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sabato 3 marzo 2012

santi3





San Luigi Orione
***
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book

Si era a pochi giorni dopo il terremoto (del 1915, nella Marsica, in Abruzzo). La maggior parte dei morti giaceva ancora sotto le macerie. I soccorsi stentavano a mettersi in opera. Gli atterriti superstiti vivevano nelle vicinanze delle case distrutte in rifugi provvisori. Si era in pieno inverno, quell'anno particolarmente freddo. Nuove scosse di terremoto e burrasche di neve ci minacciavano (...).
Durante certe notti gli urli delle belve non ti lasciavano prendere sonno (...). Una di quelle mattine grigie e gelide, dopo una notte insonne, assistei ad una scena assai strana. Un piccolo prete sporco e malandato, con la barba di una decina di giorni', si aggirava tra le macerie attorniato da una schiera di bambini e ragazzi rimasti senza famiglia. Invano il piccolo prete chiedeva se ci fosse un qualsiasi mezzo di trasporto per portare quei ragazzi a Roma. La ferrovia era stata interrotta dal terremoto, altri veicoli non vi erano per un viaggio così lungo.
In quel mentre arrivarono e si fermarono cinque o sei automobili.
Era il re (Vittorio Emanuele III) col suo seguito che visitava i comuni devastati. Appena gli illustri personaggi scesero dalle loro macchine e si allontanarono, il piccolo prete, senza chiedere il permesso, cominciò a caricare sopra una di esse i bambini da lui raccolti. Ma, com'era prevedibile, i carabinieri rimasti a custodirle vi si opposero, e poiché il prete insisteva, ne nacque una vivace colluttazione al punto da richiamare l'attenzione dello stesso Sovrano.
Per nulla intimorito, il prete si fece allora avanti e, col capello in mano, chiese al re di lasciargli per un po' di tempo la libera disposizione di quelle macchine in modo da poter trasportare gli orfani a Roma, o almeno alla stazione più prossima ancora in attività. Date le circostanze, il re non poteva non acconsentire.
Assieme ad altri, anch'io osservai con sorpresa e ammirazione tutta la scena. Appena il prete, col suo carico di ragazzi, si fu allontanato, chiesi attorno a me: "Chi è quell'uomo straordinario?". Un vecchio, che gli aveva affidato il suo nipotino, mi rispose: "Un certo don Orione, un prete piuttosto strano".
Così lo scrittore Ignazio Silone ha raccontato in "Uscita di sicurezza" il suo primo incontro con don Orione, avvenuto quando egli, appena quindicenne, perse casa e famiglia proprio durante quel terribile terremoto di cui parliamo.
Allora, nel 1915, quello strano prete era già il fondatore amato e rispettato di un istituto religioso che si occupava dei poveri d'ogni specie. Tuttavia era accorso subito personalmente, tra le montagne dell'Appennino, a cercare gli orfani sperduti tra i casolari.
A volte doveva contendere ai lupi quei poveri orfanelli seminudi che cercava portando con sé vestitini, biscotti e gianduiotti, restandosene per giorni e giorni tutto inzuppato d'acqua, a percorrere instancabilmente sentieri pieni di neve, per raggiungere paesini diroccati sui loro monti.
"Oh, questi cagnacci non la vogliono proprio smettere.. .", spiegava ai bambini raccolti su un camioncino di fortuna che si era arrampicato sul Monte Bove, fino a 1.300 metri, ma erano proprio lupi che saltavano attorno, cercando di azzannare i piccini terrorizzati
Sembrava una scena da favola, da raccontare attorno al fuoco. Era, invece, la tragica realtà: per salvare decine di bambini don Orione si sfiniva nel digiuno, nel freddo, nella disumana fatica, fino a che cadde esausto.
Quando giunsero altri collaboratoti del suo stesso istituto, lo trovarono febbricitante da far pena. Egli si affidò alle loro cure mormorando: "In questi giorni se ne sono andati due anni della mia vita".
Un altro celebre studioso del tempo, il barone Von Hùgel, ebbe l'occasione di ascoltare il racconto di queste imprese dalla bocca della sua stessa figlia che era stata testimone oculare. A conclusione dei suoi Essays and Addresses on the Philosophy and Religion (Saggi di filosofia religiosa) ricordò l'esperienza della figlia ormai defunta.
Scrisse: "Quando la mia figlia maggiore, circa otto mesi prima della sua morte, poté da Roma giungere al centro della terribile devastazione, proprio allora causata da un terremoto eccezionalmente violento, un contrasto impressionante venne a colpire d'un tratto il suo spirito.
Nel mezzo della morte e del disordine si muoveva, completamente assorto nella sventura di quei poveri, don Orione, un umile prete, un uomo cui molti guardavano già come a un santo, sorto dagli umili e dai poveri, per gli umili e per i poveri.
Egli portava due bimbi, uno su ciascun braccio, e ovunque andasse recava ordine, speranza e fede in mezzo a tutto quello scompiglio e quella disperazione.
Mia figlia mi disse che ciò faceva sentire a tutti che l'Amore era proprio in fondo a tutte le cose, un Amore che appunto là, per quei luoghi, si manifestava attraverso il completo, affettuoso dono di sé, di quell'umile prete...".
In verità don Orione aveva già una lunga esperienza di come portare amore in tali sciagure,
Appena sette anni prima, un altro terribile terremoto aveva raso al suolo in pochi istanti le città di Messina e di Villa San Giovanni. Solo nella cittadina siciliana, su 150.000 abitanti, ne erano morti 80.000.
Già allora egli era stato in prima linea, organizzando i soccorsi, installando il suo primo quartier generale a Reggio Calabria, in un vagone abbandonato sui binari morti della ferrovia.
Ma ben presto dalle sue mani era passata tutta la rete dei soccorsi ed era lui che coordinava gli aiuti che provenivano dal Papa e dalla casa reale.
Lavorò al punto che Pio X decise di nominarlo temporaneamente lui, un piccolo prete piemontese, superiore di una Congregazione religiosa appena formata! Vicario Generale della diocesi di Messina. Abitò di conseguenza, per due anni nella curia arcivescovile di quella città disastrata.
Non era un tipo da compromessi ed era costretto ad operare in una regione dove gli accomodamenti erano continuamente sollecitati e richiesti. Non mancarono perciò croci, vessazioni e tentativi di infamarlo.
Ma don Orione non era il tipo da cedere. Sullo stemma di un vescovo aveva letto un giorno l'antico e ambizioso motto desunto dalle odi del poeta latino Orazio "Frangar nec flectar" ("Anche se spezzato non mi lascerò piegare!"). Aveva commentato: "io non mi lascerò nè spezzare ne piegare!".
Pio X, che gli aveva affidato quell'incarico oneroso, da Roma gli mandava accorati messaggi: "Portate a don Orione la mia benedizione e ditegli che abbia pazienza, pazienza, pazienza, e che con la pazienza si fanno i miracoli".
I miracoli di don Orione erano intanto gli orfanotrofi che riusciva ad aprire sia in Calabria che in Sicilia.
Ma è tempo di riandare alle origini di quella avventura. Colui che fu definito "padre degli orfani e dei poveri" nacque a Pontecurone, vicino ad Alessandria, nel 1872, da una famiglia molto umile che abitava in una casetta rustica, aggrappata alla villa di Urbano Rattazzi, allora celebre statista.
Il papà faceva il selciatore di strade e si vantava di essere "garibaldino" e anche un po' anticlericale; la mamma guadagnava qualche soldo al tempo della mietitura quando, alle tre del mattino, partiva per andare a spigolare sui campi, portando il piccolo Luigi avvolto nello scialle.
Era l'ultimo di quattro figli e i vestitini gli arrivavano quando già gli altri tre fratelli li avevano ben consumati. Era, però, una povertà onesta.
"Quella povera vecchia contadina di mia madre, racconterà poi don Orione, si alzava alle tre di notte e via a lavorare, e pareva sempre un fuso che andasse, sempre s'industriava, faceva da donna e, con i suoi figli, sapeva fare anche da uomo, perché nostro padre era lontano a lavorate nei Monferrato.
Batteva il falcetto per fare l'erba e lo batteva lei, senza portarlo all'arrotino, faceva la tela con canapa filata da lei, e i miei fratelli si divisero tante lenzuola, tanta bella biancheria, povera mia madre... Quando è morta, le abbiamo ancora messo il suo vestito da sposa, dopo cinquantuno anni che era sposata; se l'era fatto tingere in nero e faceva ancora la sua bella figura, ed era il suo vestito più bello. Vedete, cari figli miei, come facevano i nostri santi e amati vecchi?".
Ma la mamma era soprattutto profondamente credente e don Orione ricorderà sempre con commozione non solo che ella andava spesso a ricevere l'Eucaristia, ma che al ritorno diceva sempre ai figlioli:
"Ho pregato prima per voi e poi per me. Ho ricevuto il Signore per voi e per me". Al piccolo Luigi sembrava quasi che la mamma si levasse il pane di bocca per darlo a lui, perfino quando faceva la Comunione!
Ricorderà ancora:
"Mia madre, anche quando io e i miei fratelli eravamo già grandi, ci fissava il posto in chiesa; "Perché vi voglio vedere...". Voleva sapere dove si era in chiesa, e voleva sentire anche la nostra voce pregare...".
"Mia madre ci faceva dire le preghiere seduti, solo quando eravamo malati...".
Sono bozzetti d'altri tempi, e tuttavia ci fanno respirare il clima di umiltà, di forza e di fede, da cui Luigi trasse quella incredibile resistenza alla fatica che doveva poi caratterizzarlo, e quella passione "cristiana" per i poveri che non l'avrebbe mai abbandonato.
Quando, al termine della sua vita, lo costringeranno ad andare in un pensionato per convalescenti a San Remo dopo vari attacchi al cuore, e dopo che aveva già ricevuto gli ultimi sacramenti, si lamenterà: "Non è tra le palme che io voglio vivere e morire, ma tra i poveri che sono Gesù Cristo".
Per molti cristiani, questo amore "ai poveri che sono Gesù Cristo" nasce tardi, come maturazione della fede adulta e non senza fatica. Per lui cominciò naturalmente, come attaccamento mai dimenticato, stima e venerazione, verso quei poveri cristiani che erano papà, mamma e i suoi fratelli. Egli stesso, del resto, dai dieci ai tredici anni aveva aiutato il papà a selciare le strade e trascinare carriole, vagando lontano da casa.
Sognava già allora di entrare tra i francescani, perché li considerava i frati del popolo e degli umili che volevano aiutare e soccorrere.
Ci provò infatti, a tredici anni, ma una brutta polmonite lo costrinse a tornare in famiglia.
Riuscirono poi a trovargli un posto nel collegio di quel prete torinese che tutti ormai consideravano l'apostolo della gioventù abbandonata. Mi riferisco a don Bosco al quale, alla fine del 1886, restava poco più di un anno di vita.
Quando giunse il piccolo Orione chiese un permesso speciale per potersi confessare da don Bosco che di solito si dedicava ai ragazzi più grandi, dalla quarta ginnasiale in su.
Per essere sicuro di fare una buona e completa confessione, aveva consultato alcuni formulari di "esame di coscienza" e li aveva trascritti quasi integralmente. Solo alla domanda: "Hai ammazzato?", aveva risposto negativamente. Gli altri peccati li aveva copiati tutti, riempiendo alcuni quadernetti.
Ma vale la pena ascoltare il racconto dalla sua stessa bocca;
"Con una mano nella tasca dei quaderni e l'altra al petto, aspettavo in ginocchio, tremando, il mio turno. "Che cosa dirà don Bosco pensavo tra me, quando gli leggerò tutta questa roba?". Venne il mio turno. Don Bosco mi guardò un istante e senza che io aprissi bocca, tendendo la mano disse: "Dammi dunque questi tuoi peccati". Gli allungai il quaderno, tirato su accartocciato dal fondo della tasca. Lo prese e senza neppure aprirlo lo lacerò. "Dammi gli altri". Subirono la stessa sorte. Ed ora, concluse, la tua confessione è fatta, non pensare mai più a quanto hai scritto e non voltarti più indietro a contemplare il passato". E mi sorrise, come solo lui sapeva sorridere".
Per delineare la personalità di san Giovanni Bosco e la genialità del suo metodo pedagogico, un episodio simile vale più di tanti volumi.
Non c'è da meravigliarsi se quando il santo si ammalò gravemente ci furono sei ragazzi dell'oratorio che durante una Messa solenne, in maniera esplicita, offrirono la loro vita per lui. Tra di essi c'era il piccolo Orione.
Anche il mistero della Chiesa emerge in tutta la sua bellezza quando si guardano insieme, in un unico colpo d'occhio, il vecchio e saggio sacerdote che confessa ed educa il ragazzo timido e scrupoloso. Ambedue avevano il cuore ardente d'amore per Dio e per il prossimo, ambedue erano decisi per la santità. Oggi ambedue sono ugualmente santi e venerati nella Chiesa.
Era logico attendersi allora che Orione restasse tra i salesiani e divenisse, col tempo, uno dei più fedeli e geniali collaboratori. Tanto più che don Bosco, dopo quella famosa confessione, gli aveva detto con intenzione guardandolo fisso negli occhi: "Ricordati che noi saremo sempre amici".
Luigi, del resto, già si disponeva con un corso dì esercizi spirituali a fare il suo ingresso nel noviziato dei salesiani, seguendo una vocazione di cui mai aveva dubitato.
I dubbi gli vennero nella preghiera, quando gli si affacciò alla mente la possibilità di entrare invece nel seminario diocesano. Cacciò quei dubbi come una tentazione, essi diventarono più forti. Passò un'intera notte a piangere e a pregare, appoggiato alla tomba di don Bosco, che era in mezzo al giardino della casa chiedendogli tre segni ("Fu una ragazzata, dirà poi, ma tant'è... !"). Uno dei segni però era molto importante: riguardava il ritorno del papà alla pratica religiosa. Si avverarono tutti e tre.
Le ultime ansie scomparvero la notte successiva, quando sognò don Bosco che lo aiutava, sorridendo con tanta paterna tenerezza, a indossare la veste talare che avrebbe dovuto portare in seminario.
Oggi possiamo dire che don Bosco, dal cielo, sapeva perché Orione non doveva diventare salesiano: la sua opera era infatti destinata soltanto ai giovani, quella di don Orione invece doveva riguardare i bisognosi di ogni genere e il sollievo di ogni possibile miseria.
Egli si sarebbe impegnato in tutte le "opere di misericordia" che, secondo il catechismo, sono ben quattordici! Qualcosa di tutti gli altri fondatori di istituti religiosi, anche dei più grandi, sarà presente in lui e nella sua attività. Lo vedremo.
Si presentò dunque al seminario di Tortona dove completò gli studi ginnasiali rivelandosi, a detta di tutti, un allievo veramente modello: eccelleva nello studio, nella carità, e in quell'entusiasmo contagioso che lo avrebbe poi sempre caratterizzato. "Ero buono, allora!", dirà da vecchio, ricordando sempre con nostalgia quegli anni in cui aveva imparato ad appassionarsi a Cristo e alla sua Chiesa.
Quando cominciò lo studio della teologia, gli morì il papà e venne meno anche il piccolo sussidio economico che la famiglia poteva granatigli.
Per fortuna ad Alessandria vigeva l'usanza di offrire, ai tre seminaristi più poveri, la possibilità di lavorare come custodi della cattedrale; potevano frequentare i corsi di studio del seminario, ma vivevano in alcune stanzette sotto la volta del duomo vicino al campanile. Servivano due o tre messe al giorno, curavano i paramenti e le candele e ricevevano un piccolo stipendio, oltre qualche mancia da parte dei canonici.
Non era molto, ma bastava per vivere; bisognava solo studiare più intensamente, perché il tempo se ne andava più in fretta.
In quella soffitta, il chierico Orione studiava, pregava, lavorava... e si preparava alla sua missione. La libertà dalla ferrea disciplina del seminario non la utilizzò per dissiparsi, ma pur attizzare quel fuoco che don Bosco gli aveva lasciato in cuore.
Le stanzette sotto le volte del duomo divennero un ritrovo di monelli di strada che Orione ricercava e portava a casa in gran numero. Qui faceva loro un po' di catechismo, lì faceva divertire, giocando a nascondino nelle vaste soffitte, e non mancava il momento delle castagne abbrustolite. Faceva insomma quello che aveva visto fare nell'oratorio di don Bosco, ma lo faceva in alto, tra i vecchi Santi di legno messi a riposare tra la polvere.
C'era qualche problema, evidentemente. Ogni tanto gli anziani canonici, da laggiù, sentivano in alto strani calpestii; soprattutto la sacrestia era diventata frequentatissima, non da devoti o penitenti ma da file di monelli che chiedevano la strada per "andare su da Orione".
Non poteva durare. Anche in città, quando lo vedevano a passeggio con quella sua rumorosa masnada, molti lo guardavano perplessi, qualcuno anche con fastidio e sospetto.
C'era poi il problema del denaro: il piccolo stipendio da sacrestano non bastava più da quando aveva cominciato a soccorrere le miserie più gravi dei suoi ragazzi.
Comunque, per disposizioni superiori, quell'oratorio improvvisato sulle volte del Duomo doveva finire.
I ragazzi si ritrovarono allora tutti in strada. Si radunavano in una piazzetta e là li aspettava Orione: poi li conduceva su verso il castello diroccato, giocando, e sui prati faceva la sua lezione di catechismo: un oratorio itinerante.
Era la settimana santa, vero tempo di passione per il povero chierico che non sapeva più come fare, e che tuttavia sapeva che Dio gli chiedeva proprio quell'insolito lavoro.
Per fortuna il vescovo della città era un vero padre. Già da tempo egli osservava la strana creatività apostolica di quel giovane seminarista e pensava che i parroci avrebbero dovuto prendere esempio e realizzare a loro volta degli oratori.
Perciò chiamò Orione e gli mise a disposizione il giardino dell'episcopio. A soffrire, un po', fu la vecchia mamma del vescovo che vide distrutti, in una sola domenica, tutti i suoi fiori, le sue aiuole, i vialetti ben curati.
Ora c'era soltanto un cortile, ben spianato, e decine di ragazzi vocianti. Di verde era rimasto solo un vecchio pino, perché si diceva che su di esso fosse apparsa in tempi lontani la Madonna. Ma c'era bisogno d'altalene e anche il pino finì per dare ottime tavole.
Orione era convinto che anche la Madonna fosse contenta, lei che sorrideva ora da una bella statua, come una mamma che guarda compiaciuta i suoi ragazzi giocare.
"E c'era chi borbottava, chi faceva della critica, chi rideva e derideva e chi dava del pazzo", ricorderà tanti anni dopo.
Le critiche non lasciano lividi, ma logorano la buona volontà e la fiducia. Fatto sta che a distanza di poco più di un anno, il vescovo gli comunicò la necessità di chiudere l'oratorio, benché i ragazzi fossero già centinaia.
C'era di mezzo la politica e anche l'impetuosità giovanile del nostro santo ("Io da giovane, dirà simpaticamente, ero anche un po' politico…").
Per difendere il Papa, attaccato dai laicisti, il giovane aveva fatto un discorso in cui, racconta, "Citai Vittorio Emanuele II e dissi ciò che non era prudente dire. Fatto sta che sguinzagliarono alle mie calcagna i poliziotti...".
E ora il Prefetto, per tacitare la questione, esigeva la chiusura di quell'oratorio che, a suo dire, poteva diventare un covo di sediziosi.
Luigi ricevette la notizia a capo chino. Prese la chiave e andò a depositaria nelle mani della statua della Madonna. Poi salì nella sua stanzetta a piangere. Se ne stava al buio, con la fronte appoggiata ai vetri di una finestrella che dava proprio sul cortile, di fronte alla Vergine. Ascoltiamo il suo stesso racconto:
"Mi misi a guardare giù l'oratorio che non si sarebbe più aperto; a piangere e pregare, perché sembrava che tutto fosse finito. Piansi, come piange un bambino, con l'abbandono, l'innocenza e la fede di un bambino... E pregai la Madonna, e misi me e tutto l'oratorio nelle sue mani...
E così, pregando e piangendo, e facendo il sacrificio di tutto, e offrendo tutto alla Madonna, senza accorgermi appoggiai il braccio al davanzale... e mi addormentai... E feci questo grande e santo sogno che non ho dimenticato mai più…".
La descrizione del sogno è ampia, molto bella, ed è un peccato doverla ora riassumere. Egli vide scomparire il muro di cinta del giardino, scomparire le case e farsi una grande pianura.
Della cinta del giardino restava un unico pioppo sul quale stava una Madonna di indescrivibile bellezza, col Bambino tra le braccia, e il suo manto, più bello dell'azzurro del cielo, si allargava sempre di più, fino a ricoprire quell'immensa pianura nella quale si assiepavano migliaia e migliaia di ragazzi, di ogni razza e colore a perdita d'occhio, e il loro numero cresceva, cresceva e in mezzo ad essi c'erano chierici, sacerdoti, suore...
Riprendiamo il suo racconto:
"La Madonna si volse a me indicandomeli. E si udì da tutta quella massa il canto dolcissimo del Magnificat... E i ragazzi cantavano tutti, ciascuno nella sua lingua, ma i vari idiomi si fondevano in un unico mirabile coro. La Madonna si unì a quel canto... e mi svegliai".
Aveva il cuore inondato di pace.
Che quell'oratorio lo si dovesse chiudere non era più un problema. Voleva dire che bisognava aprirne uno più grande, e con nuove prospettive.
L'occasione giunse molto presto.
Il vescovo aveva appena fatto costruire un bel seminario nuovo che però si era rivelato troppo piccolo per le numerosissime richieste. In più c'era il problema di coloro che erano troppo poveri per pagare la retta.
Orione si offrì per aprire una specie di succursale: un collegio per far studiare ragazzi poveri che, eventualmente, avrebbero potuto prepararsi lì al sacerdozio.
Il vescovo diede un generico permesso, pensando che tanto quel chierico non aveva un soldo, né una casa, tanto meno un collegio! Per prudenza, tuttavia, egli ritiro' il permesso prima che finisse la giornata. Quando, tuttavia, fece richiamare Luigi per dirgli di non pensarci più, si sentì dire che era proprio un peccato. Tutto ormai era pronto; la casa era stata trovata ed era già stato pagato l'affitto per un anno.
Come aveva fatto? Appena uscito dall'episcopio un amico gli aveva detto che suo padre affittava una casa appena fuori Tortona, per quattrocento lire l'anno. Orione l'aveva "fermata" subito, tempo una settimana per pagare. Sulla via del ritorno aveva incontrato una vecchina sua conoscente; avevano parlato del più e del meno, era venuta fuori l'idea del collegio.
"Un collegio? Ci metto mio nipote! Quanto prendete?".
"Poco, quello che mi date".
"Se vi do quattrocento lire (tutti i suoi risparmi), quanto tempo me lo tenete?".
"Per tutto il ginnasio!", aveva esclamato Orione sobbalzando di gioia a quell'evidente segno della Provvidenza.
E il Vescovo restò così pensoso che non volle più rischiare di contrariare il cielo.
Dopo un anno la casa era diventata insufficiente, e Orione rilevò nel centro di Tortona un vecchio convento abbandonato. Soldi non ce n'erano quasi mai. Al vitto si provvedeva con le entrate delle rette, ogni famiglia dava quello che poteva, e con le offerte che spesso giungevano come un miracolo. All'insegnamento provvedevano lo stesso fondatore, che insegnava italiano, storia e geografia, e qualche studente di teologia prestato dal seminario diocesano.
Intanto, benché fosse solo diacono, il vescovo lo mandava spesso a predicare nelle parrocchie della diocesi.
Finalmente, nel 1895, Orione venne ordinato sacerdote. Nella storia della Chiesa egli rappresenta il caso più unico che raro di un seminarista che diviene fondatore di un istituto religioso. E tale esso già era, se si pensa che a quel chierico si riferivano perfino alcuni studenti da Torino e da Genova.
Il giorno della sua ordinazione, il vescovo gli concesse infatti di rivestire dell'abito talare sei convittori che volevano incamminarsi al sacerdozio "sotto la guida ai don Luigi"
Di più ancora, monsignore autorizzò alcuni seminaristi che si sentivano attratti dall'impresa di Orione a lasciare il seminario e a iniziare con lui una forma di vita comune. Nasceva così la Piccola Opera della Divina Provvidenza.
Attorno a questo nucleo di "consacrati", vivevano, come in un'unica famiglia, sia dei ragazzi poveri che volevano soltanto studiare, sia dei seminaristi che non potevano permettersi la retta del seminario, sia coloro che desideravano far parte dell'istituto nascente.
L'ufficio della direzione, quello di don Orione, era l'atrio d'ingresso dell'edificio!
Non passò molto tempo che fu necessario sciamare. Un gruppo si trasferì dunque sulle colline di Voghera, dove si organizzò come "colonia agricola", questa volta con lo scopo di formare attraverso il lavoro quei ragazzi che non avevano inclinazione per lo studio.
Nel 1898 il vescovo di Noto, in Sicilia, che aveva letto un bollettino informativo del nuovo Istituto, scriveva a don Orione, un pretino ventisettenne, ordinato da appena tre anni, per offrirgli una casa dove aprire un collegio vescovile per almeno sessanta alunni. Egli si recò personalmente nell'isola per organizzare la fondazione; quando ripartì per Tortona portava con sé dodici chierici della diocesi siciliana che volevano far parte della sua Congregazione.
Nello stesso anno fondò gli Eremiti della Divina Provvidenza. In un'antichissima abbazia sull'Appennino Pavese, raccolse dei laici abituati al lavoro dei campi, che volevano consacrarsi al Signore, nella contemplazione e nel lavoro, alla maniera benedettina.
In breve nacquero numerose comunità similari, sempre dislocate negli eremi o nelle colonie agricole, come nucleo portante di preghiera e di lavoro.
Ne furono aperte in Piemonte, in Lombardia, in Umbria, nel Lazio, in Sicilia, dove i discepoli di don Orione dissodarono e fecero rifiorire vaste zone da tempo improduttive
Tra questi eremiti consacrati vi erano poi anche dei ciechi: di uno di essi, il celebre "Frate Ave Maria", è in corso il processo di beatificazione.
Nel 1915, Orione comincia a disseminare l'Italia di case di cura chiamate "Piccoli Cottolengo". Ciò che il Cottolengo aveva fatto a Torino in grande, egli lo dissemina in piccolo in tutta Italia e nel mondo (nove fondazioni prima della sua morte!), per accogliervi le miserie più ripugnanti, coloro che la società vuole ad ogni costò togliersi dalla vista.
I malati dovevano essere organizzati in "diverse famiglie", secondo il tipo di malattia, mentre i Piccoli Cottolengo dovevano accogliere solo coloro che non riuscivano a trovare posto in nessun altro ospedale o casa di accoglienza: gli ultimi degli ultimi "di qualunque nazionalità siano, di qualunque religione siano, e anche se fossero senza religione, perché Dio è Padre di tutti".
Ancora nel 1915, don Orione fonda le "Piccole suore missionarie della Carità", come ramo femminile di tutte le sue opere: alle suore erano affidati gli asili, gli orfanotrofi, le opere parrocchiali, l'educazione delle ragazze, l'assistenza ai poveri e agli infermi, nonché l'espletazione delle mansioni femminili di tutti gli altri istituti.
Le prime tre ragazze a cui diede l'abito le chiamò: Suor Fede, Suor Speranza e Suor Carità. Più tardi darà inizio a una diversa congregazione femminile destinata esclusivamente alla cura dei Santuari e per le attività attinenti al culto.
Nel 1927 fonda le "Suore Sacramentine cieche": per l'adorazione perpetua e la preghiera incessante, alle quali affida il compito di essere sostegno e radice di tutte le altre opere.
Degli orfanotrofi abbiamo già detto e i due terremoti dì cui abbiamo narrato diedero un forte impulso alla loro diffusione. Aggiungiamo; parrocchie, santuari, scuole, tipografie, case di riposo.
Sono più di cento le fondazioni di case e di opere a cui don Orione mise mano, prima di essere colto dalla morte a sessantotto anni, percorrendo non solo l'Italia ma anche Brasile, Argentina, Uruguay, Cile, Stati Uniti, Inghilterra, Grecia, Polonia, Albania e Palestina.
Accettò perfino di andare nella "Patagonia romana", così chiamava scherzosamente la periferia di Roma nel quartiere Appio, dove Pio X gli chiese di costruire una parrocchia e un grande istituto scolastico.
Alla sua morte alle varie diramazioni della sua "Piccola Opera della Divina Provvidenza" appartenevano circa 820 religiosi e parecchie centinaia di suore.
Tutto questo egli lo definiva: "un' umile congregazione", perché egli stesso era umile.
Girava il mondo vestito come l'ultimo dei poveri, con la veste rattoppata e le scarpe sformate, senza mai possedere un orologio né un portafoglio, amministrando fiumi di denaro, senza mai sapere se ce n'era abbastanza per il giorno dopo sentendosi soltanto un "servo della divina Provvidenza". II nome della sua congregazione era per lui una convinzione così profonda che dalla Provvidenza attendeva risposte e regali come un bambino li attende dalla mamma.
Giungevano visitatori con ingenti somme di denaro, proprio quando le cambiali stavano per scadere, e raccontavano di strani impulsi interiori a cui non avevano potuto resistere, e il buon Orione sorrideva perché aveva appena finito di litigare con una statua della Madonna o di San Giuseppe.
Oppure, durante la Messa all'altare della Madonna del Carmine, gli accadeva di distrarsi un po' per le preoccupazioni e di introdurre nelle parole della liturgia l'invocazione "Madonna Santa, pagatemi almeno un po' d'affitto!". Dopo la Messa la somma esatta, portata da uno sconosciuto, era in sacrestia che lo attendeva.
Oppure veniva un ispettore ministeriale, mandato dai nemici anticlericali a controllare la scarsa affidabilità economica di quella scuola dei preti; ma se ne andava senza muovere un dito, umiliato. Riferiva ai superiori che si era sentito preso in giro, perché sulla scrivania di Orione aveva visto pacchi di banconote. Don Luigi invece, raccontava ridendo ai suoi collaboratori che su quel tavolo non c'era mai stata una lira.
C'è un libro intero che raccoglie i suoi "fioretti", compresi quelli più ingenui e delicati.
I miracoli gli fiorivano tra le mani. Li raccontava lui stesso con tranquillo candore, timoroso solo che gli ascoltatori fossero così sciocchi da darne il merito a lui, che non c'entrava niente...
Sperava così che i suoi collaboratori imparassero a fidarsi della tenera bontà di Dio.
Infatti c'erano anche miracoli di tenerezza. Confidava ai suoi intimi:
"Vi dico una cosa che non ho mai detto a nessuno e che ho perfino vergogna a dire, ma sia detta a maggior gloria di Dio: quando, nei primi tempi della congregazione, dopo lunghe camminate a piedi per andare a predicare nei paesi, giungevo a casa stremato per la stanchezza, e spesso la notte mi sdraiavo su qualche dura panca di legno, il Signore mi usava una speciale delicatezza; alle volte l'infinita bontà di Dio mi faceva sentire l'impressione, o mi dava la sensazione, che la panca sprofondasse, facendosi soffice e tenera, come una morbidissima panca di gomma, come mi tuffassi in un materasso molle molle, nel quale sì sprofondavano le mie ossa stanche, ricevendone un riposo soavissimo…"
Dio stesso gli dava qualche volta quel conforto che egli non cercava mai, perché gli sembrava di rubarlo ai poveri.
Perciò fu veramente addolorato un pomeriggio d'estate, quando giunse nella casa di noviziato e trovò due novizi che riposavano comodamente su un vecchio divano. Fece portare in mezzo al cortile quell'"oggetto di lusso" e lo fece bruciare alla presenza di tutti.
Diceva che nelle sue case bisognava "sfacchinare da un'Avemaria all'altra".
Erano centinaia i giovani che chiedevano di entrare nella sua Congregazione. Eppure il "programma di vita" che egli incarnava e proponeva non lasciava adito a illusioni:
"Questa piccola e poverissima Congregazione è lo straccio della Madonna e della Chiesa di Roma…, è la congregazione degli straccioni di Dio.
Sai che cosa si fa con gli stracci? Con gli stracci si da' giù la polvere, si puliscono i pavimenti e si strofinano, si tolgono le ragnatele e si puliscono le scarpe… Ebbene, se ti piace essere uno straccio di Dio, uno straccio sotto i piedi di Dio, sotto i piedi immacolati della Madonna Santissima; se ti piace essere uno straccio sotto i piedi della Santa Madre Chiesa e nelle mani dei tuoi Superiori, questo è il tuo posto".
Ma egli poteva usare queste espressioni, perché nessuno poteva equivocare sul loro senso: don Orione descriveva anzitutto se stesso, il suo sconfinato desiderio di essere usato per il bene della Chiesa e del mondo, il suo sogno di essere maneggiato dalle mani di Dio e dalla Vergine Santa senza opporre alcuna resistenza.
Non descriveva umiliazione, ma una dignità.
Perciò non rifuggiva mai dall'umiliarsi, anche se lo faceva a volte scherzando. Indicando una foto che lo ritraeva a cavalcioni di un umile e paziente somarello, diceva con arguzia. "lui e io, siamo in due!". E i presenti si commuovevano pensando a quella sua paziente tenacia che non lo abbandonava mai.
Ma ciò che soprattutto colpiva e impressionava era il suo amore, senza alcuna riserva né misura, al vicario di Cristo in terra.
Scriveva:
"Il nostro Credo è il Papa, la nostra morale è il Papa; il nostro amore, il nostro cuore, la ragione della nostra vita è il Papa. Per noi il Papa è Gesù Cristo: amare il Papa e amare Gesù è la stessa cosa; ascoltare e seguire il Papa è ascoltare e seguire Gesù Cristo; servire il Papa è servire Gesù Cristo; dare la vita per il Papa è dare la vita per Gesù Cristo".
E chiedeva di aggiungere ai tre voti di castità, povertà e obbedienza, uno speciale quarto voto di "fedeltà al Papa". All'epoca non gli fu consentito. Oggi, invece, i figli di don Orione, come i gesuiti, emettono un quarto voto di fedeltà al Papa.
Il loro fondatore sosteneva che tutto il suo lavoro per i poveri e tra i poveri aveva questo scopo: far nascere nel cuore dei miseri "un amore dolcissimo per il Papa"
Diceva; "La Congregazione non potrà vivere, non dovrà vivere che per il Papa: deve essere una forza nelle mani di lui, dev'essere uno straccio sotto i piedi di lui. Vivere operare e morire d'amore per il Papa...".
Quando gli veniva chiesto quale fosse lo scopo distintivo del suo Istituto, dato che molti si dedicavano alle opere di misericordia, rispondeva che "suo fine speciale era trarre e unire con un vincolo dolcissimo e strettissimo di tutta la mente e del cuore i figli del popolo e le classi lavoratrici alla Sede Apostolica".
Egli certo soccorreva personalmente i poveri e i derelitti; ma se costoro avessero amato lui e non il Papa, lo avrebbe considerato una grande sciocchezza, perché lui, Orione, non era altro che una mano caritatevole che agiva a nome del Papa e indirizzava a lui.
Il Papa, del resto, sapeva di potergli chiedere qualunque cosa, qualsiasi sacrificio e qualunque impresa.
Una tale coscienza ecclesiale, concentrata sul ministero di Pietro nella Chiesa, non si era mai vista prima, soprattutto in un fondatore così immerso nei bisogni sociali. E non la si vedrà più fino ai nostri giorni.
Questa testimonianza attende ancora di essere adeguatamente compresa e valorizzata, soprattutto da quei religiosi che trovano nel loro impegno per i poveri una giustificazione per coltivare il loro "complesso antiromano".
Alcuni oggi storcerebbero la bocca a sottoscrivere quello che don Orione tranquillamente insegnava: "Prima il Papa e la Chiesa... e poi, molto dopo, il pane e la vita".
Per lui fu un sogno poter fare i voti perpetui nelle mani stesse del Pontefice. Glielo chiese come grazia specialissima durante un'udienza disposto ad attendere che il Papa si degnasse di fissare un giorno per la cerimonia.
"Anche subito", rispose sorridendo Pio X.
"Padre Santo, come vostra Santità sa, ci vorrebbero almeno due testimoni...".
E il Papa sorridendo: "Per testimoni pigliamo il mio angelo custode e il tuo".
Dobbiamo ancora parlare dell'attività di predicatore e di confessore che don Orione esplicò sempre volentieri e con indubbia fantasia.
Quando si trattava di Dio e delle anime sapeva perfino diventare un commediante.
Una sera lo invitarono a predicare in un paese dove i preti erano particolarmente odiati e dileggiati. Pioveva e si presentò con le scarpe infangate e con la veste sgocciolante. Salì la scaletta del pulpito appoggiandosi pesantemente come un ubriaco e borbottando in dialetto, ma in modo che tutti sentissero, le ingiurie più comuni rivolte contro i preti, e facendo il verso sgraziato delle cornacchie.
Il parroco si mise le mani nei capelli, pensando che fosse impazzito.
Ma quando fu sul pulpito, quel misero prete, e tutti sapevano chi era, li guardò con incredibile fierezza. Poi cominciò: "Così, così si saluta qui il prete, il ministro di Dio, quando passa". Alla fine parlò del sacerdozio in modo da farli piangere.
In un'altra parrocchia si predicavano le missioni popolari e il risultato era scarso. Per la conclusione don Orione chiese di far venire dieci confessori. Al parroco sconfortato, un solo sacerdote sembrava più che sufficiente. Obbedì, comunque.
Quell'ultima sera, quando la chiesa del paese stentava a riempirsi, e il sacrestano suonava rassegnato le campane, si vide a un tratto entrare un tale avvolto da un logoro tabarro, con un cappellaccio in testa; si gettò sul banco e cominciò a lamentarsi ad alta voce: "Ecco come sono ridotto! E pensare che in casa di mio padre non mi mancava nulla...".
Per farla breve: era don Orione che recitava la parabola del "Figlio prodigo", e la gente accorreva, e qualcuno andava a chiamare gli assenti.
Quando la Chiesa fu pienamente affollata, quel prete originale dal pulpito parlò del perdono di Dio fino a far piangere tutti. Piangevano, tra gli altri, anche i dieci confessori, che sembravano comunque troppo pochi. Tutto il paese quella volta si confessò.
Siamo giunti alla fine del nostro racconto. Era il 1940, e don Orione era a San Remo, un po' triste perché gli toccava morire tra le palme, invece che tra i poveri. Vi era giunto il 9 marzo e si era molto agitato: la camera, pur privata di tutto il mobilio superfluo, gli sembrava troppo lussuosa! "Non mi sento, non posso stare qui: fammi la carità, guarda l'orario dei treni!", diceva a un confratello. Poi si calmo, per fortuna in un angolino c'era una statuetta della madonna.
"Guarda com'è bella! - disse- non ti pare che non dovrei fare altro che chiudere gli occhi?".
Li chiuse tre giorni dopo, dicendo: "Gesù, Gesù. Vado!". Per l'ultima volta si sentiva inviato in missione, teso a una pronta obbedienza.
La bara fu portata, in un vero trionfo, fino a Tortona, in un santuario che egli aveva costruito alla Madonna della Guardia. Ad ogni città che il corteo funebre attraversava, Genova, Novi, Alessandria, Milano, c'era ad attenderlo una folla immensa.
A Sant'Ambrogio di Milano, ad attendere la bara c'era il santo cardinale Schuster.
Un francescano scrittore che passava in tram per quelle strade ascoltò questo dialogo tra due operai che lavoravano sdraiati per terra, e ne riferì su un giornale:
"Che succede? Chi è morto?".
"Don Orione".
"E chi è don Orione?".
"Era un prete, ma era un brav'uomo".
Don Orione, certo, avrebbe sorriso.


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santi, don orione

giovedì, 08 novembre 2007

Steensen, Niels (1638 - 1686)

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Francesco Abbona

I. Cenni biografici - II. I contributi scientifici - III. Il metodo di studio - IV. La personalità e le convinzioni - V. Il pensiero filosofico - VI. Il rapporto scienza-fede.

Nel panorama scientifico del Seicento Niels Steensen occupa una posizione secondaria rispetto ai grandi nomi di Keplero, Galilei, Newton, Cartesio, Pascal, eppure è una personalità non meno geniale e certo delle più affascinanti di quel secolo così decisivo per la storia della cultura. «È uno dei grandi spiriti della sua epoca» (Gohau, 1990, p. 32). A renderlo tale non sono solo le sue scoperte fondamentali in anatomia ed in altre discipline, che lui stesso inaugura come paleontologia, geologia e cristallografia, ma soprattutto le sue qualità: spirito di ricerca, rigore di metodo, unità di pensiero e di azione, onestà e integrità di vita.
In un'epoca in cui si stavano consolidando i nazionalismi, egli percorse l'Europa con autentico spirito universale, che non ignora il paese d'origine, ma sa integrarlo in una sintesi culturale di più ampio respiro. Per questo è anche una delle personalità più rappresentative ed interessanti dell'Europa del suo tempo, di attualità anche per l'Europa di oggi.

I. Cenni biografici

Niels Steensen, in latino Nicolaus Stenonis, in italiano Niccolò Stenone, nacque il 1° gennaio 1638 (calendario giuliano) a Copenhagen da Steen Pedersen, discendente di una famiglia di pastori luterani, orafo e fornitore della casa reale, e da Anne Nielsdatte. Niels rimase orfano di padre all'età di 6 anni; la madre si risposò successivamente altre due volte, sempre con orafi. Di salute cagionevole, il piccolo Niels trascorse l'infanzia in compagnia di adulti, di cui seguì con curiosità le conversazioni serie e gravi, ispirate ad un luteranesimo praticato con fede e devozione. All'età di dieci anni fu avviato agli studi primari nella scuola di Notre Dame. Qui sotto la guida di appassionati insegnanti ricevette una buona educazione umanistica e letteraria, apprendendo anche nozioni di matematica e scienze naturali. La posizione della famiglia gli consentì di frequentare famiglie illustri, tra cui quella di Simon Paulli, professore di anatomia e medico personale del re. L'ambiente era austero, come suggeriscono le massime sapienziali di casa Paulli: «Uomo, ricordati dell'eternità! L'occhio di Dio è posato su di te». «Vivi pensando alla morte, il tempo passa, noi non siamo che ombre». Frequentava il laboratorio paterno, dove assisteva e spesso partecipava alle operazioni che vi si svolgevano: misura di volumi, saggi chimici, molatura di lenti, osservazioni al microscopio, costruzione di macchine idrauliche.
La vita era dura e precaria: nel 1648 era finita la guerra dei trent'anni e di lì a poco, nel 1657, sarebbe scoppiata la guerra con la Svezia. Nel 1654 la peste portò via un terzo della popolazione di Copenhagen e metà dei compagni di Stenone, ma le pratiche della carità cristiana erano vive: anche Stenone si era prodigato nella sepoltura dei compagni.
A diciott'anni si iscrisse all'Università di Copenhagen, scegliendo come campo di studi medicina e scienze naturali, mentre avrebbe preferito matematica e geometria. Tra i professori ebbe i fratelli Thomas e Rasmus Bartholin: il primo era un famoso anatomo; il secondo, allievo di Cartesio, coltivava la geometria cartesiana e le scienze naturali. Le personalità che più ebbero influenza furono però Ole Borch e Simon Paulli, entrambi cultori di scienze naturali e della sperimentazione. Il periodo era tutt'altro che favorevole agli studi: il 9 agosto 1658 Copenhagen venne posta in stato d'assedio dalle truppe del re svedese Carlo X Gustavo, per cui gli studi furono interrotti. Stenone, arruolato nella difesa della città, si dedicò nei momenti liberi alla lettura nella Biblioteca dell'Università ed in altre private. Dopo che l'assedio venne respinto (11 febbraio 1659), Stenone volle fare il punto sullo stato delle sue conoscenze e più in generale della sua vita, e stese tra l'8 marzo e il 3 luglio 1659 una specie di diario, che intitolò Chaos, testimone prezioso per comprendere la formazione e la personalità dello Stenone.
Nel 1659, terminato il triennio di studi all'Università di Copenhagen, passò a completare i suoi studi in Olanda, allora all'apogeo della potenza ed in pieno rigoglio intellettuale e culturale, con cui la Danimarca intratteneva stretti rapporti commerciali e culturali. Scelse come sede Amsterdam, dove poco dopo il suo arrivo (Pasqua del 1660) fece la prima scoperta in anatomia: il dotto che porterà il suo nome, che trasferisce la saliva dalla parotide alla cavità orale. Questa scoperta fu causa di una controversia tra lui e il suo professore, Blasius, che cercò di appropriarsene; essa si concluse solo nel 1663, con il riconoscimento della paternità a Stenone. L'esperienza di Amsterdam lo deluse, cosicché dopo aver sostenuto una dissertazione sulle acque termali, De Thermis, nel luglio dello stesso anno si trasferì a Leida, sede di una celebre Università. Qui trovò un ambiente stimolante e favorevole alle ricerche anatomiche, dove insegnavano valenti studiosi, tra cui Francesco de la Boe (Sylvius) e Jan van Horne. Nel giro di tre anni conseguì risultati ragguardevoli, consegnati in quattro dissertazioni (Observationes anatomicae), che lo imposero all'attenzione dell'Europa scientifica. Per questi meriti fu nominato dottore in medicina in absentia (4.12.1664).
Il soggiorno a Leida rappresentò un momento fondamentale anche sotto un altro aspetto. L'ambiente intellettualmente vivo e tollerante, dove gli interessi scientifici si intrecciavano con quelli filosofici e teologici, e la frequentazione di Baruch Spinoza (1632-1677) furono all'origine di un profondo ripensamento delle convinzioni religiose. La riflessione sulle sue esperienze in anatomia gli consentì di superare la crisi e di rinsaldarsi nella fede dei padri. Nella primavera del 1664 ragioni familiari lo costrinsero a ritornare a Copenhagen. Qui pubblicò tre dissertazioni, tra cui una De musculis et glandulis in cui riassunse i risultati delle sue ricerche. La mancata nomina a professore di anatomia e la morte della madre lo indussero a lasciare la città nell’agosto del 1664.
Si portò quindi a Parigi dove si trovavano alcuni suoi amici. Qui la fama di anatomo gli aprì le porte del circolo di Melchisedec Thévenot, un mecenate umanista, che raccoglieva l'aristocrazia intellettuale e scientifica di Parigi. Eseguì alcuni lavori di embriologia e numerose dissezioni, che lo fecero altamente apprezzare, e tenne una celebre conferenza sul cervello (Discours sur l'anatomie du cerveau). Anche in questo soggiorno si manifestarono i vasti interessi di Stenone, in particolare quelli religiosi, suscitati dal contatto con persone ed istituzioni cattoliche. Importanti furono i colloqui con Maria Perriquet, cugina di Thévenot, alla cui azione egli attribuì un ruolo decisivo nella sua evoluzione religiosa.
Verso la fine dell'estate del 1665 lasciò Parigi per un lungo viaggio in Francia, che lo portò tra l'altro a Montpellier. Qui conobbe W. Croone, J. Ray e M. Lister, naturalisti inglesi interessati alla  geologia, che saranno fondatori o membri della Royal Society. Saranno questi studiosi a far conoscere le opere di Stenone in Inghilterra. Nel febbraio del 1666 si trasferì in Italia. Prima fu a Pisa, poi a Roma, dove conobbe Kircher e Malpighi, e quindi a Firenze, ospite del Granduca Ferdinando II, che lo nominò anatomo dell'ospedale di Santa Maria Novella. Iniziava il fecondo periodo fiorentino di Stenone, da cui usciranno notevoli scoperte ed anche profondi cambiamenti sia nella ricerca sia nella vita. L'accoglienza fiorentina fu così cordiale che Stenone definirà Firenze «la mia seconda casa». Entrò in rapporto con le menti più brillanti, che ruotavano intorno all'Accademia del Cimento e all'Accademia della Crusca: Viviani, Redi, Magalotti. A Firenze poté continuare nel 1667 gli studi anatomici e completare il secondo grande trattato sui muscoli (Elementorum Myologiae Specimen). È di questo periodo la scoperta di nuovi campi di indagine, la geologia e la mineralogia, in cui Stenone si lanciò con passione e metodo. Compì numerose escursioni geologiche, percorrendo montagne e colline della Toscana, visitando saline e miniere, dovunque raccogliendo materiale di studio. Nel bel mezzo di queste indagini, l'8 dicembre 1667, ricevette dal re Federico III l'invito a rientrare in Danimarca. Decise di raccogliere rapidamente i risultati e le riflessioni in un piccolo trattato, in previsione di uno più ampio (che non apparirà mai): De solido intra solidum naturaliter contento dissertationis prodromus (1669), solitamente indicato come Prodromus.
In quello stesso periodo si verificò un avvenimento decisivo per la sua vita spirituale. Il 2 novembre 1667, dopo lunghe approfondite riflessioni, decise di abbracciare la fede cattolica. Il passaggio al cattolicesimo non modificò il suo stile di vita né le sue ricerche, ma suscitò ripercussioni negative in ambito protestante. Di fronte a critiche spesso ingenerose, Stenone intervenne più volte con scritti ora apologetici ora polemici. Furono probabilmente queste reazioni a far sì che egli lasciasse cadere l'invito del suo re a rientrare in patria, cui peraltro rimase sempre profondamente legato.
Nell'autunno del 1668 intraprese un lungo viaggio per l'Europa. Prima visitò Roma e Napoli, quindi risalì a Bologna, dove compì studi anatomici con Malpighi; fu poi a Innsbruck, dove le ricerche anatomiche (De vitulo hydrocephalo) si accompagnarono ad escursioni mineralogiche e geologiche in Tirolo e dintorni. Fu a Vienna. Visitò le famose miniere di Scemnitz e Kremnitz, donde inviò minerali a Firenze. Da Praga si portò in Olanda, dove rimase fortemente impressionato dalle condizioni di indifferenza, se non di  ateismo, di molti studiosi. Questo soggiorno fu all'origine dell'accresciuto interesse per gli aspetti più propriamente religiosi. Nel luglio del 1670, dopo tre mesi di soggiorno olandese, rientrò a Firenze. Fu incaricato dal nuovo granduca, Cosimo III, della catalogazione dei minerali delle collezioni toscane (Indice di cose naturali). Nel contempo proseguì gli studi geologici con la visita di grotte nei pressi dei laghi di Garda e Como, ma più abbondante fu la produzione di carattere religioso e filosofico. È di questo periodo la lettera sulla Vera Philosophia indirizzata a Spinoza, reformator novae philosophiae, che però non gli risponderà. Dopo alcune esitazioni, decise di accettare l'invito del nuovo re di Danimarca, Cristiano V, e rientrò in patria.
Nel luglio 1672, dopo otto anni di assenza, rimise piede a Copenhagen. Pur essendo anatomicus regius, le sue lezioni e dissezioni si svolsero tuttavia in case private. Una sola fu la dissezione pubblica, di cui fu pubblicato nel 1673 il Prooemium. Durante il soggiorno si occupò anche del sistema muscolare degli animali e pubblicò la prima grande monografia di zoologia: Historia Musculorum Aquilae (1673), che fu anche l'ultimo lavoro scientifico di Stenone. Lo stato di incertezza personale, alcuni attacchi da parte protestante, il restringimento della libertà religiosa lo convinsero ad abbandonare la Danimarca per rientrare a Firenze, dove Cosimo III lo attendeva.
Nel Natale del 1674 lo troviamo a Firenze, dove fu nominato precettore del principe ereditario, per il quale scrisse: Trattato di morale per un principe. L'interesse religioso si concretò nella scelta del sacerdozio: il 13 aprile del 1675, giorno di Pasqua, fu ordinato sacerdote. Da questa data fino alla morte (1686), Stenone non si occupò più direttamente di scienza per dedicarsi interamente agli impegni del suo ministero sacerdotale. Furono dodici anni di vita condotta nel più puro spirito evangelico di povertà, dedizione agli altri e ascesi «per amor di Dio». Furono anni molto duri, per le difficoltà obiettive dell'ambiente in cui fu inviato ad operare, la Germania del Nord, e per le incomprensioni che gli vennero anche dalla comunità cattolica. Pur mite di carattere, si dimostrò inflessibile in un caso di simonia e comandò ai missionari di tenere linguaggio e comportamento evangelici nella polemica contro i protestanti.
Il 26 settembre 1677, su richiesta del duca di Hannover, il cattolico Giovanni Federico, Stenone fu nominato vescovo di Hannover; qui strinse relazione con  G.W. Leibniz (1646-1716), bibliotecario dello stesso duca. Quando, nel 1679, a Federico successe il fratello protestante, Stenone fu chiamato a Münster, dove rimase tre anni. L'intensa esperienza pastorale in cui si prodigò senza risparmio gli suggerì il libretto: Parochum hoc age (I doveri del pastore), che uscì nel 1684. Fu quindi inviato ad Amburgo come vicario apostolico per il Nord Europa e per l'ultima volta visitò Copenhagen. Chiamato dal duca di Schwerin a dirigere la piccola comunità cattolica di quella città, vi si trasferì. Qui trascorse l'ultimo anno di vita: morì il 25 novembre 1686 dopo dolorosa malattia. La salma riposa nella chiesa di s. Lorenzo, a Firenze, dove fu trasportata nell'ottobre del 1687 per disposizione del granduca Cosimo III. Niels Steensen fu proclamato beato da Giovanni Paolo II il 23 ottobre 1988. Un passaggio dell'omelia pronunciata in quell'occasione ne ritrae sinteticamente la vita: «Ricercatore appassionato, scienziato di primo piano, non soddisfatto mai delle pure ipotesi e sempre alla ricerca della piena certezza, Steensen tuttavia fu mosso soprattutto dall'anelito verso la scoperta della ragione ultima di ogni cosa: Dio».

