione di esistere.
Più facevo, più mi sono sentita esistere. Ed è stato ‘inebriante’. Era
solo un’illusione, ma non ne sono stata conscia finché sono rimasta
impegnata nell’azione. Ho dovuto subire la prova dell’incapacità legata
all’età anziana per scoprire questa essenziale verità. E forse si tratta
di una delle più grandi grazie della mia vita, perché ora sono nella
verità pura…”.
Così rifletteva, con la schiettezza che
le era propria, suor Emmanuelle del Cairo. Stava per compiere cent’anni
ed era consapevole di essere vicina a un’altra ‘soglia’, sconosciuta,
eppure non del tutto misteriosa per lei che al mistero, quello con la
maiuscola, aveva affidato tutta la sua vita, spendendosi senza misura,
oltre ogni limite, umano e spirituale.
La religiosa di origine belga moriva il
20 ottobre 2008, dopo aver dedicato ben settant’anni della sua lunga e
laboriosissima vita ai più poveri dei poveri nelle bidonville attorno al
Cairo.
Il suo segreto? Era la carità. E il
segreto della sua carità era l’amore per Maria, lei che un giorno di
tanti anni prima era entrata tra le figlie di Nostra Signora di Sion.
Era un modello di servizio, di umiltà, di totale gratuità. Come nel
quadro dell’Annunciazione del Beato Angelico che tanto amava e non
cessava di avere davanti agli occhi del cuore prima di abbandonarsi a
Dio a mani giunte.
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Tratto dal libro Venti voci per un Magnificat di Maria Di Lorenzo (Edizioni dell’Immacolata, Bologna 201
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