II. I contributi scientifici

Fu detto che Stenone era come il re Mida: ogni cosa che toccasse, la trasformava in oro, nell'oro della conoscenza. E difatti in tutti i settori disciplinari che affrontò, lasciò una traccia duratura: anatomia, geologia, paleontologia, cristallografia. Gli scritti si distaccano nettamente da quelli dei suoi contemporanei per chiarezza, concisione, forza di argomentazione, rifiuto di vane speculazioni, evidente riflesso di un pensiero geniale, dalle idee chiare e distinte. Riepiloghiamo quindi, in modo schematico, alcuni dei risultati più significativi.
Impareggiabile anatomo, era di una grandissima abilità manuale e di eccezionale chiarezza espositiva: «la cosa più straordinaria in lui è che egli fa tutto in modo così evidente che uno è costretto a convincersi, e fa meraviglia che le stesse cose siano sfuggite a tutti i precedenti anatomi» (Journal des Sçavans, 1665). Appena ventiduenne, scopre il dotto parotideo (che da lui prende nome), e nel giro dei tre anni successivi compie una serie di importanti scoperte sulle ghiandole, da lui definite un «capolavoro del Creatore», che farà dire a H. Moe, storico della medicina: «rivoluziona le idee sulle ghiandole e ne fonda la scienza». A lui spetta il merito di avere distinto tra ghiandole secernenti e ghiandole linfatiche e di aver dato la corretta interpretazione della funzione secretiva ghiandolare. Rettifica l'interpretazione data da Cartesio circa la formazione delle lacrime e spiega la continuità della lacrimazione rispetto al pianto.
Anche sul cuore i suoi apporti sono decisivi: dimostra che il  cuore non è la fonte del calore innato, né sede dell'  anima e dello spiritus vitale, ma è vere musculus; fornisce la prima illustrazione dell'architettura muscolare di quest'organo; descrive per primo le malformazioni anatomiche della tetralogia di Fallot, riscoperta duecento anni dopo. Il libro De Musculis et Glandulis Observationum Specimen del 1664 sarà definito «aureus libellus» (Haller, 1760), mentre il lavoro Elementorum Myologiae Specimen, dal sottotitolo rivelatore: seu musculi descriptio geometrica (1667), sarà considerato «una svolta nella storia della fisiologia muscolare» (E. Bastholm, History of Muscle Physiology, Copenhagen 1950). Stenone tenta infatti di applicare la matematica alla soluzione di problemi fisiologici (concezione biomeccanica).
Anche il cervello «principale organo dell'anima» è oggetto delle sue ricerche ed è al centro di una celebre lezione tenuta a Parigi, pubblicata con il titolo Discours sul l'anatomie du cerveau (1669). Definita come «un raggio di luce nell'oscurità» (O.J. Rafaelsen, in Poulsen et al., 1986), quest’opera «è il vero punto di partenza dei moderni studi sul cervello» (Darenburg, 1870, in Poulsen et al., p. 27); contiene una lucida denuncia della radicale insufficienza delle conoscenze e delle idee preconcette sul cervello ed è altresì un testo fondamentale per la metodologia di studio del cervello e per le prime descrizioni di anatomia comparata. Interpreta le circonvoluzioni cerebrali come sede delle funzioni superiori, contrariamente a Cartesio, che attaccato allo schema interno-esterno non vi vedeva che una specie di imballaggio o involucro. Stenone si occupa anche dell' organo riproduttivo femminile. Comparando gli organi sessuali di animali e di esseri umani, scopre che gli organi detti «testes muliebres» sono ovaie, destinate a produrre uova, trasportate nell'utero lungo le trombe uterine (tube di Falloppio). Non mancano altri studi anatomici, tra cui indagini sull'embriologia del pulcino; studio della muscolatura di un'aquila; anatomia dei selacei.
Il trattato Elementorum Myologiae Specimen del 1667 contiene due appendici Canis carchariae dissectum caput e Dissectus piscis ex canum genere, dove la dissezione di una testa di squalo lo porta quasi insensibilmente a ricerche prima paleontologiche e poi geologiche. Dalla rassomiglianza dei denti di squalo attuali con le glossopietre, oggetti duri di forma triangolare presenti in certi terreni, in particolare a Malta, egli perviene ad una corretta interpretazione della natura dei fossili, resti di animali marini vissuti in epoche precedenti. Già altri, tra cui Leonardo da Vinci (1452-1519) e Fabio Colonna (1567-1640), si erano espressi in tal senso. Il merito di Stenone è di averne dato una chiara dimostrazione e soprattutto di aver saputo cogliere il significato della loro presenza collegandola ai sedimenti che li includono. Per questi lavori Stenone è considerato il fondatore della paleontologia. «I princìpi della ricerca così eccellentemente stabiliti da Stenone nel 1669 sono quelli che sin da allora, consciamente o inconsciamente, hanno guidato le ricerche in paleontologia» (T. Huxley, The Rise and Progress of Paleontology, 1881, cit. in Poulsen et al., 1986, p. 187).
Dai fossili Stenone passa quindi ad occuparsi dell'ambiente del loro ritrovamento, cioè dei sedimenti. I risultati delle sue ulteriori ricerche e le considerazioni che ne trae sono consegnate nel Prodromus del 1669. In questo breve, rivoluzionario trattato egli enuncia i princìpi della geologia stratigrafica tuttora validi (il principio della sovrapposizione degli strati; della orizzontalità iniziale e della continuità laterale) e pone così le basi per la costruzione della scala del tempo geologico. Nelle sue osservazioni applica implicitamente il principio dell'attualismo, formulato oltre cent'anni più tardi da Hutton (1795). Studia l'erosione; si occupa del problema dell'origine delle montagne e ricostruisce le vicende geologiche della Toscana. Per questi contributi è considerato Geologiae Fundator (come scolpito sul monumento di fronte alla biblioteca universitaria di Copenhagen). Dall’osservazione dei cristalli di quarzo e di ematite deduce la prima legge della cristallografia — la costanza degli angoli diedri — generalizzata nel 1783 da Romé de l'Isle. Respinge come fantasiose le spiegazioni correnti sulla formazione dei cristalli e dimostra che essi crescono per deposito di materia sulle facce, demolendo così l'idea diffusa che si formino come le piante. Propone il corretto meccanismo di crescita delle facce dei cristalli per strati e osserva il carattere anisotropo della crescita. Per questo è considerato anche fondatore della cristallografia. Per Schack A. Krogh, premio Nobel 1920 per la medicina, il Prodromus e i trattati del 1667 sono gli esempi più belli di come si origina e si sviluppa un’idea scientifica fino alla sua conferma attraverso prove irrefutabili. E lo storico contemporaneo, Gohau (1990), annota: «la geologia gli deve molto, anche se ci mise molto tempo per accorgersene, e non si sia finito di riconoscere il suo merito».

III. Il metodo di studio

La frequentazione del laboratorio paterno, la sviluppata cultura tecnica del suo paese, la diffusione del metodo cartesiano spiegano l'importanza data da Stenone all'esperimento ed all'osservazione come strumenti privilegiati di conoscenza nell'indagine dei fenomeni naturali. In questo applicava l'insegnamento di uno dei suoi primi maestri, Ole Borch: «L'esperienza è la vera via regale che conduce alla conoscenza della verità». Non che sottovalutasse l'importanza della teoria, anzi riconosce esplicitamente la necessità di princìpi. Si legge nel manoscritto dell'opera di Stenone, Chaos: «Nel campo delle scienze naturali noi non sappiamo nulla se non attraverso esperimenti ed osservazioni, insieme con tutto quello che può essere dedotto con i principi metafisici e meccanici». Sono le teorie allora in vigore a suscitare le sue riserve perché non ancorate all'osservazione: «In questioni di scienze naturali è bene non legarsi ad alcuna teoria, ma classificare con ordine tutte le osservazioni, cercando di arrivare con la propria iniziativa ad un risultato».
Il suo punto di partenza è l'assioma di  Cartesio: De omnibus dubitandum est. Scrive infatti nel Discorso sul cervello: «Io cerco di seguire le leggi della filosofia che ci insegna a cercare la verità dubitando della sua certezza, e a non accontentarci prima che si sia raggiunta conferma attraverso la dimostrazione». Questo principio lo porta a contestare affermazioni dello stesso Cartesio. A questi ed ai suoi seguaci, che sostenevano che gli animali non hanno anima né sensazioni, replica: «Debbo confessare che non senza orrore sottopongo animali a così lunghe torture (cioè alla vivisezione). I Cartesiani si vantano della certezza della loro filosofia. Vorrei che rendessero anche me così certo, come essi sono, del fatto che gli animali non hanno anima... » (cfr. Moe, 1994, p. 67). La critica di certe posizioni contenute nel De Homine di Cartesio (pubblicato postumo nel 1662) è vigorosa. A proposito della ghiandola pineale, luogo di incontro dell'anima e del corpo, annota: «Quanto più teste apro, tanto meno — così mi sembra  — l'ingegnoso organismo ideato da Cartesio si accorda con le creature stesse» (cfr. Moe, 1994, p. 69). Già da giovane mostrava indipendenza di giudizio, al punto da commentare con ironia nel suo diario Chaos la fine del pur amato Cartesio: «Quando in Svezia, colpito dalla febbre, volle curarsi secondo i princìpi della sua filosofia, morì per continua ingestione d'acqua».
La verità rimane l'obiettivo della ricerca. Nello studio di fenomeni complessi, quali ad esempio il cervello, riconosce che si rende necessaria l'azione di più competenze ed invita gli studiosi ad unire gli sforzi «per conseguire qualche conoscenza della verità, e questo dovrebbe invero essere il grande scopo per coloro che pensano e studiano con onestà e serietà». Stenone è conscio della necessità di una visione globale: «poiché la ricerca scientifica di più aree comporta che uno non possa mantenere le varie aree isolate le une dalle altre, ma è obbligato a prenderne molte in considerazione allo stesso tempo. E quanto più a lungo uno è occupato con il particolare, maggiore è il numero degli elementi di cui manca nell'insieme» (cfr. Poulsen et al., 1986, p. 116). Il lavoro dello studioso è duro e deve mirare ad una conoscenza certa. Scrive Stenone nel Prooemio (1673): «[…] cercherò di combinare esperienza e ragionamento in modo tale che se non tutti, almeno molti fatti, quando tutto sia preso in considerazione, raggiungano la certezza della prova» (cfr. Moe, 1994, p. 138). Tuttavia ammette che l'impresa non è facile soprattutto a causa dei condizionamenti personali: «Poiché nulla è più difficile che metter da parte i pregiudizi, anche opere moderne, sebbene sia stata applicata la più grande cura, non risultano così indenni da non contenere traccia di idee preconcette; e se io volessi fare eccezione a me stesso, meriterei la censura per il mio sfrontato orgoglio» (ibidem). Il principio di studio degli oggetti naturali è formulato chiaramente: «Dato un corpo dotato di una figura e prodotto secondo le leggi della natura [qui si riferisce ai cristalli naturali], trovare nel corpo stesso la spiegazione del modo e del luogo della produzione» (De solido... prodromus, 1669).
Il giudizio sulla  medicina del suo tempo è severo. Leggiamo in Chaos: «In medicina non impariamo che a pronunciare alcune parole, il cui significato preso separatamente non è talvolta irragionevole, ma prese insieme non hanno senso utile». E ancora: «Quale grande beneficio i nostri predecessori avrebbero lasciato a noi e all'umanità, se solo tutti gli anatomi che spendono la loro vita nel fare dissezioni avessero trasmesso ai successori solo risultati certi! La nostra conoscenza sarebbe meno estesa, ma certo meno dannosa. La medicina che si basa su certi princìpi potrebbe non avere successo nell'alleviare i dolori del malato, ma almeno non ne aggiungerebbe» (cit. in “Stenoniana” (1991), p. 98). Un posto particolare è riservato alla matematica, disciplina della massima certezza, regno delle idee chiare e distinte. Nel lavoro sui muscoli egli dichiara: «L'idea base della mia trattazione è di fare della miologia una parte della matematica, come lo sono l'astronomia, la geografia, l'ottica» (cfr. Moe, 1994, p. 98). Con questa impostazione riduttivistica dà l'avvio alla biomeccanica.
Conscio della complessità dei fenomeni naturali e della possibilità di più interpretazioni, onestamente dichiara: «Mentre dimostro la plausibilità del mio punto di vista, non intendo accusare di disonestà coloro che sostengono tesi opposte. Lo stesso fenomeno può essere spiegato in vari modi, invero la natura nei suoi processi persegue lo stesso fine con mezzi diversi» (cfr. ibidem, p. 108). Fu sempre ammirato per la sua modestia, che spesso era una “dotta ignoranza”. A proposito delle prime dissezioni della testa di squalo: «Non sono ancora arrivato ad un conoscenza abbastanza solida in questo settore per poter presentare il mio giudizio». Dopo anni di indagini sul cervello, inizia la sua famosa lezione a Parigi (1665) confessando: «Signori, invece di promettervi di soddisfare la vostra curiosità a proposito dell'anatomia del cervello, vi confesso onestamente e francamente che non ne so nulla». Ma nello stesso tempo demolisce tutte le supposte conoscenze di cui dimostra l'inconsistenza, espone le conoscenze sicure, frutto di osservazione, e pone le basi per un nuovo metodo di indagine del cervello. Acutissimo ed ancora attuale è il suo giudizio su questo organo: «È cosa certa che il cervello è il principale organo della nostra anima e lo strumento con cui essa compie cose meravigliose; essa crede di avere penetrato ciò che è al di fuori di sé al punto che non c'è nulla al mondo che possa limitare la sua conoscenza: eppure, quando rientra in casa sua, non saprebbe descriverla e non vi si riconosce più» (OP, p. 3;  MENTE-CORPO, RAPPORTO).
Anche quando tratta di religione, Stenone applica lo stesso spirito critico. Dibattuto tra confessione luterana e cattolica, si documentò non sulle traduzioni latine, ma sui testi originali scritti in ebraico e greco, lingue che aveva appreso in gioventù. E nel confronto tra le confessioni religiose, utilizza un criterio che è ancora “sperimentale”: Doctrinae veritatem vitae sanctimonia demonstrat (la santità della vita dimostra la verità della dottrina, Lettera a Leibniz, 1675).

IV. La personalità e le convinzioni

Ad un primo rapido sguardo, la vita di Stenone appare segnata da instabilità e provvisorietà. Certo essa fu movimentata, come risulta dai numerosi viaggi che compì per l'Europa — si calcola che abbia percorso poco meno di 30000 Km, visite pastorali escluse, in circa 27 viaggi — al punto da essere definito dal Redi «pellegrino del mondo per nativa curiosità». Fu per le sue ricerche in Danimarca, Olanda, Francia, Italia, Germania, Austria, ma non sostò in nessuna sede per più di tre anni, se si eccettua Firenze. Fu, come quasi tutti gli studiosi del suo tempo, uomo di molteplici interessi: scientifici, filosofici, religiosi. La sua ricerca scientifica fu occasionale e molto differenziata, spaziando dall'anatomia alla geologia. Un evento mutò radicalmente la sua vita: non tanto il passaggio al cattolicesimo, quanto l'ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1675, e due anni più tardi l'elezione a vescovo. Questi eventi significarono l'abbandono della ricerca scientifica a motivo della sua dedizione all'attività pastorale.
Il radicale cambiamento di vita diede luogo ad un dibattito sulle sue motivazioni, sorto già dopo il suo passaggio al cattolicesimo nel 1667. Ci fu chi vide opportunismo, inganno, ingenuità. Leibniz ironicamente gli chiese se aveva trovato la fede cattolica «nel midollo delle ossa» e sentenziò: «Da grande naturalista è diventato un mediocre teologo», ma dirà di lui: «Io lo stimo oltre misura, ... e riconosco in lui zelo ispirato da vero amore per il prossimo». Nel 1881 Capellini, al congresso internazionale di Geologia a Bologna, espresse il suo interrogativo in forma rude «che desse un addio alle scienze naturali e si facesse frate, non so perdonarglielo, né so rendermi ragione come un tale addio non dovesse costargli grandissimo sacrificio», ma si fece promotore di una lapide sulla tomba di Stenone a Firenze. Più recentemente fu avanzata un'altra interpretazione: «negli anni della maturità abbandonò la scienza per una carriera nella Chiesa» (J.G. Burke, Origins of the Science of Crystals, Berkeley 1966). Per altri «abbandona le attività scientifiche per l'abito talare forse perché non riesce a conciliare opere scientifiche con convinzioni religiose» (Y. Gayrard-Valy, I fossili, orme di mondi scomparsi, Torino 1992) e dello stesso avviso sembra Morello (1979). Secondo altri, invece, è «una scelta consapevole dell'impossibilità di conciliare due missioni, che non potevano essere svolte altro che con una completa dedizione» (Cipriani, 1986).
Eppure, se c’è una personalità fortemente unitaria, è proprio quella di Stenone: modo di pensare, convinzioni religiose, metodo di studio, attività di ricerca, comportamento personale sono così strettamente intrecciati da una logica interna, conseguente ad un’unica ispirazione di fondo, che se questa non viene colta, il senso dell'agire risulta incomprensibile o per lo meno ambiguo. Ciò è dovuto anche al fatto che Stenone espose il suo pensiero in modo non sistematico, ma occasionale, cosicché possiamo ricostruirlo solo a partire dall'insieme dei suoi scritti.
Un'opera fondamentale per comprenderne la personalità giovanile e gli sviluppi della maturità è un manoscritto, redatto a 21 anni, che intitolò Chaos, con l'intestazione, significativa, «In nomine Jesu». È un documento di grande interesse, in cui egli riporta citazioni, commenti, idee di esperimenti, progetti di vita. Dimostra di avere letto un centinaio di opere scientifiche di 80 autori diversi, tra cui Keplero, Galileo, Cartesio, Gassendi. Manifesta la sua adesione al metodo cartesiano e alle teorie di  Copernico, più che a quelle del connazionale Ticho Brahe. Troviamo in questo scritto quella che sarà la convinzione pressoché costante di tutta la sua vita: «Dio vede e provvede. Ogni cosa proviene da Lui ed è per la gloria del Suo nome». E ancora: «Affidiamo tutto alla provvidenza di Dio, non preoccupiamoci del domani, non diffidiamo del Suo aiuto. Evitiamo la superstizione e guadagnamoci con il lavoro l'alimento per noi e per i poveri. Accogliamo i doni di Dio senza farne cattivo uso». Questa fede non è passività e abbandono, ma impegna il cristiano a indagare la natura per scoprirvi i segni della grandezza del Creatore, anzi è da riprovare chi non fa uso della ragione a questo scopo. Leggiamo ancora nella stessa opera: «Peccano contro la maestà di Dio coloro che non intendono studiare le opere della natura, ma si accontentano di leggere le opere altrui; in tale modo formano per sé nozioni immaginarie e, non solo si privano della gioia di guardare le meraviglie di Dio, ma pure perdono il loro tempo che dovrebbe essere speso per le necessità e a beneficio del prossimo, e affermano molte cose indegne di Dio... D'ora in poi spenderò il mio tempo non in speculazioni, ma esclusivamente nell'investigazione, in esperimenti ... ».
Queste convinzioni, formatesi nel pio ambiente famigliare, conosceranno una forte crisi durante il soggiorno olandese, che egli riuscirà a sormontare grazie ai risultati delle sue osservazioni anatomiche. Superato lo scoglio di un razionalismo pretenzioso, gli fu più chiaro il senso del ricercare. Così si esprimerà nel Prooemio (1673): «Questo è il vero scopo dell'anatomia, che attraverso l'ingegnosa struttura del corpo gli spettatori siano portati a cogliere la dignità dell'anima e di conseguenza attraverso le meraviglie del corpo e dell'anima, imparino a conoscere ed amare il Creatore […]. Pertanto la ragione è sollevata dalla contemplazione delle singole parti e dal confronto di queste tra loro, a cercare il Creatore di così grandi meraviglie» (OP, vol. II, p. 242).
Alcuni tratti della sua personalità sono propri della cultura danese in cui si era formato: profondo senso religioso, inquietudine spirituale, spirito di concretezza, senso di lealtà, valorizzazione della tecnica e della sperimentazione. Altri sono suoi specifici: trasparenza di carattere, tensione verso unità di pensiero e di vita, acutezza di giudizio, onestà intellettuale, spirito critico, indipendenza di giudizio, sensibilità d'animo, affabilità di tratto. Un elemento molto importante, che forse ereditò dall'ambiente di lavoro paterno, fu il senso della  bellezza: bellezza dei diamanti, delle perle, dei fiori, della mano, del corpo umano, la cui contemplazione lo riempiva di gioia e meraviglia. Scrive nel Prooemio del 1673: «Se un singolo tratto del viso umano è già così bello, e attira tanto l'osservatore, quale bellezza non vedremmo, quale gioia non proveremmo se potessimo osservare a fondo la meravigliosa costruzione del corpo e di lì arrivare all'anima... ». Non è un caso che proprio in quella occasione, nella dissezione del cadavere di una donna giustiziata, «orrenda maschera della morte», abbia pronunciato le famose parole «Pulchra sunt quae videntur, pulchriora quae sciuntur, longe pulcherrima quae ignorantur (Belle sono le cose che si vedono, più belle quelle che si conoscono, bellissime quelle che si ignorano)» (OP, vol. II, p. 254).
Una caratteristica costante della sua vita furono la ricerca della certezza e della verità, e la coerenza. Riconobbe che oltre la certezza matematica esiste la certezza morale, e che anch’essa ha il suo fondamento nella ragione. Oltre queste esiste una certezza divina, che è il punto di incontro della ricerca dell'uomo e del dono di Dio. Tra le due certezze c'è continuità. Scrive a Leibniz: «Mi sembra che Dio nella sua provvidenza mi abbia dato le conoscenze e le scoperte di naturalista come una specie di grazia naturale, affinchè io fossi preparato a ricevere la grazia sovrannaturale». Ma ammette: «Sed divina certitudo nemini nisi eum experienti demonstrari potest (ma la certezza divina non può essere dimostrata a nessuno se non a colui che ne fa esperienza)» (E, n. 73). Pervenuto a questa certezza, ne trae con logica coerenza le conseguenze: «mi sento spinto dal profondo del cuore ad offrire a Dio ciò che ho di meglio, e il meglio possibile». Decise di offrire i giorni restanti della sua vita. «Dio... ti ha fatto vedere nella natura ciò che era necessario per confutare errori di filosofi e medici... ti ha fatto tanti doni... non arrestarti a questi doni, ma volgiti verso il Donatore! ... Egli ha convertito la tua anima e ha messo in te l'ardente desiderio dell'eternità presso di Lui. Quid retribuam Domino pro omnibus quae retribuit mihi? (cfr. Sal 116,12)» (De actionum perfectione in generali). Si orientò verso il sacerdozio «per poter presentare le azioni di grazie per i benefici ricevuti, l'espiazione per i peccati commessi e ogni offerta che possa piacere a Dio» (lettera a Kircher).
È doveroso qui accennare ai rapporti di Stenone con il mondo protestante. Oggetto di critiche ed attacchi anche pesanti, rispose sempre con decisione in numerosi scritti, non transigendo sui principi — era convinto della verità della dottrina cattolica —, ma sempre rispettando l'interlocutore. Intervenne sempre e talora duramente contro i giudizi ingenerosi e le intemperanze da parte cattolica. Vescovo ad Hannover, seppe conquistarsi la stima dell'ambiente protestante e attirarsi la simpatia, ricambiata, del vescovo luterano, di cui ammirava la pietà e la carità. C'erano speranze di un riavvicinamento delle Chiese, e molti operavano in tal senso. Il più illustre promotore era Leibniz, che più volte ne discusse con Stenone. Ma le posizioni e le mentalità dei due erano troppo distanti. Stenone concluse avvertendo Leibniz, propenso a soluzioni sincretistiche, che «chi asserisce di poter trovare la vera fede in quasi tutte le religioni, stia attento a non ritrovarsi escluso da tutte […]. Non è in alcun luogo, chi vuole essere dovunque» (Angeli, 1996, p. 244). E fu di fronte a cattolici e protestanti che la sera del 24 novembre 1686, prima di spirare, fece pubblicamente la sua ultima confessione.
La scienza e il sacerdozio furono per lui due modi di realizzare la stessa profonda aspirazione della sua vita, quale si era già delineata nel suo diario Chaos. Come si era dato all'una («Il dovere di fare delle ricerche che ci insegnano la verità richiede un uomo tutto dedito, che non abbia che quello da fare», Discorso sul cervello), così si dà tutto all'altra, dove aveva trovato verità e pienezza di vita.

V. Il pensiero filosofico

Stenone occupa un posto singolare nel contesto filosofico del suo tempo. Letture fin dal periodo della stesura di Chaos e contatti successivi, soprattutto nei soggiorni di Leida, Parigi e Firenze, lo avevano messo al corrente dei principali filoni di pensiero dell'epoca. Come appassionato cultore di geometria e matematica, avrebbe potuto essere attratto dalle idee neoplatoniche e pitagoriche che dominavano soprattutto in ambito italiano, come studioso di cristalli avrebbe potuto aderire all'atomismo che sembrava la dottrina più adatta per spiegare i fenomeni da lui osservati. Stenone invece volle mantenere separata la ricerca scientifica da passeggere idee filosofiche o sistemi preconcetti e pervenire piuttosto a leggi ed osservazioni comunque valide.
La riserva nei riguardi della filosofia trova una ragione nella sua esperienza personale. Stenone era stato così affascinato dalla filosofia razionalista di Spinoza, per cui conta solo il sapere che trova la certezza nella ragione, che sembra abbia pensato di aderirvi e di lasciare nel contempo la medicina per la geometria, in quanto strumento di solida conoscenza. Riuscì a superare il pericolo di «idolatrare il pensiero umano» grazie alle sue scoperte, fatte proprio in quel periodo: «In un modo meraviglioso, contro ogni attesa, Dio mi ha fatto comprendere e riconoscere la vera composizione del cuore e dei muscoli. Così le loro [dei cartesiani] ingegnose costruzioni sono state rovesciate senza una sola parola, semplicemente da preparazioni anatomiche» (E, n. 72). Riconobbe che la sua fede aveva corso un grosso rischio, ma ne era stato salvato «perchè Dio con le scoperte anatomiche mi fece rinunciare alla presunzione filosofica e mi ricondusse poco a poco a ricevere l'amore dell'umiltà cristiana, che è il più degno amore dell'anima ragionevole» (E, n. 143). Già vescovo, Steensen scriverà a Leibniz nel 1677: «Se questi signori, che quasi tutti gli studiosi adorano, hanno ritenuto come dimostrazioni infallibili ciò che io in un'ora di tempo posso far preparare da un giovinetto di dieci anni al punto che, senza alcuna parola, la sola vista fa crollare i più ingegnosi sistemi di questi grandi spiriti, quale sicurezza posso avere delle altre sottigliezze di cui si vantano? Voglio dire, se costoro nelle cose materiali esposte ai sensi si sono talmente ingannati, quale sicurezza mi daranno di non ingannarsi allo stesso modo, quando trattano di Dio e dell'anima?» (ibidem).
Era l'applicazione coerente del metodo cartesiano da lui seguito a fornirgli argomentazioni contro le pretese degli stessi cartesiani. Però precisa: «Io non critico il metodo di Cartesio, ma il cattivo uso che egli ne fa. Io debbo al metodo la luce sulle mie idee preconcette; il suo cattivo uso avrebbe potuto allontanarmi dallo studio della religione, ciò di cui si hanno molti esempi» (OT, vol. I, p. 390). Stenone aveva infatti constatato che «molti si lasciano trascinare verso ciò che è ancor peggio del cartesianesimo e, anche se non si allontanano dal cristianesimo, lasciano che svanisca […]. Questo si vede bene in Spinoza e seguaci, che dicono di aver spinto la filosofia cartesiana ancora più lontano, ma in realtà l'hanno rovesciata con il risultato di essere diventati perfetti materialisti […]. E poiché al modo di Cartesio non vogliono confessare la loro ignoranza sui rapporti tra anima e corpo, tra ciò che è pensiero e ciò che è estensione, sono caduti nel più grave degli errori pretendendo che pensiero ed estensione siano attributi della stessa sostanza […]. Non conoscendo che la materia, essi erigono a dio la somma di tutte le cose e permettono tutti i godimenti dei sensi. Non essendoci libero arbitrio, la preghiera è vana, perchè la morte non è seguita né da sanzione, né da ricompensa» (ibidem, p. 388).
La riserva nei riguardi della filosofia non significa però che egli escluda princìpi interpretativi a priori. Quando disseziona la testa dello squalo, enuncia un criterio importantissimo che gli consentirà di individuare la natura dei fossili: «Con riguardo alla forma dei corpi […], poichè questa corrisponde perfettamente a parti di animali, la somiglianza delle forme sembra suggerire una somiglianza di origine» (GP, p. 110). E a proposito degli esperimenti fatti in laboratorio: «io non dubito che la Natura operi in modo simile nel seno della Terra» (p. 112).
I criteri gnoseologici sembrano ispirarsi ad un realismo di tipo empirico. Dal Prooemio (1673): «C'è chi accusa i sensi di non mostrare le cose come stanno in sé e di darci una falsa o incerta impressione di ogni cosa […]. Ma i sensi non sono intesi a presentarci le cose come sono o a darci un giudizio su di esse; essi sono intesi a trasmettere per l'investigazione della ragione quanto del carattere esterno delle cose è adeguato per raggiungere una conoscenza delle cose che corrisponda alle necessità dell'uomo» (cfr. Moe, 1994, p. 136). È sempre viva in lui la preoccupazione di una conoscenza ben fondata. Sempre dal Prooemio: «allo scopo di evitare errori, io non mi atterrò alla sola esperienza, né presenterò esclusivamente argomenti di ragione, ma cercherò di raggiungere una combinazione di entrambi i punti di vista, cosicché se non tutto, almeno molto di quello che dirò, possa contenere una certezza dimostrabile» (cfr. Poulsen et al., 1986, p. 132).
Egli si avvicina dunque alla natura senza preconcetti di tipo magico-numerico, e mutua da Cartesio e  Gassendi il concetto di «particelle impercettibili» come costituenti dei corpi solidi e liquidi. Tuttavia si rifiuta di entrare nel merito della costituzione ultima della  materia e si limita ad enumerare una serie di opinioni circa la questione «se la materia consista di atomi, o di particelle che possono cambiare forma in mille modi, o di quattro elementi, o di tanti elementi chimici quanti sono necessari per spiegare la varietà di opinioni dei chimici» (GP, p. 146). L'importante è aver trovato una legge, o una relazione comunque valida: «Quello che io ho proposto circa il movimento [delle particelle nei fluidi] si accorda con ogni movente, sia che lo si chiami forma, o proprietà emanante dalla forma, o Idea, o materia sottile comune o materia sottile speciale, o anima particolare, o influenza immediata di Dio» (ibidem).

VI. Il rapporto scienza-fede

Sulla base delle considerazioni sopra svolte, appare evidente che non ci fu conflitto in Stenone tra fede religiosa e sapere scientifico. Se tensione ci fu, fu tra visione religiosa e concezioni filosofiche. Come la grande maggioranza degli studiosi del Seicento, Stenone era cresciuto in un contesto culturale ove vigeva una triplice fede: in Dio, nella intelligibilità del reale e nelle capacità della ragione umana di raggiungere la  verità. I fermenti filosofici dovuti a Cartesio e soprattutto a Spinoza avevano iniziato a mettere in dubbio quelle convinzioni. Furono i risultati delle ricerche scientifiche a dimostrare a Stenone l'inanità di certe speculazioni filosofiche e a riportarlo alla fede in Dio. Si potrebbe pensare a lui come ad uno dei precursori della teologia naturale, che si affermerà nel Settecento. La  natura è opera di Dio, e lo scienziato non fa che scoprire le meraviglie di questa opera, meraviglie nascoste all'uomo comune. Nelle Observationes anatomicae (1662) mette in risalto «con quale cura il saggio Creatore degli esseri viventi abbia disposto affinchè nulla inquini la testa, trono regale del corpo. Le cavità delle orecchie, gli occhi e il naso debbono essere mantenuti umidi, e non c'è nulla di superfluo in naso, occhio o bocca, quando uno vive secondo l'ordine della natura».
Commentando le varie modalità di inserimento dei vasi linfatici nella vena cava, annota, riferendosi al determinismo di Spinoza, che sosteneva la necessità del tutto: «Da questa eccezionale varietà negli individui della stessa specie è facile dedurre che, tra gli attributi della Divinità che noi possiamo conoscere attraverso lo studio dei corpi, Dio creatore ha voluto proporci anche questi due: che Egli non è trascinato dal caso, perchè segue una regola generale, e che nello stesso tempo Egli non è costretto da alcuna necessità, perchè in ciascun individuo cambia liberamente le condizioni particolari» (OP, vol. I, p. 142).
I risultati delle ricerche geologiche sono inseriti nella concezione biblica del suo tempo (  GEOLOGIA, IV-V). È interessante però osservare — e questa è una novità — che il punto di partenza non è il racconto biblico, ma l'osservazione della natura. La conclusione è che non solo non c'è disaccordo con il racconto biblico, ma questo trova una conferma dall'indagine dei fenomeni geologici. Anzi: «De prima terrae facie in eo Scriptura et Natura consentiunt, quod aquis omnia tecta fuerint; quomoda vero, et quando coeperit, et quanto tempore talis exstiterit, Natura silet, Scriptura loquitur (Circa la prima forma della Terra la Scrittura e la Natura concordano che tutto fu sommerso dalle acque; in quale modo, quando iniziò e per quanto tempo rimase, la Natura tace, la Scrittura parla)» (GP, p. 204). Creazione e Diluvio sono eventi storici, ma solo del secondo è possibile rinvenire tracce sicure sulla superficie terrestre. Egli riconosce però che localmente possono essersi ripetuti fenomeni alluvionali, come in Toscana, dove individua ben sei periodi alternatisi di deposizione ed erosione. Ammette nel Prodromus che «le montagne oggi esistenti non furono così all'inizio»: la Terra ha subito un'evoluzione da quando si è formata, che continua tuttora.
Pur avendo il grande merito di avere introdotto i fondamentali concetti di  tempo e di  evoluzione in geologia, Stenone non ha elementi per mettere in dubbio la datazione, ritenuta al suo tempo in accordo con la narrazione biblica, secondo cui la Terra avrebbe avuto un'età di circa 6000 anni. Difatti scrive: «Quanto ai movimenti della terra, alle eruzioni di fuoco dalla terra ed alle alluvioni fluviali e marine, si può facilmente mostrare che numerosi e vari cambiamenti occorsero in 4000 anni» (GP, p. 211). Lo storico della geologia Adams sostiene che Stenone, in certe conclusioni, specie geologiche, fu influenzato dall'autorità ecclesiastica. L'affermazione non ha trovato finora riscontro, né rende onore all'onestà intellettuale sempre mostrata dallo scienziato danese, che ben conosceva il pensiero di Galileo e si era espresso fin da giovane a favore delle teorie copernicane. Sapeva cioè distinguere il contenuto delle verità di fede da quello delle verità scientifiche.
Come profonda era la sua passione per la scienza, altrettanto intensa era la sua fede. Sono frequenti nei suoi scritti anche scientifici le note vibranti della sua personale preghiera. Già le prime annotazioni giovanili, riportate nel manoscritto Chaos, rivelano uno spirito profondamente religioso: «Conducimi, o Signore, per la gloria del tuo nome. Dammi di poter fare qualcosa di buono con ordine e costanza». «Dio mio, concedimi la forza di astenermi da ogni peccato, soprattutto da ogni giudizio troppo affrettato e sconsiderato, e da affermazioni su cose a me sconosciute o non perfettamente note». «Oggi ho fatto ben poco di buono. Perdona, o Dio... Fa' che abbia sempre davanti agli occhi l'idea della morte, e sulle labbra le parole: memento mori». E ancora: «Sii presente, Gesù, con la tua grazia!».
La ricerca scientifica porta elementi di contemplazione al suo spirito riflessivo e la spiritualità si affina. Già prima del passaggio alla confessione cattolica, a 25 anni, redige la preghiera che porterà sempre con sè: «Tu, senza il cui cenno non cade capello dal capo, foglia dall'albero, uccello dall'aria, né viene un pensiero alla mente, una parola alla lingua, un movimento alla mano, Tu mi hai condotto finora su vie a me sconosciute. Guidami ora, veggente o cieco, sul sentiero della Grazia. A Te è certamente più facile accompagnarmi là, dove Tu vuoi che io vada, che a me tenermi lontano da ciò, cui il mio ardente desiderio mi sospinge» (OT, p. 387).
La meraviglia di fronte alle bellezze della natura che egli stesso ha contribuito a scoprire lascia il posto ad una meraviglia più profonda che si trasforma in gioia quando si sente oggetto dell'attenzione speciale di Dio: «La grazia divina mi riempie di una tale felicità che i miei amici possono vedere la mia gioia interiore da segni esterni. Ma questa certezza divina non vale che per chi la esperimenta» (E, n. 73). Johann von Rose testimoniò che «erano evidenti la sua gioia e la sua esaltazione, quando parlava della gloria di Dio e del bene delle anime, e lo faceva con tanta grazia che anche gli eretici restavano catturati dal suo fascino, e spesso si convertivano parlando con lui» (cit. in “Stenoniana” (1991), p. 103). Al tempo del suo apostolato missionario in Germania scrive: «Quanto meno l'umana speculazione si aspetta in materia divina, tanto più chiaro emerge alla luce del giorno il disegno della Provvidenza. […] In questioni apostoliche uno deve agire in modo apostolico, afferrando le occasioni come vengono e lasciando l'esito alla clemenza divina» (ibidem, p. 107).
Viene l'ora della sofferenza fisica. Sul letto di morte confessa: «Soffro dolori indicibili e spero, mio Dio, che essi Ti inducano a perdonarmi, se non penso costantemente a Te. Non Ti chiedo di liberarmi da questi dolori, bensì di concedermi la grazia di saperli sopportare con santa pazienza. Se dalla Tua mano abbiamo accettato il bene, perchè non dovremmo accettare anche il male? Sia che Tu ora voglia che io continui a vivere oppure che io muoia, io voglio solo ciò che Tu vuoi, mio Dio. Sii lodato in eterno, e sia fatta la Tua volontà!» (J. von Rose, La vie et la mort de Sténon, cit. in Moe, 1994, p. 166). Il giorno prima di morire si preoccupa dell'estinzione di un debito di 300 talleri e acutamente descrive i sintomi del suo male. Chiude l'esistenza terrena con l'invocazione giovanile: «Jesu, sihi mihi Jesus!Gesù, sii sempre per me Gesù».
 Francesco Abbona




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sabato, 03 novembre 2007

Grazie Don Benzi!

Un mendicante d'anime sui viali della riviera romagnola

***

L'editoriale (03 novembre 2007)

di Marina Corradi
«Se chiama qualcuno dalla strada e vuole venirne via, dare subito il numero di cellulare di don Oreste». La scritta in caratteri grossi, neri, dietro la scrivania in una stanza di via Grotta Rossa a Rimini, era imperiosa. L’ordine della casa, cui nessuno poteva contravvenire. Nel caso di un barlume di ripensamento, magari nello sfinimento di un’alba livida su un viale di periferia, don Benzi – 58 anni di sacerdozio – sapeva che bisognava esserci, subito: prima che la rassegnazione seppellisse il principio di una sparuta speranza.
Il vecchio prete morto nel suo letto, nel sonno, tra la notte dei Santi e quella dei Morti, aveva sotto la tonaca lisa qualcosa di una statura epica. A seguirlo nel fondo delle notti riminesi, nei giri in cui raccattava prostitute e drogati per convincerli a cambiare vita, si aveva inizialmente l’impressione di uno straordinario don Chisciotte. Le ragazze dei viali guardavano come un folle gentile quel prete coi capelli bianchi che prometteva una vita diversa. Pareva, ad accompagnarlo in quelle bolge notturne, surreale il dialogo fra un sacerdote ottantenne e rumene o nigeriane diciottenni. Credevi che quelle ragazze sarebbero scoppiate a ridere. Invece no: lo ascoltavano, infastidite prima, poi meravigliate. Guarda, diceva il vecchio nella luce rossastra dei falò, che tu non sei nata per vivere così, guarda che puoi ricominciare tutto da capo. E sotto il trucco pesante, da marciapiede, due occhi lo guardavano, stupiti, dopo tanto tempo, nel sentirsi guardare come qualcosa di prezioso.
Cinquecento donne hanno cambiato vita incontrando una notte quel prete. Un cacciatore d’anime sui viali della riviera romagnola; o, più che cacciatore, un mendicante. Gentile, ostinato, allungava tenacemente la mano. Non si arrendeva mai.
Un combattente, anche. Uno che si alzava alle 5 del mattino e diceva le Lodi e il rosario in macchina, in viaggio verso uno dei 33 centri della Comunità Giovanni XXIII. Tuttavia, il mare di cose che riusciva a fare, a stargli accanto solo per qualche ora, pareva quasi un secondo lavoro rispetto al vero centro delle sue giornate: la preghiera, ora esplicita, ora interiore. Baricentro costante e silenzioso. Era strano vedere un sacerdote in tonaca nera fra la folla vociante e sguaiata delle notti di Rimini. E arrancandogli accanto – a 80 anni, alle due di notte don Oreste non era stanco – domandavi se non si sentiva a disagio, in quel caos. «A disagio? Qui sto benissimo. Faccio contemplazione. Cerco Cristo nella faccia di tutti quelli che incontro».
È stata la profezia di don Benzi: per trovare Dio non occorre chiamarsi fuori dal mondo, o frequentare buone compagnie. In mezzo agli uomini invece, nelle loro notti avide o smarrite, a riconoscere cosa c’è davvero dietro quell’ansia di vivere – che cosa attendono e non trovano, nell’ebbrezza del buio e dell’estate, in fondo a nessun gioco o bicchiere. In mezzo agli uomini, tra di loro e anzi tra quelli che crediamo peggiori. A testa alta, sicuro – eppure sempre con quella mano aperta e tesa.
Ci resterà, di don Benzi, il ricordo di un colloquio nel suo studio con una giovane prostituta africana appena sfuggita ai suoi protettori. Guardavamo in basso, e così abbiamo notato i piedi. Quelli della ragazza, neri, agili come di una gazzella inseguita, e irrequieti di paura. Quelli di don Oreste, le scarpe grosse con le suole consunte da prete di marciapiede. Immobili, piazzati a terra come colonne. Come di chi ha radici di una fede profonda, e non oscilla, e non ha paura di nessuno.
***
 Il commento al brano biblico di Giobbe (19,1.23-27) scritto da don Benzi per venerdì 2 novembre, Commemorazione di tutti i fedeli defunti, e giorno in cui lui è tornato al Padre

Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che sarà vicino dirà: è morto. In realtà è una bugia.
Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma in realtà la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa terra mi apro all'infinito di Dio.
Noi lo vedremo, come ci dice Paolo, faccia a faccia, così come Egli è (1Cor 13,12). E si attuerà quella parola che la Sapienza dice al capitolo 3: Dio ha creato l'uomo immortale, per l'immortalità, secondo la sua natura l'ha creato.
Dentro di noi, quindi, c'è già l'immortalità, per cui la morte non è altro che lo sbocciare per sempre della mia identità, del mio essere con Dio. La morte è il momento dell'abbraccio col Padre, atteso intensamente nel cuore di ogni uomo, nel cuore di ogni creatura.
(da Pane Quotidiano novembre-dicembre 2007)



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 GRAZIE DON BENZI !
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n. 260 del 2007-11-03
 È morto Don Benzi il prete di strada che aiutava i disperati
di Andrea Tornielli
Stroncato a 82 anni da un infarto, ha speso una vita dalla parte dei giovani, gli emarginati e le prostitute. La testimonianza di Alina, 23 anni: "Don Oreste mi ha strappato dalla schiavitù"
da Milano
Le ultime parole le aveva preparate per la liturgia di ieri, per commemorazione dei defunti: «La morte non esiste, perché appena chiudo gli occhi a questa terra, mi apro all’infinito di Dio». Don Oreste Benzi, il prete fondatore dell’Associazione Comunità Giovanni XXIII che ha speso la sua vita per aiutare poveri, abbandonati, bambini senza famiglia e disadattati, prostitute schiavizzate, non poteva immaginare, mentre vergava quelle parole, che il momento di chiudere per sempre gli occhi in questo mondo sarebbe arrivato così presto.
Il sacerdote si è spento l’altra notte presso la parrocchia della Resurrezione di Rimini dove abitava, stroncato da un infarto. Due sere prima era a parlare ai giovani all’entrata di una discoteca di Cattolica, mentre poche ore prima di morire aveva espresso il suo dolore per la morte di Giovanna Reggiani, la donna assalita e massacrata da un giovane romeno a Roma. Ma aveva anche ricordato le parole dei funzionari della polizia di Bucarest: «Noi collaboriamo con loro per far rimpatriare le ragazze che salviamo dalla strada. E ci dicono: “Siete voi italiani che foraggiate e mantenete i criminali romeni, sfruttando 30mila ragazze del nostro Paese che vengono portate sui vostri marciapiedi ancora bambine!”».
Mancherà soprattutto a loro, alle ragazze salvate dalla prostituzione, ai bambini senza famiglia che grazie a lui e alla sua associazione sono tornati a sorridere. Nato il 7 settembre 1925 a San Clemente, un piccolo paese dell’entroterra romagnolo, settimo di nove figli in una famiglia di operai, Oreste era entrato in seminario all’età di dodici anni grazie al lavoro straordinario che la madre si era sobbarcata per mantenerlo. Ordinato prete nel 1949, l’anno successivo è chiamato nel seminario di Rimini come insegnante e quindi diventa vice-assistente della Gioventù Cattolica. Inizia allora a maturare in lui la convinzione dell’importanza di aiutare gli adolescenti e di realizzare attività che favoriscano «un incontro simpatico con Cristo».
Don Benzi fa per molti anni il professore nelle scuole pubbliche di Rimini e nel ’68 fonda l’associazione Giovanni XXIII. Si batte per trovare una famiglia ai bambini gravemente handicappati che vengono abbandonati, poi si concentra sui tossicodipendenti, apre case di accoglienza nella sua parrocchia di Grottarossa, una frazione del comune di Rimini. È un prete tutto d’un pezzo, che non si toglie mai la tonaca e il colletto romano di plastica. In tonaca don Oreste va per le strade di notte, accompagnato dai suoi volontari, per cercare di convincere le prostitute a cambiare vita, offrendo loro un rifugio e una possibilità concreta di riscatto. Quella tonaca diventa sempre più lisa e rattoppata. Con addosso quell’abito nel 2003 Benzi ha accompagnato al cospetto di un commosso Papa Wojtyla un’ex prostituta nigeriana ammalata di Aids.
Un’altra delle sue battaglie e quella contro l’aborto. Anche la sera prima di morire aveva organizzato veglie di preghiera davanti ai cimiteri per i «bambini mai nati», richiamando l’attenzione su questo fenomeno e sulla necessità di permettere la presenza di operatori volontari nei consultori per cercare di convincere le donne a non abortire. Don Oreste Benzi, il vecchio sacerdote romagnolo con la tonaca lisa, lascia duecento case famiglia in Italia, sei case preghiera, sette case di fraternità, quindici cooperative sociali per inserire persone svantaggiate, sei centri diurni per valorizzare persone con handicap gravi, trentadue comunità terapeutiche. La sua associazione, riconosciuta dalla Santa Sede, è presente in Albania, Australia, Bangladesh, Bolivia, Brasile, Cile, Cina, Croazia, India, Kenya, Romania, Russia, Tanzania, Venezuela e Zambia. 

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lunedì, 29 ottobre 2007

Il vero volto del comunismo

LA LEZIONE DEL 28 OTTOBRE…
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Il 28 ottobre prossimo in Vaticano saranno beatificati 498 martiri della feroce persecuzione religiosa esplosa in Spagna dopo il 1931 e specialmente fra il 1934 e il 1936. Una cerimonia di massa di tali proporzioni non ha precedenti. Aveva cominciato Giovanni Paolo II beatificando nel 1987 tre suore carmelitane che erano state crudelmente massacrate per le strade di Madrid. Poi papa Wojtyla celebrò altre undici cerimonie di beatificazione per un totale di 465 martiri spagnoli. Domenica prossima saranno dichiarati beati 2 vescovi, 24 preti, 462 religiosi e religiose, 2 diaconi, 1 seminarista e 7 laici, tutti vittime di quella persecuzione. Sarà l’occasione per conoscere una delle più sanguinarie tempeste anticristiane scatenate nell’Europa del nostro tempo ad opera dei rivoluzionari repubblicani (una miscela di comunismo, socialismo, anarchia e laicismo).Mai nella storia d’Europa e forse in quella del mondo” ha scritto Hugh Thomas “si era visto un odio così accanito per la religione e per i suoi uomini”. Chiese e conventi (con una quantità di opere d’arte) furono incendiati e distrutti. In pochi mesi furono ammazzati 13 vescovi, 4.184 sacerdoti e seminaristi, 2.365 religiosi, 283 suore e un numero incalcolabile di semplici cristiani la cui unica colpa era portare un crocifisso al collo o avere un rosario in tasca o essersi recati alla messa o aver nascosto un prete o essere madre di un sacerdote come capitò a una donna che per questo fu soffocata con un crocifisso ficcato nella gola.

Molti vescovi o sacerdoti sarebbero potuti fuggire, ma restarono al loro posto, pur sapendo cosa li aspettava, per non abbandonare la loro gente. Non colpisce solo l’accanimento con cui si infierì sulle vittime, inermi e inoffensive (per esempio c’è chi fu legato a un cadavere e lasciato così al sole fino alla sua decomposizione, da vivo, con il morto).

Ma colpisce ancora di più la volontà di ottenere dalle vittime il rinnegamento della fede o la profanazione di sacramenti o orribili sacrilegi. Qua c’è qualcosa su cui non si è riflettuto abbastanza. Faccio qualche esempio. I rivoluzionari decisero che il parroco di Torrijos, che si chiamava
Liberio Gonzales Nonvela, data la sua ardente fede, dovesse morire come Gesù. Così fu denudato e frustato in modo bestiale. Poi si cominciò la crocifissione, la coronazione di spine, gli fu dato da bere aceto, alla fine lo finirono sparandogli mentre lui benediva i suoi aguzzini. Ma è significativo che costoro, in precedenza, gli dicessero: “bestemmia e ti perdoneremo”. Il sacerdote, sfinito dalle sevizie, rispose che era lui a perdonare loro e li benedisse. Ma va sottolineata quella volontà di ottenere da lui un tradimento della fede. Anche dagli altri sacerdoti pretendevano la profanazione di sacramenti. O da suore che violentarono. Quale senso poteva avere, dal punto di vista politico, per esempio, la riesumazione dei corpi di suore in decomposizione esposte in piazza per irriderle? Non c’è qualcosa di semplicemente satanico?

E il giovane
Juan Duarte Martin, diacono ventiquattrenne, torturato con aghi su tutto il corpo e, attraverso di essi, con terribili scariche elettriche? Pretendevano di farlo bestemmiare e di fargli gridare “viva il comunismo!”, mentre lui gridò fino all’ultimo “viva Cristo Re!”. Lo cosparsero di benzina e gli dettero fuoco. Qua non siamo solo in presenza di un folle disegno politico di cancellazione della Chiesa. C’è qualcosa di più. A definire la natura e la vera identità di questo orrore ha provato Richard Wurmbrand, un rumeno di origine ebraica che in gioventù militò fra i comunisti, nel 1935 divenne cristiano e pastore evangelico, quindi subì 14 anni di persecuzione, molti dei quali nel Gulag del regime comunista di Ceausescu.

Anch’egli aveva notato – nei lager dell’Est – questo oscuro disegno nella persecuzione religiosa. In un suo libro scrive: “
Si può capire che i comunisti arrestassero preti e pastori perché li consideravano contro rivoluzionari. Ma perché i preti venivano costretti dai marxisti nella prigione romena di Piteshti a dir messa sullo sterco e l’urina? Perché i cristiani venivano torturati col far prendere loro la Comunione usando queste materie come elementi?”. Non era solo “scherno osceno”. Al sacerdote Roman Braga “gli vennero schiantati i denti uno ad uno con una verga di ferro” per farlo bestemmiare. I suoi aguzzini gli dicevano: “se vi uccidiamo, voi cristiani andate in Paradiso. Ma noi non vogliamo farvi dare la corona del martirio. Dovete prima bestemmiare Iddio e poi andare all’inferno”. A un prigioniero cristiano del carcere di Piteshti, riferisce Wurmbrand, i comunisti ogni giorno ripetevano in modo blasfemo il rito del battesimo immergendogli la testa nel “bugliolo” dove tutti lasciavno gli escrementi e costringevano in quei minuti gli altri prigionieri a cantare il rito battesimale. Altri cristiani “venivano picchiati fino a farli impazzire per obbligarli a inginocchiarsi davanti a un’immagine blasfema di Cristo”.

Si chiede Wurmbrand, “cos’ha a che fare tutto ciò con il socialismo e col benessere del proletariato?
Non sono queste cose semplici pretesti per organizzare orge e blasfemie sataniche? Si suppone che i marxisti siano atei che non credono nel Paradiso e nell’Inferno. In queste estreme circostanze il marxismo si è tolto la maschera ateista rivelando il proprio vero volto, che è il satanismo”.

In effetti il libro di Wurmbrand s’intitola “Was Karl Marx a satanist?” ed è stato tradotto in italiano dall’ “editrice uomini nuovi” col titolo “L’altra faccia di Carlo Marx”. L’autore si spinge, indagando negli scritti giovanili di Marx e nelle sue vicende biografiche, fino a ritenere che trafficasse con sette sataniste. Peraltro nel brulicare di sette e società esoteriche di metà Ottocento sono tante le personalità che hanno avuto strane frequentazioni. E su Marx anche altri autori hanno fatto ipotesi del genere. Wurmbrand sostiene soprattutto che la filantropia socialista non era l’ispirazione vera di Marx, ma solo lo schermo, il pretesto per la sua vera motivazione che era la guerra contro Dio. Realizzata poi su larga scala con la Rivoluzione d’ottobre e quel che è seguito (nei regimi comunisti fatti, correnti, episodi e personaggi che portano in quella direzione sono chiari).

Sul satanismo non so pronunciarmi, ma
gli effetti satanici dell’esperimento marxista (planetario) sono sotto gli occhi di tutti anche se rimossi clamorosamente dalla riflessione pubblica: la più colossale e feroce strage di esseri umani che la storia ricordi e la più vasta guerra al cristianesimo di questi duemila anni. Siccome capita di sentir formulare, in ambienti cattolici, giudizi indulgenti sugli “ideali dei comunisti”, che sarebbero poi stati traditi nella pratica o mal tradotti, è venuto il momento di definire una buona volta la natura satanica dell’ideologia in sé e di tutto quel che è accaduto. Visto che un grande filosofo come Augusto Del Noce da anni ha dimostrato quanto l’ateismo sia fondamentale nel marxismo e niente affatto marginale o facoltativo. La tragedia spagnola, su cui il popolo cristiano non sa quasi niente (e che fu perpetrata anche da altre forze rivoluzionarie e laiciste) dovrebbe far riflettere, se non altro per le proporzioni di quel martirio.

Antonio Socci

Da “Libero”, 21 ottobre 2007



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domenica, 28 ottobre 2007

Quando uno ama Cristo
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1. Cercate anime non denari;
2. Usate carità e somma cortesia con tutti;
3. Prendete cura degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini;
4. Fate che il mondo conosca che siete poveri negli abiti, nel vitto, nelle abitazioni e voi sarete ricchi in faccia a Dio e diverrete padroni del cuore degli uomini;
5. Fra di voi amatevi, consigliatevi, correggetevi ma non portatevi mai né invidia, né rancore, anzi il bene di uno sia il bene di tutti, le pene e le sofferenze di uno considerate come pene e sofferenze di tutti e ciascuno studi di allontanarle o almeno mitigarle;
6. Ogni mattino raccomandate a Dio le occupazioni della giornata

S. Giovanni Bosco Raccomandazioni ai missionari



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venerdì, 19 ottobre 2007

Un uomo per la Chiesa
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Si cerca per la Chiesa un uomo...
 Si cerca per la Chiesa un uomo
senza paura del domani, senza paura dell'oggi,
 senza complessi del passato.
Si cerca per la Chiesa un uomo,
che non abbia paura di cambiare,
 che non cambi per cambiare,
 che non parli per parlare.
Si cerca per la Chiesa un uomo
capace di vivere insieme agli altri,
di lavorare insieme, di piangere insieme,
 di ridere insieme, di amare insieme,
di sognare insieme.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di perdere
senza sentirsi distrutto, di mettersi in dubbio
senza perdere la fede, di portare la pace
dove c'è inquietudine e l'inquietudine dove c'è pace.
Si cerca per la Chiesa un uomo
che abbia nostalgia di Dio,
che abbia nostalgia della Chiesa,
nostalgia della gente,
nostalgia della povertà di Gesù,
nostalgia dell'obbedienza di Gesù.
 Si cerca per la Chiesa un uomo
che non confonda la preghiera
con le parole dette d'abitudine,
la spiritualità col sentimentalismo,
la chiamata con l'interesse,
il servizio con la sistemazione.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di morire per lei
ma ancora di più capace di vivere per la Chiesa;
un uomo capace di diventare ministro di Cristo,
profeta di Dio, un uomo che parli con la sua vita.
Si cerca per la Chiesa un uomo.
Primo Mazzolari




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Testimoni di Cristo

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 da:http://www.giovaniemissione.it/pacennmani/suorRachele.htm
Roma, 10 settembre 2003

Testimonianza di sr. Rachele Missionaria Comboniana 

in Uganda

  

Sono qui a raccontare la tragedia immensa della mia gente, della nostra gente. Ieri sera mi sono messa a scrivere ma mi son detta: “Come faccio a spiegare questa lunga storia in poco tempo?”. Non mi sentivo in grado. Questa mattina, appena alzata, ho guardato il crocefisso e mi ha dato pace e ho pensato: “Devo portarLo con me perché è Lui la Pace.”. Quello che il Signore mi dona questa sera di poter condividere con voi  è dono Suo. Vorrei che gli occhi nostri e vostri fossero su di Lui non su di me… perché è troppo quello che mi presto a condividere, quello che ho dentro e quello che condivido profondamente dentro di me ho paura di rovinarlo, e ho paura anche dell’orgoglio, della soddisfazione personale… siamo persone umane.

Gli occhi siano su di Lui perché quello che mi ha donato di vivere in Uganda è dono Suo.

Prima di tutto vorrei chiedere perdono a Te e a voi perché io sono arrivata in Uganda nel 1982  e la tragedia immensa per la nostra gente del nord Uganda, per i bambini, per le famiglie,  è iniziata nel 1988… io nell’88 non mi sono mossa, non ho fatto niente per la mia gente. Ho visto soffrire. I bambini venivano portati via dai ribelli (L.R.A. -Lord Resistance Army-, ndr.).

E’ stato poi nell’89 che il Signore è entrato nella mia vita in una maniera incredibile, violenta: quando i ribelli, un centinaio di questi ribelli, sono entrati nella nostra scuola e hanno portato via 10 delle nostre ragazze, 32 seminaristi del seminario vicino e una sessantina di persone del villaggio. Il Signore mi ha aiutato, con due insegnanti, a seguirli per liberare le ragazze. Io devo ringraziarti o Signore perché ho camminato con Te, in sentieri molto aspri; perché sono comboniana e tante volte ho sentito e detto fare causa comune mentre camminavo in cerca delle mie bambine. Ad un certo punto, mentre con i maestri inseguivamo i ribelli abbiamo visto cinque persone uccise ai lati della strada e centinaia di case bruciate una desolazione che non vi so raccontare. Mentre ero lì, dentro di me dentro sono sgorgate queste parole: “Sono qui per fare causa comune con voi!”. Sono diventata comboniana là, il 22 Marzo 1989, ma non sono riuscita a liberare le mie ragazze, loro sono riusciti a scapparci. Allora sono tornata a casa e abbiamo cominciato a bussare alle porte del presidente, dei militari, dell’arcivescovo, del cardinale, delle ambasciate che si occupano di tutta la “sicurezza” della nostra zona. Allora ci hanno dato i militari per proteggere la scuola. Con i militari noi ci siamo sentite tranquille, ma a Gulu, Kitgum e in altre zone continuavano a portare via  bambini, a bruciare case, a tagliare le labbra, a tagliare le orecchie, a fare cose incredibili… Ma noi ci sentivamo abbastanza tranquilli, perché avevamo i militari fra di noi, e questo dall’89 fino al 1996.

L’8 Ottobre del 1996, ci hanno trasferiti per alcuni giorni, c’erano notizie terribili: i ribelli erano a Lira, molto vicini.  Abbiamo cercato aiuto, ma il mattino del 10 Ottobre1996, un centinaio di questi ribelli, di notte alle 2,15 a.m. sono entrati nella scuola e ci hanno portato via 152 bambine, centocinquantadue! Son venuti di notte, hanno sfondato il muro dei dormitori, distrutto una finestra e portato via le ragazze. Li ho seguiti e con un insegnante li abbiamo incontrati con le nostre ragazze ed altri bambini e persone che avevano rapito. Abbiamo camminato con loro per quaranta chilometri, giungendo così alla loro base. Io camminavo con il rosario in mano e anche loro avevano il rosario! Ad un certo punto mi rivolgo al capo implorandolo: “Dammi le bambine”;  mi rispose: “Sì, non temere che te le do.” Arrivati alla loro base mi disse che me ne dava 109 e ne teneva 30. Non posso descrivere quello che ho provato là….ma là, in quel momento io sono diventata madre, Pia Madre della Nigrizia perché quando lui disse, e lo scrisse per terra, “ne lascio 109 e ne tengo 30”, sotto gli occhi di tutte le bambine mi sono inginocchiata davanti a lui e ho detto: “Dammele tutte e tieni me!”. E in quel momento per me sono diventate vere le parole del Vangelo quando il Signore dice che non c’è nulla di più grande che dare la vita. In quel momento ho capito queste parole. Lui non ha accettato che rimanessi lì, e sono dovuta venire via con le 109 promesse ma prima di andarmene lui mi disse di prendere anche un’altra bambina che non apparteneva al gruppo della mia scuola. Ma io avevo chiesto solo la liberazione delle bambine della nostra scuola e non  altri bambini fuori dal nostro gruppo… 

Mentre mi sto ascoltando mi scuso perché non so se con le parole posso descrivere quanto ho sentito, vissuto, visto…

La bambina di dieci anni non l’ho chiesta… ma è stata portata via anche lei… e lui questo capo dei ribelli, che era uno dei più crudeli, mi disse: “portati via anche lei.”

Lì per lì non capii. Più tardi, nel 1998, mi hanno chiesto di fare una testimonianza a Milano e lì ho capito: in ogni cuore anche in quello del più crudele c’è qualcosa che tu Signore hai messo dentro, in ogni cuore…

Ho dovuto lasciare là 30 ragazze e non vi posso descrivere nulla di quel momento…no… è stato il dolore più grande della mia vita. Ho perso mio fratello gemello nel 85 e pensavo di morire; è morto mio papà: un dolore grande… ma lasciare là quelle trenta ragazze nelle mani dei ribelli è stato il dolore più grande! Sono tornata con le 109. Dovrei stare qui tutta la notte per descrivervi tutto, ma non sarebbe sufficiente. Mentre con i miei piedi camminavo, Suor Alba, la preside della scuola, ed alcuni direttori hanno formato il gruppo genitori per lavorare per la liberazione dei bambini. Abbiamo incominciato a bussare a tutte le porte: quindici volte o sedici sono andata dal presidente Museweni , tre o quattro nelle varie ambasciate, abbiamo incontrato Kofi Annan, Mandela, Gheddafi in Libia, siamo andate a Brusselles, per incontrare l’incaricata dei diritti umani Mary Robinson, Angelina, la mamma di una delle nostre bambine che sono ancora là, è andata a Washington e a New York e quando Clinton è venuto in Uganda abbiamo incontrato la signora Clinton, quando Powell è venuto in Uganda abbiamo incontrato la signora Powell… ho scritto qui tutte le persone che abbiamo incontrato e a tutte abbiamo chiesto una cosa sola: “Aiutateci a liberare tutti i nostri bambini”. Una mamma disse: ”Ma tu, tu lavori per le tue ragazze”. No! Alle mamme abbiamo detto che noi lavoriamo per tutti i bambini dell’Uganda, circa 20.000, che in tutti questi anni sono stati portati via. Sono diventati tutti nostri figli.

Mi chiederete, come ti hanno ascoltato tutti quei grandi da cui sei andata? Quando andavo da questi grandi mi veniva in mente subito Comboni. Quante volte questa vita che ho vissuto mi ha fatto diventare vera comboniana, ha fatto diventare vivo il mio fondatore. Quando io andavo, mi sentivo così piccola, eppure entravo così come sono, perché non ho altro. Vedete, non so parlare, non ho quel dono, ne ho tanti ma questo no e dicevo: “Vi chiedo una cosa sola: la liberazione dei bambini”. E tutti mi accoglievano bene, veramente e tutti mi hanno promesso. Quando sono andata in Libia, Gheddafi mi ha promesso che lui avrebbe dato tutti gli aerei per trasportare i nostri migliaia di bambini ma… Kofi Annan ha detto che avrebbe parlato al Security Council. Nel 2000, se non erro, l’Italia doveva diventare membro del Security Council, ma è subentrata la Norvegia allora è venuta una rappresentante della Norvegia in Uganda, ha voluto incontrare la presidente del Comitato dei Genitori, Angelina, e me, e siamo andate da questa signora. Ci accolse e ci chiese: “Cosa posso fare per voi?”, noi con Angelina ci siamo guardate e le abbiamo detto: “Ora lei è membro del Security Council. Le chiediamo semplicemente che se ha l’occasione di avere i contatti con i ribelli, di dir loro che si ricordino delle loro madri e se incontra il presidente, le domandi cosa farebbe se tra i tanti bambini rapiti ci fosse pure suo figlio. Noi gli chiediamo di fare quello che lui farebbe se suo figlio o sua figlia fossero come i nostri bambini”.

E continuammo a bussare a molte porte. Le mie ragazze erano a scuola! In prima, seconda e terza “liceo” dai tredici ai sedici anni, 152 bambine che studiavano, e alle quali insegnavo  Biologia. Sapete, me le vedo ancora davanti… Charlot mi guardava con occhi grandi. Così la trovai nel  bosco. Ha già partorito due figli da quei ribelli. Me le vedo qui. Una di loro era chiara di pelle e Koni il capo dei ribelli se l’è presa subito perché l’ha scambiata per la figlia di Museweni, (è chiaro di pelle).

Queste bambine erano a scuola, cosa ne hanno fatto dei nostri bambini? Di questi bambini che portano via cosa ne fanno questi ribelli? Gli insegnano a uccidere, a massacrare la gente, a bruciare, a rubare. Le ragazze vengono violentate; alcuni se ne prendono due, altri dieci, quindici. Omona ha preso tutte le nostre ragazze tra cui Luisa ed Angela. Luisa era in prima, tredici anni, Angela era in terza, quindici anni. Omona è morto nel '98 di AIDS.

Vi rendete conto di questa tragedia dell’Uganda?

Sono andata anche da Mandela. C’è stata una conferenza stampa ma i referenti non arrivarono e allora mi hanno chiesto una testimonianza (mai come in quella circostanza mi sono sentita strumentalizzata) ed io per le mie bambine vado ovunque a piedi. Durante la testimonianza arriva uno e mi domanda: “Ma tu, tu stai parlando dei bambini soldato, delle tue bambine, dell’Uganda, ma tu hai mai parlato dei bambini della Sierra Leone?!”. Ho detto: “Ti prego scusami, io non ho fatto niente per i bambini della Sierra Leone, e tu hai fatto qualcosa per loro?”. Tante porte, tante occasioni, tante parole, tante promesse e grandi speranze. Pensate che nel 98 sembrava dovessero venire qui a Roma; mi sembrava un sogno: finalmente liberate. Avevano già preparato le culle perché qualcuna sarebbe venuta con i bambini. Ma invece non arrivarono mai. Sono venuti là in tantissimi a fare dei documentari, articoli per i giornali… le mie bambine, le ragazze, le mie figlie sono ancora nelle mani di quei ribelli. Una di loro è stata massacrata. Molto probabilmente perché aveva voluti difendere i più piccoli: era Judie. Quando ho dovuto lasciarle là le ho detto: “Judie, ti lascio il rosario” e mi rispose: “Suora non si preoccupi, le proteggo io le più piccole”. Nel 97 Judie con una bambina di Gulu, Katerin, sono state picchiate dalle altre bambine. Quando i ribelli picchiano e puniscono lo fanno fare ai bambini. Capite? Voi capite che questi ragazzi, che sono stati portati via, che sono nelle mani di questi ribelli, li trasformano in macchine per uccidere. Judie… Della sua morte siamo state informate da Agnes, una bambina che è scappata dai campi dei ribelli del Sudan nel Luglio del 99, ed è arrivata in Uganda nel 2000. Era incinta di sette mesi, due ragazzi sono riusciti a scappare con lei, il bambino le è morto dentro e questi due ragazzi la hanno aiutata a tirarlo fuori… ma vi rendete conto? Agnes ora ha ripreso la scuola e vuole diventare medico. Con lei vi sono altre ragazze che sono riuscite a fuggire e che stanno recuperando, e le altre?

E pensate a Davide, un ragazzo che ho incontrato in uno di questi due centri di Gulu per la riabilitazione dei bambini. Venne portato via da una scuola di Gulu all’età di sedici anni, rimase due anni con questi ribelli e a diciotto riuscì a scappare. Un giornalista gli chiese che cosa faceva con i ribelli e Davide rispose: “Io mi curavo di quelli che scappavano. Quando tornavano li punivamo. Penso di aver ucciso 120 persone.” Ci pensate? Cosa avrà dentro quel ragazzo? Come fare per recuperarlo? E’ una tragedia immensa che incredibilmente ha cambiato anche me. E’ stato il Signore ha cambiarmi.  Pensate, io per natura sarei abbastanza violenta dentro, eppure in quella tragedia non ho mai avuto per nessuno, perché qui, la responsabilità di questa tragedia, ce l’abbiamo tutti. Ce l’ha il governo ugandese, ce l’ha la nostra gente, ce l’ha la comunità internazionale, ma soprattutto ce l’ho io.

Quello che il Signore mi ha donato di fare è stato questo: di avere nel cuore il desiderio di voler contattare tutti e così abbiamo contattato anche i ribelli. Abbiamo avuto il dono di andare nei campi dei ribelli in Sud Sudan per trattare le bambine. Erano là e una bambina di dodici anni mi prese in disparte e mi disse: “Le tue figlie sono qui”. Appena abbiamo lasciato il campo, l’hanno uccisa.

Ci sono momenti in cui mi chiedo se Kofi Annan si ricorda il peso delle parole che mi ha detto allo Sheraton Hotel di Kampala. E Gheddafi se le ricorda? Museweni se le ricorda?

A tutti loro ho scritto una lettera nella quale dicevo:

”Il Signore ti faccia strumento di Pace”.


Per concludere questo momento, ho portato con me un pezzettino del cranio di p. Raffaele di  Bari che è stato bruciato vivo. Lo porto sempre con me, perché mi fa memoria, mi ricorda la mia e la nostra vocazione. Il dono più grande che il Signore ci può fare veramente è dare la vita ed è un frutto di questa tragedia immensa che non riesco neanche a trasmettervi, scusate se balbetto un po’. Vi chiedo di ringraziare il Signore con me e che il Signore ci metta nel cuore il desiderio di dare la vita per i fratelli che è il dono più grande.

Grazie Padre nostro, il dono è la vita che hai dato; tu non hai mai accusato nessuno. Avevi le braccia aperte per tutti, militari, ribelli… per tutti! E non c’è dono più grande di dare la nostra vita.

Signore grazie e grazie a voi.





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santi, testimonianza

sabato, 13 ottobre 2007

San Giovanni Bosco
***
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
 

Don Bosco nasce quando ancora non sono passati trent'anni dal­la Rivoluzione francese, l'anno stesso in cui, con il congresso di Vienna, tramonta il mito napoleonico (1815). Già in tutto il secolo precedente (il cosiddetto «secolo dei lumi») la fede ha subito attacchi e irrisioni con una programmata offensiva condotta in nome di una ragione divinizzata che pretende di lottare contro tutto ciò che chiama «superstizione».

Nel secolo XIX l'attacco è ormai mescolato, in modo spesso assai intricato, con le questioni sociali e con le questioni nazionali.
Non è possibile, nemmeno lontanamente, descrivere il tempo di don Bosco: tempo di prima industrializzazione, di moti risorgimen­tali, di restaurazioni e di rivoluzioni; in ogni caso di turbamenti per noi inimmaginabili. Per facilitare soprattutto i più giovani, possiamo accostate il nome di don Bosco a quello dei suoi contemporanei più prestigiosi.
Quando muore Hegel, il filosofo dell'idealismo, don Bosco ha 16 anni. Comte - che vorrà fondare la nuova religione dell'umanità - ha 17 anni più del nostro Santo. Feuerbach ha invece 11 anni di più, Darwin 6 anni, Marx 5 di meno, Dostoevskij 6 anni, Tolstoj 13.
In Italia quando don Bosco nasce, Foscolo ha 37 anni, Manzoni ha 30 anni, Leopardi 17, Mazzini 10, Garibaldi 8.
Pio IX, Leone XIII, Vittorio Emanuele II, Cavour, Rattazzi, Cri­spi, Rosmini gli sono amici.
Lo stesso anno in cui don Bosco muore, nella stessa città, a Torino, Nietzsche viene definitivamente colto da follia.
Molti di questi nomi don Bosco non li ha neppure conosciuti.

Il letterato più celebre che incontrò - in due colloqui segreti a Parigi, convertendolo, secondo la testimonianza di don Bosco stes­so - fu Victor Hugo.
Ma non c'è dubbio che il mondo in cui don Bosco visse era esat­tamente quello che veniva agitato da tutto questo insieme di influssi. In esso don Bosco fece le sue scelte, coltivò certe idee e ne rifiutò al­tre, a volte assunse acriticamente certe impostazioni del suo tempo. Sarebbe assurdo immaginarlo diversamente.
In tutto questo ribollire di persone, avvenimenti, idee, progetti, restaurazioni e rivoluzioni - tempo in cui la Chiesa è stata considera­ta qualche volta alleata e più spesso nemica da opprimere, e in cui l'anticlericalismo ha toccato punte inverosimili – si nota tuttavia un fenomeno diverso che già allora fece piegare il capo anche ai nemici: la santità. Una santità abbondante molteplice quella soprattutto dei cosiddetti “evangelizzatori dei poveri”; una santità trasferita nel bel mezzo di una città in rapida evoluzione, una santità che si trascina appresso un flusso travolgente di esperienze e fenomeni sopran­naturali.
Si può prendere un episodio della vita di don Bosco e passarlo al microscopio trovando una documentazione non del tutto perfetta. ­In compenso ce ne sono subito presenti altri mille sostenuti da deci­ne e decine di testimonianze d’ogni genere.
Prendiamo, ad esempio, come punto di riferimento quel 1848 che passò alla storia come l'anno dei grandi turbamenti, l’anno della prima guerra d'indipendenza.
A Torino il seminario si svuota. Più di 80 chierici, in reazione all'arcivescovo, durante la Messa di Natale, si sono schierati nel pre­sbiterio del Duomo con la coccarda tricolore sul petto e, allo stesso modo hanno partecipato ai festeggiamenti per lo Statuto.
L’anno successivo l’arcivescovo è arrestato e imprigionato. In città si scatenano le bande anticlericali che assaltano i conventi. I preti si dividono in preti patrioti e preti reazionari. Il governo intan­to prepara una legge per sopprimere tutti i conventi. La legge, che sopprimerà 331 case religiose per un totale di 4.540 religiosi, verrà firmata nel 1855.
Sono solo alcuni gravi episodi tra mille altri; eppure in quegli stessi anni a Torino vivono e operano contemporaneamente - amici e collaboratori tra loro - san Giovanni Bosco, san Giuseppe Cafasso (il prete dei carcerati e dei condannati a morte, che dirige spiritualmente san Giovanni Bosco), san Giuseppe Benedetto Cottolengo (il prete dei malati incurabili che diceva d'essere il “manovale della Provvidenza”). Per un certo tempo don Bosco gli dà una mano, poi seguirà la sua strada. Il Cottolengo un giorno gli prende tra le dita un lembo della veste e gli dice profeticamente:
«E’ troppo leggera. Pro­curatevi una veste più resistente perché molti ragazzi si appenderan­no a questo abito».

C'è poi una ragazza di vent'anni più giovane di don Bosco. Co­stui la incontra nel 1864: diverrà la fondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice: Santa Maria Mazzarello.
Nel 1854 entra nell'oratorio di don Bosco un ragazzo di una rara profondità interiore. E l'anno della proclamazione dell' Immacolata: quel bambino è innamorato di questo mistero mariano. Diventa santo a 15 anni: Domenico Savio.
Un altro ragazzino diventerà successore di don Bosco, anche lui proclamato beato da poco: Beato Michele Rua.
Un altro ancora, che passa all'oratorio 3 anni («la stagione felice della mia vita», quando sa che don Bosco è in fin di vita ha allora 16 anni), offre a Dio in cambio la sua giovane esistenza. Diventerà il Beato Luigi Orione, anch'egli fondatore di una congregazione per bambini poveri (è quel prete di cui parlò Silone in un suo celebre rac­conto autobiografico). Dirà di don Bosco: «Camminerei sui carboni ardenti per vederlo ancora una volta e dirgli grazie».

Un altro giovane prete, don Federico Albert, predica i primi esercizi spirituali a una cinquantina di ragazzi, tra i quali don Bosco vuol scegliere i suoi collaboratori. Oggi anche quel predicatore è un «Beato»
Sono già otto santi ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa (per non dire di decine d'altri rimasti anonimi) che si incontrano e si par­lano e si capiscono come l'amico incontra l’amico. E attorno a loro che il soprannaturale si ramifica con manifestazioni innumerevoli e commoventi, come se Dio intendesse mostrare - mentre la Chiesa soffre per i peccati suoi e altrui e si dibatte in problemi intricatissi­mi - il sangue vivo e caldo che scorre nel suo corpo ecclesiale e lo Spirito che l'anima dentro la sua corporea pesantezza.
Nella vita di don Bosco s’incontra ogni tipo di fenomeni miraco­losi: sogni profetici, visioni, bilocazioni, capacità di intuire i segreti dell'anima, moltiplicazioni di pani e di cibo e di ostie, guarigioni, perfino risurrezioni di morti.
Ricorderò solo due episodi che ebbero una gran risonanza per il loro riflesso pubblico nella società del tempo il primo episodio è non solo triste, ma terribile.
Quando il re è indeciso se firmare la legge di soppressione dì tut­ti i conventi - legge che gli attirerà la scomunica da parte della Santa Sede - don Bosco «sogna» che un valletto di corte gli annuncia:
«Grandi funerali a corte».
Ne parla a tutti i suoi collaboratori. Scrive una lettera al re per avvertirlo “che pensasse a regolarsi in modo da schivare i minacciati castighi, e dl impedire a qualunque costo quella legge”.

Questa la successione dei fatti. L’avvertimento di don Bosco e del dicembre del 1851. Il 12 gennaio 1855 muore la Regina Madre, Maria Teresa, a 54 anni. Il 20 gennaio muore la Regina Maria Ade­laide, moglie del re, a 33 anni. L'11 febbraio muore il fratello del re, principe Ferdinando di Savoia, a 33 anni. Il 17 maggio muore l'ultimo figlio del re, di appena 4 mesi.
Il re è furioso con don Bosco. Il 29 maggio, consigliato perfino da alcuni preti, firma comunque la legge.
Ognuno giudichi come vuole, ma i contemporanei restarono allibiti.
L'altro episodio è invece commovente: nell’estate 1854 a Torino scoppia il colera che ha il suo epicentro a Borgo Dora, dove si ammassano gli immigrati, a due passi dall'oratorio di don Bosco. A. Ge­nova ha già fatto 3.000 vittime In un solo mese, a Torino, 800 colpiti e 500 morti. Il sindaco rivolge un appello alla città, ma non si trovano volontari per assistere i malati né per trasportarli al lazzaretto. Tutti sono presi dal panico. Il giorno della Madonna della Neve (5 agosto) don Bosco raduna i suoi ragazzi e promette: «Se voi vi mettete tutti in grazia di Dio e non commettete nessun peccato mortale, io vi assicu­ro che nessuno di voi sarà colpito dalla peste» e chiede loro di dedi­carsi all'assistenza degli appestati.
Tre squadre: i grandi a servire nel Lazzaretto e nelle case, i meno grandi a raccogliere i moribondi nelle strade e i malati abbandonati nelle case. I piccoli in casa disposti alle chiamate di pronto inter­vento.
Ognuno con una bottiglietta di aceto per lavarsi le mani dopo aver toccato i malati. La città, le autorità, anche se anticlericali, sono sbalordite e affascinate. L'emergenza finisce il 21 novembre. Tra agosto e novembre a Torino ci sono stati 2.500 appestati e 1.400 morti. Nessuno dei ragazzi di don Bosco si ammalò.
Sono solo due episodi utili a far percepire qualcosa del clima in cui viveva don Bosco e in cui vivevano, come in qualcosa di palpabi­le, i ragazzi e i collaboratori che stavano con lui, attratti non dalla sua magia, ma dalla sua familiarità con Dio. Questa è la spiegazione cattolica. Chi la nega per principio, poi deve necessariamente accu­mulare mille e una spiegazione alternativa.
Quando nel 1884 don Bosco venne intervistato da un reporter del Journal de Rome (è il primo santo della storia che sia stato sotto­posto a questa tecnica giornalistica inventata nel 1859 da un ameri­cano), gli verranno poste, tra le altre, queste domande:

D         Per quale miracolo lei ha potuto fondare tante case in tanti paesi del mondo?
R         Ho potuto fare più di quello che speravo, ma il come non lo so neppure io. La Santa Vergine, che sa i bisogni dei nostri tempi, ci aiuta...
D         Permetta un’indiscrezione: di miracoli ne ha fatti?
R         Io non ho mai pensato ad altro che a fare il mio dovere. Ho pregato e ho confidato nella Madonna...
D         Che cosa pensa delle condizioni attuali della Chiesa in Europa, in Italia, e del suo avvenire?
R         Io non sono un profeta. Lo siete invece tutti voi giornalisti. Quindi è a voi che bisognerebbe domandare che cosa acca­drà. Nessun,o eccetto Dio, conosce l'avvenire. Tuttavia, umanamente parlando, c'è da credere che l'avvenire sia gra­ve. Le mie previsioni sono molto tristi, ma non temo nulla. Dio salverà sempre la sua Chiesa, e la Madonna, che visibil­mente protegge il mondo contemporaneo, saprà far sorgere dei redentori.

Ma chi era dunque don Bosco?

Per parlare di lui, bisogna cominciare a parlare della madre: una povera contadina che non sapeva né leggere né scrivere, rimasta ve­dova quando Giovanni ha due anni e che deve lottare a denti stretti, in tempi di carestia e di disgrazia, per tenere unita la sua Famiglia. Ciò che ella conosce é elementare: alcuni brani della Scrittura a me­moria e gli episodi del Vangelo; i principi fondamentali della vita cri­stiana (“Dio vede anche nei tuoi pensieri”); il paradiso e l'inferno; il valore redentivo della sofferenza; uno sguardo fiducioso alla Provvi­denza; i Sacramenti e il Rosario.
Ascoltiamo però don Bosco stesso: «Ricordo che fu lei a prepa­rarmi alla prima confessione. Mi accompagnò in Chiesa, si confessò per prima, mi raccomandò al confessore e dopo mi aiutò a fare il rin­graziamento. Continuò ad aiutarmi fino a quando mi credette capa­ce di fare da solo una degna confessione».

Ancora don Bosco: «Nel giorno della prima Comunione in mezzo a quella folla di ragazzi e di gente era quasi impossibile conservare il raccoglimento. Mia madre al mattino non mi lascio parlare con nessuno. Mi accompagnò alla Sacra mensa. Fece con me la preparazione e il ringraziamento. Quel giorno non volle che mi occupassi dì lavori materiali. Occupai il tempo nel leggere e nel pregare. Mi ripe­té più volte queste parole: Figlio mio, per te è stato un grande giorno. Sono sicura che Dio è diventato il padrone del tuo cuore. Pro­mettigli che ti impegnerai per conservarti buono per tutta la vita...».
Ed è la stessa donna che, quando si parla di una possibile voca­zione religiosa del figlio, gli dice: «Se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non metterò mai piede in casa tua».
E il giorno dell'ordinazione sacerdotale: «Ora sei prete, e sei più vicino a Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare a dir messa vuol dire cominciare a soffrire. D'ora in poi pensa solo alla salvezza delle anime e non prenderti nessuna preoccupazione di me».

Quando avrà appena incominciato a far la nonna dei nipotini datigli dall'altro figlio, con una relativa tranquillità, Giovanni andrà da lei e le dirà: «Un giorno avete detto che se diventavo ricco non sare­ste mai venuta a casa mia. Ora invece sono povero e carico di debiti. Non verreste a fare da mamma ai miei ragazzi?».

Mamma Margherita risponderà soltanto umilmente: «Se credi che questa sia la volontà di Dio...».
E passerà gli ultimi dieci anni della sua vita (1845-1856) a fare da mamma a decine e centinaia di figli non suoi, ma che quel figlio prete le conduce da parte di Dio, fino a sfinirsi, prendendo forza - quando non ne può più - da uno sguardo umile e paziente rivolto al crocifisso.

I santi nascono e crescono cosi.
Fin da piccolo Giovanni Bosco ha fatto un sogno che, perfino durante il sonno gli sembrava «impossibile»: cambiare delle piccole «belve» in figli di Dio; e da allora un impulso interiore lo spinge a de­dicarsi alla gioventù abbandonata.
Per loro ha voluto ad ogni costo diventare prete, studiando fuori età, sorretto da una memoria prodigiosa, superando umiliazioni e fa­tiche d’ogni genere.
Negli anni di studio ha trovato tempo - per mantenersi o per passione – di fare il pastore, il giocoliere e il saltimbanco, il sarto, il fabbro ferraio, il barista e il pasticciere, il segnapunti al tavolo deI biliardo, il suonatore di organo e di spinetta. Più avanti farà anche lo scrittore e il compositore di canzoni.
Ma preoccuparsi degli altri ragazzi privi di pane, di istruzione e di fede, gli sembrava - come egli stesso scrive – « l’unica cosa che do­vessi fare sulla Terra ». E questo « fin da quando avevo cinque anni ».
Torino a quel tempo è presa dalla febbre della prima industrializzazione. Gli immigrati si contano a decine di migliaia, nel 1850 si parla addirittura di 50.000 o 100.000 immigrati. Si cominciano a costruire case su case. La città è invasa da bande di ragazzi che si of­frono per tutti i lavori possibili (ambulanti, lustrascarpe, fiammife­rai, spazzacamini, mozzi di stalla, garzoni...) e non sono protetti da nessuno. Si formano vere e proprie bande che infestano i sobborghi, soprattutto nei giorni festivi in cui non si lavora.
I primi accostati da don Bosco sono muratori, scalpellini, sel­ciatori e simili.
Molti ragazzi si danno al furto e finiscono, prima o poi, nelle car­ceri della città.
Anche altri preti giovani del tempo hanno intanto cominciato a preoccuparsi dei ragazzi abbandonati, ma si lasciano trascinare dai problemi politici e la loro opera viene travolta. Uno di essi - molto noto a Torino -, persuaso di «seguire il popolo», ha condotto i suoi duecento giovanotti a prendere parte alla battaglia di Novara. È una disfatta in tutti i sensi.
Don Bosco non guarda in faccia nessuno, preoccupato solo dei suoi ragazzi. Li raccoglie in un oratorio, se li trascina dietro nella continua ricerca di un luogo abbastanza capace per poterne ospitare un numero sempre crescente. Deve combattere su molti fronti contemporaneamente. I politici sono preoccupati del potenziale rivolu­zionario rappresentato da quelle bande di giovinastri che obbedisco­no, a centinaia, a un solo cenno di don Bosco.
L'oratorio è insisten­temente sorvegliato dalla polizia. Alcuni ben pensanti «pensano» che l'oratorio sia un centro d’immoralità. I parroci della città sono preoccupati perché vedono distrutto il «principio parrocchiale». Se si deve fare l'oratorio, bisogna farlo nelle parrocchie. L'accusa è: «I giovani si staccano dalle parrocchie».
Don Bosco è messo sotto accusa: i parroci d’altronde pensano ancora a un'epoca tramontata, quando i giovani immigrati si presen­tavano con un biglietto di raccomandazione del proprio parroco d'o­rigine per essere accolti.
D'altra parte gli oratori parrocchiali – quelli che esistono - sono solo festivi e don Bosco li immagina quotidiani, con una compromissione totale del prete. Solo questo fa sì che i parroci sospendano pru­dentemente il loro giudizio e la loro offensiva.
Insistono però almeno che don Bosco indirizzi successivamente i suoi giovani alle rispettive parrocchie.
Ma sono ragazzi che non si avvicinerebbero mai a una parroc­chia, e per di più  - cosa ancora più seria e sempre difficile da capire per chi sta al di fuori - l'oratorio di don Bosco è solo secondariamen­te una struttura o un luogo. Sostanzialmente l'oratorio è don Bosco stesso, la sua persona, la sua energia, il suo stile, il suo metodo edu­cativo: e questo non lo si può trasportare da una parrocchia all'altra. Per fortuna l'Arcivescovo decide di visitare personalmente l'Orato­rio. Passa una giornata piena d'allegria e si diverte di gusto («non ho mai riso tanto in vita mia», dirà). Dà la Comunione a più di trecento ragazzi e poi la Cresima, fiero di tanta gioventù, anche se alzandosi con tutta la mitria picchia energicamente il capo sul soffitto della bassa costruzione.
Per sua decisine tutti i verbali delle cresime vengono raccolti dalla Curia e invitati successivamente ai rispettivi parroci: così l'Oratorio è praticamente accettato come “la parrocchia dei ragazzi che non hanno parrocchia”.
Con una significativa sottolineatura teologica, don Bosco dice che l'abate Rosmini - suo entusiasta Sostenitore - « paragonava la nostra opera alle missioni che si aprono in terra straniera ».
Un altro versante di lotta per don Bosco è con i cosiddetti «preti patrioti», che tentarono gravemente di politicizzare i suoi ragazzi, per lanciarli nelle lotte risorgimentali.

Nell’anno 1848 – scrisse - ci fu un tale pervertimento di idee e di opinioni che non potevo più nemmeno fidarmi dei collaboratori domestici. Ogni lavoro casalingo doveva quindi essere fatto da me. Toccava a me fare cucina, preparare a tavola, spazzare la casa, spaccare la legna, confezionare camicie, calzoni, asciugamani, lenzuola e rammendarli quando si strappavano. Sembrava una perdita di tempo invece trovai in quell’attività una possibilità d'aiutare i giovani nella loro vita cristiana. Mentre distribuivo il pane, scodellavo la minestra, potevo con calma dare un buon consiglio, dire una buona parola”.
Su un altro versante ancora, la lotta era contro coloro che (ed erano tanti, a un certo punto furono perfino gli amici) si convinsero che don Bosco era veramente e irrimediabilmente impazzito.
Mentre con i suoi ragazzi traslocava ripetutamente da un misero luogo all'altro, don Bosco parlava loro con assoluta convinzione di vasti oratori, chiese, case, scuole, laboratori, ragazzi a migliaia, preti numerosissimi a disposizione.
I ragazzi gli credevano, ripetevano le sue parole. Al contrario, perfino i più affezionati amici lasciavano cadere le braccia: «Povero don Bosco, si è tanto infatuato dei giovani che gli ha dato di volta il cervello».
Tutta Torino parlava del “prete pazzo”. Si cercò perfino di inter­narlo, con uno stratagemma.
L' amico più intimo del Santo, un altro prete, piangeva: «Povero don Bosco, è proprio andato!».
Tutti - scrive don Bosco - si tenevano lontani da me. I miei collaboratori mi lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ra­gazzi”.
Ciò che sconvolgeva era soprattutto una cosa: a chi gli obiettava che la realtà era infinitamente lontana dalle sue descrizioni “case, scuole, chiese ecc.” ed esasperato gli diceva: « ma dove sono queste cose? », rispondeva: « Non lo so, ma esistono, perché io le vedo ».
Intanto i ragazzi crescevano e preoccupavano sempre di più.
« “Devo riconoscere - scrive don Bosco - che l'affetto e l' obbe­dienza dei miei ragazzi toccavano vertici incredibili ». Ma questo raf­forzava la voce che don Bosco, con i suoi giovani, poteva da un momento all'altro dare inizio a una rivoluzione.
Bisogna riportarsi al clima politico di allora. Ma d'altronde non aveva quell’uomo straordinario portato fuori dal carcere, sulla parola e senza nessuna sorveglianza, per un giorno di sollievo, più di trecen­to giovani carcerati, riconducendoli a sera senza che ne mancasse nemmeno uno.
Bisogna anche capire chi era don Bosco per loro. Un episodio lo rivela sufficientemente.
Nel luglio deI 1846 egli ebbe uno sbocco di sangue e svenne, do­po una massacrante giornata passata all'Oratorio.
In breve: è in fin di vita e riceve l'estrema unzione. Resta otto giorni tra la vita e la morte.
In quegli otto giorni ci furono ragazzi che, sotto il sole rovente lavorando sulle impalcature, non toccarono una goccia d'acqua, per chiedere a Dio la sua guarigione. Si davano il cambio notte e giorno al Santuario della Consolata per pregare per lui, dopo aver fatto le consuete dodici ore di lavoro. Alcuni promisero di recitare il rosario per tutta la vita. Altri di restare a pane e acqua per mesi, per un an­no, qualcuno per sempre.
I medici dicevano che quel sabato don Bosco sarebbe certamente morto. Gli sbocchi di sangue erano ormai continui, Don Bosco gua­rì, impensabilmente.
Li ritrovò tutti - pallidissimo e senza forze - in una cappella. Disse solo: «La mia vita la devo a voi. D'ora in poi la spenderò tutta per voi». E passò il resto della giornata ad ascoltarli uno per uno per cambiare in cose facili e possibili le promesse smisurate che essi avevano giurato a Dio per la sua guarigione.
Non era solo un'affezione romantica, e idealizzata, era frutto di una vita spesa in opere e opere.
Impossibile descriverla. Possiamo solo elencare alcuni dati.
Nel 1847, quando già centinaia di ragazzi frequentano l'Orato­rio, alcuni tra loro, che non sanno dove andare perché non hanno ca­sa, cominciano a vivere stabilmente con don Bosco e mamma Mar­gherita.
I primi ospiti sono alloggiati in cucina. Saranno sei alla fine dell'anno; trentacinque nel 1852; centoquindici nel 1854; quattrocen­tosessanta nel 1860; seicento nel 1862, fino ad un tetto di ottocento.
Nel 1845 don Bosco fonda la scuola serale, con una media di tre­cento alunni ogni sera.
Nel 1847 un secondo oratorio.
Nel 1850 fonda una società di mutuo soccorso per operai.
Nel 1853 un laboratorio per calzolai e sarti.
Nel 1854 un laboratorio di legatoria di libri.
Nel 1856 un laboratorio di falegnameria.
Nel 1861 una tipografia.
Nel 1862 una officina di fabbro ferraio.
Intanto nel 1850 è nato anche un convitto per studenti, con do­dici studenti che diventano centoventuno nel 1857.
Nel 1862 dunque l'oratorio conta seicento ragazzi interni e al­trettanti esterni.
Oltre i sei laboratori ci sono scuole domenicali, scuole serali, due scuole di musica vocale e strumentale, e trentanove salesiani che con don Bosco hanno dato inizio a una congregazione religiosa.
Nel frattempo – a seminario diocesano chiuso - egli ha curato anche le vocazioni sacerdotali. Al termine della sua vita (1888), da Valdocco saranno uscite diverse centinaia di preti «nuovi» perché provenienti dalle classi povere.
Nel frattempo ancora - sempre per i suoi ragazzi - don Bosco è diventato scrittore: scrive una storia sacra ad uso delle scuole, una storia ecclesiastica, una storia d'Italia, molte biografie e opere edu­cative. Una cinquantina di titoli. Ha scritto perfino un volumetto sul «sistema metrico decimale ridotto a semplicità»: tale nuovo siste­ma doveva entrare in vigore nel 1850 e doveva essere insegnato nelle scuole a partire dal 1846, ma il governo non aveva preparato nessun testo. Considera ogni volumetto «un atto di amore» per la Chiesa e per i suoi ragazzi. Un suo manuale di formazione per giovani, piutto­sto voluminoso, raggiunse nel 1888 la 118a edizione.
Abbiamo seguito intanto don Bosco fino agli inizi degli anni '60: manca ancora un quarto di secolo alla sua morte. Per allora avrà inoltre curato la pubblicazione di 204 volumetti di una «Biblioteca della gioventù italiana» (con testi latini e greci), avrà aperto i primi cinque collegi, fondato una congregazione femminile, avrà costruito il Santuario di Maria Ausiliatrice e la chiesa del Sacro Cuore a Roma, avrà fondato 64 case salesiane in sei nazioni e missioni in America Latina, e avrà 768 salesiani. Avrà compiuto viaggi apostolici trionfali in Francia e Spagna, paesi in cui tutti vorranno conoscere «l’uomo della fede» (titolo con cui è universalmente noto).
In Francia resterà quattro mesi, nel 1883, viaggiando dovunque. Quando giunge a Parigi, Le Figaro scrive che davanti alla sua casa «file di carrozze stazionano tutto il giorno già da una settimana». Il Cardinale Lavigerie Io chiama «il San Vincenzo de' Paoli dell'Italia».
Un particolare significativo: nel 1883 la tipografia di don Bosco era quella meglio attrezzata di Torino. Nel 1884 alla «Esposizione nazionale dell'Industria, della Scienza e dell'Arte», don Bosco ebbe a disposizione una galleria speciale sul cui ingresso si leggeva a caratteri cubitali la scritta:

DON BOSCO: FABBRICA DI CARTA, TIPOGRAFIA, LEGATORIA E LIBRERIA SALESIANA

Fu il primo prete espositore in una Esposizione nazionale dedi­cata al lavoro. Dice lo storico che chi leggeva la scritta, prima rideva, pensando di trovare dentro il solito bazar di robe da sacrestia, poi entrava e restava allibito di poter assistere dal vivo all’intera catena di lavoro. Non era mai avvenuto a nessuno di poter assistere a tutto il processo con cui dagli stracci per fare la carta si arriva all’uscita del volume, illustrato con centinaia di incisioni e ben rilegato. Un gior­nale di Reggio Emilia scrisse che la galleria di don Bosco era una del­le poche sempre affollate.
Quest'attività impressionante pone veramente la domanda sul significato storico dell'opera di don Bosco.

Oggi chiunque può permettersi, senza rischio, qualunque banalità e qualunque brutale giudizio quando parla di cose e persone di Chiesa, tanto molti cristiani accettano tutto e condividono tutto: hanno paura di essere trionfalistici; ogni critica e ogni deprezzamento della loro storia va loro bene. A volte si fustigano anche da soli, tanta è la voglia di apparire moderni. Caso mai, se si esagera, sorridono un po’. Dagli oratori salesiani, in questi 125 anni di storia della nostra nazione, sono usciti, formati in tutti i sensi, milioni di italiani. Ma milioni di uomini appaiono «patetici» alle idee di qualcuno, dato che San Giovanni Bosco non aveva posizioni politiche avanzate ne’ intel­ligenti analisi sociali progressiste.
Semplicemente vedeva il bisogno e interveniva. Ma interveni­va su uomini concreti, quelli che la storia la fanno tutti i giorni anche se sembrano «patetici» di fronte alle grandi sintesi storiche dei pro­fessori.
In un promemoria che lo stesso don Bosco scrisse a Francesco Crispi si legge:
«Dal registro consta che non meno di centomila giovinetti, assistiti, raccolti, educati con questo sistema, imparavano la musica, chi le scienze letterarie, chi arte e mestieri, e sono divenuti virtuosi arti­giani, commessi di negozio, padronI di bottega, maestri insegnanti, laboriosi impiegati e non pochi coprono onorifici gradi nella milizia. Molti anche, forniti dalla natura di un non ordinario ingegno, poterono percorrere i corsi universitari e si laurearono in lettere, in mate­matiche, medicina, leggi, ingegneri, notai, farmacisti e simili».

Davanti a don Bosco qualcuno storce il naso perché in politica - in una situazione politica complessa e violenta - preferì astenersi da un lato (gli bastava, come diceva, “la politica del Pater noster”), e dall'altro scelse il principio apparentemente facile di stare col Papa.
Nell'epoca in cui tutti - anche gli anticlericali - gridavano: “Vi­va Pio IX”, perché speravano in un Papa liberale, don Bosco insegnava ai suoi ragazzi che bisognava invece gridare “viva il papa”
Egli era, secondo la sua espressione, attaccato al pontefice “ più che il polipo allo scoglio”.
Interrogato sulla questione romana, perché prendesse posizione, don Bosco rispondeva:
« lo sono col Papa, sono cattolico, obbedisco il Papa ciecamente. Se il Papa dicesse ai piemontesi: Venite a Roma, allora io pure direi: Andate. Se il Papa dice che l’andata dei, piemontesi a Roma e un furto, allora io dico lo stesso. Se vogliamo essere cattolici, dobbiamo pensare e credere come pensa il Papa ».
Le questioni e i personaggi in questione, allora non erano mitizzati come lo sono oggi nei nostri libri dì storia: apparivano come erano con tutta la loro ambiguità, meschinità. D'altra parte ancora, l'o­pera di quei preti che allora si schierarono politicamente «col popolo, per l'unità» resta nella storia assolutamente irrilevante.
D'altra parte ancora, don Bosco fu l'uomo di cui tutti, Chiesa e Stato, re e pontefice, ministri e cardinali, sapevano di potersi servire quando bisognava assolutamente trovare un accordo.
Quando bisognò risolvere la questione delle diocesi italiane dopo l'unificazione (sessanta diocesi erano senza vescovo), le lunghe trat­tative ebbero don Bosco come intermediario.
Un altro episodio significativo: fu proprio il ministro Rattazzi che spiegò spontaneamente a don Bosco come fondare una congrega­zione religiosa, nonostante la soppressione degli ordini religiosi da lui stesso decretata (la famosa legge Rattazzi del 1855). « Rattazzi - disse don Bosco - volle con me combinare vari articoli della nostra Regola, riguardanti il modo dì comportarci rispetto al Codice Civile e allo Stato ».
In pratica gli insegnò abilmente a fare una congregazione che al suo interno fosse governata dalle normalI leggi ecclesiastiche e che al suo esterno - rispetto allo Stato -  fosse governata secondo le leggi civili che regolano le diverse associazioni di mutuo soccorso o altro genere. L'intuizione geniale di «creare una società religiosa che da­vanti allo Stato fosse una società civile» gliela diede Rattazzi stesso. L'idea sorprese perfino i Vescovi. Nasceva dall'affetto che Rattazzi, anticlericale convinto, aveva per don Bosco.
Ancora, davanti a don Bosco si storce il naso perché egli non contestò l'assetto sociale del suo tempo e le divisioni in classi, ma aiutò i poveri restando dentro quel sistema. Cioè: chiedendo l'ele­mosina ai ricchi. Anche questa critica significa ragionare solo con i principi e non con i fatti. Certo, mentre don Bosco fondava il suo se­condo oratorio, Marx scriveva il Manifesto. Don Bosco aveva un suo giudizio abbastanza preciso sulla situazione, anche se non rifletteva scientificamente sulla vastità internazionale del fenomeno pauperista e dei rivolgimenti che si preparavano.
Ma egli rifiutò di fare il «prete sociale» e il politico perché sentì che la sua vocazione era l'intervento immediato, l'amore che subito si rimbocca le maniche e sì mette al lavoro. C'è chi è chiamato a battersi contro le cause dell'ingiustizia e chi è chiamato a battersi subito contro i suoi effetti. Ad ognuno la sua vocazione: tutte sono impor­tanti, quella di chi riflette e prepara analisi e progetti e quella di chi intanto deve amare, deve accogliere, deve salvare perché i poveri non possono attendere le grandi analisi e i grandi progetti. «Lascia­mo agli altri ordini religiosi più formati di noi, diceva, le denunce, l'azione politica. Noi andiamo diritti ai poveri».
D'altra parte, perfino Pertini scrisse di aver imparato nelle scuo­le salesiane «un amore senza limiti per tutti gli oppressi e i miseri: la mirabile vita del vostro Santo mi ha iniziato a questo amore».
Ed è interessante ancora sapere che alcuni dei primi contratti d’apprendistato fatti in Italia - con vere e rivoluzionarie novità socia­li - sono scritti e firmati da don Bosco.
Un ultimo aspetto non era stato finora mai rimproverato a don Bosco: la sua capacità educativa.
Oggi c'è anche chi accusa don Bosco d'aver avuto una pedagogia «funebre», «regressiva», «un disegno pedagogico quasi ossessivo».
Nel 1920 un celebre pedagogista anticlericale e non credente ma onesto, Giuseppe Lombardo Radice, scriveva ai suoi: «Don Bo­sco era un grande che dovreste cercare di conoscere. Nell’ambito della Chiesa…egli seppe creare un imponente movimento di educa­zione, ridando alla Chiesa il contatto con le masse che essa era venu­ta perdendo. Per noi che siamo fuori della Chiesa e da ogni Chiesa, egli è pure un eroe, l'eroe dell'educazione preventiva e della scuola-famiglia. I suoi prosecutori possono essere orgogliosi».
E ancora: «Don Bosco? Il segreto e in un idea! Le nostre scuole: molte idee. Molte idee può averle anche un imbecille, prete o non prete, maestro o non maestro. Un’idea e difficile; un’idea vuol dire un'anima»
Dopo sessant’anni, quelli che contestano don Bosco hanno evi­dentemente «moltissime idee». Nel 1877 don Bosco diede alle stampe un breve fascicolo intitolato: Il sistema preventivo dell’educazione della gioventù.
Anzitutto la prima prevenzione era la persona stessa dell'educa­tore, la sua assoluta dedizione.

«Ho promesso a Dio che fino l'ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani - diceva don Bosco. Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono anche disposto a dare la vita»
«Fate conto che quanto io sono, sono tutto per voi, giorno e not­te mattina e sera, in qualunque momento».

La prevenzione comincia a questo livello di dedizione totale del­ educatore, dedizione che don Bosco intendeva nei termini più con­creti possibili, fino a esigere che anche i direttori delle sue case stes­sero in mezzo ai ragazzi in tutti i momenti, anche ricreativi: doveva­no essere visibili, percepibili, incontrabili, familiari.
Allora, in un regime educativo fondato sull'autoritarismo, era una vera e propria rivoluzione, un'impostazione capovolta. La disci­plina non doveva essere ottenuta col castigo, ma con la persuasione e non aveva bisogno di «schieramenti»: non aveva cioè come ideale la fila ben ordinata, ma l'assembramento intorno all'educatore.
Il corrispondente di un giornale francese (Pèlerin) nel 1883 scris­se in un suo articolo:
« Noi abbiamo visto questo sistema in azione. A Torino gli stu­denti formano un grosso collegio, in cui non si conoscono file, ma da un luogo all'altro si va a mo' di famiglia. Ogni gruppo circonda un insegnante, senza chiasso, senza irritazione, senza contrasti. Abbia­mo ammirato le facce serene di quei ragazzi né ci potevamo trattene­re dall'esclamare: qui c'è il dito di Dio! ».

L'allegria doveva essere la molla naturale che agganciava il so­prannaturale: «Devi sapere - spiegava il piccolo Domenico Savio a un compagno appena arrivato - che qui facciamo consistere la santi­tà nello stare molto allegri».
L'imposizione doveva essere abolita anche là dove era consacra­ta dall'uso e dall'importanza della questione: allora non c'era am­biente educativo giovanile in cui non fossero obbligatorie la confes­sione e la comunione.
Don Bosco confessava e comunicava tutti i ragazzi, ma nessuno era tenuto a farlo. Anzi raccomandava sempre di non annoiarli con gli obblighi. Solo incoraggiarli. Semplicemente gli dimostrava che, senza la pace del cuore, non potevano essere veramente felici, vera­mente ragazzi.
D'altra parte don Bosco era profondamente convinto che senza familiarità con Dio, senza «religione», non è possibile educare.
«L'educazione, diceva, è cosa del cuore e Dio solo ne è il padro­ne e non potremo riuscire a niente se Dio non ci dà in mano la chiave di questi cuori». E aggiungeva: «Soltanto il cattolico può con succes­so applicare un metodo preventivo».

Riusciva a convincere di questo perfino qualche protestante che andava a trovarlo per imparare. Le espressioni che possono sembrare «intolleranti» fanno parte appunto di quell’«idea» totalizzante che fa un vero educatore. L'idea che don Bosco ha dell’educatore è totale, totale l'idea della sua attività, totale l’idea del bisogno educativo.
Non c'è un aspetto che egli ritenta di dover trascurare o che sia indegno dell'educatore, sia che si tratti di far da mangiare, o di tagliare un abito, o partecipare a un gioco o insegnare un mestiere, o istruite, o far musica, o pregare o predicare, o confessare, o dare l’eucaristia.
Nel 1884, quando il santo era ancora vivente usci una biografia di don Bosco, scritta da un autore francese. Diceva: « Fino ad ora i fondatori di Congregazioni e di Ordini religiosi si sono proposti un fine speciale in seno alla Chiesa essi vi hanno praticato la legge che gli economisti moderni chiamano la legge della spartizione del lavoro. Don Bosco sembra aver concepito I’idea di far compiere alla sua umile comunità tutto il lavoro ».

Ragione, religione, amorevolezza era il trinomio su cui don Bo­sco intendeva fondare la sua opera preventiva.
All'educando bisognava offrire tutto intero lo spazio della vita. Soprattutto - amorevolezza aveva una connotazione particolare. Si può infatti amare molto e combinare poco.
Scriveva in una sua celebre lettera da Roma, nel 1884: «Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu sai se io li amo. Tu sai quanto per essi ho sofferto e tollerato nel corso di ben quarant'anni e quanto tollero e soffro anche adesso. Quanti stenti, quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni per dare ad essi pane, case, maestri, e specialmente per procurare la salute delle loro malattie.
Ho fatto quanto ho saputo e potuto per coloro che formano l'af­fetto di tutta la mia vita... Che cosa ci vuole ancora dunque?».
E la risposta era: «Che i giovani non solo siano amati ma che es­si stessi sappiano di essere amati».

Ai tempi di don Bosco ciò era talmente vero che un suo ragaz­zo - divenuto adulto - rispondeva a chi lo interrogava: «Noi viveva­mo d'affetto».
Questa è la genialità di don Bosco: non basta amare, bisogna far vedere che si ama, renderlo percepibile: «Un amore che si esterna in parole, atti e perfino nell'espressione degli occhi e del volto».
E questo esige un'ascesi profonda, un coinvolgimento totale o quotidiano.
Nel 1883 andò a trovarlo un pretino lombardo, incuriosito di ciò che sentiva dire di lui. Diventerà Papa Pio XI, colui che proclamerà «Santo» don Bosco.
Dovette aspettare, perché don Bosco aveva radunato i direttori delle sue case e parlava con loro. Intanto il pretino osservava. Quasi cinquant’anni dopo - ormai Papa - raccontava così quel!' incontro:
« C'era gente che veniva da tutte le parti, chi con una difficoltà chi con un'altra. Ed egli in piedi come se fosse una cosa di un momento, sentiva tutto, afferrava tutto, rispondeva a tutto. Un uomo che era attento a tutto quello che accadeva attorno a lui e nello stesso tempo si sarebbe detto che non badava a niente, che il suo pensiero fosse altrove. Ed era veramente così: era altrove, era con Dio. E aveva la paro­la esatta per tutti, così da meravigliare. Questa la vita di santità, di assidua preghiera che don Bosco conduceva tra le occupazioni continue e implacabili ».

Ma questa era appunto una capacità educativa - su di sé e sugli altri - divenuta ormai santità.
Negli ultimi mesi si trascinava a fatica: «Dove andiamo, don Bo­sco?» gli dicevano. Rispondeva: «Andiamo in Paradiso»

Fu proclamato Santo alla chiusura dell’anno della Redenzione, il giorno di Pasqua del 1934.
E fu il primo Santo della storia per il quale, il giorno dopo la ca­nonizzazione, anche la Stato tenne una celebrazione in Campidoglio con discorso del ministro della Pubblica Istruzione.
Era anche questo un riconoscimento di come ormai don Bosco appartenesse a tutti. Fino a oggi. 
da :http://users.libero.it/luigi.scrosoppi/santi/donbosco.htm



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santi, don bosco

sabato, 29 settembre 2007

La santità
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La santità non consiste nel sapere molto o meditare molto; il grande segreto della santità consiste nell’amare molto.
Tommaso d’Aquino
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santi, stommaso

venerdì, 28 settembre 2007

Beato Faà di Bruno
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da :   http://users.libero.it/luigi.scrosoppi/santi/faadibruno.htm

Tratto dal libro: IL BEATO FAA' DI BRUNO di VITTORIO MESSORI ed. Biblioteca Universale Rizzoli

Nel frattempo, i miei nuovi interessi religiosi mi avevano fatto scoprire qualcosa di ciò che stava dietro quella chiesa di via San Donato, dietro quell'altissimo campanile, quegli edifici, quel giardino al di là del muro. Si trattava delle "opere" costruite da un cattolico nato nel 1825 e morto nel 1888, meno di due mesi dopo il suo grande amico don Bosco, tal Francesco Faà di Bruno, dichiarato dalla Chiesa "servo di Dio", poi, nel 197l, "venerabile"; e, nel 1988, nel centenario della morte, "beato", ultimo gradino prima della vetta suprema: l'inserimento nel canone (la "canonizzazione"), l'elenco cioè dei santi.
Personaggio singolare, appresi, fattosi sacerdote a quasi 52 anni, dopo aver già avviato le sue molte opere, compresa una comunità religiosa femminile. Uno che non veniva da un seminario ma dall'esercito, addirittura dallo Stato maggiore del regno di Sardegna. E che, più che la teologia, sembrava aver praticato le scienze naturali - dall'astronomia alla fisica alla geometria per l'insegnamento delle quali sino all'ultimo aveva tenuto cattedra all'Università di Torino e alle quali aveva dedicato studi ponderosi.
La chiesa era sì quella del Suffragio ma nel senso dell'aiuto - in preghiera e opere di carità - ai morti. Quanto a santa Zita, era chiamata in causa, qui, perché il Francesco Faà di Bruno si era occupato di assistenza sociale e religiosa alle serve, come allora brutalmente si chiamavano, che costituivano buona parte del proletariato torinese dell'Ottocento. E delle serve, delle donne di servizio, protettrice celeste è appunto, una loro straordinaria collega della Lucca del XIII secolo, santa Zita.
Quanto allo smisurato campanile, era un monito religioso (ricordare alla città, così spesso immemore, la fine della storia che la fede attende, il giudizio universale a cui tutti dovranno comparire), ma anche una sorta di virtuosismo, di prova delle conoscenze matematiche e delle valentie tecniche di Faà di Bruno, un grande credente che era al contempo un grande studioso, un famoso scienziato.








LA VITA
Nasce nel 1825 il 29 marzo, in Alessandria. Sarà battezzato con nomi di Francesco da Paola, Virginio, Secondo, Maria. E' il dodicesimo e ultimo figlio (sette femmine, cinque maschi) di Luigi, marchese di Bruno, nonché conte di Carentino, signore di Fontanile e patrizio di Alessandria. La madre è la nobildonna Carolina Sappa de' Milanesi. Un'unione felice, una famiglia tra le più benestanti (e tra le più generose per i bisognosi) della nobiltà terriera piemontese Forte e autentica in casa, anche la dimensione di fede: delle due figlie e dei tre figli che sceglieranno la vita religiosa, una monaca della Visitazione, morirà in fama di santità; uno diverrà superiore generale della Società dell'apostolato cattolico (i "Pallottini"). Questi, di nome Giuseppe Maria, ha anch'egli (come il fratello beato) un suo posto nella storia ecclesiastica: dimorando molti anni, da religioso, a Londra, vi costruì (con elemosine da lui stesso raccolte pellegrinando in tutta Europa, Polonia compresa), il Tempio nazionale italiano, con funzioni non soltanto di assistenza religiosa ma anche di aiuto concreto alla numerosa, spesso poverissima, colonia di nostri immigrati. A lui si devono anche innumerevoli conversioni di americani al cattolicesimo: il suo libro Catholic Belief (Fede cattolica) fu diffuso negli Stati Uniti in milioni di esemplari.
Nel 1836, Francesco entra nel collegio di Novi Ligure dei Padri Somaschi e nel 1840 è ammesso alla Regia accademia militare di Torino. Nel 1846, terminanti i corsi, è nominato luogotenente nel corpo di stato maggiore generale. Inizia il biennio di specializzazione (in topografia) e si perfeziona nelle lingue straniere.
Nel 1848 partecipa alla prima guerra d'indipendenza nella Brigata Guardie comandata dallo stesso principe ereditario, Vittorio Emanuele, di cui è aiutante di campo. Dopo il battesimo del fuoco a Peschiera, approfitta del ristagno delle operazioni per disegnare la Gran carta del Mincio, che si rivelerà decisiva nel 1859, quando sarà impiegata nella grande battaglia di Solferino e di San Martino. Quel suo lavoro fu da lui tenacemente voluto: il ventitreenne tenente, formato a serietà estrema nell'affrontare il dovere, qualunque fosse, era rimasto sbalordito e umiliato scoprendo che i suoi generali non possedevano carte esatte e recenti di quel Lombardo-Veneto che pur da decenni si ripromettevano di invadere. Nel 1849 viene promosso capitano di Stato maggiore. Combatte valorosamente nella luttuosa giornata di Novara, perdendo almeno due cavalli sotto la fucileria austriaca e restando ferito a una gamba. Sulla scorta di alcuni forti scrupoli morali, chiede di lasciare l'esercito per continuare gli studi universitari. Nel 1850 frequenta le lezioni universitarie in scienze astronomiche e matematiche alla Sorbona a Parigi. Prende intanto contatto con gli ambienti del cattolicesimo sociale francese e aderisce alle prime Conferenze di San Vincenzo De' Paoli fondate da Federico Ozanam (che conoscerà personalmente) e alla diffusione delle quali si dedicherà al suo ritorno nel regno di Sardegna.
Pietro Palazzinì: "Il suo tempo parigino trascorre tra quel centro di spiritualità e di assistenza sociale che era la grande parrocchia di St. Sulpice, l'università, l'attività caritativa vincenziana con le visite a domicilio per i poveri. Come svago, le visite ai librai e ai negozi di strumenti scientifici" Sin da questi anni dà alla sua vita un ordine e una precisione - da scienziato e da soldato - che non abbandonerà più e che gli permetterà di utilizzare per il bene ogni minuto della giornata. Nel 1851, ottenuto il diploma di Licencié-ès-Sciences, rientra a Torino, ma la casta politica anticlericale e settaria che si sta formando al governo impedisce la nomina a precettore dei principi di un credente così esplicito. "Gli uomini di stato piemontesi che avevano creato un clima ostile alla Chiesa non erano disposti a tollerare vicino al re in carica e come precettore del re in fieri un cattolico militante del tipo di Faà di Bruno che già a Parigi aveva elogiato la spedizione francese contro la Repubblica romana di Mazzini e Garibaldi" (P.Palazzini).
Tra i drammi maggiori della sua vita, vi sarà sempre il contrasto tra le sue aspirazioni, da sincero patriota, all'unità italiana e il rifiuto, come cattolico fedelissimo al papa, dei metodi e dei modi inaccettabili con cui quell'unità era perseguita, con la persecuzione e il sopruso verso la Chiesa. Malgrado questo suo leale rifiuto (e alla pari, anche qui, di don Bosco), non cessò mai di offrire collaborazione alle autorità, pur anticlericali, quando sì trattasse di unirsi per il vantaggio dei bisognosi o per la gloria di Dio, com'egli l'intendeva.
Nel 1854 ha inizio il suo apostolato verso le donne in generate e le domestiche in particolare: presso la sua parrocchia torinese, quella di San Massimo, in Borgo Nuovo, avvia una Scuola di canto domenicale cui partecipano, soprattutto, donne di servizio e popolane. Egli stesso vi suona l'organo. E il primo coro femminile italiano oltre che il solo diretto da un giovane laico.
Fidando in una promessa governativa (essa pure sarà disattesa, alla pari di quella dì farlo precettore dei principi reali o di pagare le spese per la carta del Mincio), la promessa, questa volta, di essere addetto all'Osservatorio di Torino, nel maggio ritorna a sue spese alla Sorbona di Parigi per ottenervi la laurea in matematica e astronomia. Nel 1855 studia e lavora all'Osservatorio nazionale francese, accoltovi dal celeberrimo Urbain Le Verrier lo scopritore, col solo calcolo, del pianeta Nettuno. In contatto con la cultura francese, decide di dedicarsi alla dimostrazione dell'armonia tra scienza e fede.
Nel 1856, stimolato anche dalla infermità agli occhi della sorella Maria Luigia, inventa e fabbrica uno scrittoio per ciechi che sarà elogiato da molte accademie, premiato a numerose esposizioni e che darà grande aiuto a numerosi infelici, in Europa e in America. Nell'autunno, si laurea brillantemente in matematica e astronomia col famoso barone Augustin Cauchy, uno dei maggiori scienziati del secolo e tra gli esponenti più in vista del cattolicesimo sociale. Prima di rientrare scrive a Maria Luigia:
"Per me, ora, l'unico affare, se Dio mi sostiene, è di viverre da santo e di meritare di fare una morte santa. Tutto il resto e' veramente inutile e non sono che giochi da ragazzi".
Nel 1857 pubblicò su una rivista scientifica americana la "formula Di Bruno", nota ancor oggi sui manuali d'informatica internazionali, in quanto impiegata per certi complessi calcoli al computer. Si tratta, dicono gli esperti, di una formula ancora insuperata, che fornisce direttamente la derivata ennesima di una funzione composta.
Nel 1858, a contatto con la miseria del popolo torinese, che visita quotidianamente con i confratelli della San Vincenzo, si prodiga per impiantare, almeno durante l'inverno, dei Fornelli economici per lavoratori, da lui visti e studiati a Parigi. Si tratta di cucine dove preparare e vendere vivande calde, a prezzo bassissimo; ma non gratuitamente. Perché, come scrive per esporre il progetto al ministro degli interni, "la popolazione povera componsi di gente che soffre, sebbene lavori, e non osa da approfittare delle distribuzioni gratuite, per sentimento di dignità e di amor proprio. L'operaio più suscettibile potrà venire con la fronte alta a comperare e non a mandare ciò che è necessario a' suoi bisogni e a' suoi gusti, non già regalato ma posto in vendita. Costa meno alla modesta sua borsa e nulla costa alla sua dignità". Per aprire un primo Fornello, scrive il Faà, occorrono 4000 lire, 1000 delle quali aveva già raccolto da benefattori, donandone egli stesso altrettante. Con un sussidio pubblico di 2000 lire si impegnava a distribuire per i 5 mesi invernali 600 porzioni giornaliere di minestra e carne al prezzo di vendita di 5 centesimi l'una.
E così assicurava al ministro, in una lettera che è tra i primissimi documenti del cattolicesimo sociale italiano:
"Son pronto ad assumere qualunque responsabilità, a rassegnare qualunque conto. Se tutto io potessi, il farei; ma ciò non essendomi dato, mi sia almeno concesso di confidare in Vostra Eccellenza. Dal sussidio ministeriale dipende l'intraprendere o no l'opera. Tutte le misure son prese; non manca più che un ordine onde tutto si muova. Degnisi pertanto V.E. di non defraudare il povero di tanto bene".
A questo grido di aiuto, non corrispose alcuna risposta dalle autorità, sia governative sia municipali, malgrado il piano preciso di costi e ricavi presentato dal Faà. Il quale, così, avvia da solo l'iniziativa che oltre dieci anni dopo sarà assunta dal Comune - costrettovi dalla carestia e da una ennesima epidemia di colera - funzionando per alcuni decenni, seppure a costi più alti e a condizioni ben peggiori di quelle proposte dal Beato.
Il 2 febbraio 1859 istituisce la Pia opera di Santa Zita in un terreno dell'allora malfamato Borgo San Donato, comprato grazie al suo patrimonio personale e ai fondi da lui raccolti con circolari ed elemosinando alla porta delle chiese. Il luogo è scelto innanzitutto perché abitato da una popolazione poverissima e abbandonata, ma anche perché attiguo a un canale che permette l'istituzione di una lavanderia modello (con macchine a vapore progettate dallo stesso Faà) dalla quale si ricavano utili per il mantenimento dell'istituto. Cura del Faà (polemico contro la scandalosa incuria degli industriali per le condizioni igieniche cui costringono i lavoratori) è corredare l'impianto "d'ogni comodità per lavare ad ogni stagione senza inconvenienti, avendo tutti i riguardi richiesti dalla salute delle giovani".
Nella Torino che stava secolarizzandosi, il giovane Faà Di Bruno ebbe l'amara sorpresa di vedere giungere donne (alcune erano bambine di 12-13 anni) lacere, denutrite, maltrattate, schiacciate per pochi sodi da pretese disumane e spesso anche immorali. Fu quello choc che svegliò in lui il cristiano radicale e gli indicò la sua strada.
L'Opera di Santa Zita è eretta per il ricovero, l'istruzione professionale, il collocamento delle donne di servizio disoccupate, licenziate, malate, anziane o appena inurbate. Nella città capitale del regno di Sardegna (e, presto, del regno d'Italia) il personale femminile di servizio rappresentava la parte più numerosa e più abbandonata ancor più che le operaie - del proletariato urbano.
Una delle costanti preoccupazioni del Beato divenne il formare le donne di servizio non solo professionalmente, ma anche moralmente perché fossero (sono sue parole) "strumento di pace e di concordia all'interno delle famiglie in cui lavorano".
Al rancore tra le classi, all'odio sociale che cominciavano a essere predicati, voleva sostituire sì una difesa dei diritti dei più deboli, ma al contempo affidare a questi una preziosa funzione di operatori di pace, di portatori di serenità in quei nidi di vipere che rischiavano di essere - e spesso erano - gli interni aristocratici e borghesi delle grandi città.
In effetti, la classe servile costituiva uno di quei problemi umani e sociali fatti esplodere dalla società borghese, senza alcun pensiero di rimediarvi.
A queste ultime tra gli ultimi, il potere ufficiale provvedeva unicamente in modo repressivo, poliziesco, carcerario, con case di correzione, internamenti coatti, fogli di via per rimandarle ai luoghi d'origine.
Era la stessa repressione che don Bosco constatò tra i ragazzi e ai quali, dunque, applicò il suo celebre "metodo preventivo". Così anche, per quanto riguardava le ragazze, il Faà. Il quale, lo disse più volte, non voleva occuparsi di "già traviate", ma tutto mise in opera per evitare il traviamento, con un metodo che definiva "insieme positivo e negativo: formare al bene, allontanare dal male"
Alle Figlie non si stancava di ricordare i doveri; ma li ricordava anche ai padroni e, poco fidandosi delle promesse, quando possibile voleva che fossero messi nero su bianco in quei contratti che la legge dello stato, scandalosamente, ancora non prevedeva. (Come non ne prevedeva per quell'altra categoria del tutto indifesa costituita dai giovani apprendisti: i primissimi contratti che li riguardino sono firmati (da un maggiorenne, come loro tutore. E' un prete, un certo don Bosco...).
Coloro che si ostinano a leggere la storia secondo lo schema della reazione e del progresso, devono rovesciare le parti che abitualmente, per l'Ottocento, attribuiscono ai cattolici (visti come reazionari) e ai liberali (spacciati per progressisti). I fatti mostrano assai spesso che la verità stava nel contrario.
Sempre nel 1859, per sua iniziativa (don Bosco accetta la vicepresidenza), sorge, ed è la prima in Italia, l'Opera per la santificazione delle feste per difendere i lavoratori dal lavoro domenicale cui sono costretti dallo spietato capitalismo della prima industrializzazione.
Nel 1860 fonda, all'interno dell'Opera di Santa Zita, la Classe delle Clarine (dalla protettrice santa Chiara): ragazze di umile condizione e affette da menomazioni fisiche anche rilevanti e, dunque, destinate a una vita di stenti o dì abbandono. La Classe delle Clarine è ancora esistente: in 130 anni ha dato mezzi di sussistenza, e uno scopo alla vita, a migliaia di abbandonate e di handicappate.
Nello stesso anno fonda l'infermeria di San Giuseppe per donne povere inferme e, soprattutto, convalescenti. Se già esisteva qualche ospedale e ricovero per le malate, mancava del tutto una struttura di assistenza intermedia tra la fase acuta del morbo e la guarigione completa. Molte lavoratrici, rigettate subito nella piena attività, avevano così pericolose ricadute.
Nel 1862 fonda "un pensionato-ospizio per donne anziane e invalide".
Dà vita a un liceo (don Bosco vi invia i suoi primi cinque giovani che devono conseguire titoli riconosciuti dallo Stato). Questo istituto è il suo con tributo alla lotta dei cattolici per una scuola libera, contro il monopolio statale dell'istruzione imposto da un liberalismo che, anche qui, fa ben poco onore al suo nome.
Propone al Municipio di Torino un piano dettagliato per la costruzione di una rete di bagni e lavatoi pubblici economici, anche per contrastare, con l'aumento dell'igiene, le ricorrenti epidemie, soprattutto di tifo e di colera, e per soccorrere le povere massaie, costrette a lavare i panni sulle rive dei fossi, esposte alle intemperie, e poi ad asciugarli in casa, con conseguente umidità che favoriva le malattie. Malgrado l'offerta di costituire una impresa mista, pubblica e privata (c'è, anche qui, una intuizione precorritrice), il Comune massonico anche questa volta, come già per i Fornelli, decide di non farne nulla. Il progetto del Faà prevedeva un primo stabilimento in Borgo San Donato con 40 vasche per i panni e 15 posti bagno: da parte sua assicurava terreni e denaro per 45.000 lire (più la direzione gratuita) e chiedeva al Municipio un contributo di sole 20.000 lire. Già aveva costituito una società, raccogliendo quote azionarie, scrivendo di voler mostrare che "si può far molto, bene e a buon mercato". Poiché non si volle aiutarlo, il primo bagno pubblico (creato però anch'esso da una iniziativa filantropica) fu aperto a Torino solo nel 1880.
Quanto agli istituti di Borgo San Donato, dopo il colera del 1865 la Giunta comunale invia al Faà una lettera di congratulazioni per l'ottima situazione igienica riscontrata dall'apposita commissione sanitaria dopo un'ispezione. Nel vasto complesso "tutto", scrive lo stesso Fondatore al fratello con l'orgoglio di quel militare che era stato, "tutto è in ordine e muove come un orologio". All'Opera di Santa Zita aggiunge un Pensionato per sacerdoti anziani o ridotti in miseria dalle leggi statali di confisca, senza indennizzo, dei beni ecclesiastici.
Nel 1863, istituisce, per la prima volta a Torino, una Biblioteca mutua circolante, con invio dei libri al domicilio degli associati. Tra gli scopi, non soltanto preoccupazioni religiose ma pure l'intento di "moltiplicare la lettura di buoni libri scientifici", anche in lingua straniera.
Nel 1864 Fonda la Classe delle educande per la formazione professionale di giovani povere con corsi triennali di economia domestica.
Nel 1866 - Dà vita alla Classe delle allieve maestre e istitutrici, per la formazione di insegnanti elementari seriamente preparate sia a livello professionale che religioso. Egli stesso tiene i corsi di discipline scientifiche e redige i libri di testo. Questa iniziativa è per lui importantissima: assunte e pagate direttamente dai Comuni (molti dei quali, a differenza del governo centrale, sono restati in mano a cattolici), le maestre costituiscono una valida testa di ponte per la resistenza e la riconquista religiosa. I corsi (già rivoluzionari per scuole femminili, con la grande importanza data all'insegnamento delle scienze naturali) prevedono - e sono novità assolute per l'Italia - lezioni di meteorologia per consigliare i contadini sul tempo previsto e persino di telegrafia, per coadiuvare in caso di bisogno gli addetti al telegrafo, unico legame dei villaggi col resto del mondo
Nel 1868 - inizia la costruzione della chiesa di Nostra Signora del Suffragio a servizio della sua Opera, del quartiere di San Donato e dei morti dimenticati, soprattutto i caduti in tutte le guerre e sotto qualunque bandiera.
Poiché, come scrive, "una Casa non può andare bene materialmente, moralmente e religiosamente senza una corporazione religiosa", decide di fondare una congregazione di suore: "Chi mira a Dio, a lasciare per secoli una successione di bene, non può far senza di religiose".
Nel 1869 "Consegna della mantellina" alle prime postulanti delle Minime di Nostra Signora del Suffragio. Tuttavia, le prime professioni solenni avverranno solo ventidue anni dopo, nel 1891, tre anni dopo la morte del Fondatore. Il quale, pur tutto mettendo in opera per affrettare i tempi, accetterà serenamente il ritardo (dovuto anche alle diffidenze dell'arcivescovo di Torino per tutto ciò che sembrava sottrarsi alla sua autorità diretta: e ne saprà qualcosa pure don Bosco con i suoi salesiani). Ripeterà spesso, per calmare le impazienti, la parola della Scrittura per la quale, nella Chiesa, "c'è chi semina e c'è chi miete". Il nucleo iniziale di candidate, tuttavia, non si scoraggerà e sino alla fine resterà fedele al Fondatore, a conferma della forza di un carisma singolare.
Le Otto Classi ciascuna dedicata a un preciso e diverso bisogno del mondo femminile sono unite sotto il nome comune di Conservatorio del Suffragio (ma il popolo, sino ai nostri giorni, preferirà usare la dizione originaria di Opera di Santa Zita).
Per venire incontro alle necessità dei parroci poveri, sulla via San Donato apre un Emporio cattolico, magazzino di vendita ove e possibile procurarsi a prezzi modici arredi per il culto, paramenti liturgici, pubblicazioni religiose.
Nel 1881 è nominato professore, ma solo incaricato, di analisi matematica e di geometria analitica all'Università di Torino. Malgrado ogni suo diritto; malgrado la fama europea come scienziato; malgrado il suo zelo pedagogico e l'intervento di autorevoli colleghi, scandalizzati per le umiliazioni cui è sottoposto (per ben sette volte sia il rettore dell'ateneo torinese sia preside e insegnanti della Facoltà di scienze chiesero inutilmente per lui la cattedra); malgrado tutto questo, la casta settaria che dominava anche le università della Nuova Italia fu irremovibile nel non concedergli la dignità di professore ordinario.
Nel 1874 acquista proprietà e direzione di un periodico - "II Cuor di Maria" - cui dà grande diffusione a livello nazionale. Quando ancora la sua congregazione non è formata, già progetta di inviare in Africa un gruppo delle future religiose. Dopo la sua morte, le sue suore andranno in America Latina, dove tuttora lavorano.
Negli istituti di via San Donato attrezza una moderna tipografia, gestita (novità anch'essa scandalosa) da sole donne, direzione tecnica compresa. Vi stampa libri di devozione e di catechesi che raggiungeranno alte tirature, diretti soprattutto al popolo. Egli stesso curerà traduzioni di opere spirituali dal tedesco e dall'inglese.
Nel 1875 Decide di farsi prete, anche per poter meglio dirigere la congregazione di suore in formazione e in vista del compimento della chiesa per la quale occorre un rettore sacerdote.
Nel 1877 realizza la Pia casa di preservazione per le ragazze madri.
Nel 1878 inventa e brevetta uno svegliarino elettrico, ponendo ancora una volta la scienza a servizio della carità: è infatti apostolo dell'arte di "ben impiegare il tempo", di far fruttificare a ogni momento i talenti in vista del giudizio divino e della vita eterna.
Nel 1881, nelle Langhe a Benevallo d'Alba, acquista un piccolo castello per farne una scuola comunale e un educandato per l'istruzione professionale delle giovani di una zona tra le più povere e isolate del Piemonte. Vi invia alcune sue suore, ma deve misurarsi anche con la diffidenza dei contadini che non vogliono che le figlie, braccia utili in campagna, sin da piccole perdano tempo a studiare. Nel castello tiene anche esercizi spirituali e ritiri per signore.
II 27 marzo 1888 muore, pare per una infezione all'intestino, due giorni prima del suo sessantatreesimo compleanno. Il testimone Mario Cecchetto dichiarò: "Fu magnanimo anche nella morte. Alle pezzenterie, alle faziosità dei reggitori della Pubblica Istruzione rispose al suo solito, disponendo nel testamento la donazione alla Facoltà di scienze di quell'Università di Torino, dalla quale era stato sempre escluso a pieno titolo, della preziosa collezione di libri e periodici scientifici nazionali ed esteri: una delle più ricche biblioteche private d'Italia, raccolta in 38 anni di studio e di lavoro". …….
Alla direzione delle sue opere, succede il canonico Agostino Berteu.
In ogni biografia normale, quello sulla morte è, né può non esserlo, l'ultimo capitolo. Al massimo, qualche pagina finale sarà dedicata al ricordo che lo scomparso ha lasciato, all'influsso postumo, sociale e culturale, della sua opera o del suo pensiero.
Non così per la vita di un santo, dove quello sulla morte non è mai l'ultimo ma sempre il penultimo capitolo. Lo è perché la sua presenza tra i vivi continua al di là del sepolcro: e non è solo spirituale, immateriale, ma concreta e tangibile, occorrendo, per salire i gradini degli altari, prove (vagliate da apposite, prudentissime commissioni che la sua intercessione in Cielo ha inciso sulla vita dei fratelli che ancora penano sulla Terra. Le grazie ottenute, per mezzo della sua intercessione, dal Signore della Vita - e che gli riconoscono i vivi, riuniti ancora, in attesa di raggiungerlo, nella Chiesa militante - sono parte del necessario capitolo che segue quello sulla sua morte
Ma se il santo (come nel caso nostro) fu anche fondatore di una famiglia religiosa, ecco un'altra parte del capitolo, e anch'essa concreta e viva, di quella vita che si è fatta strumento docile e che, nel volgere delle generazioni, coinvolge creature venute magari secoli dopo di lui e che pure, con Lui, hanno un rapporto intimo, una comunione ancor più stretta di quella che unisce tra loro tutti i battezzati.
C'è una misteriosa quanto evidente fecondità che è solo cristiana, quella dei fondatori, che va oltre la morte e che continua a dare, per secoli, quando non per millenni, figli e figlie proprio a coloro che nella vita terrena spesso accettarono la chiamata alla verginità.
Fecondità che sembra anch'essa inverare la parola di Gesù: "Io sono venuto perché abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10). (E va detto che anche in questo - conforme, al solito, allo stile di discrezione che ben conosciamo - la famiglia di cui Faà di Bruno fu padre spirituale non ebbe clamorosi sviluppi quantitativi, restando sempre nell'ordine di qualche centinaio di religiose. Ma, chi le conosce, sa quale sia la qualità dell'amore verso quell'uomo che, morendo, augurò loro di "non ricevere mai grosse eredità", intendendo, forse, neppure di novizie; assicurandole al contempo che "la goccia della Provvidenza non sarebbe mai mancata"; il che sembra essere avvenuto anche nelle vocazioni).
Dal Vangelo di Marco leggiamo:
"Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?. Gesù gli disse: Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre. Egli allora gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla giovinezza". Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi". Ma egli rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto poiché aveva molti beni".
Francesco Faà di Bruno fu tra coloro che accettarono integralmente la scommessa, che ne accolsero con coerenza la logica e le regole: sul tavolo gettarono tutta quanta la posta disponibile, non tenendo nulla di riserva. Alla pari degli altri cristiani coerenti, puntò tutta quanta la vita, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto.
"Santità" ha detto qualcuno "è uno spirito indomabile in un corpo sempre da domare". Sino a quale punto questo avvenisse anche in Faà di Bruno, noi non sapremo mai. Ma qualcosa possiamo intuire da una confidenza sfuggitagli un giorno con un intimo e che era ben lontano dal sospettare che decenni dopo sarebbe finita negli atti del processo dove costituì motivo di qualche difficoltà. Mentre a noi sembra aprire uno squarcio umanissimo sulla sua lotta diuturna, che fu quella di tutti i colleghi in santità: "Ah, se dovessi ricominciare da capo, non so cosa farei!".
Certo è che tutte le testimonianze ci restituiscono il contrario di uno di quegli eunuchi morali e magari anche fisici che (come vociava un Nietzsche e come sospetta da sempre - oggi, più che mai - il mondo) trovano nella religione un compenso alla loro debolezza, alla loro impotenza. Il cristianesimo come vendetta degli imbelli e dei vinti. O - marxisticamente - come proiezione nei cieli dell'ingiustizia patita in terra. Per quest'uomo, siamo all'opposto: il prestigio della nascita in un casato tra i più nobili in una società monarchica, dove l'appartenenza all'aristocrazia costituiva lo status privilegiato; la salute non solo, ma anche la prestanza fisica (era dritto e alto a tal punto che, a quanto si racconta, quando a Novara il cavallo gli cadde sotto fulminato da una palla, restò in piedi sulle lunghe gambe...); una rendita cospicua, come confermano anche le imponenti somme di denaro personale gettato nelle sue imprese benefiche; doti di coraggio come due campagne di guerra in prima linea ben testimoniano; doni di intelligenza tali da imporlo all'attenzione della comunità scientifica internazionale.
Dietro tutto questo, poi, un temperamento non certo languido, snervato, carente di ormoni, ma a proposito del quale un teste così depose al processo: "Aveva un carattere forte, imperioso, impulsivo" eppure, aggiunse lo stesso testimone, "appena aveva fatto lo scatto lo si vedeva fermarsi, divenire pallido come un cencio e generosamente chiedere scusa").
I famigliari e la nobiltà piemontese era imbarazzata per quel tipo di impegno che lo fece definire più volte "un originale", uno che "faceva stranezze", un aristocratico che rischiava di compromettere il nome onorato non solo preoccupandosi, ma addirittura abitando "tra quei serventun" (servacce, in piemontese), per dirla con il poco velato disprezzo di un suo parente stretto, pur buon cattolico ma perplesso davanti a quegli estremismi.
Come scrisse il Berteu, suo primo biografo oltre che successore: "Quando il Cavaliere iniziò la sua opera sotto il nome di santa Zita, una povera serva, alcuni dei suoi congiunti se ne adontarono: egli lasciò che la tempesta passasse e continuo umile per la sua strada. Talvolta ridendo diceva: "I miei congiunti vanno per Torino in vettura propria con due cavalli e col cocchiere in livrea; io mi contento di andare con la vettura di san Francesco, sempre a piedi"".
Onestà impone però di rilevare che, malgrado stentasse a capirlo, la sua famiglia non lo ripudiò e nemmeno lo abbandonò, assecondando anzi, non di rado, le sue richieste pressanti di aiuto economico. Il suo rapporto con Alessandro - il fratello maggiore ed erede dunque del titolo di marchese - durò cordiale e fecondo per tutta la vita: appassionato agricoltore, aperto al progresso nella coltura dei campi, Alessandro approfittò anche dei viaggi all'estero e delle conoscenze scientifiche di Francesco per introdurre migliorie che spesso erano anteprime per il Piemonte. Ma, pur nell'affetto e nella stima per quel fratello eccentrico, l'erede della casata - ce ne è traccia nelle lettere - ha spesso l'aria di sospirare manzonianamente:
"Che sant'uomo! ma che tormento!".
E così, sorridendo, ci piace immaginare il marchese Alessandro anche quando Francesco lo sollecitò a venire a visitare l'Esposizione universale di Parigi, nel 1855, per ampliare le sue conoscenze e dar consigli utili ai figli, raccomandandogli però di portare poco denaro per comprare souvenir perché, scrive, "tutto ciò che è inutile è roba rubata ai poveri".
Nella famiglia dei Faà di Bruno non mancavano certo gli ecclesiastici: quel che ci si aspettava da Francesco era che, dopo le dimissioni dall'esercito, dopo l'inizio delle sue fondazioni religiose, con quelle convinzioni e con quel tipo di missione scegliesse lo stato clericale. Dove, senza dubbio, avrebbe ricalcato le orme dei suoi antenati, giunti sino alla consacrazione a vescovi; o anche di suo fratello Giuseppe Maria, uomo di grande e sincera carità ma (come quasi doveroso per un Faà) di autorità e di prestigio, divenuto in effetti Superiore generale della congregazione dove aveva scelto di entrare.
E, invece, quella sua scelta di restare laico, sino a oltre i cinquant'anni, lo teneva in uno stato ibrido, sottraendogli prestigio in quanto secolare e non concedendogli la possibilità di far "carriera" nello stato ecclesiastico.
Ma nelle sue scelte era incrollabile: a questo si sentiva chiamato, questo avrebbe fatto. E questo fece, sino all'ultimo, nella solitudine che sempre contrassegnò la sua vita: senza famiglia propria; senza possibilità di riversare, almeno visibilmente, il suo affetto sulle beneficate, colle quali doveva mantenere il più distaccato dei contegni fino al limite della rigidezza; senza l'aiuto di collaboratori stretti, che gli fossero alla pari quanto a carità e a impegno (escludendo, ma già avanti negli anni e con austere prudenze, la signorina e poi suor Gonella); senza neppure, negli anni di sacerdozio, il conforto di una comunità di confratelli o anche di un prete solo, di un consacrato come lui.
"Devo fare tutto da me, tutto grava sulle mie povere spalle", constata in certe lettere. Aveva pensato di fondare una congregazione maschile di Sacerdoti del Suffragio, da affiancare a quella femminile. Ne stese pure le regole. Ma gli mancò il successo anche perché "nel clero torinese si era creata una fama, per quanto ingiusta, di individuo poco socievole" (P. Palazzini).
In realtà, lasciò scritto il can. G. B Pallanca che fu cappellano dell'Opera, che dovette poi lasciare perché richiamato a Imperia dal suo vescovo: "Mi era stato detto che non sarei durato quindici giorni all'istituto, alludendo al carattere del sig. Abate. Il fatto dimostrò tutto il contrario: non mi scontentò in nessuna domanda, anzi mi prevenne in ciò che non avrei osato chiedere. Si disse taciturno a tavola coi sacerdoti: io lo trovai sempre pronto a dispute di teologia, di filosofia, di storia, di scienze. Sfuggiva, però, i discorsi inutili e, piuttosto che perdere tempo, leggeva giornali e libri. Non faceva né ricreazione né pigliava divertimenti; levatosi da tavola, andava immantinente al lavoro".
In realtà, è lo stesso don Pallanca che conferma che quella fama di eccessiva austerità e di scarsa socievolezza veniva dal fatto che "per evitare anche l'ombra del peccato" (e le chiacchiere della gente) aveva adottato "disposizioni assai rigide, innanzitutto verso se stesso".
Ma veniva anche dal fatto che - per quest'uomo che, oltre alle chiese, conosceva sin da giovanissimo caserme e aule scientifiche - la vita era davvero una cosa seria, da vivere con serietà in ogni aspetto, perché occasione irripetibile di guadagno dell'eternità.
Dopo la sua morte la presenza maschile nell'Opera finì per essere sostituita interamente da quella femminile: al canonico Agostino Berteu (morto nel 1913) succedette mons. Giuseppe Gilli, cappellano del re e custode della S. Sindone, morto nel 1927, "finché poi i superiori verranno sostituiti in tutto dalle Superiore generali, succedutesi nel governo pieno della congregazione" (P. Palazzini)
Avendo infatti concluso tutto il lungo e complesso percorso delle successive approvazioni ecclesiastiche, le Minime di Nostra Signora del Suffragio acquistavano piena autonomia e, con essa, responsabilità diretta sull'eredità spirituale e materiale del Fondatore.
L'opera iniziata da un giovane scapolo era - ed è - interamente assunta da menti, cuori e mani femminili: esito significativo per chi, sfidando la mentalità ottocentesca (e, di certo, non solo clericale ma anche, forse soprattutto, liberale: fu essa a creare in quei decenni la mistica dell'angelo deI focolare), aveva dato la vita per la promozione vera della donna.
E ciò non con proclami demagogici o con progetti utopici, ma nella concretezza dell'attività quotidiana, assicurando a quelle ultime nella scala sociale un ricovero, un ufficio di collocamento, un'associazione contro le incertezze della vita, un'infermeria contro le malattie; ma anche scuole e corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale, perché anche così potessero avere un'esistenza più degna e umana e meglio potessero tutelare i loro diritti.
Alla fine, quelle altre donne che erano le sue suore e alle quali aveva dato tutto quel che poteva - non riuscendo neppure, in vita, a vederle "sistemate" in modo canonicamente stabile - relegarono gli uomini a pur indispensabili compiti di assistenza spirituale e agirono (e tuttora agiscono) in prima persona, senza dover rendere conto a superiori maschili delle loro scelte.
Torniamo alla fine (quella, almeno, che tale è secondo il mondo) di quella vita. Torniamo al martedì della Settimana Santa del 1888, a quel 27 marzo, alle nove del mattino, nelle stanze di via San Donato 31, ricche solo di libri, di strumenti scientifici, di immagini sacre.
Stanze dove, anche negli inverni più crudi, non aveva mai voluto riscaldamento, con un ostinazione che qualcuno, al processo, fu tentato di rimproverargli, come fosse un eccesso di eroismo, una mancanza di discrezione, di prudenza. Dimenticando, però, che quel tipo di ascesi era molto facilitato a chi, come lui, sin da giovanissimo era stato allevato alle durezze - per noi quasi inconcepibili - della vita militare della prima metà dell'Ottocento.
Tra le sue spesso ignorate primizie c'è anche l'avere introdotto in Torino l'adorazione eucaristica notturna.
Divenuto sacerdote, rifiutava ogni elemosina per la messa quotidiana, volendo essere libero di dedicarla alle sue intenzioni: l'Opera, i benefattori, le anime dei defunti, a cominciare da quelle dei soldati caduti in guerra Negli atti dei "processi" c'è persino l'eco di qualche malumore nella comunità per la lunghezza di quelle sue messe. Al che replicava di "essere lesto in tutto il resto" ma di voler essere "lento nella celebrazione del Mistero eucaristico, per dargli l'onore dovuto"
Né la sua devozione eucaristica era solo del sentimento visto che - lo vedemmo - a quella Presenza misteriosa aveva dedicato un saggio, tentando di applicarvi, per meglio capirlo, le categorie scientifiche.
Ma che avvenne, dunque, dopo le nove di quel lontano mattino di marzo, dopo che - ricevuta l'estrema unzione e gli altri sacramenti, mentre attorno al suo letto gli intimi, inginocchiati, pregavano senza interruzione - dopo che ebbe esalato l'ultimo respiro? Su quel dopo - di lui come, prima o poi, di ogni altro - le strade radicalmente divergono: (è una via laica dove, ovviamente, del tutto si tace, limitandosi semmai a riferire che cosa i vivi abbiano fatto attorno a quel cadavere. E c'è una via devota, quella della agiografia tradizionale, che non ha esitazioni: l'anima immortale venne subito accolta dal Cristo così come il Vangelo promette: "Vieni, servo buono, sei stato fedele nel poco, io ti darò autorità sul molto".
UN AIUTO CONCRETO
Quella di Giovanni Bosco che a Valdocco raccoglieva quegli scarti della nuova società che erano i ragazzi abbandonati era la stessa prospettiva, la stessa sfida del suo grande amico, del fratello nella stessa fede che a San Donato raccoglieva quegli altri scarti che erano le serve disoccupate, malate, incinte, invalide, invecchiate.
Anche a lui (come a tutti gli altri santi "sociali") si può applicare quanto Piero Bairati, storico contemporaneo dell'economia, scrive di don Bosco: "In una società disgregata, si afferma come organizzatore. In un mondo di sbandati, insegna il valore della disciplina e instilla nei giovani il senso di appartenenza a un'istituzione. Ai miserabili e ai derelitti non predica una vaporosa religione del cuore, ma un severo ordine interiore e il culto del lavoro, della precisione, delle cose ben fatte".
In effetti, questi cattolici che affrontano di petto i drammi sociali scatenati dall'irrompere della modernità, nella diagnosi concordavano con i nascenti movimenti dei lavoratori (che verranno però dopo, molto dopo di loro: si pensi che la fondazione del Partito socialista italiano non è che del 1892, a quattro anni cioè dalla morte di don Bosco e dell'abate Faà di Bruno!).
È però nella terapia che divergevano.
Terapia che è poi tutta condensata in una convinzione che il Faà non si stancava di ripetere: i guai sociali derivavano dall'abbandono della pratica coerente di un cristianesimo solidale, autentico. E, dunque, battersi per la restaurazione religiosa non era solo uno strappare anime all'inferno, ma anche contribuire efficacemente a creare una società migliore, più giusta e più umana. Per dirla con le sue stesse parole: "Salvare il mondo con una religione vissuta profondamente".
Sapeva che la fede autentica produce anche buoni cittadini: quegli "italiani seri" di cui la caotica, improvvisata nuova nazione aveva disperato bisogno. Lui, del resto - lui, il nobile, il privilegiato, il ricco, il colto - era il primo a dimostrarlo.
Né si creda che quella sua opera fosse marginale, insignificante: già nel 1879, a vent'anni dai primi inizi dell'Opera, tra le sue mura erano passate oltre 10.000 donne. Un numero quasi pari, cioè, a tutte le domestiche di Torino. Quel passaggio produceva inoltre frutti duraturi, in quanto la maggioranza delle ricoverate temporanee aderiva poi a una associazione con scopi religiosi e di mutuo soccorso. E, ciascuna di esse, poteva essere un fermento di cristianesimo all'interno di quasi la totalità delle famiglie torinesi abbienti a sufficienza da permettersi una domestica: a questo, del resto, il Beato mirava; e questo spiega anche l'ostilità di cui era circondato dalla casta liberale. I numeri andarono moltiplicandosi negli altri nove anni della sua vita e aumentarono in modo impressionante dopo la sua morte, per giungere sino a noi, dove attorno agli istituti di via San Donato e alle sue suore si coagulano ora le nuove povertà delle domestiche africane, asiatiche, sudamericane.
È solo un esempio, questo, della terapia messa in atto dal Beato (come dagli altri cattolici del tempo) per rispondere con fatti concreti a una situazione sulla cui diagnosi era implacabile; alla pari, anzi con ancora maggiore severità, dei nascenti socialismi e sindacalismi laici. Questi, in effetti, ai ricchi, ai privilegiati minacciavano tasse, riforme, espropri, magari la rivoluzione stessa.
Cose gravi, ma di certo infinitamente meno di quanto, Scrittura alla mano, minacciavano quei credenti: niente di meno che la sventura e la sofferenza eterne, l'ira implacabile di Dio stesso. In una parola sola e terribile: l'inferno.
Altro non praticavano, in questo modo, che la fedeltà a tutto il Vangelo, nella lettera come nello spirito. E di Gesù stesso il "guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione! guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame!" (Lc 6,24 s).
Ed è nello stesso terzo evangelo l'inquietante parabola che cosi comincia: "C'era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco...". E ben si ricorda il terribile seguito, con il ricco che, stando nell'inferno, tra i tormenti, chiede almeno un po' di refrigerio, avendone come risposta: "Ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora, invece, lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti..." (Lc 16).
In quella prospettiva da credenti radicali nella quale, per rendere loro giustizia, vanno sempre giudicati, non c'era per loro minaccia socialista, marxista, anarchica che si avvicinasse alla terribilità di quelle altre parole che gli evangeli attribuiscono ancora al Cristo:
Poi (il Figlio dell'uomo) dirà a quelli posti alla sua sinistra:
"Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato [...]. E se ne andranno, questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna"(Mt 25,4-44 e 46)
Da queste parole del Cristo - e da tante sue altre, esplicite e inesorabili - già i primi credenti trassero subito le conseguenze. Dalla lettera che il Nuovo Testamento attribuisce all'apostolo Giacomo:
E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida: e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage (Gc 5,1-5).
Espressioni, come si vede, assai poco carine per i ricchi destinatari; e sulla base delle quali, la Chiesa, tra i peccati più gravi - quelli "che gridano vendetta al cospetto di Dio" - pose proprio il "defraudare i lavoratori della giusta mercede". Coerenti - senza sconti né mediazioni - con le parole della Scrittura giudeo-cristiana e della millenaria Tradizione cattolica che ad essa si era uniformata, questi credenti del secolo del liberalismo capitalista e del socialismo rivoluzionario non si limitarono, nella loro predicazione, a delle vaghe esortazioni, a degli innocui auspici o alla richiesta di qualche spicciolo che illudesse i ricchi di salvare la propria coscienza (e la propria anima) e al contempo tenesse buoni i poveri.
Faà di Bruno, di solito così controllato, allergico a ogni atteggiamento demagogico, a ogni parola urlata, alza invece la voce contro i padroni che, per sete di guadagno, rendevano schiavi i dipendenti negando loro persino il riposo festivo: "Anche tra noi sono i barbari che costringono il povero operaio a rovinarsi la sanità per lavorare la domenica". E, altrove, parla di "quegli uomini che rendono schiavi altri uomini incatenandoli e degradandoli sotto il giogo del continuo lavoro".
Nutrito di cultura francese, leggeva e citava spesso, nelle sue omelie da sacerdote, ma anche nei discorsi e nelle lettere da laico, Bossuet, il predicatore della corte secentesca di Versailles che, davanti ai grandi del regno, non temeva di dire: "I pregiudizi del secolo impediscono ai ricchi di comprendere che pesante fardello sia l'abbondanza. Ma, allorché arriveranno là dove sarà di nocumento essere troppo ricchi, allorché compariranno davanti a quel tribunale dove bisognerà rendere conto non solo dei talenti impiegati ma anche dei talenti sotterrati e rispondere a quel giudice inesorabile non solo dello speso ma anche del risparmiato e messo da parte, allora, Signori, conosceranno che le ricchezze sono un gran peso e si pentiranno indarno di non essersene scaricati". E, ancora: "O grandi, o ricchi del mondo, quanto la vostra condizione mi fa paura!".
Sentiamo, al proposito, un brano del discorso pubblico che l'ormai vecchio don Bosco tenne il Sabato Santo del 1882 a Lucca dove si era recato - al solito - a sollecitare aiuti per i suoi giovani:
Uno avrà mille franchi di rendita e di ottocento può onestamente vivere; orbene, i duecento che avanzano cadono sotto le parole di Gesù: "Ciò che è di più, datelo in elemosina!".
"Ma una necessità impreveduta, una fallanza nel raccolto, una disgrazia nel commercio…".
Ma sarete ancora in vita allora? E poi Iddio: che al presente vi aiuta, non vi aiuterà specialmente se avrete dato per amor suo? Io dico che chi non dà il superfluo ruba al Signore e con san Paolo dico: regnum Dei non possidebit.
"Ma la mia casa è povera; ho bisogno di rinnovare certe suppellettili già troppo vecchie e non più secondo il gusto che corre." Se permettete, entro con voi nella vostra casa. Veggo là suppellettili molto ricercate, qui una tavola fornita di ricchi servizi, altrove un tappeto ancor buono. Non si potrebbe lasciar di cambiare questi oggetti e, invece di ornare i muri e la terra, coprire tanti poveri giovinetti che soffrono e che pure sono membra di Gesù Cristo e tempio di Dio? Veggo là risplendere argento e oro e ornamenti tempestati di brillanti.
"Ma sono una memoria..." Aspettate voi che vengano i ladri a rubarveli? Voi non li usate, né vi sono necessari. Prendete questi oggetti, vendeteli e datene il prezzo ai poveri: voi li date a Gesù Cristo e acquistate una corona in cielo. In questo modo non isquilibrate punto le vostre sostanze, né vi levate il necessario.
"E quella cassetta così ben chiusa?" "E niente!" "E niente? Lasciate vedere!"
"Ecco: è qualche migliaio di napoleoni d'oro: li conservo perché può venire una malattia; e poi c'è un vicino che mi disturba; vorrei comprare quella possessione, e così farebbe miglior vista la mia tenuta." Ma questo è superfluo, io dico; voi siete obbligato a prendere quel denaro che non giova a nessuno e a farne ciò che comanda Gesù Cristo. Volete conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate, il demonio verrà e di quel denaro farà una chiave per aprirvi l'inferno.
Se volete sfuggire a tanta sventura, imitate l'esempio dei Santi e soccorrete i poveri. Dando ai bisognosi le vostre sostanze, voi le mettete come in mano agli Angeli, i quali ne faranno una chiave per aprirvi il cielo nel giorno della vostra morte.
Si andava davvero sul pesante, dunque. Alla pari, anzi assai più, della predicazione sociale dei riformisti laici o dei rivoluzionari atei del tempo i quali (lo ricordiamo ancora) minacciavano ai ricchi sventure ma, necessariamente, limitate nel tempo, in vita. Qui, invece, le sventure sono predette nella eternità, senza limite né fine.
Ma l'aspetto che distingue un Bossuet, un don Bosco o un Faà di Bruno da un Marx, da un Engels, da un Bakunin, da tutti gli altri "apostoli della giustizia" da ottenere con mezzi politici; la chiave per capire quanto la passione per i poveri sia la medesima ma differente la terapia, diversa la prospettiva è in quel: "Volete conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate. Il demonio verrà...".
Si raccomandava, dunque, sulla scorta di Paolo che scriveva a Timoteo: "Ai ricchi in questo modo raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza nell'incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; raccomanda di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistare la vita vera" (1Tim 6,17).
Questi credenti del secolo del socialismo miravano cioè anch'essi (e con quale vigore) a una migliore giustizia, a una società più umana ma, nel loro realismo cristiano, non credevano che ciò fosse raggiungibile per via coercitiva, per via rivoluzionaria. Volevano l'esproprio di ciò che, superando il lecito, non apparteneva più ai ricchi ma toccava ai poveri: volevano però che nascesse da un'esigenza libera, dalle ragioni della coscienza, dal profondo del cuore. Se proprio non da altro, almeno dal timore di presentarsi carichi di fardelli inutili davanti al Giusto Giudice per eccellenza, quello le cui sentenze sono immodificabili e inappellabili.
Intuivano che la rivoluzione predicata dagli agitatori politici non avrebbe risolto i problemi, anzi ne avrebbe creati altri, anche peggiori: come tutto ciò che nasce dalla forza. 183
E come, in effetti, presto si vide. E come, soprattutto, noi oggi vediamo, con il disastro e il crollo dei regimi costruiti in nome del socialismo scientifico e, in generale, con quelle rivoluzioni cui questi credenti si opponevano non certo per insensibilità, non per miopia, non per interessi di conservazione sociale ma, al contrario, proprio per preservare il popolo da illusioni che si sarebbero rivelate rovinose.
Seguaci di quel Gesù che "sapeva quel che c'è nel cuore dell'uomo", membri di una Chiesa millenaria "esperta in umanità", prevedevano che ogni rivoluzione solo esterna come quella politica sarebbe stata illusoria; anzi, alla lunga, malgrado le buone intenzioni, si sarebbe rivelata rovinosa, creando una nuova classe di ancor più scandalosi privilegiati e impoverendo ancor più i già poveri. Perché solo la rivoluzione interna (il cambiare la coscienza, l'aprire il cuore alla pietà, alla misericordia, alla solidarietà) può, sia subito che alla lunga, significare per tutti frutti benefici. E guardando alla Rivelazione di Dio prima che agli schemi degli uomini che l'uomo può scoprirsi fratello di ogni altro uomo. E ciò che don Bosco e Faà di Bruno intendevano, ripetendo sempre di "non voler fare altro che la politica del Padre Nostro"
La tradizione cristiana, quella cattolica in particolare, conosce da sempre dei tentativi per anticipare già qui il mondo e l'uomo nuovi promessici: ma si tratta di quei piccoli pezzi di umanità che sono gli ordini e le congregazioni religiose. Dove (almeno nelle intenzioni-) si tende a un regime davvero fraterno, in cui tutto sia in comune, in cui l'egoismo sia il più possibile vinto. E' un affrettare i tempi, un proporre un modello di ciò che é già e, insieme, non e ancora.
Ma, non a caso, per accedere a questi spazi escatologici, la Chiesa parla di una misteriosa e gratuita chiamata, di una vocazione di Dio assolutamente necessaria. E non a caso si premunisce con regole e norme precise, con austerità e ascesi programmate, ben sapendo come anche in queste comunità di chiamati l' homo naturalis tenda sempre a rispuntare, con quella che il linguaggio religioso chiama la concupiscentia.
Invece, le ideologie che perseguono l'utopia dell'uomo nuovo e del mondo nuovo, del paradiso già in terra, non vogliono proporre ma imporre l'ideale: volendo trasformare il mondo intero in un monastero, in un convento, finiscono per ridurlo a carcere e campo di concentramento, dove la virtù alla fine è imposta dalla polizia e dal terrore di uno Stato oppressivo.
Rifuggendo questi santi, da veri seguaci del Vangelo, da ogni odio, anche di classe, e da ogni guerra, anche civile, proponevano per la società e i suoi problemi la via della solidarietà, della compassione (nel senso etimologico: patire insieme), della collaborazione. In una parola, dell'amore.
Ma, questo, senza alcuna ingenuità, anzi con sano e sodo realismo. Profondamente convinti del valore della redenzione operata dal Cristo con la sua passione, morte e risurrezione, erano però altrettanto convinti, sempre sulla scorta di quella loro fede integrale, che, se il peccato d'origine era stato riparato, le sue scorie, le sue conseguenze negative resteranno sino al secondo, definitivo ritorno del Cristo per instaurare - e soltanto allora - le "terre nuove " e i "cieli nuovi".
Sapevano, come dirà un convertito alla fede cristiana, il premio Nobel per la letteratura Thomas Eliot, che e illudersi, e rovinosamente, il pensare di poter creare, per via di riforme politiche e sociali, "un mondo così perfetto, una società dalle leggi così giuste che ci dispensi dalla necessità di essere buoni".
Erano scambiati spesso per ritardatari, per difensori di una prospettiva illusoria e ormai anacronistica: ed erano invece, anche in questo, i veri profeti. Come noi, a più di cent'anni di distanza, possiamo ben constatare. Noi che abbiamo visto (e non lo ricorderemo mai abbastanza) come il bel sogno di creare il paradiso in terra non con la rivoluzione innanzitutto dei cuori, ma con quella della forza, si rovesci sempre, immancabilmente, nell'incubo concreto dell'inferno in terra. Noi che, dopo tante amare esperienze (le cui conseguenze peggiori hanno patito soprattutto quegli ultimi che si credeva di aiutare), dovremmo ormai sapere che - per dirla con Giovanni XXIII - "mai ci saranno pace e giustizia fuori, nella società, se non ci saranno prima dentro, nell'intimo di ogni uomo".
Si spingevano, quei credenti, a minacciare ai privilegiati la punizione eterna per cercare di diminuire al massimo l'ingiustizia; per alleviare al massimo le sofferenze; per sconfiggere al massimo l'individualismo. Al contempo, però, sapevano che lo spessore del peccato, dell'egoismo, dell'indifferenza mai sarà del tutto eliminato; che, malgrado ogni sforzo, la perfezione non e di questo mondo, già salvato dalla redenzione del Cristo e insieme ancora afflitto dalle conseguenze del peccato.
Diffidavano poi - anche qui da veri cristiani, in opposizione alle nuove ideologie - dei discorsi teorici, dei mirabili programmi per il futuro, dei pronunciamenti generali. Ora sappiamo (ma allora non era così evidente, al contrario) che facile è fare magnifici progetti per l'umanità, difficile è chinarsi sulle miserie dell' uomo che sta accanto a noi.
E, dunque, preferivano - più che scrivere trattati di utopie sociali o infiammare le piazze con rivendicazioni e promesse - rimboccarsi le maniche subito e agire concretamente a favore dei bisogni concreti. Le scale dei miserabili, le salivano portando pacchi di cibi e di vestiti che servissero per l'immediato e non opuscoli di propaganda politica che promettessero il benessere per un indefinito futuro; al clamore del comizio sostituivano l'aiuto, magari silenzioso, discretissimo, come nel caso del nostro Beato.
Ricordiamo tutti (ma non tutti, nemmeno tra cristiani, ne traiamo le giuste conseguenze) la parabola del decimo capitolo di Luca, raccontata da Gesù per rispondere alla domanda di un dottore della Legge che, sentendolo esortare ad "amare il nostro prossimo come noi stessi", chiese, forse capziosamente: "E chi è il mio prossimo?".
Gesù rispose: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto...". Si sa che solo un samaritano, "passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione". Ma in che modo?
Stando a tutti i rivoluzionari e ai riformisti, e poi, in seguito, stando ai cattolici che "vogliono andare a monte", che denunciano anch'essi, sdegnati, la "carità alienante", i "santi della beneficenza"), quell'"avere compassione", per essere autentico, efficace, deve necessariamente passare per le vie della politica.
Pertanto, il samaritano avrebbe dovuto battersi per:
un'azione dello Stato - previa un'approfondita indagine sociologica - per rimuovere le cause di disagio e di emarginazione che spingevano alcuni diseredati al brigantaggio, creando per il loro recupero, a spese e direzione pubbliche, apposite comunità;
in attesa delle misure per risolvere "a monte" il problema di una delinquenza di cui non i presunti banditi, ma la società era responsabile, occorreva un'azione, anch'essa statale, di tutela per i viaggiatori meno abbienti che, come questo, viaggiavano a piedi e senza scorta;
creare una rete di posti sanitari di pronto soccorso, gratuiti e pubblici;
stanziamenti per rimborsare gli aggrediti dei danni subiti e pensioni per chi ne avesse ricavato invalidità;
manifestazioni di protesta per ottenere la sistemazione e l'illuminazione della via Gerusalemme-Gerico come di ogni altra arteria importante;
istituzione nelle scuole di corsi di educazione civica che, certamente, avrebbero dissuaso i giovani dall'aggredire i viandanti...
Diverso il comportamento del samaritano vero, quello di Gesù. "Ebbe compassione", è detto: per manifestarla in concreto, "gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno".
Comportamento scandalosamente "poco sociale", "non risolutivo", al limite "alienante" e "diseducativo"; e che invece Gesù, inopinatamente, considera quello giusto e propone ad esempio: "Va', e anche tu fa' lo stesso".
Proprio per obbedire a questo antico e sempre attuale comando (e per restare in quella Torino di diciotto secoli dopo che quella parabola era stata raccontata), un Cottolengo, un Cafasso, un Bosco, un Murialdo, un Faà di Bruno passarono all'azione immediata prima di elaborare progetti che, in futuro, risolvessero definitivamente i problemi degli handicappati, dei carcerati, dei giovani abbandonati, degli apprendisti sfruttati, delle serve schiavizzate.
Alzarono la voce, certo; denunciarono lo scandalo dell'indifferenza; minacciarono addirittura l'inferno. Ma, più che scrivere manifesti, distribuire volantini, creare una nomenklatura di funzionari di partito e di sindacato, ai bisogni di quelle vite risposero con la loro vita stessa.
Puntarono sì il dito sugli altri, ma solo perché prima l'avevano puntato su se medesimi. Per avere il diritto di far pagare altri, pagarono di persona essi stessi.
Gli ideologi discorrevano di umanità, di classi; questi non si occupavano di astrazioni, di teorie, ma di persone: quei sofferenti concreti e reali in cui il Cristo stesso, accanto a loro, era ancora e sempre in agonia.
Faà di Bruno non fece troppi discorsi sul proletariato (il quale, in ogni caso, lo vedemmo, per il suo bisogno di giustizia sociale a 360 gradi, comprendeva anche "il proletariato dell'Aldilà"), preferendo battersi per far funzionare subito delle mense popolari; non rimandò le serve lacere e sporche ("tanto che niun padrone le vuole", scriverà) che bussavano alla sua porta al giorno in cui la rivoluzione avrebbe trionfato, ma creò asili e scuole e laboratori per loro; non auspicò una giustizia futura, ma le mise in grado di ottenere subito la maggior giustizia possibile; non elaborò un progetto generale di riforma sanitaria, ma si diede da fare per costruire e far costruire bagni pubblici; non scrisse trattati sulle misure pubbliche contro l'inquinamento, ma insegnò alle serve ad ammazzare le mosche; non aspettò una legislazione sulla tutela della salute dei lavoratori, ma costruì ambienti senza pericolo per chi vi faticava; non aizzò allo sterminio dei privilegiati ma cercò, concretamente, di convincere costoro a rispettare i loro doveri di cristiani e, se tali non erano, almeno di uomini.
I politici, i teorici, gli agitatori sociali di allora e di sempre rimandavano e rimandano a un futuro radioso, al "domani che canta" Questi cristiani, esaminato il loro presente, si mettevano al lavoro per renderlo subito e il più possibile meno disumano.
Esemplare, al proposito, la vicenda dell'orologio sulla torre. Di quel suo campanile, Faà di Bruno volle fare un segno religioso e al contempo (lo vedemmo) un segno dell'armonia tra scienza e fede, mostrata in concreto sia nell'arditezza del calcolo sia nell'osservatorio astronomico e meteorologico alla sommità.
Dunque, la sfida del laico cattolico e poi sacerdote professor Faà di Brune è il mostrare, con la pietra e il metallo organizzati dal calcolo matematico, che la fede non teme che il "Satana" della modernità "spenni" l'arcangelo; ma che proprio anche con quel presunto "Satana del progresso" si può glorificare il Dio che Michele adora e serve.
Giovanni Paolo Il stesso, in visita a Torino, volle consacrare al nuovo beato la cappella dell'Arsenale dove ha sede l'Accademia militare, indicando nell'antico capitano un protettore degli ufficiali. Ma, in questi anni, molti scienziati si sono rivolti alla Santa Sede perché questo loro collega sia dichiarato ufficialmente "patrono dei matematici": categoria, quest'ultima, priva sinora di un degno rappresentante in Cielo.
Sulla base non di auspici teorici, ma di un'esperienza cominciata sin dalla prima giovinezza, Faà di Bruno non solo non ammetteva contrasto tra progresso tecnico e religione vissuta nel modo più tradizionale, tra scienza più avanzata e fede più ortodossa, ma giudicava queste realtà necessariamente legale tra di loro.
Nel 1928, interrogata dai giudici del primo processo canonico, un'anziana suora, che era stata sua allieva, così tra l'altro testimoniava: "Mi ricordo come fosse solito dire che un vero scienziato non può non credere in Dio e nel cattolicesimo. E perché, pel desiderio di schiarire le mie idee, io insistevo che allora non si sarebbe potuto spiegare come certi uomini di scienza non avessero fede, il Servo di Dio mi diceva: "O non sono veri scienziati o non hanno studiato la religione cattolica"".
Insegnava che l'armonia scoperta dallo scienziato nel mondo fisico è "un'ombra delle perfezioni di Dio"; e che "il vero ricercatore, purché oggettivo, non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose regolarità matematiche su cui si regge l'universo una provvida e onnipotente Sapienza". Si diceva convinto, per pratica personale, che "l'alta matematica conduce alla logica e questa alla filosofia e questa a sua volta alla teologia". Diceva ancora che, non la scienza è la regina del sapere, ma la teologia, di cui la scienza è I' ancella: perché le parziali verità che lo scienziato scopre non sono che frammenti dell'unica Verità che tutte le contiene.
Ma, al di là dei pur importanti simboli, a quel campanile della sua chiesa in borgo S. Donato volle anche dargli una funzione sociale.
Tra i molti drammi - grandi e piccoli, in ogni caso sino ad allora inediti - causati dalla società moderna, c'era l'aver come ingabbiato il tempo in orari precisi (sconosciuti alla cultura agricola, cui bastava il "pressappoco" del sole) senza però permettere alla massa di accedere agli strumenti di misura di quel tempo fattosi padrone esigente. Un orologio era allora un lusso per privilegiati.
In attesa di una società in cui tutti potessero permettersi di acquistarlo, Faà di Bruno pensò a risolvere subito il problema. Con il consueto rigore di scienziato, calcolò che un orologio le cui lancette avessero la lunghezza di due metri, collocato a cinquanta metri di altezza e munito di un quadrante per ciascuno dei quattro punti cardinali, poteva indicare l'ora esatta a ben ottantamila persone. Calcolò poi che la spesa superava le seimila lire e si rivolse dunque al Municipio con una richiesta di sussidio, firmata anche dagli abitanti del Borgo, per questa che era certamente un'opera a favore della città.
Forse per la prima e unica volta il Comune rispose alle sue richieste di aiuto, deliberando però soltanto un contributo di duemila lire. Al solito, tutto il resto fu pagato dal Faà che, tra l'altro, ottenne la delibera comunale nel 1878 ma incasso le duemila lire alla fine del 1882, più di quattro anni dopo, subendo visite di controllo e inquisizioni varie.
Ora, forse, nessuno si affaccia più alle finestre per vedere che ora sia al campanile di Santa Zita: ma, per decenni, centinaia di migliaia di torinesi senza altro orologio lo fecero.
Secondo lo stile di questi cristiani, i poveri ebbero una risposta pronta e concreta al loro bisogno, non promesse di una società in cui tutti avrebbero avuto diritto a un cronometro al polso.
Ma sia chiaro che questo pragmatismo nel beneficare non impediva loro (e, soprattutto, non impedirà ai cattolici che verranno dopo di loro) di pensare anche alle riforme sociali, oltre a quelle morali. Come testimonierà soprattutto la coraggiosa enciclica papale, la Rerurn novarum, che è del 1891 (tre anni dopo la morte del Faà e del Bosco, un anno prima della fondazione del Partito socialista), ma la cui gestazione è assai precedente, risalendo agli inizi stessi della questione sociale. Quell'enciclica di Leone XIII condannava al contempo, come si sa l'egoismo liberale e l'utopismo comunista, perfezionando, precisando e riproponendo quella terza via, quella via cristiana che credenti come questi torinesi avevano già praticato, mostrandone l'efficacia e il valore con l'esperienza concreta.
Durissimo col liberalismo borghese trionfante, ai cui guasti si sforzò fino all'ultimo di rimediare, Faà di Bruno scuoteva scettico il capo davanti alle teorie comuniste (che negano Dio), sbrigandosela con poche parole da realista piemontese e da cattolico che ben conosceva la complessità del cuore umano. Dicono, quelle parole che ci sono state conservate: "Il comunismo è una falsa teoria, condannata dalla Chiesa, ma condannata prima dal buon senso". E che così fosse, sta ora a dimostrarlo la storia disastrosa dei tentativi di tradurre in pratica quell'utopia che, essendo appunto "condannata dal buon senso", esige la forza, il sangue, li polizia per essere instaurata e mantenuta con fatiche e sacrifici inenarrabili, per non riceverne che ulteriori ingiustizie, miserie, sofferenze. E, alla fine, rivolta violenta dei presunti beneficati.
È la storia, è una tragica storia che ci ha mostrato che "quelli che vogliono rendere gli uomini felici, non esitano a massacrarli per questo". E che "fra tutte le idee, quella di rendere perfetta l'umanità è di tutte la più pericolosa"
Queste due citazioni sono di Karl Popper, il filosofo che molti considerano il maggiore del nostro secolo, un agnostico, un non-cristiano, di certo un non-credente. Il quale, però, ha scritto parole che questi nostri santi "sociali" avrebbero sottoscritto volentieri.
Sentiamo, dunque, Popper che così scrive: "Agisci per l'eliminazione dei mali concreti, piuttosto che per realizzare dei beni astratti. Non mirare a realizzare la felicità con mezzi politici. Tendi piuttosto a eliminare la miseria alla tua diretta portata. Non cercare di realizzare questi obiettivi concependo e cercando di attuare un ideale remoto di società perfetta. Non permettere che i sogni di questo mondo perfetto ti distolgano dai bisogni degli uomini che vivono qui e ora. I nostri simili di adesso hanno diritto a essere aiutati adesso: nessuna generazione presente deve essere sacrificata per il bene di quella futura, in vista di un'utopia di felicità".
Era composto di gente socialmente impegnata, di paladini dei lavoratori, di intellettuali militanti o almeno di fiancheggiatori del movimento operaio, lo staff che nel 1983 fu incaricato di una ricerca. La quale (come diceva il titolo, consisteva in una "indagine sul Borgo San Donato dal 1850 al 1900" ed era commissionata da quel comitato di quartiere a maggioranza comunista, con l'appoggio socialista: alla pari, del resto, e da otto anni, dell'amministrazione municipale di Torino.
Da quella ricerca lunga e ambiziosa, con pretese di completezza (vi risultarono impegnati un coordinatore, due responsabili scientifici, tre ricercatori, sei collaboratori e infine due responsabili del Consiglio di circoscrizione) vennero una mostra e un volume fitto di documenti anche rari e con grande scialo di noie erudite. Il tutto, ovviamente, pagato con il denaro pubblico.
Stando a quanto ricostruito da quegli "esperti", quasi non è esistita, nel Borgo, l'instancabile, enorme attività svolta in quei decenni e tra quelle vie dai grandi cattolici sociali: e non solo il Faà, ma altre figure straordinarie come il teologo Gaspare Saccarelli che nel suo Istituto della Sacra Famiglia giunse a mantenere 250 fanciulle orfane e 300 figli di operai; o come don Pietro Merla, morto nel 1855 per le percosse e le sassate ricevute da un gruppo di giovinastri cui aveva sottratto delle giovani prostitute, accogliendole nel suo Istituto di San Pietro. Credenti che non a caso fissarono la loro attenzione fraterna su questa zona cittadina, dove oltre la metà della popolazione risultava nullatenente e bisognosa di assistenza; e dove (come il tragico episodio di cui fu vittima don Merla conferma) la malavita imponeva la sua legge di violenza.
A quei credenti che diedero tutta la loro vita per i derelitti della zona, gli "storici" del comitato "rosso" di quartiere non dedicano che pochi, spesso sprezzanti cenni, quasi sempre per far sospettare qualche loro speculazione sulle aree, qualche inghippo per ottenere lucrose varianti urbanistiche (come se, tra l'altro, il Comune non fosse in quei decenni saldamente in mano a una consorteria faziosamente anticlericale che, lo abbiamo visto, a tutto era disponibile tranne che a favorire dei cattolici, dei preti).
Quanto a Francesco Faà di Bruno, il breve cenno che lo riguarda, lo dice, testualmente, iniziatore di "un'Opera che e una vera e propria fabbrica di serva". E, in una nota, si spiega che "questa istituzione", dietro il pretesto della "caritatevole assistenza", a questo, in realtà, mirava: "assicurarsi mano d'opera ben addestrata e a buon mercato". Dunque, il nostro Beato come uno speculatore sulla miseria, quasi un mercante di carne umana, un astuto organizzatore di traffici lucrosi a danno delle "serve" da lui "fabbricate": e, il tutto, in combutta con la classe borghese, quella stessa classe che però, curiosamente, lo minacciava di confisca, lo sbeffeggiava sui giornali, gli sabotava la carriera scientifica. E che egli ricambiava con l'epiteto di "barbara!"…).
Non occorrono di certo commenti. Al lettore di queste pagine, se è giunto a leggerle sin qui, lasciamo il giudizio su simili "storici" e sullo schematismo triviale di un'ideologia la quale, del resto, ricalca le orme di un'altra ideologia, quella della borghesia liberale: quando, nei primi mesi del 1888, morirono don Bosco e Faà di Bruno, il maggior quotidiano di Torino, La "Gazzetta del popolo", ignorò la notizia, malgrado il coinvolgimento popolare. Il periodico "Il Ficcanaso", diretto da un garibaldino, parlò della "morte di un briccone esperto nell'arte di pelare i bipedi", un "capo di gaglioffi": questo, per quei "democratici", era S. Giovanni Bosco.



Postato da: giacabi a 18:36 | link | commenti
santi, cristianesimo, faa di bruno

venerdì, 14 settembre 2007

Gli occhi di Madre Teresa, costretti da un Dio geloso a frugare nel buio sempre alla ricerca di Lui


                               ***

Tempi num.37 del 13/09/2007


di Corradi Marina

«C'è un'oscurità terribile in me, come se ogni cosa fosse morta». Leggi tra le lettere ai confessori di Madre Teresa di Calcutta, pubblicate in Gran Bretagna sotto il titolo Come Be My Light, e ti viene in mente l'unica volta che l'hai incrociata, molti anni fa, a Rimini. Davanti agli occhi, come fosse stato appena ieri. Era così piccola di statura, che ti arrivava a stento al petto. E curva, come piegate le spalle sotto al peso di un oscuro giogo. Deforme quasi quel corpo, secondo i canoni estetici consueti.
Ma gli occhi. Dal basso all'alto, ti piantava in faccia quei suoi occhi chiari. Non aggressivi, ma nemmeno dolci, nel senso sentimentale del termine. Guardavano, quegli occhi, con un intenso interesse umano, come un appassionato d'arte davanti a un'opera mai vista. Come uno studioso che apra un manoscritto antico e raro. E sotto a quello sguardo, ci si sentiva brutalmente svelati. Questa donna sa leggerti dentro, ti eri detta in una sottile paura, e arretrando istintivamente di un passo, quasi a sottrarti - a richiudere le pagine del libro. E tuttavia, nel rapidissimo e tacito scambio qualcosa ti aveva subito rassicurato. Non c'era in quegli occhi chiari la luce fredda dell'avidità puramente intellettuale: non solo un'ansia di conoscere, ma una evidente passione di capire lo sconosciuto che le stava davanti, di comprenderlo. Un attimo, e già l'affondo da scrutatrice d'anime era finito, e si allargava in uno sguardo di misericordia. Come se, avendo in un momento già letto, e capito, inarrestabile fosse l'abbraccio, e il perdono.
Ritorni a quell'istante - intanto che facevi quasi distrattamente due domande per il servizio che dovevi scrivere - mentre leggi: «
Io non ho alcuna fede. Io non ho niente, neppure la realtà della presenza di Dio nell'ostia consacrata».
Oscurità, scriveva ai confessori, ghiaccio - lunga notte attraversata in silenzio, mentre senza darsi pace curava i disperati di Calcutta.
Si stupiranno, si scandalizzeranno di quel buio i nati tranquilli, e i soddisfatti. Ma la memoria di quegli occhi piantati in faccia è quella di una donna che cercava, con ostinata passione, dietro il volto di ogni uomo casualmente per un minuto incontrato, un Altro - sepolto, nascosto. Che inseguiva, ovunque, unico fine e orizzonte, Cristo. Forse, che quel buio le fosse dato perché non si fermasse, perché costantemente continuasse a intravedere e trovare dietro ai nostri occhi opachi il Dio che è "tutto in tutti"? Un Dio che non si concedeva mai pienamente, per essere ogni giorno scorto nelle facce della folla distratta, o disperata. Così che, vecchia, Teresa scrive: «Sono giunta ad amare il buio, perché penso che sia una piccolissima parte della sofferenza di Cristo sulla Terra». Amare il buio, che cosa a noi incomprensibile. Amare il buio in cui la lasciava un Dio geloso, che vuole essere ogni giorno riconosciuto nelle facce degli uomini.


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santi, madre teresa

mercoledì, 12 settembre 2007

Scuola libera e non statale
 ***
 Avvenire del 14 Novembre 2006
La storia del jazzista Lionel Hampton
L'intuito di una suora Il genio di un ragazzino
di Marina Corradi


Una mattina di quattro anni fa l'arcivescovo di New York Edward Egan andò in visita nella scuola elementare della parrocchia di Saint Mark a Harlem, in una zona del quartiere abitata da afroamericani e molto povera.

In un salone gremito all'inverosimile da genitori e parenti, finita la recita dei bambini, Egan cerca di guadagnare faticosamente l'uscita. Tra la folla che si accalca per salutarlo c'è un vecchio negro dall'aria sofferente, in carrozzella, che gli allunga la mano, e quando riesce a stringere quella del cardinale lo attira a sé - come uno che debba confidare a bassa voce un segreto.
Infatti all'orecchio dell'arcivescovo il vecchio sussurra con la poca voce che ha in corpo: «
Madre Katharine mi pagò le lezioni di pianoforte!» Egan, capendo a stento nella calca ciò che l'uomo gli sta dicendo, non trova di meglio che esclamare: «Come è stata gentile, madre Katharine!». E poi: «E lei, signore, come si chiama?» «Mi chiamo Lionel Hampton», risponde l'anziano invalido.Il cardinale sussulta.

Lionel Hampton, è una leggenda del jazz, uno fra i cinque o sei più grandi nomi del jazz di tutti i tempi. Ed era quell'uomo in carrozzella che gli stava davanti nella scuola di una parrocchia di Harlem in una mattina di primavera del 2002, all'età di novantaquattro anni. Pochi mesi dopo Hampton sarebbe morto, ma da molti è ricordato, oltre che per la sua straordinaria musica, per le centinaia di case costruite per le famiglie povere a New York.

Parrocchiano della chiesa di Saint Mark, a novantaquattro anni, malato, non aveva voluto mancare alla festa dei ragazzini della scuola. Il cardinale Egan ha raccontato l'episodio al convegno sull'educazione svoltosi due giorni fa all'Unesco a Parigi.
Ma, si è chiesto davanti all'auditorio, e
quella madre Katharine, che pagò le prime lezioni di pianoforte a un bambino nero, chi era? Era, spiega, madre Katharine Drexel, nata nel 1858, una ricca ereditiera fattasi suora che fondò scuole cattoliche in tutti gli Stati Uniti per educare i figli dei più poveri, e fu proclamata santa da Giovanni Paolo II.


«
Madre Katharine mi pagò le lezioni di pianoforte», racconta a novant'anni un grande artista, e sembra una fiaba. La santa e il genio, lei che lo incontra e lo riconosce quando è solo un bambino orfano di padre, su cui nessuno scommetterebbe una lira.
Ma non è una fiaba, come spiega con serena certezza il cardinale di New York. Semplicemente, la suora che comprese che quel bambino "doveva" prendere lezioni di pianoforte era una vera educatrice.
Una che non aveva solo in mente come dare a quel ragazzo le "competenze" necessarie a dargli un mestiere, ma, avendo intravisto in lui il bagliore di un singolare talento - come la luce ancora offuscata di un diamante grezzo - sapeva di doverlo coltivare.

Chissà, forse qualche saggio avrà detto che quella suora era matta, e che quel bambino aveva più urgente bisogno di imparare un mestiere sicuro. Ma lei, era certa. Forse perché aveva osservato come quel ragazzino guardava le dita di un pianista, durante una festa a scuola.
Forse perché aveva visto come istintivamente quelle mani di bambino si muovevano sulla tastiera - come se Dio, le avesse messe al mondo apposta. Educare, è anche riconoscere, nel seme, la pianta; nel segno, la vocazione.
La santa che riconobbe in un bambino un genio del jazz, è anche la storia dell'antico talento educativo cristiano.


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educazione, santi

martedì, 11 settembre 2007

I santi
«I moralisti considerano volentieri la santità come un lusso. Essa è una necessità. È la santità, sono i santi che mantengono quella vita interiore senza la quale l’umanità si degraderà fino a morire».           G. Bernanos


Postato da: giacabi a 20:55 | link | commenti
santi, bernanos

sabato, 01 settembre 2007

SANTA TERESA
DI GESÙ BAMBINO
La piccola via
           

A dieci anni dalla proclamazione a dottore della Chiesa di santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo da parte di papa Giovanni Paolo II
Consigli e ricordi di Céline Martin, una delle quattro sorelle di santa Teresina
 Domenica 19 ottobre 1997, papa Giovanni Paolo II – dopo che già ne aveva dato annuncio il 27 agosto a Parigi, durante la XII Giornata della gioventù – proclamava santa Teresa di Lisieux (nata ad Alençon il 2 gennaio 1873 e morta a Lisieux, a soli ventiquattro anni, il 30 settembre 1897) dottore della Chiesa universale. Con questo titolo, spiegava il Papa in quell’occasione, «il magistero intende segnalare a tutti i fedeli, e in modo speciale a quanti rendono nella Chiesa il fondamentale servizio della predicazione o svolgono il delicato compito della ricerca e dell’insegnamento teologico, che la dottrina professata e proclamata da una certa persona può essere un punto di riferimento, non solo perché conforme alla verità rivelata, ma anche perché porta nuova luce sui misteri della fede, una più profonda comprensione del mistero di Cristo».
      «Tra i “dottori della Chiesa” Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo è la più giovane», disse ancora il Papa. Su un totale di trentatré dottori, Teresa di Lisieux è la terza donna cui è stato concesso questo titolo dopo che Paolo VI nel 1970 proclamò dottori della Chiesa santa Teresa d’Avila (Avila, 28 marzo 1515 – Alba de Tormes, 4 ottobre 1582) e santa Caterina da Siena (Siena, 25 marzo 1347 – Roma, 29 aprile 1380).
     
Nei ventisette anni del suo pontificato, Giovanni Paolo II proclamò dottore della Chiesa soltanto Teresa di Lisieux.
      A dieci anni da quell’atto di magistero di papa Giovanni Paolo II, pubblichiamo in queste pagine un capitolo di una raccolta di scritti di Céline Martin (1869-1959), una delle quattro sorelle di santa Teresina. Céline, che entrò nel Carmelo di Lisieux nel 1894 assumendo il nome di suor Genoveffa del Volto Santo, curò personalmente, nel 1951, la sistemazione dei suoi appunti, provenienti dal suo diario personale – redatto in parte quando Teresa era ancora in vita – e dalle sue deposizioni preparate in vista dei processi di beatificazione e di canonizzazione. Il capitolo che pubblichiamo si intitola “Spirito d’infanzia” ed è tratto integralmente dal libro Consigli e ricordi (Città Nuova, Roma 1973, pp. 47-59).
     
     

Santa Teresa di Gesù Bambino

      Al processo, quando il promotore della fede mi ha domandato perché desideravo la beatificazione di suor Teresa del Bambin Gesù, gli risposi che era soltanto per far conoscere la “piccola via”. È così che Teresa chiamava la sua spiritualità, il suo modo di andare a Dio.
      Egli replicò: «Se parlate di “via” la causa cadrà inevitabilmente, come è successo già in diverse circostanze analoghe».
      «Tanto peggio», ho risposto io, «la paura di perdere la causa di suor Teresa, non mi impedirà certo di valorizzare il solo punto che mi interessa: fare in certo modo canonizzare la “piccola via”».
      Tenni duro e la causa non naufragò. Per questo ho provato più gioia quando Benedetto XV esaltava nel suo discorso l’«infanzia spirituale», che durante la beatificazione e la canonizzazione della nostra santa. Il mio scopo era stato raggiunto quel giorno, il 14 agosto 1921.
      D’altra parte il Summarium ha registrato questa risposta che io detti a proposito dei «doni soprannaturali»:
      «Essi furono assai rari nella vita della serva di Dio. Per me, io preferirei che non fosse beatificata piuttosto che presentare il suo ritratto diverso da come io lo credo in coscienza vero... La sua vita doveva essere semplice per servire da modello alle “piccole anime”»1.
      È incontestabile che in ogni incontro la nostra cara maestra ci indicava la sua “piccola via”.
      «Per camminare» affermava «occorre essere umili, poveri di spirito e semplici».
      Certamente avrebbe gustato, se l’avesse conosciuta, questa preghiera di Bossuet2: «piccoli come fanciulli, come Gesù Cristo comanda, noi possiamo entrare una buona volta per questa piccola porta, per poterla poi mostrare agli altri con più sicurezza e con più efficacia. Così sia».
      Niente di strano se alla sua ultima ora, questo grande uomo abbia pronunciato queste commoventi parole: «Se potessi ricominciare a vivere, non vorrei essere che un piccolo fanciullo che dà sempre la mano al Bambin Gesù».
      Teresa, nella luce rivelata ai piccoli, seppe magnificamente scoprire questa porta di salvezza e indicarla agli altri. La sapienza divina e quella umana non hanno forse indicato in questo spirito d’infanzia la «vera grandezza dell’animo»?
      Così l’hanno fissato in forti definizioni questi grandi filosofi cinesi:
      «La virtù matura approda allo stato d’infanzia» (Lao Tse, VII sec. a.C.).
      «Grande uomo è colui che non ha perduto il suo cuore di fanciullo» (Meng Tse, IV sec. a.C.)3.
      E ancora: «Conoscere la virtù virile significa progredire sempre nella via del bene e ritornare all’infanzia» (Tao Ta-Ching)4.
      Per la nostra santa, questa “piccola via” consisteva praticamente nell’umiltà, come ho già detto. Ma si traduceva ancora attraverso uno spirito d’infanzia molto accentuato.
Gran Dio... non lasciare giammai che alcuni spiriti, di cui alcuni si annoverano tra i dotti, altri tra gli spirituali, possano essere accusati al tuo terribile tribunale di aver contribuito in qualche modo a chiuderti l’accesso in non so quanti cuori, perché tu volevi entrarvi in un modo la cui sola semplicità li urtava, e attraverso una porta la quale, benché aperta dai santi fin dai primi secoli della Chiesa, non era, forse, ancora abbastanza loro nota; piuttosto fa’ in modo che, diventando tutti


Teresa a otto anni con la sorella Céline in una foto del 1881

      Così Teresa amava molto intrattenermi con queste parole che attingeva dal Vangelo: «Lasciate che i fanciulli vengano a me, perché di essi è il regno dei cieli... i loro angeli vedono continuamente il volto del Padre mio celeste... Chiunque diventerà piccolo come un fanciullo sarà grande nel regno dei cieli... Gesù abbracciava i fanciulli dopo averli benedetti»5.
      Essa le aveva ricopiate sul retro di una immagine sulla quale c’erano le fotografie dei nostri quattro fratelli e sorelle partiti per il Cielo in tenera età. Me ne fece un regalo, tenendosene una simile nel breviario. Le foto sono ora, in parte, sbiadite dal tempo.
      Sotto questi testi evangelici, ne aveva aggiunti altri, tratti dalla Sacra Scrittura, che la colmavano di gioia e sempre in relazione con lo spirito d’infanzia: «Beati quelli che Dio reputa giusti senza le opere, rispetto a quelli che fanno opere, perché la ricompensa non è considerata come una grazia da questi ultimi, ma come una cosa loro dovuta... È dunque gratuitamente che coloro che non fanno le opere sono giustificati dalla grazia in virtù della redenzione operata da Gesù Cristo».
      «Il Signore condurrà il suo gregge nei pascoli. Egli riunirà i piccoli agnelli e li prenderà in grembo»6.
      Nel retro di un’altra grande immagine, aveva ancora riportato citazioni della Scrittura, alcune delle quali ripetono le precedenti. Ma è interessante vedere fino a che punto esse spiegano la sua via.
      Prediligeva anche e in modo del tutto particolare una scultura raffigurante un bambino seduto sulle ginocchia di Nostro Signore che si sforza di raggiungere il divino volto e di baciarlo. Io le mostrai un “memento” con la foto di una bambina morta in tenera età; mise il suo dito sul volto della bimba dicendo con tenerezza e fierezza: «Sono tutti sotto la mia tutela!», come se prevedesse già il titolo attribuitole di “Regina dei piccolissimi”.
      Suor Teresa del Bambin Gesù era alta: misurava un metro e sessantadue centimetri; madre Agnese di Gesù invece era molto più bassa. Un giorno le dissi: «Se ti fosse stata data la facoltà di scegliere, avresti preferito essere alta o bassa?».
      Senza esitare rispose: «Avrei scelto di essere piccola di statura per essere piccola in tutto».
      La Chiesa ha sempre visto in Teresa del Bambin Gesù la santa dell’infanzia spirituale. Numerose sono le testimonianze dei papi a questo proposito. Mi limiterò a citarne due di sua santità Pio XII; la prima quando era legato a latere di Pio XI, in occasione dell’inaugurazione della Basilica di Lisieux, l’11 luglio 1937; e l’altra 17 anni più tardi: «Santa Teresa del Bambin Gesù ha una missione e una dottrina. Ma la sua dottrina, come tutta la sua persona, è umile e semplice; è racchiusa in due parole: infanzia spirituale, o nelle altre due equivalenti: piccola via».
      «È il Vangelo stesso, è il cuore del Vangelo che lei ha riscoperto; ma con quale grazia e freschezza: «“Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18, 3)»7.
     
Suor Teresa di Gesù Bambino (in seconda fila dal basso, a destra) e suor Genoveffa del Volto Santo (in prima fila dal basso, a sinistra) in una foto di gruppo scattata il 15 aprile 1895, lunedì di Pasqua

      Devozione al mistero dell’Incarnazione e del presepe
      Ogni anno festeggiava con la più grande devozione il 25 marzo perché, diceva lei: «Questo è il giorno, nel quale Gesù, nel seno di Maria, è stato il più piccolo».
      Ma amava in modo del tutto particolare il mistero del presepe. È qui che il Bambino Gesù le rivelò tutti i suoi segreti sulla semplicità e sull’abbandono.
      Al contrario dell’eretico Marcione che diceva con disprezzo: «Toglietemi davanti questi pannolini e questo presepe, indegni di un Dio!», Teresa era innamorata degli abbassamenti di Nostro Signore, fattosi così piccolo per amore nostro.
      Su immaginette natalizie che lei stessa dipingeva, scriveva con piacere questa frase di san Bernardo: «Gesù, chi ti ha fatto così piccolo? L’amore!».
      Il nome di Teresa del Bambino Gesù, che fece suo fin dall’età di nove anni, quando manifestò il desiderio di farsi carmelitana, resterà per lei sempre attuale e si sforzò di meritarselo costantemente. Più tardi sotto un’immagine di Gesù Bambino, scriverà questa frase: «O piccolo Bambino, mio unico tesoro, mi abbandono ai tuoi divini capricci, non voglio avere altra gioia che quella di farti sorridere. Imprimi in me le tue grazie e le tue virtù infantili, affinché il giorno della mia nascita al cielo, gli angeli e i santi riconoscano nella tua piccola sposa: Teresa del Bambin Gesù».
      Queste virtù infantili, che Teresa desiderava, prima di lei avevano affascinato l’austero san Girolamo che non è tacciato per questo di puerilità.
     
      Ladri di cielo
      «I miei protettori e i miei prediletti del cielo sono quelli che lo hanno rubato, come i santi Innocenti e il buon ladrone».
      «I grandi santi se lo sono guadagnato con le loro opere: io voglio imitare i ladri, voglio averlo con l’astuzia, ma astuzia d’amore che ne aprirà la porta, a me e ai poveri peccatori. Lo Spirito Santo sembra incoraggiarmi quando dice nei Proverbi: “O piccolissimo! Vieni, apprendi da me la prudenza”»8.
     
      La dimora dei piccoli
      Le parlavo delle mortificazioni dei santi e lei mi rispondeva: «Che buona cosa ha fatto il Signore ricordandoci che ci sono molte dimore nella casa del Padre suo!9. Se non fosse cosí ce lo avrebbe detto...».
      «Sì, se tutte le anime chiamate alla perfezione avessero dovuto, per entrare in cielo, praticare tali penitenze, Egli ce lo avrebbe detto e noi ce le saremmo imposte con molta serietà. Ma ci fa presente che “ci sono molte dimore nella sua casa”. E se c’è quella delle grandi anime, quella dei padri del deserto e dei martiri della penitenza, deve esserci anche quella dei fanciulli.
      «Il nostro posto è custodito là, se noi amiamo molto Lui, Gesù con il Padre celeste e lo Spirito d’amore».
      Suor Teresa del Bambin Gesù era, come si vede, un’anima molto semplice, che si è fatta santa con mezzi ordinari.
      Si capisce da ciò che una frequenza di doni straordinari nella sua vita sarebbe stata contraria a ciò che lei diceva essere il disegno di Dio su di lei. La sua vita doveva poter servire da modello alle piccole anime.
     
      I piccoli non si dannano
      «Che cosa faresti» le dicevo «se ti fosse data la possibilità di ricominciare la tua vita religiosa?».
      «Penso» mi rispose «che rifarei quello che ho fatto».
      «Tu non condividi dunque il sentimento di quel solitario che affermava: “Quand’anche avessi vissuto per molti anni nella penitenza, finché mi resterà un quarto d’ora, un soffio di vita, avrò paura di dannarmi?”».
      «No, non posso condividere quella paura, sono troppo piccola per dannarmi; i bambini non si dannano».
     
Quadro dipinto da Teresa nel 1892 e donato a Céline

      Passare sotto il cavallo
      Molto scoraggiata e col cuore che mi batteva forte per una lotta che mi sembrava insuperabile, corsi da lei dicendo: «Questa volta è impossibile, non posso farcela!». «Ciò mi stupisce», rispose; «noi siamo troppo piccole per superare le difficoltà; è necessario che vi passiamo al di sotto». E mi ricordò un episodio della nostra infanzia; eccolo: ci trovavamo in casa di vicini ad Alençon; un cavallo ci sbarrava l’entrata del giardino. Mentre le persone grandi cercavano un’altra entrata, una nostra compagnetta10 non trovò niente di più facile che passare sotto al cavallo. Passò per prima e mi tese la mano; la seguii portandomi dietro Teresa e, senza piegare troppo la nostra schiena, passammo dall’altra parte.
      E concluse: «Ecco cosa ci si guadagna a essere piccoli. Per i piccoli non esistono ostacoli, si infilano dappertutto. Le grandi anime possono passare sopra le vicende, aggirare le difficoltà, riuscire, col ragionamento o con la virtù, a mettersi al di sopra di tutto, ma noi che siamo tanto piccole, dobbiamo guardarci bene dal tentare una simile impresa. Passiamo da sotto! Passare sotto le vicende significa non dar loro troppa importanza né ragionarci sopra»11.
     
      Dirigere le intenzioni
      Durante la sua malattia, accettava le medicine più ripugnanti e le cure più penose con una inalterabile pazienza, pur costatando che ciò era inutile; non manifestava mai all’esterno la fatica che ciò comportava. Mi confidava di aver offerto a Dio tutte queste inutili cure per quel missionario che non avesse né il tempo né i mezzi per curarsi, domandando che tutto fosse utile a lui...
      Siccome le manifestavo il mio rammarico per non avere tali pensieri rispose: «Questa intenzione esplicita non è necessaria per un’anima che si è donata completamente a Dio. Il bambino prende il latte dal seno della madre per così dire meccanicamente e senza presentire l’utilità della sua azione e intanto vive e si sviluppa, senza peraltro che questo fosse nella sua intenzione». E aggiungeva: «Un pittore che lavora per il suo padrone non ha bisogno di ripetere a ogni tocco di pennello: “È per il signor tal dei tali, è per il signor tal dei tali...”; basta che egli si metta al lavoro con la volontà di lavorare per il suo padrone».
      «È bene raccogliersi spesso e dare un indirizzo alle proprie intenzioni, ma senza eccessiva costrizione spirituale. Dio intuisce i bei pensieri e le ingegnose intenzioni che vorremmo avere. Egli è il Padre e noi i suoi bambini».
      «Gesù non può essere triste per i nostri accomodamenti».
      Io le dicevo: «È necessario che io lavori, altrimenti Gesù sarà triste...».
      «Oh no, sei tu che saresti triste. Egli non può essere triste per i nostri accomodamenti12. Ma per noi, quale dolore non potergli dare tutto quello che possiamo!».
     
      Essere santa senza diventar grande...
      Per essere profondamente umile, suor Teresa del Bambin Gesù «si sentiva incapace di percorrere il duro cammino della perfezione», e si sforzò pertanto di diventare sempre più piccola, affinché Dio si prendesse completamente cura delle sue cose, e la prendesse tra le sue braccia, come succede nelle famiglie per i bambini più piccoli. Voleva essere santa ma senza diventare grande, poiché, come le piccole malefatte dei bambini non fanno adirare i genitori, così le imperfezioni delle anime umili non possono offendere gravemente il buon Dio, e gli errori non saranno imputabili loro come colpa, secondo le parole della Scrittura: «Ai piccoli si perdona per pietà»13. Di conseguenza si guardava bene dal desiderare di sentirsi perfetta e che gli altri la considerassero come tale, perché sarebbe cresciuta e Dio l’avrebbe lasciata camminare da sola.
     
«I bambini non lavorano per farsi una posizione», diceva; «se sono saggi lo fanno per far contenti i loro genitori. Allo stesso modo non occorre lavorare per diventare santi, ma per fare piacere a Dio».
     
Le sacrestane del Carmelo di Lisieux in una foto del novembre1896

      Come baciare il proprio crocifisso
      Durante la sua malattia, avendo fatto uno sbaglio ed essendomene pentita profondamente mi disse: «Adesso bacia il tuo crocifisso». Lo baciai ai piedi.
      «È lì che una bambina bacia suo padre? Via, via, si bacia il viso!». Lo baciai. Aggiunse: «E ora ci si fa baciare da lui». Dovetti appoggiare il crocifisso sulla mia guancia. Allora Teresa concluse: «Così va bene; ora tutto è dimenticato!».
     
      La ricompensa dei piccoli
      «Nostro Signore rispose una volta alla madre dei figli di Zebedeo: “Sedere alla mia destra e alla mia sinistra spetta a quelli cui il Padre mio l’ha destinato”»14.
      «Io mi immagino che quei posti scelti, rifiutati a grandi santi, a grandi martiri, spetteranno ai piccoli... Non lo predisse forse David, quando disse che il piccolo Beniamino presiederà le assemblee (dei santi)?»15.
      Le si domandò con quale nome avremmo dovuto pregarla quando fosse in cielo. «Mi chiamerete Teresina », rispose umilmente. 
  Note 
     1 Par. 2341, p. 799.
      2 Bossuet, fine del suo opuscolo sulla Manière courte et facile pour faire oraison.
      3 Citato da Giovanni Wu Ching-Hioung, già ministro della Cina presso la Santa Sede, nell’opuscolo Dom Lou. Sa vie spirituelle; un grand témoignage, Desclée de Brouwer, Parigi-Tournai 1949, p. 41.
      4 Giovanni Wu Ching-Hioung, La science de l’amour, p. 29.
      5 Ecco i riferimenti: Mt 19, 14; Mc 10, 14; Lc 18, 16; Mt18, 10 e 4; Mc 10, 16.
      6 Ecco i riferimenti completi dei due testi: Rm 4, 4-6; Is 40, 11.
      7 Messaggio dell’11 luglio 1954 durante la consacrazione solenne della Basilica di Lisieux.
      8 Pr 1, 4.
      9 Gv 14, 2.
      10 Teresa Lehoux, sette anni circa, della stessa età di Céline.
      11 La santa si rivolgeva con queste parole a delle novizie alle quali consigliava di non perder tempo ad analizzare inutilmente le difficoltà.
      12 Con «i nostri accomodamenti», suor Teresa del Bambin Gesù intendeva riferirsi allo spirito d’infanzia. Gesù non può addolorarsi per gli errori involontari, dovuti alle debolezze e alla fragilità delle anime umili e innamorate, che si abbandonano a Lui.
      13 Sap 6, 6.
      14 Mt 20, 23; Mc 10, 40.
      15 Sal
67, 28. 
     




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santi, steresina

giovedì, 12 luglio 2007

La sola cosa che conta
***

" Che individuo impossibile sono — pensò — e come sono inutile. Non ho fatto nulla per nessuno. Tanto valeva non aver vissuto mai... — Lacrime corsero sul suo viso: in quel momento non aveva paura della dannazione, perfino la paura della sofferenza fisica era in seconda linea. Provava soltanto una delusione immensa, perché doveva andare verso Dio a mani vuote, senza aver fatto nulla. Gli pareva che sarebbe stato così facile essere un santo! Ci sarebbe stato bisogno soltanto di un po' di freno e di un po' di coraggio. Si sentiva come qualcuno che per pochi secondi avesse perduto l'appuntamento con la felicità. Sapeva ora che alla fine c'era soltanto una cosa che contasse: essere un santo.”
G. GREENE  Il potere e la gloria Mondadori

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santi, greene

martedì, 30 gennaio 2007



San Nicola della Flüe
Il Padre e Patrono della Svizzera
***
di Régine Pernoud  tratto da I santi nel medioevo, Rizzoli 1986

San Nicola della Flüe è in realtà un santo straordinario, che ha instaurato, nel suo tempo, lo stato più moderno che si possa concepire, quello in cui le istituzioni democratiche funzionano - quali che siano le vicende nel corso dei tempi - in una maniera che si può considerare paradigmatica alla fine del nostro secolo XX, e che inoltre ha assicurato, in Europa, la presenza di quello spazio pacifico che è rimasta la Svizzera.
"Bruder Klaus", come è chiamato nel suo paese, è uno di quei santi che sembrano appartenere a una parte speciale dell'umanità, un po' come Giovanna d'Arco, sebbene siano bene radicati nella vita quotidiana e nella società più umile, quella dei contadini vicinissimi alla terra - ricordandoci bruscamente come questa terra sia creazione divina. E’ un semplice contadino nato nel 1417 a Flüeli, nell'Obwalden, proprio al centro della Svizzera. Appartiene a una famiglia di contadini agiati (un po' come quella di Giovanna d'Arco), e la sua casa natale è stata conservata, come quella di Domremy; è una casa costruita nello stile del paese, di legno solidamente strutturato che poggia su una base di pietra; oggi vi portano tre strade, provenienti rispettivamente da Sarnen, da Kerns e da Sachsen. Nicola conduce la vita dei contadini del posto, semplice e pia. Come gli altri, si sposa con una giovane contadina, Dorotea Wyss, che è nata sull'altra sponda del lago di Sarnen, e si stabilisce in una casa non lontana da quella dei suoi genitori. I coniugi avranno dieci figli: cinque maschi e cinque femmine; e raggiungeranno un buon livello di benessere grazie a un lavoro agricolo tenace e accanito. Nicola è illetterato, ma i suoi compatrioti gli riconoscono una saggezza che lo fa scegliere come giudice e consigliere municipale, poiché in quest'epoca si amministrano da soli, in questo piccolo paese come in molti altri. Si arriverà al punto di proporgli la carica di governatore, che però Nicola rifiuta, non giudicandosi degno ne’ capace di svolgerla bene. E invece probabile che, come gli altri contadini del posto, abbia partecipato alla difesa del suo piccolo paese contro un'incursione degli altri confederati, nel 1460.
Tutta la vita di Nicola testimonia una profonda pietà che attinge alla fonte stessa della fede, nella contemplazione della vita trinitaria, alimentata dal sacramento dell'eucaristia. Nicola, sua moglie e i loro figli vivono "come gli altri".
Un giorno, improvvisamente, Nicola abbandona il suo paese e la sua famiglia. Ha cinquant'anni. Non gli è accaduto nulla di straordinario, fuorché un appello interiore a vivere d'ora in poi nella solitudine e nella preghiera. Ciò avvenne il 16 ottobre 1467.
Dapprima vuole allontanarsi, raggiungere l'Alsazia; lo arrestano e poi lo fanno tornare indietro diverse circostanze: prima una specie di esitazione, poi l'incontro di un amico. Ritorna nel suo paese e finisce per recarsi nel Ranft, una gola solitaria nel Melchtal, situata non lontano dalla dimora della sua famiglia. Vi costruisce una piccola capanna. Ben presto i suoi compatrioti vi edificheranno spontaneamente una cappella e un romitaggio. Nicola trascorre i giorni che gli restano da vivere nella preghiera - nella preghiera, nella solitudine e anche con un'astinenza assoluta, poiché non mangia ne’ beve e si nutre solo dell'eucaristia, quando un prete viene a celebrare la messa nella cappella del Ranft. Si è diffusa la voce di questo digiuno miracoloso che pratica. Per un mese le autorità municipali incaricano delle guardie di controllare giorno e notte se non sia nutrito di nascosto da qualche suo familiare. In capo a un mese si stancano: non è stata constatata nessuna frode. In seguito sono le autorità ecclesiastiche, in particolare il vescovo Ermanno di Costanza, che vengono a rendersi conto della realtà di questa vita di astinenza totale. Pur consacrando la cappella per fratello Nicola, il prelato gli ordina di mangiare un boccone di pane e di bere un po' di vino. L'eremita si sente così male che il vescovo non insiste più. Quando gli sono rivolte domande indiscrete (poiché nasconde questo suo digiuno), quando gli chiedono se è vero che non ha mangiato né bevuto per molti anni, risponde: "Dio la sa". Di fatto lo hanno confermato tutte le testimonianze.
Una preghiera di Nicola della Flüe è stata conservata e compare in un manoscritto della fine del XV secolo. Riassume, nella sua semplicità, tutto ciò che costituisce la santità di quest'uomo:
O mio Signore e mio Dio,
allontanami da me stesso
e donami interamente a Te.
Mio Signore e mio Dio,
prendimi tutto ciò che mi separa da Te.
Mio Signore e mio Dio,
donami tutto
ciò che mi avvicina a Te
.
Il romitaggio del Ranft, così strano nella sua posizione in fondo al Melchtal, a poco a poco diventa una specie di meta di pellegrinaggi. Vengono a vedere colui che vi abita; Nicola fa quello che può per evitare le domande indiscrete, ma non sfugge le visite di coloro che gli chiedono aiuto, consiglio, assistenza per la loro vita interiore. In seguito molti hanno lasciato le loro testimonianze preziose per la storia, come Giovanni di Waldheim, scrittore conosciuto, o l'umanista Albrecht von Bonstetten, decano di Einsiedein. E così (sempre come Giovanna d'Arco, sebbene in condizioni molto diverse) Nicola della Flüe è conosciuto attraverso ogni specie di testimonianze concordanti.
In quell'epoca la vita della Confederazione Elvetica era molto agitata e perturbata. L'unione già abbozzata tra i diversi cantoni si rivelava difficile da mantenersi, di fronte all'ostilità divenuta quasi tradizionale fra i cantoni rurali e quelli urbani; i cantoni di campagna rifiutavano l'ingresso nella Confederazione alle città di Friburgo e di Soletta, poiché temevano già il potere delle città (Zurigo, Berna, Lucerna), e queste discordie interne furono notevolmente incentivate quando le guerre contro la Borgogna e il ducato di Milano ebbero apportato ricchezze insperate, ma anche nuovi motivi di litigio fra gli abitanti. Dalla distribuzione del bottino fatto a spese di Carlo il Temerario (che, come sappiamo, aveva trovato la morte combattendo contro gli svizzeri) alle alleanze sollecitate con l'Italia, l'Impero o la Borgogna, tutto era fonte di discordie, che potevano degenerare in lotte armate, come accadde a Ginevra nel 1477.
Fu in queste condizioni che, nel novembre del 1481, i delegati delle città e delle campagne svizzere si riunirono a Stans, per tentare di liquidare le diverse cause di turbamento e di elaborare un nuovo statuto per la Confederazione; l'ammissione di Friburgo e di Soletta figurava tra i principali problemi; l'assemblea discusse per parecchi giorni; i delegati tornarono nei rispettivi cantoni per ricevere nuove istruzioni, e si ritrovarono a Stans a metà dicembre.
Nessuna soluzione era sembrata accettabile, e si affrontavano più che mai diversi campi; si considerava la possibilità dello scontro armato. Il 21 dicembre tutti i delegati lasciavano l'assemblea, tornavano nelle loro locande e si preparavano alla partenza fissata per l'indomani.
Faceva parte dell'assemblea il curato di Stans. Senza parlarne con nessuno, lo stesso giorno (21 dicembre) prese la strada del Ranft. Si chiamava Heini am Grund, e riteneva che solo un uomo potesse ristabilire l'accordo di tutti: l'eremita del Ranft. La mattina del 22 dicembre, quando i delegati per lo più erano già montati a cavallo per partire, ricompare il curato Heini am Grund; grondava sudore, poiché aveva cavalcato tutta la notte. Corse dietro a quelli che se ne andavano, supplicò tutti i delegati, "con le lacrime agli occhi, di volersi nuovamente riunire, in nome di Dio e di fratello Nicola, per sentire la sua opinione e il suo consiglio". A lungo si è creduto che Nicola della Flüe si fosse allora presentato di persona all'assemblea; la cronaca di un testimone oculare, Diebold Schilling, riferisce invece che Nicola aveva solo affidato un messaggio al curato di Stans, ma questo messaggio ci è stato comunicato integralmente, ed è anche riferito dal verbale della dieta di Stans: "
Rinunciate alle alleanze particolari che possono solo ingenerare dissensi; rammentate i servigi che vi hanno reso Friburgo e Soletta; ammettetele nel grande Corpo elvetico. Un giorno vi rallegrerete di avere seguito il mio consiglio... Litigate tra voi per il bottino: cari amici, dividete le terre conquistate seguendo il numero dei cantoni, e il resto del bottino secondo il numero degli uomini... Unitevi con un comune vincolo di amore di fedeltà e di ordine".
Un cronista scrive: "Prima di mezzogiorno le cose andavano malissimo, ma grazie a questo messaggio migliorarono molto, e nello spazio di un'ora tutto fu perfettamente risolto e regolato". Alle cinque pomeridiane di quel 22 dicembre la pace era conclusa; era stabilito il nuovo statuto della Confederazione dei dieci cantoni, ed era assicurata la pace tra essi. In tutto il paese, in quel giorno vicino a Natale, le campane si scatenarono per annunciare la notizia: "Fratello Nicola ha fatto bene le cose... " ripeteva la gente del popolo, e il cancelliere di Soletta, Giovanni di Stali, se ne faceva eco: "Voi avete ristabilito la pace, la calma e l'unione in tutta la Confederazione".
A distanza di tempo si è potuta apprezzare l'importanza del consiglio dato da fratello Nicola, eremita del Ranft: scartando a priori le alleanze straniere, ha consentito la neutralità della Svizzera, per secoli interi e fino a oggi.
Ciò ha avuto l'effetto - in occasione delle guerre più spaventose, quelle del nostro secolo XX - di assicurare, proprio al centro dell'Europa, uno spazio di pace, il solo in grado di accogliere, nel 1918-1919, i delegati di tutte le nazioni che avevano conosciuto carneficine così crudeli. In altri termini, quella Società delle Nazioni (…), avrebbe mai potuto essere riunita in una località diversa da Ginevra, con la protezione del governo svizzero? Nicola della Flüe è stato l'uomo della pace per eccellenza, l'artefice di una pace durevole, e anche di più:
oggi è riconosciuto come il padre della patria sia dalla Svizzera protestante che da quella cattolica. Tardi, del resto, poiché è stato canonizzato solo il 15 maggio 1947 (nel giorno dell'Ascensione).



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santi

sabato, 13 gennaio 2007

Essere una cosa sola in Dio
Essere una cosa sola con Dio: questa è la prima cosa. Ma una seconda ne segue immediatamente. Se nel corpo mistico Cristo è il capo e noi le membra, allora noi siamo membra gli uni degli altri e tutti insieme siamo una cosa sola in Dio, una vita divina. Se Dio è in noi e se egli è amore, allora non possiamo che amare i fratelli. Per questo il nostro amore del prossimo è la misura del nostro amore di Dio.
Ma si tratta di un amore diverso dall’amore naturale per gli uomini. L’amore naturale si dirige verso questo o verso quello, verso chi è a noi legato da vincoli di sangue, da affinità di carattere o da interessi comuni. Gli altri sono "estranei", di essi "non ci importa alcunché", anzi possiamo addirittura provare avversione nei loro riguardi a motivo della loro indole, per cui ci guardiamo bene dall’amarli.
Per il cristiano non esiste alcun "estraneo". Nostro "prossimo" è chi sta via via davanti a noi e ha più bisogno di noi, sia egli o meno nostro parente, ci "piaccia" o no, sia "moralmente degno" o meno del nostro aiuto. L’amore di Cristo non conosce confini, non viene mai meno, non si ritrae di fronte all’abiezione morale e fisica. Cristo è venuto per i peccatori e non per i giusti. E se il suo amore vive in noi, allora agiamo come lui e andiamo dietro alla pecorella smarrita.
L’amore naturale tende ad avere per sé la persona amata e a possederla nella maniera più indivisa possibile. Cristo è venuto per riportare al Padre l’umanità perduta; e chi ama col suo amore vuole gli uomini per Dio e non per sé.
Questa è naturalmente nello stesso tempo la via più sicura per possederli eternamente: quando infatti abbiamo posto in salvo una persona in Dio, siamo con lei in Dio una cosa sola, mentre il desiderio di conquistarla conduce spesso - anzi prima o poi sempre - alla sua perdita. Ciò vale per l’altrui anima come per la propria e per ogni bene esteriore: chi si dedica alle cose esteriori per conquistarle e conservarle, le perde. Chi ne fa dono a Dio, le guadagna.
Edith Stein[Testo tratto da: La mistica della croce - Scritti spirituali sul senso della vita, Città Nuova 1985, p.64

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santi, cristianesimo, stein

mercoledì, 10 gennaio 2007

San Giuseppe Moscati

Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
 

Verso la fine di ottobre del 1987 si chiudeva a Roma il Sinodo generale dei Vescovi che per quasi due mesi avevano discusso sul te­ma della «vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo».
Il problema era stato molto dibattuto, anche al di fuori del Sino­do, e non erano mancate certe dure polemiche perché esso faceva emergere con radicalità una questione grave e urgente, quella della «identità cristiana»: che cosa vuol dire oggi essere cristiani, senza ag­gettivi o ruoli specifici, collocati esattamente là dove tutti gli altri uomini vivono e costruiscono la storia?
Prima che i Vescovi se ne partissero da Roma — nonostante che le conclusioni del dibattito non fossero state ancora tratte — il Papa decise di intervenire, in modo indiretto ma denso di significato, of­frendo come esempio la figura e l’esperienza di un cristiano, laico ap­punto.
Procedette dunque a una canonizzazione, introducendola così:
«L’uomo che oggi invocheremo come Santo della Chiesa universale si presenta a noi come un’attuazione concreta dell’ideale del cristia­no laico: Giuseppe Moscati, medico primario ospedaliero, insigne ri­cercatore, docente universitario di fisiologia umana e di chimica fi­siologica….».

Non molti, a dire il vero, conoscevano Moscati: la maggior par­te, tra Vescovi e fedeli, si accontentò di veder confermato un punto essenziale dell’insegnamento conciliare: che anche i laici, cioè, sono chiamati alla santità e possono realizzarla nel mondo, nell’esercizio della loro professione secolare.
Qualcuno sapeva qualcosa di più e poteva predicare a lungo sulle particolari virtù di questo nuovo santo, soprattutto quelle oggi più apprezzate: amore ai poveri, disinteresse a tutta prova, coerenza evangelica, sacrificio di sé...
Pochissimi però — anche tra gli esperti — sono stati disposti a confrontarsi con un dato irriducibile e particolarmente urtante: la concezione di «laicità» vissuta e difesa da Moscati.
Diciamolo subito a chiare lettere: dal punto di vista «laicale» Moscati si comportò nel modo esattamente opposto a quello insegna­to da tutti coloro che si affannano a descrivere esattamente i limiti entro i quali un laico deve restare: Moscati non ebbe limiti, non ri­spettò distinzioni.
Gli intellettuali cattolici oggi amano molto l’imprecisa formula maritainiana che insegna a «distinguere per unire». Altri suggerisco­no più correttamente di «distinguere (piuttosto) nell’unito». E tutti intendono dire che bisogna saper collegare assieme con prudenza ciò che appartiene alla fede e ciò che appartiene alla scienza, ciò che ap­partiene alla «Chiesa» e ciò che appartiene al «mondo», ciò che è do­vuto alla propria professione cristiana e ciò che è dovuto alla propria professione sociale.
Ebbene, noi non vogliamo dire che questi problemi non siano veri o non siano importanti.
Diciamo semplicemente che se Moscati ebbe un carisma e un compito nella Chiesa, esso fu quello di mostrare una tale unità tra i vari campi (prima e oltre ogni possibile distinzione) da rasentare l’in­credibile: nessuno oggi oserebbe imitarlo nel modo con cui egli in­trecciava insieme scienza e fede, professione umana e professione cristiana, cura del corpo e cura dell’anima. Anzi, questi aspetti della sua vita vengono raccontati con disagio, vengono minimizzati dai biografi. Insomma, inserire veramente l’esempio di Moscati nell’at­tuale dibattito sulla laicità si rivela come una operazione dirompente e non priva di umorismo.
Ma iniziamo pure da quel che è più ovvio: la conferma della vocazione universale dei cristiani alla santità: tutti possono diventare santi.
Giovanni Paolo II, canonizzando Moscati, non ha detto ai laici di imparare in primo luogo le sue virtù morali, ma di imparare a ri­flettere sulla propria vocazione: «La Chiesa, ponendo davanti ai no­stri occhi la figura di Uno elevato alla gloria degli altari..., dice a tut­ti i laici: “considerate la vostra vocazione!”».
Anche noi comunque cominceremo raccontando gli esempi mo­rali che il Santo ci ha lasciato, ma lo faremo ricordando costante­mente che i suoi atteggiamenti virtuosi sono come le annotazioni scritte sulla sua carta d’identità: servono a identificarlo, ma non so­no la sua identità. L’identità emergerà piuttosto da questo volto per­sonale, da quel cuore, in cui si evidenzierà il suo modo di considerare il rapporto medico-malato come evento integrale di salvezza cri­stiana.
Giuseppe Moscati nasce nel 1880, a Benevento. Ha appena un anno di vita quando il papà, magistrato, viene trasferito ad Ancona e poi (quando Peppino ha solo 4 anni) alla Corte d’Appello di Napoli.
Napoli sarà dunque la sua città: dove riceve la prima Comunio­ne, si iscrive al ginnasio, dà la maturità classica e si laurea in medici­na nel 1903.
Una infanzia e una giovinezza assolutamente normali, in una f a­miglia veramente cristiana, nella quale non mancano le sventure: il papà muore improvvisamente quando Peppino si è appena iscritto all’università; qualche anno dopo, in seguito a lunga malattia, gli muore un fratello che ha solo 32 anni. La carriera medica di Giusep­pe Moscati durerà 24 anni, poiché egli muore nel 1927, ad appena quarantasette anni di età.
Vince il concorso per Aiuto straordinario agli Ospedali Riuniti di Napoli nel 1903. Durante l’eruzione del Vesuvio gli è affidata la responsabilità dell’ospedale di Torre del Greco, da cui porta in salvo i malati a rischio della sua stessa vita.
Nel 1908 è Assistente ordinario nell’Istituto di Chimica fisiolo­gica.
Nel 1911 diventa Aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti, vin­cendo un concorso a cui partecipano i più colti medici e docenti del Mezzogiorno, dato che è un concorso atteso da trent’anni. Moscati è il più giovane e vince superando ben due futuri direttori di clinica universitaria. E nominato socio della Regia Accademia Medico-chi­rurgica. Nello stesso anno ottiene la Libera Docenza in chimica fi­siologica e praticherà l’insegnamento in ospedale per più di 12 anni.
Nel 1919 è nominato Primario della tu Sala degli Incurabili.
Nel 1922 una Commissione appositamente nominata dal mini­stero della Pubblica Istruzione gli conferisce anche la Libera Docen­za per titoli in clinica medica generale.
Nel 1923 è inviato quale rappresentante del Governo italiano al Congresso internazionale di fisiologia, a Edimburgo.
Abbiamo voluto rileggere in modo scarno e ridotto il curriculum della sua carriera professionale proprio per far percepire — col sem­plice scandire date, titoli e specializzazioni — una vita tesa intelligen­temente a ciò che qualunque studente di medicina sogna per sé, an­che se in forme e indirizzi diversi. Aggiungiamo solo che — se Moscati l’avesse soltanto voluto — la Facoltà di Medicina di Napoli era pronta ad offrirgli la cattedra in Chimica fisiologica.
Una esposizione simile potremmo fare elencando i titoli delle sue pubblicazioni scientifiche: dalla tesi di laurea, giudicata degna di pubblicazione, che aveva a tema «L’ureogenesi epatica», agli ultimi due articoli scritti per la Riforma medica (rivista di cui era redattore per le lingue inglese, tedesca, francese e spagnola): un articolo «Sul cosiddetto antagonismo tra surrenale e pancreas» e uno su «Le vie linfatiche dall’intestino ai polmoni».
Ma in che cosa dunque Moscati, che seppe percorrere così bril­lantemente e velocemente la sua carriera professionale, maturò una particolare santità?
Dobbiamo anzitutto ripensare al tempo in cui egli visse. Scrive giustamente un suo biografo: «La figura di Moscati deve essere in­quadrata nel clima culturale dominato dal positivismo che dilaga ne­gli ultimi anni dell’800 e nei primi del ‘900. Egli fece parte del grup­po di laici che, nonostante la tendenza del momento, contribuirono in modo determinante a far riscoprire nel mondo la vitalità e la pe­renne giovinezza della Chiesa».
 
Il documento che introduce la sua causa di beatificazione (du­rante la quale furono raccolte tutte le testimonianze che lo riguarda­no) inizia con una osservazione interessante, soprattutto perché risa­le all’immediato dopoguerra: «Il Servo di Dio visse in questo nostro tempo in cui per colpa del laicismo, come si usa dire, la massa della gente è stata strappata dalla Chiesa, la fede è stata separata e messa in opposizione alla scienza, la professione della fede cristiana è stata separata dalla professione delle arti liberali e dagli impegni civili ed è stata relegata nel chiuso degli invisibili confini della coscienza. Con­tro tale nefastissimo laicismo la Divina Provvidenza suscitò laici esi­mi che, dotati di spirito apostolico, in qualche modo potessero eser­citare e aiutare il sacerdozio (sacerdotalia munera), esimi dottori che in se stessi mostrassero mirabilmente l’unione di fede e scienza, esi­mi cittadini che nella propria professione, professando ognuno aper­tamente la fede, eccellessero tra tutti per probità, e fossero di som­mo giovamento alla società».
Il merito di questa impostazione — che i successivi biografi ebbe­ro il torto di trascurare — è quello di individuare bene il cuore della testimonianza di Moscati, evitando di presentarlo subito, e astoricamente, come il «medico santo» solo per il suo comportamento disin­teressato, per la sua modestia, per la sua sobrietà, o per l’essersi mes­so a servizio gratuito dei più diseredati.
Certo, anche questi aspetti furono splendidi e commoventi e non vanno affatto trascurati, ma, a insistere su di essi, si rischia di osser­vare e amare il colore e la forma dei fiori senza prendersi cura della radice che li nutre.
Cominciamo pure, comunque, da questi ricordi più immediata­mente affascinanti.
Celebre era, tra i colleghi di Moscati, il suo assoluto disinteresse per il denaro. Ecco la significativa testimonianza di un medico che spesso lo osservò nell’esercizio della professione: «Egli, che amava vedere negli ammalati la dolorosa figura di Cristo, non voleva rice­vere denaro e di ogni offerta soffriva visibilmente.
Se visitava dei ricchi o dei benestanti, certo accettava il denaro dovuto, ma la sua preoccupazione — davanti a se stesso e davanti a Dio — restava tuttavia quella di non essere mai un approfittatore».
Ecco una lettera indirizzata alla moglie di un paziente: «Egregia Signora, vi restituisco parte dell’onorario perché mi sembra che mi abbiate dato troppo. Certo, da altri, che fossero pescecani, io pren­derei di più, ma da uomini di lavoro, no. Spero che Dio vi doni la gioia della guarigione di vostro marito. E fate che costui non si allon­tani da Dio e frequenti la fonte della salute (la santa Comunione). Vi saluto. G. Moscati».

Un giorno venne chiamato ripetutamente al capezzale di un ra­gazzo quindicenne di cui egli si prese cura fino alla completa guari­gione. Quando tutto fu finito ricevette una busta con l’onorario. La aprì mentre tornava a casa e si accorse che conteneva una somma al­lora notevole: mille lire. Lo videro tornare bruscamente indietro, sa­lire agitato le scale e tendere nervosamente la busta con queste paro­le: «O voi siete pazzi o mi avete preso per un ladro».
I parenti pensarono che il celebre professore fosse scontento d’a­ver ricevuto troppo poco e il padre del ragazzo, impacciato, gli tese un altro biglietto da mille. Ma il professore non solo scartò con im­pazienza quella nuova offerta, ma, aprendo il portafoglio, restituì ot­tocento lire affermando che duecento erano più che sufficienti. Poi se ne andò tutto contento, lasciando esterrefatti gli astanti.
Se dunque i ricchi se lo contendevano per la sua fama di diagno­stico, i poveri gli si riversavano addosso perché sapevano che non sa­rebbe stato chiesto loro nulla, o addirittura ci avrebbero guadagna­to. Nei casi più dolorosi infatti Moscati giungeva fino a mettere lui qualche banconota in mezzo alla ricetta, o sotto il cuscino del pa­ziente di cui intuiva le condizioni disagiate, soprattutto quando s’ac­corgeva che la malattia era provocata o aggravata dalla denutrizione.
A volte provvedeva lui stesso all’acquisto delle medicine che aveva prescritto o a pagare la retta dell’ospedale per chi non ne avrebbe avuto la possibilità.
Un giorno un collega che l’aveva accompagnato per una visita gli fece osservare, a nome della categoria, che il suo disinteresse per il denaro li metteva tutti in difficoltà, ma la risposta che ne ebbe — nel quasi dialetto napoletano che Moscati normalmente usava — fu assai espressiva: «Peppì, scusate: ‘lla ce sta ‘na mamma che piange per la salute del figlio e vuie me venite a parla’ ‘e solde!».
Lo si poteva chiamare nei quartieri più malfamati, nei vicoli bui dove era pericoloso anche solo avventurarsi, in quegli androni fati­scenti dove era costretto a farsi luce con un cerino, ed egli non rifiu­tava mai di recarvisi. Se lo si metteva in guardia rispondeva: «Non si può avere paura, quando si va a fare del bene».

Lo incontrò un amico di sera, al Vomero, in piazza Vanvitelli, lontano dal solito giro. Gli chiese cosa stesse facendo da quelle parti:
«Sai — disse Moscati ridendo — vengo ogni giorno a fare da sputac­chiera per un povero studente».

Si trattava di un giovane che viveva solo in una camera d’affitto, malato di TBC, anche se non in fase contagiosa. Se i padroni l’avesse­ro saputo, l’avrebbero cacciato sulla strada, e allora Moscati veniva ogni sera a portar via i fazzoletti pieni di catarro per bruciarli, e ne lasciava di puliti.
In casa Moscati, la sorella che lo assisteva riceveva tutti i suoi guadagni e li amministrava con l’impegno di trattenere il necessario per vivere decorosamente e di destinare il resto ai bisognosi. Lo stes­so professore tornava dalle visite portando con sé gli indirizzi delle famiglie povere che aveva incontrato, li passava alla sorella e le dice­va di provvedere.
Un episodio tra tutti è di una tenerezza e di una bontà senza pari.

C’era un vecchietto povero e solo, che un tempo era stato com­positore di canzoni (in quegli anni a Napoli furono composte le più celebri melodie!): le sue condizioni erano critiche anche se non di­sperate e il male poteva aggravarsi improvvisamente. Avrebbe avuto bisogno di controlli quotidiani, ma Moscati non glieli poteva garan­tire, assorbito com’era dal lavoro in ospedale. Si misero d’accordo così: tutte le mattine il vecchietto si faceva trovare in un caffè, lungo la strada che Moscati percorreva per recarsi in ospedale e lì consuma­va (a spese del Professore, s’intende) una bella tazza di latte caldo e biscotti. Il Professore passava, metteva dentro la testa, controllava che egli fosse presente, gli sorrideva e se ne andava in fretta. Se qual­che mattina non lo vedeva, allora sapeva di doverlo raggiungere al più presto nel suo tugurio fuori mano, per soccorrerlo.
I racconti si potrebbero moltiplicare, ma non devono far dimen­ticare che la carità di Moscati non era quella di un tranquillo bene-fattore, ma quella di un medico di prestigio alle prese con una pro­fessione stressante, lacerato da richieste molteplici: come studioso doveva aggiornarsi, fare esperimenti di laboratorio, scrivere relazio­ni scientifiche; come medico la sua presenza era necessaria sia all’o­spedale, sia nelle case dei privati che gli inviavano continue richieste e sollecitazioni; come libero docente doveva preparare lezioni, inse­gnare, seguire il lavoro dei discepoli e — in tutto questo e al di là di tutto questo — c’era la sua decisione «cristiana» di non sottrarsi mai alle richieste dei più poveri.
Alla sua morte prematura gli amici parleranno della sua «fatica quotidiana, a tutte le ore, senza riposo, senza tregua, senza respiro». A chi gli chiedeva come facesse a resistere, rispondeva semplicemen­te: «Chi fa la Comunione tutte le mattine ha con sé un’energia che non viene mai meno».
A testimonianza delle sue capacità mediche possiamo ricordare il suo incontro col celebre tenore Enrico Caruso. Questi tornava nella sua Napoli dopo che a New York durante un concerto era stato stroncato da una emorragia. Aveva consultato, in America, i più illu­stri clinici; lo stesso aveva fatto a Roma, e nessuno era riuscito a far­gli una diagnosi utile. Finalmente era giunto da Moscati. Era ormai troppo tardi e gli restavano solo due mesi di vita, ma l’intuito del medico napoletano diagnosticò subito che si trattava di un ascesso subfrenico.
Tutti dovettero poi dargli ragione, anche se era una scienza or­mai inutile per il quarantottenne tenore che era partito povero da Napoli e vi ritornava nel 1921 con un patrimonio valutato più di cin­quanta milioni d’allora.
Non gli servì la scienza di Moscati, ma gli servì la sua fede. Egli infatti non esitò a dire a Caruso «che aveva consultato tutti i medici, ma non aveva consultato Gesù Cristo».

E il tenore rispose: «Professore, fate quello che volete».
Ed egli si preoccupò che gli portassero in tempo gli ultimi sacra­menti, assistendolo fraternamente fino alla fine.
Torniamo per ora alla sua fama di medico.

«Giungeva — testimoniò un suo collega — a sfumature diagnosti­che che sbalordivano discepoli e maestri».
Basterà dire che colui che allora era considerato da tutti il Mae­stro dei maestri — quell’Antonio Cardarelli che era divenuto in Italia una istituzione — considerava Moscati come suo discepolo prediletto («il migliore che ho avuto in sessant’anni», diceva), lo aveva scelto come suo medico personale e a volte si commuoveva fino alle lacrime quando lo osservava nell’esercizio dell’arte medica.
A parte le visite ai malati e l’enorme clientela che giungeva da tutto il meridione e letteralmente lo soffocava, il suo ininterrotto la­voro aveva luogo nelle corsie dell’ospedale, che egli percorreva attor­niato dai suoi discepoli, ai quali insegnava medicina direttamente dalla osservazione dei malati («trattava anche gli studenti del primo anno come ‘colleghi’ e non mancava mai di chiedere la loro opi­nione»).
Soleva dire: «Vicino all’ammalato non ci sono gerarchie. Tutti veniamo qui per apprendere: direttori, coadiutori, assistenti, siamo tutti presso il letto dell’infermo, perché l’ammalato rappresenta il li­bro della natura».
La lezione continuava poi nell’anfiteatro anatomico.
L’istituto anatomo-patologico era allora in decadenza: nessuno voleva occuparsene e Moscati aveva accettato di curarne a titolo gra­tuito «la riorganizzazione e il razionale funzionamento». Sulla parete d’ingresso c’era un vecchio motto scelto dal fondatore, a cui nessuno prestava più molta attenzione. Diceva: «Hic est locus ubi mors gau­det succurrere vitam», «questo è il luogo in cui la morte è lieta di po­ter soccorrere la vita».
Moscati cominciò col far appendere a quelle spoglie pareti un bel crocifisso e, sotto, la scritta: «O mors, ero mors tua», «O morte, io sarò la tua morte!». Con questa promessa del Risorto, Moscati ri­scattava quel luogo definito da tutti «malsano, disadorno, gretto, op­primente».
Quando il gruppo entrava e si disponeva attorno al professore, egli guardava un attimo la croce e tutti si accorgevano che stava si­lenziosamente pregando; poi cominciava a sezionare iniziando sem­pre con qualche richiamo breve ma assai esplicito: «Qui finisce la su­perbia dell’uomo! Ecco che cosa siamo! Come è istruttiva la morte!». Oppure, indicando il cadavere, diceva: «Mentre l’altro giorno costui era un nostro paziente, oggi vediamo alcuni organi che gli apparten­nero... Se voi giovani faceste di tanto in tanto la considerazione del­la morte, sareste molto più buoni».
Così quell’istituto, che era — come egli amava sempre ripete­re — «il luogo in cui noi medici controlliamo le nostre diagnosi e i no­stri errori», nonostante la modestia dei locali e l’insufficienza dei mezzi tecnici, raggiunse a detta di tutti «il suo massimo splendore dal punto di vista scientifico».
I discepoli che seguivano quotidianamente Moscati letteralmen­te lo veneravano e molti lo accompagnavano fino a casa, continuan­do per via a discutere con lui e a interrogano. Uno di loro rievoca commosso la scena divenuta familiare a Napoli: «Lo portavamo in processione come se fosse un santo». E quasi tutti finivano, dopo il giro domenicale nelle corsie, per accompagnarlo a Messa.
Il professore stesso scriveva in una lettera: «Ho formato come una comunità religiosa di frati: i miei amici e io lavoriamo insieme con emulazione, con idealizzazione. Siamo tanto sentimentali! Iddio ci guida. Ho creduto che tutti i giovani [...] avessero il diritto di per­fezionarsi leggendo un libro che non fu stampato in caratteri, nero su bianco, ma che ha per copertina i letti ospedalieri e le sale di labo­ratorio, per contenuto la dolorante carne degli uomini e il materiale scientifico, libro che deve essere letto con infinito amore e con gran­de sacrificio per il prossimo» (11 settembre 1923).
E aggiungeva: «Ho pensato che fosse debito di coscienza istruire i giovani aborrendo dall’andazzo di tenere misterioso gelosamente il frutto della propria esperienza, ma rivelarlo loro...».

Questa concezione quasi monastica della propria vocazione e della comunità ospedaliera ci rimanda a un’altra caratteristica della laicità di Moscati, ad una novità.
In un tempo in cui le vocazioni si dividevano in forma piuttosto netta (o matrimonio o convento), Moscati scelse di restare nel mon­do, completamente laico — senza particolari appartenenze a istituti religiosi, nemmeno come «terziario» — ma scegliendo coscientemen­te la condizione verginale.
In un biglietto che la sorella raccolse dal cestino della carta strac­cia leggiamo una specie di confessione che egli scrisse per se stesso:
«Mio Gesù amore! Il vostro amore mi rende sublime; il vostro amore mi santifica, mi volge non verso una sola creatura, ma a tutte le crea­ture, all’infinita bellezza di tutti gli esseri, creati a vostra immagine e somiglianza».

Trattare Gesù come una persona cara, alla quale ci si rivolge con le parole più affettuose e con la quale si esperimenta una intimità bruciante, sembra ridicolo ai nazionalisti di tutti i tempi e sembra anche a molti cristiani un’esperienza possibile solo nella penombra mistica dei monasteri.
Ma che questo possa accadere nel mondo, là dove il lavoro diven­ta per molti l’unico dio e dove le preoccupazioni scientifiche e mate­riali sembrano invadere anche lo spirito, questo è per il mondo un in­terrogativo che si apre direttamente sul mistero del Figlio di Dio, di­venuto «nostro prossimo»: al quale cioè possiamo dare con somma verità tutti i nomi più familiari.
Racconta un sacerdote che ascoltava spesso la sua confessione:
«Richiesto da me che cosa avesse pensato in una tramvia affollatissi­ma dove c’eravamo trovati insieme e aveva anche pagato per me il biglietto, mi rispose: “A Dio, padre, al cielo”».

«Amare Dio senza misura nell’amore, senza misura nel dolore»; questa era la massima che identificava assieme sia la sua missione di medico cristiano, sia lo sguardo con cui osservava i malati. Eppure i tempi, allora, e l’ambiente non erano per nulla facili.
Ecco alcune testimonianze tratte dai processi di beatificazione:
«Il servo di Dio subiva la lotta di tutti i medici iscritti alla massone­ria per la sua aperta professione cristiana e anche di quelli che vede­vano in lui un competitore valentissimo, benché di giovane età».

Questo odio massonico contro Moscati aveva dunque un risvolto inconfessabile («la gelosia e l’invidia di chi non sapeva tollerare la su­periorità scientifica di lui») e un motivo ufficialmente sbandierato con acre insistenza.
Dice un testimone: «Era disprezzato, motteggiato da quelli che non vedevano bene la sua franca, schietta e coraggiosa professione di fede cattolica: lo chiamavano maniaco, isterico, esaltato, fanatico».
Altre ingiurie che gli gettavano addosso (e qualche collega più ar­rabbiato faceva in modo che gli giungessero all’orecchio, quando passava) erano quelle di «fanatico, iettatore, pazzo da manicomio, medico di preti e suore».
Moscati viveva, dunque, in un ambiente frequentato da medici di dichiarata appartenenza massonica e di aperta professione mate­rialista, ed egli lo sapeva benissimo. Anzi quando era in gioco la veri­tà e la giustizia ne parlava senza mezzi termini.
«Io — scriveva in una lettera — sono una stella di infima grandez­za in mezzo a tanti astri brillanti e sarò contento di eclissarmi, se pe­rò saranno gli astri illuminati a sorgere e non alcune fiacche nebu­lose..
Nei concorsi chiedeva che non ci fossero «né compromessi, né manovre traverse..., ma solo riconoscimento del valore assoluto al­l’infuori di età, di scuola, di sette».
In una lettera da lui indirizzata a Benedetto Croce, allora mini­stro della Pubblica Istruzione, Moscati caldeggiava la nomina alla Cattedra di Igiene di un collega da lui ritenuto il più idoneo e non ebbe paura di scrivergli: «So che un pezzo altissimo della Massoneria vuol venire a ingrossare il numero dei ‘fratelli’ nella Facoltà che è di­venuta per questi ultimi una casa grande».

Certi testimoni dicono esplicitamente e senza mezzi termini sull’atteggiamento che la setta aveva verso Moscati: «volevano distrug­gerlo, annientarlo».
Ma notavano anche che la lotta non lo scalfiva neppure: «Tutti sapevano — dice un testimone — che il Professor Moscati era come un sacerdote, e la lotta fattagli dai massoni medici e dagli altri colleghi materialisti non l’ha mai abbattuto... Soleva dirmi: “Che cosa m’im­porta degli altri? Il mio pensiero è contentare Dio”».

Del resto vedremo tra breve che la professione di fede del Mo­scati era pubblica in modo quasi intollerabile, tanto che oggi verreb­be forse criticata anche dai credenti più pii e integristi.
Nei processi canonici, durante i quali i suoi atteggiamenti sono stati minuziosamente analizzati e giudicati, la domanda ricorrente del giudice ecclesiastico (nemmeno tanto velata) è questa: «Moscati era un maniaco religioso?». «No rispondono tutti i testimoni — era equilibrato, attento, rispettoso». E tuttavia aveva della sua profes­sione medica un’idea — e conseguentemente una prassi — certo non usuale.
Il problema consisteva in questo: Moscati era assolutamente convinto «che il medico non deve guardare solamente la salute del corpo dell’infermo, ma anche sopperire ai bisogni del malato e della sua famiglia, sotto qualunque aspetto si potesse considerare il bisogno».
Perciò egli si era imposto quell’ atteggiamento caritatevole verso tutti i bisognosi di cui abbiamo parlato. Ma con la stessa inesorabile logica egli considerava come prioritario il bisogno spirituale dei pa­zienti e la cura delle loro anime.
Esprimiamoci con assoluta chiarezza. Dice un testimone: «I ma­lati sapevano che per essere curati da Moscati bisognava frequentare i Sacramenti». E ancora: «A tutti i malati domandava se erano in grazia di Dio, se frequentavano i Sacramenti, se erano in regola con la loro coscienza. Insomma, curava prima l’anima e poi il corpo degli infermi che andavano da lui».

Moscati sosteneva tranquillamente che nell’ospedale «missione di tutti» — suore, infermieri, medici — era «collaborare alla misericor­dia di Dio».
La suora del suo reparto doveva anzitutto interessarsi della situazione spirituale del paziente in modo da poterne avvertire il pro­fessore: il quale, mentre esercitava la sua arte medica con tutta la bravura e la dedizione possibile, riusciva a far percepire al malato la globalità del suo problema, l’integralità del suo bisogno, e quasi sem­pre riusciva a portarlo con ferma dolcezza a un desiderio di guarigio­ne intesa davvero come «salvezza».
Espressioni come «confessatevi», «mettetevi in grazia di Dio», «accostatevi al Signore», «pensate all’anima immortale», «Dio è il padrone della vita e della morte» entravano o prima o poi nelle indi­cazioni «sanitarie» che Moscati dava ai suoi pazienti, soprattutto quando si accorgeva che la loro vita era in pericolo e in pericolo era il loro destino eterno. Il fatto è che, quando le usava, gli volevano già così bene che quasi sempre le accettavano con riconoscenza, e molti gli obbedivano.
A un illustre avvocato milanese, dopo aver fatto la diagnosi sul suo stato di malattia, consegnò una lettera in cui gli indicava il nome di un prete della sua città «perché si mettesse in pace con Dio, sicco­me da anni se ne era allontanato, altrimenti non avrebbe potuto cu­rargli il corpo».
A un altro che, dopo un mese di cura, non sembrava reagire alla terapia, disse candidamente: «Voi non vi siete confessato, perciò non guarite. Iddio così ve lo ricorda».
A chi si meravigliava del suo stile spiegava così: «E mia abitudi­ne di parlare agli infermi di altre cose oltre il corpo, perché essi han­no anche un’anima... La cosiddetta psicanalisi di Freud è una cura; che cosa è la psicanalisi? È la confessione fatta al medico per scardi­nare le idee fisse. Ma questo va bene per i paesi protestanti dove non c’è la confessione: presso di noi c’è la confessione cattolica».

A un giovane, la cui più grave malattia sembrava l’assoluta man­canza di spina dorsale, diede una ricetta su cui c’era scritto: «Cura di Eucaristia».
È difficile per noi immaginare come Moscati coniugasse la cura dello spirito con quella del corpo (da notare che egli introduceva il problema, poi rimandava i «malati d’anima» a qualche prete di sua conoscenza, e si interessava personalmente che l’incontro avesse luogo).
In una lettera a un collega Moscati scrive: «Beati noi medici se ricordiamo che oltre i corpi abbiamo di fronte delle anime immortali per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi. Lì è la soddisfazione e non nel sentirci proclamare risanatori di un male fisico» (E aggiungeva con un pizzico di ironia: «Soprattutto quando la coscienza ci ammonisce che il male fisico guarisce da sé!»).

«È il medico dei corpi e delle anime», diceva di lui Bartolo Lon­go — il costruttore del Santuario di Pompei, anch’egli oggi Beato— quando si faceva visitare.
In molte lettere si vede come il Professore inculcasse questi prin­cipi nei suoi allievi: «Abbiate, nella missione affidatavi dalla Provvi­denza, vivissimo il senso del dovere: pensate cioè che i vostri infermi hanno soprattutto un’anima a cui dovete sapervi avvicinare, e che dovete avvicinare a Dio; pensate che vi incombe l’obbligo di amore allo studio, perché solo così potete adempiere il grande mandato di soccorrere l’infelicità. Scienza e fede!» (16 luglio 1926).
«Ricordatevi che non solo del corpo vi dovete preoccupare, ma delle anime gementi che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il consiglio e ricorrendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni da inviare al farmacista» (1923).

A un paziente raccomandava: «Vi prego di ricordarvi dei giorni vostri d’infanzia e dei sentimenti che vi tramandarono i vostri cari, la vostra mamma; tornate all’osservanza e vi giuro che, oltre il vo­stro spirito, ne sarà nutrita la vostra carne: guarirete con l’anima e con il corpo, perché avrete preso la prima medicina, l’infinito amo­re» (23 giugno 1923).
Ma bisogna insistere nel ricordare che Moscati non faceva il gua­ritore o il santone: faceva il medico e lo faceva alla perfezione, ma era parimenti convinto d’avere davanti soprattutto un’anima im­mortale.
Mai tuttavia deviava nello spiritualistico, trascurando il corpo. A una suora che lo voleva trascinare a una sacra funzione durante l’orario di lavoro rispose brusco: «Suora, Iddio si serve lavorando».

E a una pia signora, che rifiutava di curarsi perché diceva che le
bastava pregare, ribatté: «Per la vostra anima vale più fare una sola iniezione per la vostra malattia che dire molte preghiere».

La personalità integrale di Moscati emerse, sotto gli occhi di tut­ti i suoi colleghi, anche di quelli dei suoi nemici, in un episodio che restò celebre negli annali di Napoli.
Era il febbraio 1927 (due mesi prima della morte di Moscati, che nulla faceva allora prevedere). Veniva a Napoli, per parlare a un con­gresso medico, il celebre professor Leonardo Bianchi: era stato tito­lare della cattedra di Psichiatria e Neurochirurgia, prima a Palermo, poi a Napoli. Era stato Ministro della Pubblica Istruzione, poi Mini­stro della Difesa e Vicepresidente della Camera dei Deputati. A 75 anni aveva pubblicato il libro La meccanica del cervello. Inoltre era uno tra i più noti massoni che appena qualche anno prima aveva te­nuto una pubblica conferenza contro Gesù Cristo.
Il settantanovenne professore parlò davanti a un’aula gremita di medici e docenti ed ecco che, mentre scrosciano gli applausi, egli si accascia al suolo. C’erano presenti medici specialisti per ogni urgen­za e tutti si accostarono, compreso Moscati. Ma ascoltiamo diretta­mente la testimonianza del santo: «Non volevo andare a quella con­ferenza essendomi da lungo tempo allontanato dall’ambiente dell’U­niversità, ma quel giorno una forza sovrumana, alla quale non seppi resistere, mi ci spinse... Si avverò quello che dice la parabola del Vangelo che i chiamati all’undicesima ora avranno la stessa ricom­pensa di quelli chiamati alla prima ora del giorno. Sento ancora ora l’impressione di quello sguardo (del morente) che cercava me tra tan­ti docenti convenuti... E Leonardo Bianchi sapeva bene i miei senti­menti religiosi, conoscendomi fin da quando io ero studente. Gli corsi vicino, gli suggerii parole di pentimento e di fiducia, mentre egli mi stringeva la mano, non potendo parlare...».

Proviamo a immaginare, in quel tempio della Massoneria che era allora l’Università di Napoli, non solo l’inaudito ingresso di un prete con i Sacramenti (fatto chiamare da Moscati), ma la scena del vec­chio massone morente fra le braccia del più santo dei medici mentre costui recita a voce chiara l’atto di dolore e il Credo.
Questi era Moscati.
E potremmo riportare la testimonianza scossa, sconvolta quasi, di altri notissimi esponenti della cultura e della medicina che, fre­quentando questo insolito tipo di cristiano (da notare che con Mo­scati si poteva parlare di filosofia, di arte, di letteratura, di musica, di teologia, di urbanistica, e sempre con profitto e godimento intel­lettuale), divennero pensosi sulla propria identità e sul proprio de­stino.
Un altro celebre medico napoletano, il Castellino, non «creden­te», disse di lui: «Era una delle creature più care, che amava vivere nel colloquio continuo con Cristo che forza i sepolcri e vince la morte».

Un altro medico disse: «Fu la più perfetta incarnazione che io abbia mai conosciuto della carità di cui parla san Paolo nella lettera ai Corinzi».

Tutti sanno quale sia stata la posizione di Benedetto Croce. Ebbe­ne, il filosofo abitava in un’alta mansarda da cui tutte le mattine vede­va passare Moscati che frettolosamente si recava in ospedale. Spesso i due si incontravano e chiacchieravano assieme. A volte non c’era tem­po e allora il filosofo dal balcone lo chiamava da buon napoletano:
«Don Peppino non te capisco, perché corri tanto? Dove vai? Che speri di raggiungere...? Tutto viene a tempo».
E poi, rientrando, alla sua domestica diceva: «Fossero tutti così i cattolici.., tutti come don Peppino!».

Chi era dunque quest’uomo che a se stesso, nelle pagine del suo diario diceva: «Ama la verità, mostrati quale sei e senza infingimenti e senza paure e senza riguardi. E se la verità ti costa persecuzione, e tu accettala; e se (ti costa) il tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacri­ficio».

Giungiamo così a quel problema fondamentale da cui siamo par­titi senza volerlo risolvere in anticipo: che cos’è la laicità cristiana? Quest’uomo, che la Chiesa ha posto sugli altari, l’ha compresa in un modo, con uno stile, che oggi, in un ospedale, non usa più neanche il cappellano deputato all’assistenza dei malati. Era un vero laico? O era un laico che assumeva indebitamente il ruolo del prete? Il suo vo­ler «curare anche l’anima» era una pretesa assurda e integrista o era una profezia? In che senso lo si può oggi proporre come esempio di laicità cristiana?
Noi non possiamo qui affrontare il problema dal punto di vista di una completa riflessione teologica, richiamando i necessari princi­pi e conducendo le opportune analisi.
Possiamo dare per ammesso che c’è in Moscati anche qualcosa di unico e irripetibile: non è copiando i suoi modi di fare (atteggiamen­ti, indicazioni, espressioni) che lo si può imitare, ma comprendendo anzitutto il lavoro che la grazia di Dio ha operato in lui: un lavoro di «unificazione», di «integrazione» a cui la creatura si rende totalmen­te disponibile: questo lavoro bisogna anzitutto desiderare per sé, ad esso bisogna anzitutto disporsi con grande umiltà e ascesi.
Viviamo in un’epoca in cui noi cristiani siamo diventati abilissi­mi a «distinguere»: natura e soprannatura, chiesa e mondo, fede e ra­gione, rivelazione e scienza, evangelizzazione e promozione umana, unità e pluralismo, ecc. Ma queste attente distinzioni dovrebbero es­sere applicate da un soggetto, da un «io» così totalmente appartenen­te a Cristo, così organicamente innestato nella Chiesa che le distin­zioni gli servono ad esprimere solo i diversi metodi secondo cui flui­sce e si dilata e si applica una stessa e identica carità. Invece troppo spesso le distinzioni servono come alibi intellettualistico per nascon­dere e giustificare una identità incompiuta o timida o faticosamente aggiustata, se non addirittura disgregata.
E così ogni tanto Dio decide di offrirci delle «forme» integrali, dei modelli cristiani talmente integri che si vorrebbe quasi accusarli di integrismo, se non fosse che l’unità della «forma cristiana» irrag­gia da ogni parte. Qui possiamo solo delineare per punti successivi la «forma compiuta» a cui Moscati si lasciò condurre ed educare.

1.    Essere chiamati all’esistenza ed essere chiamati a una missione dovrebbero per il cristiano diventare una sola cosa, come lo fu per Gesù, il cui «io» consisteva totalmente nel «lasciarsi mandare» dal Padre, nel fare totalmente la sua volontà. Spesso invece queste due «vocazioni» (all’esistenza e alla missione) restano due mondi separati che cercano faticosamente di restare almeno allacciati tra loro.
Moscati ebbe la grazia di sentire e vivere la vocazione di medico come totalmente espressiva del senso e dello scopo della sua esisten­za, ed essa ricoprì tutto il suo essere ed esistere.
Ancora diciassettenne, alla madre che gli prospettava le difficol­tà e i pericoli della professione medica rispondeva: «Che dite, mam­ma, io sono pronto a coricarmi nel letto stesso del malato!».

E la madre che lo conosceva bene aveva commentato, come per un presagio: «Per alleviare le sofferenze dei malati diventerà lui stes­so un martire!».

Le biografie di Moscati testimoniano concordemente che egli considerò la professione medica come una vocazione e una missione che dovevano «esaurirlo» anche fisicamente, perché soltanto così il progetto di Dio avrebbe potuto compiersi. E perciò egli accettava semplicemente e totalmente quell’essere avvolto e tirato da ogni par­te che a volte, con un umorismo non privo di sofferenza, egli chia­mava il «mastodontico groviglio di guai in cui mi trovo da mille parti ingrovigliato».
Confessava ad un amico: «Mi riduco a notte inoltrata per scri­vervi. Vi assicuro che non ho nemmeno il tempo di mettermi le mani nei capelli. Ospedale, laboratori, lezioni ufficiali, lezione mia di se­meiotica e di clinica, baraonda di malati gravi, impressionati, mi ten­gono tutto per loro e mi inibiscono per altre cose» (gennaio 1919).

E, per quanto disponibile fosse il professore, doveva lottare quo­tidianamente con un carattere nervoso, pronto a scattare e a diven­tare insofferente verso ogni contrattempo: ma sempre pronto a ri­prendersi, a lasciarsi «limare», «rifinire», quasi, dalle circostanze sempre più catturanti. Morì, improvvisamente, nella piena maturità, appena terminata una visita, senza nemmeno poter avere per sé un attimo di conforto e di aiuto.
È un giudizio su tutte quelle situazioni in cui i cristiani si ritrag­gono dal fare la volontà di Dio, dal lasciarsi «usare come servi inuti­li» proprio perché percepiscono la loro missione nella Chiesa e nel mondo come qualcosa di «informe», di aggiunto quasi alla loro esi­stenza, alla loro persona, e perciò restano ultimamente incerti, no­stalgici di altre possibilità, dubbiosi della validità del loro stato (ver­gini che vorrebbero essere coniugati, coniugati che vorrebbero esse­re «diversamente» sposati o addirittura vergini, chierici che vorreb­bero essere laici e laici che vorrebbero essere chierici, professionisti che sognano una situazione a loro più confacente e dove potersi fi­nalmente esprimere, e molte altre cose simili): un giudizio su tutte quelle esistenze che non si versano totalmente sulla missione loro af­fidata, e su tutte le pretese «missioni» scelte come fuga dai propri di­sagi esistenziali.

2. Esistenza e missione del cristiano sono anzitutto affezione a Cristo, calda adesione personale a Lui come persona vivente (non co­me idea le o come «causa a cui rifarsi»). Soprattutto di ciò la condi­zione verginale è segno bruciante nel mondo.
Ogni amore per il prossimo deve essere riflesso di questa prima «prossimità» offerta da e a Cristo Signore. Per un cristiano l’amore dei prossimo o ha una radice «verginale» (nasce tutto dalla apparte­nenza personale a Cristo) o è solo un tentativo psicologico di rintrac­ciare Cristo, affaticando moralisticamente la propria affettività.
Moscati, a questa nostra epoca (per la quale la carità sociale sem­bra essere addirittura un’obiezione a Cristo), viene a ricordare che la carità cristiana ha un’origine e una identità esplicita: è la carità di Cristo, che deve struggere il cuore dei suo discepolo, come diceva san Paolo.
Nessuno, guardando la vita e le opere di Moscati, poteva dubita­re che egli amasse personalmente e dichiaratamente Cristo. A chi ri­fiutava il Signore Gesù, Moscati appariva come un maniaco da com­battere e da eliminare. Ma se uno «riconosceva» Cristo (anche timi­damente) e ancora lo «ricordava» (anche tra le nebbie di una fede un tempo posseduta), allora Moscati con le sue «opere di carità» glielo raffigurava in modo bruciante, persuasivo, convincente. E nessuno poteva sbagliarsi, nemmeno per un attimo, pensando che si trattasse di una fortunata naturale bontà dei professore.
L’impegno ascetico-caritativo era per Moscati il presupposto, la
carta di credito, il «titolo» che gli dava occasione di annuncio inte­grale a favore dei suo Signore Gesù: si staccava dal denaro per poter parlare di tutto senza ambiguità, si faceva tutto a tutti per poter in­dicare Colui che era «tutto», lasciava che gli «consumassero questa vita» per avere il diritto di parlare della vita eterna. Arrivava fino a chiedere al malato che invece dei soldi gli desse il regalo di accostarsi alla Eucaristia, di tornare alla fede perduta.

«Gli chiesi una volta perché avesse rinunciato all’onorario offer­togli da un ammalato facoltoso, che versava in gravissime condizioni e che era un gran peccatore, ed egli mi rispose: ‘Lo convertirò’ ».

Moscati ha insegnato con una evidenza abbagliante che — con­trariamente a quanto oggi si pensa e si insegna — l’amore dei prossi­mo è vero solo quando è tutto teso, da ogni direzione, a un esplicito amore di Cristo (Dio-fatto-prossimo).
L’impegno professionale-ascetico-caritativo o è per un laico il modo con cui egli «fonda» il suo annuncio integrale a favore di Cri­sto (dare tutto Cristo a tutti gli uomini), oppure perfino le sue opere buone verranno risucchiate via, consumate da coloro che ne appro­fittano per lasciarsi ancor più cullare nella loro spirituale pigrizia e indifferenza.
Se chi opera per Cristo pensa di poterlo fare anonimamente, tan­to più sarà lecito restare anonimo a chi riceve il frutto di questa stes­sa opera. Da ciò può derivare l’attuale paradosso di una Chiesa e di un laicato che sviluppano un grande potenziale di impegno profes­sionale e caritativo e del fatto che tuttavia la fede viene progressiva­mente meno proprio là dove i cristiani sembrano più vivere e ope­rare.
Secondo Moscati: bisogna compiere «opere e opere» di carità per potersi permettere di essere integri neii’annuncio di Cristo, e biso­gna essere integri nell’annuncio di Cristo perché le opere di carità non anneghino in una vaga filantropia di cui si serve anzitutto con scaltrezza proprio chi vuoi rassodare se stesso e il mondo nei rifiuto di Cristo.

3.    Quanto più la carità è veramente cristiana (nei senso in cui
l’abbiamo descritta) tanto più essa tende a unificare dall’interno la coscienza dell’uomo, manifestando così una forza onniavvolgente: fa emergere legami impensati, rivela possibilità quasi sconosciute, pro­duce energie a tutto campo. I diversi «piani» della realtà non vengo­no integristicamente negati, ma ha luogo una inattesa fluidità, per cui il naturale si versa «naturalmente» nel soprannaturale e il sopran­naturale «soprannaturalmente» si apre al naturale.
Nella vita di Moscati tale fluidità si manifesta in varie direzioni, alle quali possiamo solo accennare.

a. Dal punto di vista dell’arte medica possiamo dire che le sue ca­pacità professionali vennero incredibilmente potenziate. E ciò in due sensi. Da un lato sembrava che la fede (il modo cristiano di osser­vare il malato) acuisse le sue già notevolissime doti diagnostiche: da­va persino l’impressione di «indovinare», di «vedere» le malattie del corpo, di percepirle da segni impercettibili che stupivano i colleghi. Dall’altro lato tale intuizione penetrante scendeva a una tale profon­dità che egli diagnosticava spesso anchè le malattie dell’anima.
Egli stesso confessò: «È tale l’intuito chiaro che mi concede il Si­gnore che non mi sembra possibile trattenerlo, e non rare volte vedo anche le deformità delle loro anime».

Accadevano episodi che a volte spaventavano lui stesso. Un gior­no tornò a casa turbato e raccontò alla sorella: «Sai cosa mi è accadu­to oggi? E venuta da me una signora con la figlia. La signorina pote­va avere ventiquattro o venticinque anni. Guardandola le ho detto:
‘Signorina, lei non ha ancora fatto la prima Comunione!’. Da alcune lacrime mi sono accorto che la cosa era vera. Poi ho fissato la signora e le ho detto: “Signora, lei convive con un sacerdote apostata”. Sai, era tutto vero e non riesco a spiegarmi come ho fatto!».

La sorella dovette consolarlo e dirgli che si trattava certamente di un caso, come a volte ne accadono.
Sia per quanto riguarda la malattia fisica che per quanto riguarda la malattia spirituale, egli sembra dunque dotato di un di più (analo­go a quello che il Vangelo racconta di Cristo!). Ma occorre intender­ci bene: in Moscati questo di più non appariva tanto come qualcosa di miracolistico, di meccanicamente aggiunto alle normali capacità mediche: appariva invece come una sorta di miracolo di unificazio­ne. Per spiegare: era come se la sua persona, dopo aver percorso tut­to il campo della scienza (il cui studio era continuo e indefesso) e do­po aver percorso anche tutto il campo della maturazione spirituale che gli era possibile, si trovasse collocata nel punto di innesto di que­sto duplice itinerario: là dove il suo sguardo poteva ugualmente spa­ziare in ambedue le direzioni, e farne una sintesi.
A un certo punto della vita, in Moscati, scienza e fede mostraro­no non solo la loro non-contrarietà ma la loro identica struttura di carità: il loro essere aspetti diversi di quell’unica intelligenza di amo­re che ci ha assieme creati e redenti.
Quando si fu ben collocato nella «carità», Moscati si trovò ad es­sere sia un grande medico anche in forza della sua fede, sia un gran­de credente anche in forza della sua scienza.

Dal punto di vista del paziente l’unificazione operata dalla ca­rità fece percepire a Moscati il binomio malattia-guarigione come re­lativo a tutto l’essere umano, anticipando tutte le più recenti acqui­sizioni della scienza. Ha detto Giovanni PaoloII nel discorso di ca­nonizzazione che egli fu «anticipatore e protagonista di quella uma­nizzazione della medicina avvertita oggi come condizione necessaria per una rinnovata attenzione e assistenza a chi soffre».
Certo, negli ultimi decenni, molti medici sono diventati sempre più perplessi sulle possibilità di curare un uomo come se fosse solo «una malattia» o un organo malfunzionante. Ci si è anche dedicati alla cura della psiche, sviluppandola purtroppo solo in forme paralle­le e per tentativi, «per scuole», che spesso trattano anche la psiche come una parte malata (da raggiungere spesso a costo di incredibili manipolazioni e amputazioni).
La «carità» di Moscati gli fece intravedere tale unità del paziente e nel paziente e lo rese duro nel rivendicare la dignità del malato.
Quando si parlò della clinicizzazione degli ospedali, voluta da Gentile, egli scrisse una lettera all’amico Benedetto Croce per prote­stare contro «i decreti che dispongono della carne umana come di mercanzia» e da cui gli «ammalati sono sbattuti come titoli in borsa».
Scrive in una recensione: «Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità».

Eppure anche qui bisogna fare un passo ulteriore: Moscati non era preoccupato solo dell’unità somatico-spirituale dell’uomo, e di una visione integralmente umana della malattia, ma ciò gli sembrava il minimo indispensabile per un ulteriore affondo sull’integrum del­l’uomo. La cura dell’unità psico-fisica doveva spingersi fino alle ulti­me profondità spirituali, fino all’ultima sofferenza dell’anima, fino all’ultima esigenza di felicità, con un deciso orientamento ultrater­reno.
Dal punto di vista della medicina il problema malattia-guarigio­ne doveva essere considerato percependo sia l’unità del «male» (fino al male-peccato), sia l’unità della salute (fino alla salute-salvezza), sia l’unità tra chi opera nei diversi campi (unità, non semplice distribu­zione dei ruoli), sia infine l’unità delle strutture in cui il bisogno di guarigione viene accolto e trattato.
Moscati non solo percepì la sua professione in stretta connessio­ne con quella del sacerdote, ma, nella situazione del suo tempo, ten­tò di coprire misericordiosamente e intelligentemente tutto lo spazio che conduceva fino al ministro del perdono di Dio e della vita so­prannaturale. Ciò che egli fece da solo, in una situazione e in un tempo in cui l’istituzione si disinteressava totalmente della profonda identità dei pazienti, può oggi essere riproposto a livello di progetto.

Alla lettera piena di gratitudine di un discepolo medico che lo la­sciava per un primo incarico, Moscati rispondeva lasciandogli in ere­dità questo ricordo: «Non la scienza ma la carità ha trasformato il mondo... Ho sempre vivo nel cuore il rammarico di sapervi lontano e solo mi conforta che abbiate conservato in voi qualcosa di me; non perché io valga nulla, ma per quel contenuto spirituale che mi sforzo di trattenere e di diffondere intorno. Io vi tengo presente, siatene sicuro. Vi bacio in Cristo!».
Forse adesso capiamo perché il cardinale Roncalli, quando lesse la vita di Moscati, lo definì Lumen ecclesiae, luce della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, da lui voluto, avrebbe detto poi che il compito della Chiesa è «riflettere nel mondo quella Luce delle Genti (Lumen Gentium) che è Cristo».
Ebbene, questo la Chiesa potrà farlo solo se i suoi laici impare­ranno a far risplendere quotidianamente tale luce sul loro volto.
Mentre, il giovedì santo del 1927, il corteo funebre si snodava per le vie di Napoli, con un immenso seguito di docenti, di studenti e di umile gente, un vecchietto si avvicinò al tavolino posto nell’an­drone di casa Moscati e sul registro delle condoglianze scrisse con mano tremante: «Noi lo piangiamo perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di ogni virtù, e i malati poveri hanno perso tutto».



Postato da: giacabi a 20:51 | link | commenti
santi, san g moscati

martedì, 09 gennaio 2007

Beato Pier Giorgio Frassati
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
 C’è voluto recentemente un sinodo dei vescovi e poi un documento del Papa (Christifideles laici) per cercare di definire l’identità del laico cristiano, ma essa non è ancora chiarita nell’intelligenza e nella coscienza di molti. Tanto è vero che appena si mette a tema questa " identità " si osserva subito un violento ribollire di sentimenti e di risentimenti: ognuno teme di vedere messe in crisi le sue appartenenze culturali, sociali , politiche, partitiche e perfino " ecclesiali " (dato che proprio su tale questione la Chiesa è oggi dolorosamente divisa).
Cercherò di esporre qui il problema con semplicità, usando di una sola breve formulazione
: questo secolo, a partire dai primi fondamentali vent’anni, ha messo sempre più in triste evidenza che la scristianizzazione, di cui tutti parlano, non riguarda tanto il deterioramento morale della vita, quanto direttamente la fede (ecco perché il Papa parla spesso del bisogno di una " nuova evangelizzazione "): il disfacimento riguarda il soggetto popolare cristiano che, in quanto tale, non si sente più responsabile (socialmente e globalmente responsabile) della verità di Cristo e della verità che è Cristo.
Di conseguenza, per non aver sufficientemente badato a questo, per aver trascurato che la fede, ricevuta in dono si facesse cultura (impregnasse cioè l’anima stessa della società), ogni altro sforzo di risanamento etico e di impegno caritativo non è stato in grado di impedire la scristianizzazione del nostro popolo.
La tragedia è consistita in questo: che ciò che pur esplodeva come carità e apostolato (si pensi a tutto l’immenso lavoro del volontariato laicale, al molteplice impegno socio-politico dei cristiani e a tutto l’impegno assistenziale messo in atto dalle congregazioni religiose) veniva sistematicamente risucchiato via da una progressiva perdita di fede di tutto il popolo cristiano senza distinzioni apprezzabili (devastando perfino lo stesso mondo " religioso " e " teologico ").
Sono contraddizioni storiche su cui spesso ci si rifiuta ostinatamente di interrogarsi, per una sorta di complesso di colpa che si preferisce censurare. Il tentativo più penoso di rimozione è quello di chi vuole attribuire questa " sconfitta " a un’opera di necessaria purificazione: al fatto cioè che i cristiani hanno dovuto imparare a distinguere tra Chiesa e mondo, natura e grazia, fede e ragione, vocazione ecclesiale e vocazione laicale, cristianesimo e politica, ecc.
Non possiamo qui dimostrare l’inconsistenza suicida di queste spiegazioni e di queste scuse, divenute per altro ostinato patrimonio comune. Ciò ha provocato anche dei tentativi paradossali: c’è chi cerca oggi tra i santi alcuni " campioni di laicità cristiana ", ma quando pensa di averli trovati è poi costretto a manipolarli per far coincidere la vita e l’esperienza di questi nuovi santi con le proprie distinzioni ideologicamente prefabbricate.
Se poi si va a guardare nei fatti, ci si accorge che di tante distinzioni, divenute oggi di moda, questi " santi " sono completamente ignari, anzi le trascurano allegramente. E che la loro vita e’ una continua contestazione di chi crede che " laicità cristiana " voglia dire realizzare sapienti equilibri e sapienti trasfusioni tra appartenenza al mondo e appartenenza alla Chiesa.
È ciò che abbiamo visto nei riguardi dì S. Giuseppe Moscati, è ciò che accade con Pier Giorgio Frassati, beatificato il 20 maggio 1990. Una tra le più recenti biografie che gli sono state dedicate si conclude praticamente con queste parole: " Pier Giorgio semplicemente si era comportato da laico nella Chiesa e da cristiano nel mondo ": quattro concetti incrociati per collocare esistenzialmente una sola persona, la quale oltretutto si sarebbe molto meravigliata di un simile linguaggio. La verità è che il giovane Frassati ha compreso la sua " laicità cristiana " in un modo che è esattamente agli antipodi di ciò che oggi intenderebbero o vorrebbero alcuni che si presentano come eredi della sua " memoria ".
Non ci resta che raccontare, andando alla prova dei fatti, i quali dimostrano con sconcertante evidenza che il termine " laico " e il termine " cristiano " si equivalgono in maniera assoluta per la persona del battezzato, quando costui non abbia ricevuto una particolare vocazione ministeriale o di speciale consacrazione, che esigono di essere ulteriormente precisate.
Pier Giorgio nasce a Torino il sabato santo (6 aprile) del 1901 da una ricca famiglia borghese di stampo liberale: la madre, Adelaide Ametis una nota pittrice; il padre, Alfredo Frassati, nel 1895, a poco più dì trentasei anni, ha fondato il quotidiano La Stampa; nel 1913 è il più giovane senatore del Regno e nel 1922 è ambasciatore d’Italia a Berlino. Insomma i Frassati sono allora una delle tre o quattro famiglie che contano in quella Torino che si va trasformando in metropoli ricca di industrie e soggetta a massicce immigrazioni operaie.
Ma se la situazione della famiglia è confortevole e stimolante dal punto di vista del prestigio sociale, essa è invece triste dal punto di vista dei legami affettivi. Padre e madre vivono un accordo difficile e assai formale, mantenuto unicamente per il decoro e per i figli: il papa è sempre occupato " altrove ", tra i grandi problemi del giornale e della vita pubblica, la mamma si ripaga con brillanti relazioni sociali e con un sistema educativo rigido e freddo. I testimoni la definiscono come " una donna moderna, in anticipo persino sul suo tempo per l’estrema liberalità delle idee ". Liberalità che comunque non riguarda i figli: Luciana, la sorella ancora vivente di Pier Giorgio, ha raccontato che la loro infanzia, mai veramente vissuta, trascorse come un " maldefinito incubo in quella vasta casa signorile che a volte sembrava " una triste caserma ".
Per decenni è stato di moda presentare questo santo giovane universitario come modello di freschezza e di purezza, di gioia di vivere, di rigore fisico e spirituale e di ricca generosità verso i meno privilegiati, nonché di impetuoso impegno socio-politico. Ma si sono trascurati e taciuti troppo gli aspetti di passione e di crocifissione (quelli che soli permettono di vivere come " risorti ") che stanno sullo sfondo quotidiano della sua vita e della sua morte.
Torniamo per ora agli inizi del suo itinerario spirituale. La famiglia gli trasmise soprattutto un sistema di regole e di doveri (il che in se stesso non è certo un male, ma può essere piuttosto triste), sistema che attraverso la madre si riallacciava a una comprensione genericamente cristiana della vita, mentre attraverso il padre si riallacciava a una bontà naturale, priva però di fede. La vita cristiana Pier Giorgio l’assorbì immergendosi spontaneamente e per scelta personale nelle acqua viva che la Chiesa di allora gli offriva: di quella Chiesa, nella quale non mancavano limiti e problemi, egli si sentì " parte ", membro attivo, tralcio attaccato alla vite come dice il Vangelo, in cui sempre scorre buona linfa.
Si resterebbe sorpresi a elencare tutte le " associazioni " a cui Pier Giorgio volle iscriversi, spesso contro il parere dei suoi familiari, partecipandovi poi attivamente e assumendovi responsabilità. I nomi di queste associazioni possono sembrarci oggi desueti e pietistici, ma non devono farci dimenticare che allora essi indicavano i nuclei vivi di una Chiesa in fermento: Apostolato della preghiera, Lega eucaristica, Associazione dei giovani adoratori universitari (con l’impegno dell’adorazione notturna ogni secondo sabato del mese), Congregazione mariana terz’ordine domenicano, e altre ancora. E queste sono soltanto alcune " appartenenze " attraverso le quali egli si educò soprattutto alla preghiera, cioè a possedete un cuore cristiano, una memoria, un desiderio, una " mendicanza " assoluta del suo essere.
Potremmo dedicarci a descrivere le pratiche e gli impegni che quelle associazioni comportavano, ma l’aspetto più importante è di osservare che li sua persona non si perdeva né si frantumava in mille piccoli pezzi o in mille piccole devozioncelle, ma si strutturava integralmente in modo da non lasciare spazi vuoti o deboli o meschini.
Soprattutto, ogni cosa aveva un centro: la Comunione quotidiana.
" Sei un bigotto? ", gli chiese un giorno qualcuno in università (così allora si ingiuriavano i credenti, sia dal versante massonico-liberale, che da quello fascista, che da quello social-comunista).
" No, rispose Pier Giorgio restituendo il colpo con bontà, ma con altrettanta fermezza, no, io sono ‘rimasto’ cristiano! ".
Infatti tutta quella preghiera generava in lui una passione certa per tutta la realtà ed egli, con la stessa intensità, viveva il dovere e il piacere di appartenere ugualmente ad associazioni culturali, sportive, sociali, politiche, fino a quel " partito popolare " che allora nasceva come speranza per l’impegno e l’identità anche politica dei credenti.
Nel 1919, ancora minorenne, Pier Giorgio si iscrisse al circolo universitari " Cesare Balbo ", che comprendeva anche una " Conferenza di San Vincenzo ". Ecco come descrivono l’ambiente alcuni soci di allora:
Il circolo era secondo me muffito e poco interessante e la presenza era più che altro giustificata dal fatto di poter giocare al biliardino.
E un altro:
Tanto al " Cesare Balbo " quanto al pensionato cattolico dove abitavano c’erano moltissimi bravi ragazzi, ma un centinaio di essi almeno non facevano che parlare di avventure femminili mentre altri, ipocriti o bigotti, apparivano dei veri chierici mancati.
È una buona descrizione del perché si è assistito nei decenni passati al crollo di certo associazionismo cattolico e alla devitalizzazione di gran parte di oratorii parrocchiali.
Frassati e alcuni amici decisero perciò di prendere in mano il circolo. In un volantino di autopropaganda si proposero come responsabili:
Studenti! volete svecchiare e rinsanguare il circolo? volete che esso viva di vita sua e cristianamente audace al di sopra di ogni rancidume quarantottesco e codino? Affidatene le sorti ai seguenti colleghi: Borghesio, Oliviero, ... Frassati.
Quella recente biografia a cui abbiamo accennato, spiega che Pier Giorgio stava allora con i più progressisti e porta questa testimonianza:
Era sempre all’opposizione, non capiva i mezzi termini, le misure blande, diplomatiche, pur necessarie a volte per dirigere una barca con in equipaggio così numeroso e difficile come quello di un circolo universitario. Era massimalista, avrebbe voluto applicate alla lettera il Vangelo e talvolta era un po’ rude e angoloso. Non ammetteva deviazioni, gli accomodamenti erano contrari al suo carattere e non era il tipo del malleabile.
Mistero delle parole: oggi persone di tal genere sono definite " reazionarie ed integriste ". Pier Giorgio viene invece fatto passare per " progressista ". Ciò non basta per nascondere un fatto evidente: che egli non è stato proprio un esempio di " laicità " nel senso in cui oggi viene diffuso e propagandato questo valore.
È il caso perciò di vagliare bene questo tipico " progressismo " che si è disposti a riconoscere solo ai santi. Abbiamo a disposizione una serie di episodi.
Nel settembre 1921 a Roma si tiene il Congresso nazionale della gioventù Cattolica Italiana, nel 50° anniversario della fondazione. Sono presenti più di trentamila giovani. La messa dì domenica 4 settembre è prevista al Colosseo, dove convergono le schiere provenienti da tutta l’Italia: ogni gruppo con la sua bandiera. Ma la liberal-massonica Questura fece trovare schierate le guardie a cavallo per impedire la celebrazione e i giovani furono costretti a rifluire a Piazza S. Pietro, dove la celebrazione poté aver luogo sul sagrato, seguita poi da una udienza nei giardini Vaticani. Quando poi dal Vaticano i giovani decisero di recarsi all’altare della Patria al canto alternato di " Fratelli d'Italia " e " Noi vogliam Dio ", la Questura decise ancora ai disperdere a forza il corteo.
Ecco una testimonianza che riguarda il nostro " santo " giovane;
Pier Giorgio tiene alta con le due mani la bandiera tricolore del circolo Cesare Balbo. All’improvviso sbucano dal portone di Palazzo Altieri, dove erano accantonate, circa duecento guardie regie agli ordini del più settario funzionario di polizia che io abbia mai conosciuto. Grida: " Addosso coi moschetti, togliete le bandiere! ". Pare che abbiano a trattare con belve. Picchiano coi calci dei moschetti, afferrano, strappano, spezzano le nostre bandiere. Le difendiamo come possiamo con le unghie e con i morsi. Vedo Pier Giorgio alle prese con due guardie che tentano di strappargli la bandiera... Ci spingono nel cortile del Palazzo che funziona da camera di sicurezza... Intanto a piazza del Gesù lo spettacolo bestiale continua… Un sacerdote è buttato letteralmente nel cortile con l’abito talare strappato e una guancia insanguinata. Al nostro grido di protesta ci sono nuovamente addosso con i calci dei moschetti... Insieme ci inginocchiammo per terra, nel cortile, quando quel prete lacero alzò il rosario e disse: " Ragazzi, per noi e per quelli che ci hanno percosso, preghiamo!".
La rivista Civiltà Cattolica, in quel tempo in cui si usava chiamare le cose col loro nome, raccontando i fatti li spiegò così: " La setta, inviperita da così inattesa dimostrazione di fede, ne volle un primo ricatto ". E ancora: "Il fatto, dovuto a mene torbide di setta e di partito... ". E definisce le cronache distorte che allora ne diedero il Giornale d’Italia e il Resto del Carlino come opera di " certi giornalisti più abbietti e più settari ".
L’indomani i giovani cattolici dovevano nuovamente recarsi a S. Pietro e Pier Giorgio con i suoi riattraversò la città portando in trionfo i mozziconi di bandiera spezzata e strappata a cui aveva appeso un grande cartello con la scritta: " Tricolore sfregiato per ordine del Governo ".
Un fatto " progressista ", come si vede. Comunque se ne parlò in tutta Italia. Racconta un amico di Pier Giorgio:
Mentre si faceva un gran parlare di lui, egli si mostrava riluttante alle congratulazioni che da ogni parte gli venivano. Quelle lodi gli sembravano strane perché non poteva comprendere come un giovane cattolico in quella circostanza potesse agire in modo diverso.
L’anno seguente venne varata la legge che proibiva l’insegnamento religioso nelle scuole, proprio mentre a livello associativo cattolico ci si lamentava della " deplorevole disorganizzazione " degli studenti. A Torino Pier Giorgio scrisse una lettera ai soci del circolo " Milites Mariae ", cui egli apparteneva come delegato degli studenti. Scrisse:
I nostri giovani hanno bisogno di una speciale istruzione adatta alle loro forze e di una solida base apologetica per far fronte ai continui pericoli, ai quali sono esposti frequentando le scuole pubbliche purtroppo molto corrotte... Noi che per grazia di Dio siamo cattolici non dobbiamo sciupare le nostre vite... Noi dobbiamo temprarci per essere pronti a sostenere le lotte che dovremo certamente combattere per il compimento del nostro programma.
Pier Giorgio chiede esplicitamente: " preghiera continua ", " organizzazione e disciplina ", " sacrificio delle nostre persone e di noi stessi e offrì la possibilità di " un doposcuola dove (gli studenti) completeranno quella cultura che ora la scuola statale così poco seria non può dare, nello stesso tempo saranno istruiti nelle questioni religiose e filosofiche".
Concludeva:
Mentre vi ringrazio di quanto farete, certo che sarete ricompensati largamente nella vita, vi saluto cristianamente. Evviva Gesù! Il delegato degli studenti. Pier Giorgio Frassati.
Sul finire di quello stesso anno la FUCI espose nella sua bacheca al Politecnico l’avviso per una adorazione notturna all’Eucarestia. Evidentemente l’avviso " sporgeva " tra i mille avvisi multicolori che, nelle altre bacheche, parlavano di danze, veglioni e divertimenti, e così gli anticlericali decisero democraticamente di andare a strapparlo, e la voce si sparse.
Racconta un amico:
Ricordo Pier Giorgio, ritto davanti alla bacheca con un bastone in mano, e attorno una canea urlante ai cento studenti. Insulti, minacce, percosse non valsero a smuoverlo. Il numero ebbe però il sopravvento. La bacheca andò in pezzi e l’avviso fu bruciato.
Comunque la distruzione delle bacheche e degli avvisi era divenuta un vizio, dato che se ne incaricavano puntualmente gli anticlericali del circolo Giordano Bruno. Più di un " fucino ", gia allora, parlava della necessità di mantenere buoni rapporti e dì intavolare trattative. Frassati non ammetteva mezzi termini: " Io farei a pugni. Abbiamo o no il diritto di difendere la nostra bacheca, o soltanto loro hanno il diritto di romperla? Gli altri sostenevano che non era comunque possibile star li a far continuamente la guardia, ma Pier Giorgio era sbrigativo:
" Io dico che bisogna dare una lezione ".
In un’altra occasione, per le feste pasquali, aveva fatto affiggere nel cortile dell’università un avviso sacro. Lo strapparono. Pier Giorgio lo copiò a mano e lo rimise " con progressione geometrica ", fino a raggiungere il numero di 64 copie.
Fin dagli inizi del 1920 quando cominciarono le agitazioni operaie, accompagnava come guardia del corpo, nei sobborghi rossi di Torino, un frate domenicano che andava a parlare ai giovani operai, " tra bolscevichi urlanti e minacciosi ", e non di rado, per difenderlo, si finiva per venire alle mani.
In tempo di elezioni politiche passava notti intere girando con un’automobile piena di manifesti, volantini e stampati e tenendo sul predellino due grosse pignatte traboccanti di colla, e " attaccando " nei punti più caldi della città, non senza subire aggressioni e organizzando opportune difese. E non senza divertirsi.
Quando poi si scateneranno le squadre fasciste, l’opposizione di Pier Giorgio sarà così determinata che la sua stessa casa sarà presa di mira: una domenica, mentre egli sta pranzando solo con la madre, una squadra irrompe in casa, munita di sfollagente a palle di piombo rivestite cuoio, e comincia a fracassate le specchiere dell’anticamera e i mobili che capitano a tiro. Pier Giorgio riesce a strappare ad uno Io sfollagente e a metterli in fuga. La notizia dell’episodio viene riportata perfino dalla stampa estera.
In una lettera Pier Giorgio stesso racconta:
Carissimo Tonino, ti scrivo per tranquillizzarti: leggerai sul giornale che abbiamo subito una piccola devastazione nell’alloggio da dei porci fascisti. È stata un’impresa da vigliacchi, ma niente di più… Sono senza pudore: dopo i fatti di Roma non dovrebbero, più farsi vedere e vergognarsi di essere fascisti.
In un’altra occasione a chi lo aggrediva gridò:
La vostra violenza non può superare la forza della nostra fede, perché Cristo non muore.
Soffriva soprattutto perché incominciava a scoprire la debolezza di quel " partito popolare " in cui aveva tanto sperato. Vi si era iscritto già alla sua fondazione e lo propagandava senza paura. Era convinto che " il partito sarebbe stato veramente popolare quando fosse stato sostenuto da folte masse aderenti alle organizzazioni professionali cristiane ".
Un amico racconta che, quando ne parlava, Pier Giorgio dimostrava di amarlo perché " lo sentiva come conseguenza sociale della sua fede ".
Con l’avvento del fascismo era umiliato dal dover constatare la debolezza e il trasformismo di molti aderenti del partito popolare, ma a differenza di tanti vi restò tenacemente attaccato " con le ultime speranze, con gli ultimi pensieri, con le ultime volontà ".
Quando il Direttore del Popolo, Giuseppe Donati, dovette partire
per l’esilio, al confine per salutarlo e stringergli la mano, sfidando gli occhi della polizia fascista, c’era solo Pier Giorgio. Lo stesso Donati scrisse poi: " In lui io vidi l’ultimo amico della Patria che lasciavo ". E Pier Giorgio sarebbe morto tre mesi dopo.
Dal punto di vista sociale e politico lo angustiava la scarsa intelligenza di fede di molti membri delle associazioni cattoliche: cioè la mancanza di uno sguardo di fede applicato alla realtà con amore intelligente.
Già nel 1921, partecipando al congresso nazionale della FUCI a Ravenna, aveva proposto e difeso la tesi dello scioglimento della FUCI per farla confluire in una più ampia " gioventù cattolica " che mettesse assieme intellettuali, lavoratori, studenti e gente semplice. Trovò opposizione nell’assistente ecclesiastico della FUCI, ma non se ne diede per inteso.
Frequentava i circoli operai più vigorosi, come il " Savonarola ", composto da operai metalmeccanici della Fiat, ben collocato in faccia a uno dei più agguerriti circoli comunisti.
Ci recavamo, racconta un amico, nelle sedi di associazioni religiose, culturali, sociali e sindacali... Dappertutto, si può dire, Pier Giorgio era presente e ad ogni iniziativa cooperava e partecipava...
Non mancava neppure al circolo dei Reduci (di particolare importanza, se si pensa che si era da poco conclusa la prima guerra mondiale) e all’Unione del Lavoro, dove gli studenti si incontravano con i lavoratori.
L’identità cristiana era per Pier Giorgio aperta su tutto l’ambito del sociale e politico, anche oltre i confini nazionali. Si indignava perché la Francia rovinava " la parte più cattolica della Germania ", occupando militarmente la Ruhr (" è un’infamia! ", diceva) e scrisse per questo una lettera di protesta su un quotidiano tedesco.
Allo stesso modo sostenne con pubbliche dichiarazioni la lotta del popolo irlandese che chiedeva " l’indipendenza della propria terra e del proprio spirito".
Si era appassionato all’associazione internazionale Pax Romana che legava gli universitari cattolici di tutte le nazioni; e di un suo convegno tenutosi a Torino volle essere l’organizzatore.
Tutti questi accenni non devono far dimenticare che si tratta di uno studente universitario alle prese con esami continui e difficili che egli si impegna a superare con risultati abbastanza buoni, ma con notevole fatica.
Per riuscire doveva applicarsi a lungo, e non era eccezionalmente dotato. Eppure anche il suo studio veniva illuminato di carità e di fede, se si pensa che tra tutte le possibilità che gli erano offerte, ed erano notevoli, data la sua condizione sociale, aveva preferito iscriversi alla facoltà di ingegneria mineraria, perché durante un suo soggiorno in Germania aveva constatato la particolare gravità delle condizioni di lavoro degli operai del settore: " Io voglio in miniera aiutare la mia gente e questo lo posso fare meglio da laico che da prete, perché da noi i sacerdoti non sono a contatto con il popolo ". Così egli spiegava il campo di studi che aveva scelto a Louise Rahner, la madre del celebre teologo, nella cui casa soggiornò per un certo tempo. Diceva di voler diventare " minatore tra i minatori "
C’è ancora un aspetto della sua vita che dobbiamo descrivere, quello più noto, ma che ora, nel quadro più ampio che abbiamo delineato, trova la sua giusta collocazione.
Si tratta di quel " volontariato della carità" a cui Pier Giorgio si dedicò costantemente, immergendosi nella più viva tradizione dei santi sociali della sua terra (Don Bosco, il Cottolengo, Faà di Bruno, Murialdo, Orione).
Ecco un bozzetto delineato da G. Lazzati, per commemorate il 50° anniversario della nascita di Pier Giorgio:
Straniti gli uomini, a partire dai suoi parenti, vedranno questo giovane a cui nulla sembrava mancare per essere campione di mondanità (...) trascinare per le vie di Torino carretti pieni di masserizie dei poveri in cerca di casa, e passare sudato sotto il carico di grossi pacchi anche male confezionati, ed entrare nelle case più squallide dove spesso miseria e vizio si danno la mano, sotto gli occhi ipocritamente scandalizzati di un mondo che nulla fa per aiutarli ad uscirne; e farsi, con sorprendente umiltà, lui, il figlio dell’ambasciatore d’Italia a Berlino, lui il figlio del senatore, questuante per i suoi poveri, e per essi ridursi al verde così da rincasare fuori orario per non avere neppure i pochi centesimi che gli bastino per il tram…
La sorella Luciana ha rivelato che la situazione era più umiliante di quanto non ci si immaginasse: a casa Pier Giorgio passava per uno sciocco e lo tenevano piuttosto a corto di quattrini: per poter dare agli altri, egli doveva spesso privarsi non del superfluo ma del necessario.
Che cosa abbia fatto per le numerose famiglie povere di cui si curava come membro della " San Vincenzo ", risulta da mille episodi pieni di carità e da mille testimonianze riconoscenti.
Non era d’altra parte, la sua, una carità ottusa: " dare è bello diceva, ma ancor più bello è mettere i poveri in condizione di lavorare ". Sapeva bene che la carità era anzitutto una questione di giustizia sociale. " Si discuteva, narra un amico, di certi patti colonici. Egli sosteneva che la terra è dei contadini e va data a chi la lavora. Impulsivamente esclamai: ‘Ma tu che sei padrone di terre, lo faresti?’. Mi guardò e mi disse in poche parole: ‘Non sono mie... Io lo farei subito!’ ".
La coscienza con cui intanto egli agiva, sollevando come poteva la miseria dei poveri, col suo stesso fisico sudore, emergeva quando doveva convincere altri a partecipare alla sua impresa.
Racconta un amico:
Un giorno cercò di convincermi a far parte (della " S. Vincenzo "). Alla mia difficoltà che non mi sentivo il coraggio di entrare nelle case sporche e puzzolenti dei poveri, dove potevo prendere qualche malattia egli con tutta semplicità mi rispose che visitare i poveri era visitate Gesù Cristo.
Diceva; " Intorno all’infermo, al miserabile, intorno al disgraziato io vedo una luce che non abbiamo noi...".
Che frequentando i tuguri dei poveri si potesse andare incontro a qualche grave malattia non era un modo di dire. E difatti Pier Giorgio si ammalò nella maniera più terribile: nonostante avesse un fisico temprato dallo sport, contrasse durante una delle sue " visite " la poliomielite fulminante, che lo distrusse in una settimana.
Fu una settimana di passione.
Prima di raccontarla brevemente, rivediamo l’immagine che ci è stata tramandata di questo giovane universitario: " borghese ", aperto, sano, gioviale, appassionato di montagna e di sci, rumoroso nelle feste, animatore di una sana goliardia (aveva fondato una " Società dei Tipi Loschi " con tanto di statuto).
Tutto ciò non era una facciata, era la sua natura. Eppure, questa stessa natura, senza dissociazioni, senza alti e bassi, senza mutevolezze di carattere, era anche profondamente seria, temprata dalla sofferenza propria e altrui.
Tra le sue sofferenze più laceranti, dobbiamo anche ricordare l’amore profondo per una ragazza di umili condizioni, amore a cui si senti moralmente costretto a rinunciare quando si accorse che la sua scelta, per i pregiudizi della famiglia, non sarebbe stata mai accettata. Comprese anzi che una sua eventuale insistenza avrebbe provocato la definitiva rottura del legame tra i suoi genitori.
Dio gli suggerì nel profondo del cuore (e dobbiamo leggere l’episodio nell’insieme della sua breve vita; senza saperlo, Pier Giorgio era già a un passo dalla morte) di non cercare la sua felicità a prezzo della " salvezza " dei suoi genitori: " non posso distruggere una famiglia, diceva, per formarne un’altra. Mi sacrificherò io ".
Il 30 giugno 1925, tornando dal suo solito giro di carità, Pier Giorgio cominciò ad accusare emicrania e inappetenza. non gli badò nessuno: in quei giorni si andava spegnendo la sua vecchia nonna, e quel giovanottone alto e muscoloso, a cui non si badava mai troppo perché era troppo buono, con le sue febbri inopportune infastidiva. Pier Giorgio cominciò a morire, sentendo il suo giovane corpo distruggersi, mentre la paralisi avanzava progressiva e implacabile, senza che nessuno gli badasse. La nonna morente continuava a polarizzare su di sé l’attenzione della famiglia, la stanchezza fisica e il logoramento psicologico di tutti i familiari.
A Pier Giorgio si faceva gentilmente capire di non seccare con i suoi malanni da niente, quando c’erano già abbastanza guai in casa e quando avrebbe fatto meglio a studiare per finire quegli ultimi esami che si trascinava da un po’ troppo tempo. Così egli, umile e mansueto, affrontò da solo i sintomi del male terribile, della cui gravità lui stesso non si rendeva completamente conto, e l’angoscia di ciò che gli accadeva, senza poterne nemmeno parlare, dato che ogni tentativo veniva stroncato sul nascere con inconsapevole crudeltà.
Quando i genitori atterriti si accorsero di ciò che stava accadendo sotto. i loro occhi, era troppo tardi. Il siero fatto venire frettolosamente e eccezionalmente dall’istituto Pasteur di Parigi, arrivò quando ormai non poteva più giovargli.
L’ultimo giorno di vita, alla sorella Luciana, Pier Giorgio chiese di andare a prendere nel suo studio una scatola di iniezioni che non aveva potuto recapitare a uno dei suoi poveri e volle scrivere un biglietto con le indicazioni e l’indirizzo necessari.
È un biglietto che esprime visivamente la tragedia: lo volle scrivere, ad ogni costo con le sue stesse mani già tormentate dalla paralisi, e ne risultò un groviglio quasi inestricabile di righe e di lettere. È il suo testamento: le ultime energie per l’ultima carità.
I funerali furono un accorrere di amici e soprattutto di poveri; i primi a restare allibiti, al vederlo tanto amato e tanto noto, furono i suoi stessi familiari che per la prima volta capivano dove Pier Giorgio avesse veramente abitato nei suoi pochi anni di vita, nonostante avesse una casa confortevole e ricca nella quale arrivava sempre in ritardo.
La commemorazione post mortem più inconsueta e insospettabile è quella che gli dedicò il celebre socialista Filippo Turati.
Scrisse sul suo giornale:
Era veramente un uomo, quel Pier Giorgio Frassati che la morte a 24 anni ghermì.. Ciò che si legge di lui è così nuovo insolito che riempie di riverente stupore anche chi non divide la sua fede. Giovane ricco, aveva scelto per sé il lavoro e la bontà. Credente in Dio, confessava la sua fede con aperta manifestazione di culto, concependola come una milizia, come una divisa che si indossa in faccia al mondo, senza mutarla con l’abito consueto per comodità, per opportunismo, per rispetto umano. Convintamente cattolico e socio della gioventù cattolica universitaria della sua città, disfidava i facili scherni degli scettici, dei volgari, dei mediocri, partecipando alle cerimonie religiose, facendo corteo al baldacchino dell’Arcivescovo in circostanze solenni.
Quando tutto ciò e manifestazione tranquilla e fiera del proprio convincimento e non esibizione ostentata per altri scopi, è bello e onorevole.
Ma come si distingue la " confessione " dalla " affettazione "? Ecco la vita è il paragone delle parole e degli atti esteriori che valgono poco più delle parole Quel giovane cattolico era anzitutto un credente.
(...) Tra l’odio, la superbia e lo spirito di dominio e di preda, questo " cristiano " che crede, e opera come crede, e parla come sente, e fa come parla, questo " intransigente " della sua religione, è pure un modello che può insegnare qualcosa a tutti.
Forse Turati nemmeno sospettava che le parole conclusive da lui usate per descrivere un convincente laico cristiano (" agisce come crede, parla come sente e fa come parla ") sono pressappoco quelle che la chiesa usa quando consacra i suoi ministri: questione di " sacerdozio appunto. E i laici cristiani sono anch’essi sacerdoti in forza del loro stesso battesimo.
C’è un’altra osservazione che è necessario fare prima di concludere. Spesso ci sì sente rivolgere una domanda (che brucia soprattutto il cuore dei cristiani che vivono in Piemonte): perché una terra che sul finire del secolo scorso fu così ricca di " santi sociali " è oggi così scristianizziata? Che cosa è accaduto? Dove la loro eredità non è Stata accolta e vissuta?
Beatificando quest’ultimo torinese, un giovane laico, la Chiesa sembra dare una risposta: bisognava (bisogna) accogliere l’eredità di Pier Giorgio Frassati (e oggi può essere " il momento favorevole ").
La santità di Pier Giorgio esprime infatti un valore di continuità con la tradizione della sua terra e un valore di novità: ed è questa sua funzione di " cerniera " (nel passaggio epocale) che occorre saper cogliere.
Da un lato egli ha ereditato la più pura tradizione dei santi piemontesi: si è innestato nel loro immenso lavoro di difesa della fede, attraverso la carità profusa nel campo della emarginazione, prodotta dall’allora nascente contesto industriale-urbano.
Dall’altro lato, egli però ha indicato il nuovo: la necessità che la fede si confrontasse con tutto l’arco dell’esperienza umana e " operasse caritatevolmente " in ogni ambito: negli ambienti dell’università, del lavoro, della stampa (Pier Giorgio raccoglieva abbonamenti non per il quotidiano di suo padre, ma per quello cattolico), dell’impegno politico e partitico, e dovunque era necessario difendere le libertà sociali, cercando sempre di concepire e fomentare l’associazionismo, come " amicizia cristiana " destinata alla nascita di un cattolicesimo sociale.
Mentre si apriva e si documentava l’era della cristianizzazione di massa, Pier Giorgio intuì che occorreva riaprire la questione del rapporto Fede-Opere: esso era tradizionalmente applicato al campo caritativo - assistenziale - morale, bisognava estenderlo a tutte le opere dell’uomo (dalla economia allo sport!), senza accettare limitazioni e spazi precostituiti.
Di lui resta questa splendida confessione:
Ogni giorno di più comprendo quale grazia sia l’essere cattolici. Vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere una lotta per la Verità non è vivere ma vivacchiare... Anche attraverso ogni disillusione dobbiamo ricordare che siamo gli unici che possediamo la verità.
In un tempo di triste scristianizzazione, in un tempo di nuova e gioiosa evangelizzazione abbiamo bisogno di uomini così " persuasi ": laici, cioè cristiani, cioè santi.

Postato da: giacabi a 15:50 | link | commenti
santi, pgfrassati

giovedì, 28 dicembre 2006
S. Massimiliano Kolbe

S. Massimiliano Kolbe
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 Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
 


Oggi siamo di fronte a un volto luminoso, davanti al quale tutti, anche i non credenti, si inchinano volentieri e di cui tutti parlano con venerazione; S. Massimiliano Kolbe. Il fatto che egli abbia offerto la sua vita ad Auschwitz, riscattando con la sua carità e il suo martirio la dignità dell'uomo oppresso, basta ad attirargli tutte le simpatie.
Ma noi vogliamo piuttosto imparare a comprendere quel suo gesto così decisivo sullo sfondo di tutta la sua esistenza: la sua vocazione, gli ideali coltivati, l'infaticabile operosità, la " ostinata " missionarietà, perfino ciò che a qualcuno potrebbe sembrare " eccessivamente integrista ", e che esprime invece la integralità della sua fede. Per non correre il rischio di staccare artificialmente la sua morte dalla sua vita.
P. Massimiliano Kolbe fu figlio del suo tempo e della sua terra: nacque nel 1894 in un paesino polacco, da genitori che gestivano un piccolo laboratorio di tessitura. Morì a 47 anni, nel 1941 ad Auschwitz. Entrò nel seminario dei francescani conventuali nel 1907, a tredici anni; novizio a 16 anni (1910).
Dal 1912 al 1919 studia filosofia e teologia a Roma. Laurea in filosofia nel 1915 e laurea in teologia nel 1919. Si interessa di fisica e di matematica e giunge fino a progettare nuovi tipi di aerei ed altre apparecchiature.
A Roma assiste a una processione di anticlericali-massoni che vanno a celebrare Giordano Bruno inalberando uno stendardo nero su cui Lucifero schiaccia S. Michele Arcangelo. In piazza S. Pietro vengono distribuiti volantini in cui si dice che " Satana deve regnare in Vaticano e il Papa dovrà fargli da servo ".
Il giovane Massimiliano ha una concezione cavalleresca della vita, al modo degli antichi cavalieri medioevali: ma la sua dama è la Madonna.
Si convince che è iniziata " l'Era dell'immacolata " quella in cui Maria dovrà, come dice la Genesi, schiacciare la testa del serpente
Scrive:
"Bisogna seminare questa verità nel cuore di tutti gli uomini che vivono e vivranno fino alla fine dei tempi e curarne l'incremento ed i frutti di santificazione; bisogna introdurre l'Immacolata nei cuori de gli uomini affinché Ella innalzi in essi il trono del Figlio suo e li trascini alla conoscenza di Lui e li infiammi d'amore verso il Sacratissimo Cuore di Gesù ".
 Da parte sua ha una devozione totale e gentile: chiama la Madonna con i nomi più teneri e familiari, come solo i polacchi sanno fare, profondamente convinto che i cristiani devono diventare " cavalieri dell'Immacolata ", e fonda una associazione. È la " Milizia dell'immacolata " di cui abbiamo gli statuti autografi. Le prime parole che riguardano il fine dell'associazione sono queste:
" Cercare la conversione dei peccatori, degli eretici, degli scismatici, dei giudei ecc. e soprattutto dei massoni (parola sottolineata due volte); e soprattutto la santificazione di tutti sotto il Patrocinio e con la mediazione della Beata Maria Vergine ".
Accennavo all'accusa di integrismo che oggi P. Kolbe si tirerebbe addosso da parte di molti cristiani benpensanti e schifiltosi. Infatti la Milizia dell'immacolata non ha affatto un programma spiritualistico, non descrive tanto una " opzione religiosa " ma una scelta globale.
Eccola:
" Con l'aiuto di Dio dobbiamo fare in modo che i fedeli Cavalieri dell'immacolata si trovino dappertutto, ma specialmente nei posti più importanti come:
a) l'educazione della gioventù (professori di istituti scientifici, maestri, società sportive);
b) la direzione dell'opinione delle masse (riviste, quotidiani, la loro direzione e diffusione, biblioteche pubbliche, biblioteche circolanti, conferenze, proiezioni cinematografiche);
c) le belle arti: scultura, pittura, musica, teatro.
I militi dell'immacolata divengano in ogni campo i primi pionieri e guide nelle scienze (scienze naturali, storia, letteratura, medicina, diritto, scienze esatte ecc.).
Sotto il nostro influsso e sotto la protezione dell'Immacolata sorgano, si sviluppino i complessi industriali, commerciali, le banche.
In una parola la Milizia impregni tutto e in uno spirito sano guarisca, rafforzi e sviluppi ogni cosa alla maggior gloria di Dio, per mezzo dell'immacolata e per il bene della comunità ".
La realizzazione di questo progetto? Semplicemente incredibile per le possibilità di un uomo.
Nel 1927 inizia a costruire dal nulla un'intera città a circa 40 km da Varsavia. Lui ne parla come di una futura seconda Varsavia. Chiama la città " Niepokalanow ": città dell'immacolata.
In pochi anni ecco descritta la prima realizzazione:
" Una vasta area libera per la costruzione di una grande basilica dell'immacolata,..
Un complesso-editoria (che comprendeva): la redazione, la biblioteca, la tipoteca, il laboratorio dei linotipisti, la zincografia con i gabinetti fotografici, le tipografie..., ed ancora i vari reparti della legatoria, dei depositi e delle spedizioni.
L'ala sinistra... comprendeva, in fabbricati distinti, la cappella, l'abitazione dei religiosi, il postulandato, il noviziato, la direzione generale, l'infermeria e, alquanto distanziata, la grande centrale elettrica. E poi, sparsi un po' dovunque, le officine dei fabbri e dei meccanici, i laboratori per i falegnami, per i calzolai, per i sarti, nonché le grandi rimesse per i muratori e il corpo dei pompieri.
Ma non è ancora finito: c'erano il parco macchine, la piccola stazione ferroviaria con il binario di raccordo con quella pubblica e statale; previsto anche l'aeroporto con quattro velivoli e un progetto di stazione radio trasmittente.
Dovunque grossi tronchi d'albero, depositi di legname, tubi e materiale edilizio di vario genere ".
La capacità di Massimiliano Kolbe di trascinare gli altri dietro questo suo ideale cavalleresco è data da queste cifre: dopo una decina di anni o poco più a Niepokalanow vivono 762 religiosi: 13 sacerdoti, 18 chierici, 527 religiosi conversi, 122 giovani aspiranti sacerdoti, 82 giovani aspiranti religiosi conversi.
Quando Massimiliano Kolbe, tornando sacerdote da Roma, aveva rimesso piede in Polonia la Provincia francescana contava poco più di un centinaio di religiosi. I religiosi di Niepokalanow devono essere poverissimi ma avere a disposizione quanto di meglio c'è sul mercato: dall'aereo alle rotative ultimo modello.
I frati di Massimiliano sono capaci di tutto: dall'organizzare il corpo dei pompieri a prendere il brevetto di pilota, a studiare per diventare direttore d'orchestra in modo da poter curare personalmente la registrazione di dischi, a imparare i sistemi di regia cinematografica.
P. Massimiliano Kolbe che fonda, e dirige per i primi anni, questa enorme comunità, e ne resta sempre l'animatore, è descritto così:
" Era tenace, ostinato, implacabile... Era un calcolatore nato: calcolava e raffrontava senza posa, valutava, fissava, combinava bilanci e preventivi. Se ne intendeva di tutto: di motori, di biciclette, di linotype, di radio; conosceva quello che costava poco e quello che costava molto; sapeva dove, come e quando era opportuno comperare… Non c'era sistema di comunicazione troppo veloce per lui, il veicolo del missionario, diceva spesso, dovrebbe essere l'aereo ultimissimo modello ".
La vita dell'intera comunità, invece, da P. Massimiliano Kolbe è descritta e spiegata con queste parole:
" La nostra comunità ha un tono di vita un pochino eroico, quale è e deve essere Niepokalanow se veramente vuole conseguire lo scopo che si prefigge, vale a dire non solo di difendere la fede, di contribuire alla salvezza delle anime, ma con ardito attacco, non badando affatto a se stessi, conquistare all'immacolata un anima dopo l'altra, un avamposto dopo l'altro, inalberare il suo vessillo sulle case editoriali dei quotidiani, sulla stampa periodica e non periodica, sulle agenzie di stampa, sulle antenne radiofoniche, sugli istituti artistici e letterari, sui teatri, sulle sale cinematografiche, sui parlamenti, sui senati, in una parola dappertutto sulla terra; inoltre vigilare affinché nessuno mai riesca a rimuovere quei vessilli.
Allora cadrà ogni forma di socialismo, di comunismo, di eresie, gli ateismi, la massoneria e tutte le altre simili stupidaggini che provengono dal peccato... Così io mi immagino Niepokalanow ".
In questa nuova " città " sì stampano otto riviste per parecchie centinaia di migliaia di copie. (La maggiore tra esse, " Il cavaliere dell'Immacolata ", tocca in quegli anni il milione di copie. P. Massimiliano prevede traduzioni in italiano, inglese, francese, spagnolo e latino).
Lui vi abiterà pochissimi anni. Già nel 1930 è in Giappone dove
fonda dal nulla una città analoga e la chiama " Il giardino dell'immacolata ".
Un autore che è critico verso l'opera di Kolbe scrive:
" Mirava né più ne meno che a conquistare il mondo. Per questo andò a convertire i 'pagani' in Giappone; per questo ampliava incessantemente le sue editrici, fondava monasteri, sognava piani per estendere a tutto il mondo la Cavalleria dell'immacolata.
Tutte queste opere, concepite su scala gigantesca, le creò quasi dal nulla. Senza un soldo in tasca, questuando incessantemente col proverbiale saio rappezzato. Era un fenomeno di energia e di talento organizzativo. Intraprendeva ogni iniziativa letteralmente con le proprie mani. Mescolava la calce e portava i mattoni nel cantiere, lavorava alla cassa di composizione in tipografia. A Nagasaki intraprese l'edizione della versione locale de 'Il Cavaliere dell’Immacolata' senza sapere una parola di giapponese...".
E durante l'edificazione della filiale giapponese " dormiva in una soffitta coprendosi col cappotto ".
La sua Milizia dell'Immacolata, nel 1939, contava 800.000 iscritti.
" Noi, diceva P. Kolbe, abbracceremo il mondo intero" e aveva piani che riguardavano l'india e il mondo arabo.
Nel 1932, quando costruiva Niepokalanow decise che fosse piccolo un solo ambiente: il cimitero, perché diceva: " prevedo che le ossa dei miei frati saranno disperse in tutto il mondo ".
Qual era dunque il suo ideale? Eccolo:
" Bisogna inondare la terra con un diluvio di stampa cristiana e mariana, in ogni lingua, in ogni luogo, per affogare nei gorghi della verità ogni manifestazione di errore che ha trovato nella stampa la più potente alleata; fasciare il mondo di carta scritta con parole dì vita per ridare al mondo la gioia di vivere ".
La teologia di P. Kolbe era radicale e senza mezzi termini. Ecco come la sintetizza un suo biografo:
" Si ostinò a credere, a dire, a scrivere che la verità è una sola, quindi un solo Dio, un solo Salvatore, una sola Chiesa; gli uomini, tutti gli uomini, di conseguenza, sono chiamati ad aderire ad un solo Dio, ad un solo Salvatore, ad una sola Chiesa.
A quell'ideale consacrò e immolò la sua vita di missionario della penna, come amava definirsi". Questo fu l'uomo su cui si abbatté la furia nazista. Sapeva ciò che gli aspettava. Aveva tanti amici che lo avvertivano di tutto. La Gestapo gli fece sapere addirittura che avrebbe gradito una sua opzione per la cittadinanza germanica se si fosse iscritto nella lista degli oriundi tedeschi, dato il suo cognome e le sue origini (nonostante che il cognome della madre fosse evidentissimamente polacco).
Fu arrestato una prima volta assieme ad alcuni suoi frati.. Li confortava con queste parole: " coraggio, andiamo in missione ". in un primo tempo là Città dell'Immacolata fu adibita a ospedale con un ufficio della Croce Rossa. Pian piano si riempiva di rifugiati e di scampati, accolse 2000 espulsi dalla Polonia e alcune centinaia di ebrei. I tedeschi cominciarono a considerarla come un campo di concentramento.
Liberato una prima volta, P. Kolbe riorganizzò la città per la sopravvivenza di tutti i rifugiati organizzando infermeria farmacia, ospedale, cucine, panetteria, orto e altri laboratori. il 17 febbraio 1941 viene arrestato per la seconda volta. Dice: " Vado a servire l'immacolata in un altro campo di lavoro ". Il nuovo campo di lavoro è quello di Auschwitz. Tutta l'energia di questo uomo fisicamente fragilissimo (malato di tisi, con un solo polmone) è ora messa a confronto con la sofferenza più atroce. Una sofferenza che lo colpisce sistematicamente, come gli altri e più degli altri, perché appartiene al gruppo dei preti, quello che per odio e maltrattamenti è accomunato agli ebrei.
Diventa il n. 16670. Comincia tirando carri di ghiaia e di sassi per la costruzione di un muro del crematorio: un carro che doveva essere tirato sempre correndo. Ogni dieci metri una guardia con un bastone garantisce la persistenza del ritmo. Poi a tagliare e trasportare tronchi d'albero. A lui, perché prete, toccava un peso due o tre volte superiore a quello dei suoi compagni. Lo vedono sanguinare e barcollare. Non vuole che gli altri si espongano per lui. " Non vi esponete a ricevere colpi per me. L'immacolata mi aiuterà, farò da solo ".
Quando lo vogliono portare all'ospedale del campo, se ne ha la forza, indica sempre qualcun altro che, a suo parere, ha più bisogno di lui: " io posso aspettare. Piuttosto quello lì... ".
Quando lo mettono a trasportare cadaveri, spesso orrendamente mutilati, e ad accatastarli per l'incenerimento, lo sentono mormorare pian piano: " Santa Maria prega per noi " e poi: " Et Verbum caro factum est " (Il Verbo si è fatto carne).
Nelle baracche qualcuno la notte striscia verso di lui in preda all'orrore e si sente dire lentamente, pacatamente, come un balsamo: " l'odio non è forza creativa; solo l'amore è forza creativa ".
Oppure parla, dell'immacolata: " Ella è la vera consolatrice degli afflitti. Ascolta tutti, ascolta tutti! ". Gli ammalati lo chiamano: " il nostro piccolo padre ".
Poi venne quel giorno in cui un detenuto del blocco 14 riuscì a Fuggire. Padre Kolbe era stato assegnato a quel blocco solo da pochi giorni. Per tre ore tutti i blocchi vennero tenuti sull'attenti. Alle 9, per la misera cena, le file vengono rotte. Il blocco 14 dovette stare immobile mentre il loro cibo veniva versato in un canale.
Il giorno dopo, il blocco rimase tutto il giorno allineato immobile, sulla piazza: guardati, percossi, digiuni, sotto il sole di luglio: distrutti dalla fame, dal caldo, dall'immobilità, dall'attesa terribile. Chi cadeva veniva gettato in un mucchio ai bordi del campo. Quando gli altri blocchi tornarono dal lavoro si procedette alla decimazione: per un prigioniero fuggito dieci condannati a morte nel bunker della fame. Un condannato al pensiero della moglie e dei figli grida. A un tratto il miracolo. P. Massimiliano esce dalla fila, si offre in cambio di quell'uomo che nemmeno conosce. Lo scambio viene accettato. Il miracolo per intercessione di P. Kolbe, Dio lo compie in quell'istante.
Dobbiamo veramente ricostruire ciò che avvenne. Non molti poterono udire. Ma tutti ricordano un particolare... Kolbe uscì dalla fila e si diresse diritto, " a passo svelto " verso il Lagerfuehrer Fritsch, allibito che un prigioniero osasse tanto.
Per il Lagerfuehrer Fritsch i prigionieri erano solo dei numeri.
P. Kolbe lo costrinse a ricordare che erano uomini, che avevano una identità. " Che cosa vuole questo sporco polacco? ". " Sono un sacerdote cattolico. Sono anziano (aveva 47 anni). Voglio prendere il suo posto perché lui ha moglie e figli ".
La cosa più incredibile, il primo miracolo di Kolbe e attraverso Kolbe fu il fatto che il sacrificio venisse accettato.
Lo scambio, con la sua affermazione di scelta e di libertà e di solidarietà, era tutto ciò contro cui il campo di concentramento era costruito. Il campo di concentramento doveva essere la dimostrazione che " l'etica della fratellanza umana " era solo vigliaccheria. Che la vera etica era la razza, e le razze inferiori non erano " umane ". Il principio umanitario secondo l'ideologia nazista era una menzogna giudeo-cristiana. Nel campo dì concentramento si dimostrava che l'umano è ciò che di più esterno c'è nell'uomo, una maschera che può essere levata a volontà.
" I campi di concentramento costituivano un frammento del dibattito filosofico definitivo " (Szczepanski).
Che Fritsch accogliesse il sacrificio di Kolbe e soprattutto accogliesse lo scambio (avrebbe dovuto almeno decidere la morte di ambedue) e quindi il valore e l'efficacia del dono, fu qualcosa di incredibile. Era infatti un gesto che dava valore umano al morire, che rendeva il morire non più soggezione alla forza ma offerta volontaria. Per Fritsch o fu un lampo di novità o fu la totale cecità di chi non credeva più che quella gente avesse alcun significato storico. Di fatto non c'era nessuna speranza umana che quel gesto oltrepassasse i confini del campo di concentramento.
Né P. Kolbe poteva umanamente pensare a una qualsiasi eco storica del suo gesto. Ma P. Kolbe riuscì a dimostrare fisicamente che quel campo era un Calvario. E non mi riferisco a una immagine simbolica. Mi riferisco a una Messa.
Da quel giorno, da quella accettazione, il campo possedette un luogo sacro. Nel blocco della morte i condannati vennero gettati nudi, al buio, in attesa di morire per fame. Non venne dato loro più nulla, nemmeno una goccia d'acqua. La lunga agonia era scandita dalle preghiere e dagli inni sacri che P. Kolhe recitava ad alta voce. E dalle celle vicine gli altri condannati gli rispondevano.
" L'eco di quel pregare penetrava attraverso i muri, di giorno in giorno sempre più debole, trasformandosi in sussurro, spegnendosi insieme al respiro umano. Il campo tendeva l'orecchio a quelle preghiere. Ogni giorno la notizia che pregavano ancora faceva il giro delle baracche. L'intorpidito tessuto della solidarietà umana ricominciava a pulsare di vita. La morte che lentamente veniva consumata nei sotterranei del tredicesimo blocco non era la morte di vermi schiacciati nel fango. Era un dramma e rito. Era sacrificio di purificazione " (Szczepanski).
La fama di ciò che avveniva si sparse anche negli altri campi di concentramento. Ogni mattina il bunker della fame veniva ispezionato.
Quando le celle si aprivano quegli infelici piangevano e chiedevano del pane; chi si avvicinava veniva colpito e ributtato violentemente sul cemento.
P. Kolbe non chiedeva nulla non si lamentava, restava in fondo seduto, appoggiato alla parete. Gli stessi soldati lo guardavano con rispetto. Poi i condannati cominciarono a morire; dopo due settimane erano vivi solamente in quattro con P. Kolbe. Per costringerli a morire, il 14 agosto, venne fatta loro una iniezione di acido fenico al braccio sinistro. Era la vigilia di una delle feste mariane che Massimiliano amava di più: l'Assunta, a cui cantava sempre volentieri quella lauda popolare che dice: " Andrò a vederla, un dì! ".
" Quando aprii la porta di ferro, è il suo carceriere che racconta, non viveva più; ma mi si presentava come se fosse vivo. Ancora appoggiato al muro. La faccia era raggiante in modo insolito. Gli occhi largamente aperti e concentrati in un punto. Tutta la figura come in estasi. Non lo dimenticherò mai ".
Giovanni Paolo Il, predicando ad Auschwitz, ha detto:
" In questo luogo che fu costruito per la negazione della fede, della fede in Dio e della fede nell'uomo, e per calpestare radicalmente non soltanto l'amore ma tutti i segni della dignità umana, dell'umanità, quell'uomo (il P. Kolbe) ha riportato la vittoria mediante l'amore e la fede".
P. Kolbe ha dimostrato, in forza della sua fede, che l'uomo può creare abissi di dolore ma non può evitare che essi siano inabitati dal Crocifisso e dal mistero del Suo amore sofferente, che si riattualizza, che autonomamente e con forza inarrestabile decide di farsi " presene ". Fu soprattutto per questa decisione di Cristo che Fritsch, contro se stesso, dovette " accettare " lo scambio.
Due sono gli insegnamenti che ci restano contemplando il volto di P. Kolbe: uno torna dal suo martirio alla sua vita, l'altro va dalla sua vita al suo martirio.
Nel primo insegnamento P. Kolbe ci dice che rispondere alla disumanità con l'offerta e il sacrificio di sé non è la risposta di chi non sa fare altro, di chi si rassegna e cede all'oppressore, di chi attende tutto dall'al-di-là e perciò può subire.
P. Kolbe ha dato la vita, accettando di morire, dopo che aveva spese tutte le sue energie per la costruzione di un mondo diverso, di un mondo nuovo, di un centuplo quaggiù. Il martirio non fu una fuga devota. Fu la pienezza della sua energia vitale.
Nel secondo insegnamento P. Kolbe ci dice che la stoffa di cui sono fatti i martiri non è quella di chi nella sua vita si è divertito col pluralismo e con l'irenismo ad ogni costo, anche se li chiama " dialogo " ed " ecumenismo ".
Esiste certamente un modo giusto di considerare questi valori (che è il modo della carità, non della perdita di identità), ma tante volte essi sono soltanto usati per preservarsi, per non dovere " dare la vita ".
P. Kolbe definiva la fede con una nettezza impressionante, e con altrettanta decisione la propagandava e la voleva incarnare in tutti gli spazi della vita culturale e sociale; e seppe avere tanta carità da essere il primo " martire della carità ". Proprio con questo titolo, mai utilizzato prima, è stato canonizzato da Giovanni Paolo lI
Ma chi, in nome di una pretesa carità cristiana, annacqua la fede e la rende culturalmente inincidente e irrilevante nella storia è sicuro d'avere proprio quella carità che abilita a dare la vita?
Questa è la domanda seria che discrimina tutti gli atteggiamenti dei cristiani e li giudica. La fede e la carità esigono, ambedue, forza e decisione, e crescono assieme con lo stesso coraggio.

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santi, kolbe

lunedì, 04 dicembre 2006





SANT’ERMANNO LO STORPIO
*                                             *                                                    
Scorrendo un calendario in tedesco, mi imbatto, il 24 di settembre, in Hermann der Lahme, Ermanno lo storpio, che non penso molti conoscano.
È un monaco vissuto nella prima metà dell’XI secolo nel monastero di Reichenau, sul lago di Costanza, quasi certamente compositore del Salve Regina, e siccome mi appresto a scrivere questo testo nel mese di ottobre, quando il Papa ha appena promulgato l’anno del Rosario e proposto i Misteri della luce, penso che sia bello offrire all’attenzione dei lettori questa figura che ci insegna come il dolore non sia necessariamente infelicità. Vediamo perché...

“Il 18 luglio dell’anno 1013 Eltrude, sposa di Goffredo, conte di Altshausen in Svevia, diede alla luce un figlio maschio. Gli sposi appartenevano entrambi a nobilissime famiglie e nomi di gentiluomini, di crociati e di alti prelati si ripetono continuamente nei loro alberi genealogici. Eppure di nessuno di costoro si è serbata durevole memoria, salvo che del piccolo essere che venne al mondo orribilmente deforme. Fu soprannominato ‘il Rattrappito’, tanto era storto e contratto: non poteva star ritto, tanto meno camminare; stentava perfino a star seduto nella sedia che era stata fatta appositamente per lui; le sue dita stesse erano troppo deboli e rattratte per scrivere; le labbra e il palato erano deformati al punto che le sue parole uscivano stentate e difficili ad intendersi.”

Questo è l’inizio della storia, che evidentemente mi colpì molto quando, alla fine degli anni sessanta, ci fu proposta come riflessione in una vacanza di studio. Ma ancora di più, il seguito suscita stupore.

In un mondo pagano egli sarebbe stato, senza esitazione di sorta, lasciato morire all’atto stesso della nascita. I pagani d’oggi, soprattutto quando si dica loro che il piccolo Ermanno era uno dei quindici figli, dichiareranno che non avrebbe mai dovuto nascere; se poi diventano ancor più razionali, affermeranno che un simile aborto avrebbe dovuto essere eliminato senza dolore. E lo ripeterebbero con calore ancora maggiore quando aggiungerò che i competenti di novecento anni fa lo dichiararono anche‚ deficiente.” Martindale scrive intorno al 1950. E noi cosa diremmo?...
“Che cosa fecero quei poveretti ancor sommersi in quelle che abbiamo la faccia tosta di chiamare le ‘tenebre del medioevo’? Lo mandarono in un monastero e pregarono per lui.”

La salvezza

Considerata con occhi superficiali, questa decisione sembrerebbe assurda, ma vediamo come prosegue la storia. Dobbiamo intanto tener presente che “erano stati i monasteri a raccogliere e a sviluppare tutto quanto era stato possibile dell’antica cultura. In Germania la cultura del passato veniva non soltanto dal sud latino, ma anche dall’Inghilterra e, certamente dall’Irlanda. Inoltre essa era largamente diffusa tra il popolo. (...) C’erano traduzioni in tedesco dei vangeli, nelle chiese si predicava in tedesco e si può dire che tutti i grandi nomi delle letterature latina e greca giungevano, attraverso il pulpito, all’orecchio di tutti. Le fonti erano sempre (occorre dirlo?) i monasteri, - quali San Gallo, Fulda, Reichenau, che raccoglievano grandi biblioteche, nonché le scuole che seguivano l’imperatore. (...) Fu in uno di tali monasteri che venne mandato il mostriciattolo deficiente.”

“Reichenau sorgeva in una deliziosa isoletta nel lago di Costanza, dove il Reno corre impetuoso verso le sue cateratte.
Il monastero era stato fondato prima di Carlo Magno - esisteva cioè da più di duecento anni. Sulla strada maestra, sulla riva di fronte, transitavano continuamente viaggiatori italiani, greci, irlandesi e islandesi. Le sue mura ospitavano dotti famosi e una scuola di pittura. (...) Qui il ragazzo crebbe.
Qui il ragazzo che poteva a mala pena biascicare poche parole con la sua lingua inceppata, trovò, chissà in virtù di quale psicoterapia religiosa, che la sua mente si apriva.

Neppure per un solo istante, durante tutta la sua vita, egli può essersi sentito ‘comodo’ o, per lo meno, liberato da ogni dolore: quali sono tuttavia gli aggettivi che vediamo affollarsi intorno a lui nelle pagine degli antichi cronisti? Li traduco dalla biografia in latino: piacevole, amichevole, conversevole; sempre ridente; tollerante; gaio; sforzandosi in ogni occasione - ah, ecco una parola di difficile traduzione - di essere galantuomo con tutti, mi pare che sarebbe il nostro modo di esprimerci, oggi. Con il risultato che tutti gli volevano bene
.

Gli studi nel monastero: scienze...
E frattanto quel coraggioso giovinetto - che, ricordate non era mai comodo, né seduto su una sedia, né sdraiato su un letto - imparò la matematica, il greco, il latino, l’arabo, l’astronomia e la musica. Scrisse un intero trattato sugli astrolabi (...) e nella prefazione scrisse: ‘Ermanno, l’infimo dei poveretti di Cristo e dei filosofi dilettanti, il seguace più lento di un ciuco, anzi, di una lumaca (...) è stato indotto dalle preghiere di molti amici (già, tutti gli volevano bene!) a scrivere questo trattato scientifico’. Aveva sempre cercato di risparmiarsi lo sforzo, con ogni sorta di pretesto, ma, in realtà, soltanto a causa della sua ‘massiccia pigrizia’; tuttavia finalmente poteva offrire, all’amico al quale il libro è dedicato, la teoria della cosa, e aggiungeva che, se l’amico l’avesse gradito, avrebbe cercato, in seguito di svilupparlo su linee pratiche e più particolareggiate. E, lo credereste, con quelle sue dita tutte rattrappite, l’indomabile giovane riuscì a fare astrolabi, e orologi e strumenti musicali. Mai vinto, mai ozioso!

...musica ...

In quanto alla musica - magari i nostri coristi d’oggi leggessero le sue parole! - egli afferma che un buon musico dovrebbe essere capace di comporre un motivo passabile, o almeno di giudicarlo, e poi di cantarlo. In generale i cantori, egli dice, si curano del terzo punto soltanto, e non pensano mai. Essi cantano, o, per meglio dire, si sgolano, senza rendersi conto che nessuno può cantar bene se la sua mente non è in armonia con la sua voce. Per tali cantanti da strapazzo una voce forte è tutto ciò che conta. Il che è peggio di ciò che fanno i ciuchi i quali, dopotutto, fanno assai più rumore, ma non alterano mai un raglio con un muggito. Nessuno tollera, egli dice, gli errori di grammatica; tuttavia le regole della grammatica sono artificiali mentre ‘la musica sgorga diritta dalla natura’ e in essa non soltanto gli uomini non correggono gli errori che commettono, ma giungono fino al punto di sostenerli...
Come si vede, l’allegro piccolo storpio sapeva, all’occorrenza, usare un linguaggio assai caustico! È peraltro quasi certo che egli fu il compositore dello stupendo inno Salve Regina (con quella sua caratteristica melodia in canto fermo che ancor oggi si canta in tutte le chiese cattoliche del mondo), dell’Alma Redemptoris e di alcuni altri.

... storia.

Ma oltre a questo,
Ermanno, dotato di un cervello straordinariamente attivo e vigoroso, e che era a conoscenza di tutte le tradizioni delle più importanti famiglie del suo tempo ed aveva accesso a molti libri antichi che noi non conosciamo a causa delle distruzioni che in anni successivi dispersero e rovinarono le biblioteche degli antichi monasteri, scrisse un Chronicon di storia del mondo, dalla nascita di Cristo al tempo suo. Si sa che l’opera si meritò le lodi dei competenti del tempo, che la giudicarono straordinariamente accurata, fondata naturalmente sulle tradizioni, ma tuttavia obiettiva e originale. Eccovi dunque il monacello storpio, chiuso nella sua cella, ma desto, vivo, con gli occhi spalancati a seguire la scena del mondo esterno eppure non mai cinico, non mai crudele (è così frequente il caso che la sofferenza generi crudeltà) e capace di tracciare un quadro completo delle correnti della vita in Europa.”

Ci avviamo verso la conclusione di questa sorprendente storia, che racchiude in sé il contrasto tra la concretezza e la sofferenza da una parte e la bellezza e l’apertura verso l’infinito dall’altra: una vita reale.

Venne il momento di morire

Lascio al suo amico e biografo Bertoldo di parlarci di questo.
‘Quando alfine l’amorevole benignità del Signore si degnò di liberare la sua santa anima dalla tediosa prigione del mondo, egli fu assalito dalla pleurite e trascorse quasi dieci giorni in continue e forti tribolazioni. Alfine un giorno, nelle prime ore del mattino, subito dopo la santa messa, io, che egli considerava il suo più intimo amico, mi recai da lui e gli chiesi se si sentisse un poco meglio: <>’. Riferisce poi il cronista che il paziente gli disse che la notte precedente gli era parso di essere intento a rileggere quel famoso Hortensius di Cicerone con le molte sagge osservazioni sul bene e sul male, e gli erano ripassate per la mente tutte le cose che egli stesso aveva avuto in animo di scrivere su quello stesso argomento. ‘E sotto la forte ispirazione di quella lettura, tutto il mondo presente e tutto ciò che ad esso appartiene - questa stessa vita mortale era divenuta meschina e tediosa e, d’altra parte, “il mondo futuro, che non avrà termine, e quella vita eterna, sono divenuti indicibilmente desiderabili e cari, così che io considero tutte queste cose passeggere non più dell’impalpabile calugine del cardo. Sono stanco di vivere”. All’udire queste parole di Ermanno, Bertoldo non seppe più trattenersi e, dice ‘ruppi in grida scomposte e pianti! Ma Ermanno dopo un poco tutto indignato mi rimproverò, tremando un poco per l’ira e guardandomi di sottecchi con aria di meraviglia: “Amico del mio cuore, diss’egli, non piangere, non piangere per me!” Dopo di che chiese a Bertoldo di prendere le tavolette per scrivere onde annotare alcune ultime cose. “
E, aggiunse il morente, ricordando ogni giorno che anche tu dovrai morire preparati con ogni energia per intraprendere lo stesso viaggio, poiché, in un giorno e in un’ora che tu noi sai, verrai con me - con me, il tuo caro, caro amico.” E furono queste le sue ultime parole.
Ermanno morì, circondato dagli amici, dopo aver ricevuto il corpo e il sangue di Cristo nella santa comunione, il 24 settembre del 1054 e fu seppellito - oscuro monacello ch’egli era stato - ‘in mezzo a grandi lamenti’ nei suoi possedimenti di Altshausen ai quali aveva rinunciato da così lungo tempo.”


E Martindale così conclude: “La prima volta che mi venne tra le mani questa sua Vita in un veccchio testo latino tutto accartocciato, nella biblioteca di Oxford, fu, per me, come se una ventata di aria purissima fosse penetrata a disperdere l’atmosfera stagnante della stanza (...). Poiché la Vita, come la scrisse Bertoldo, è così piena di vita pulsante, Ermanno ne esce veramente vivo! Non perché sapesse scrivere sulla teoria della musica e della matematica, né perché seppe compilare minuziose cronache storiche e leggere tante lingue diverse, ma per il suo coraggio, la bellezza dell’anima sua, la sua serenità nel dolore, la sua prontezza a scherzare e a fare a botta e risposta, la dolcezza dei suoi modi che lo resero ‘amato da tutti’. (...) Senza dubbio allevare bene il corpo è cosa importante, tuttavia subordinata; l’educar bene la mente è la cosa principale - e questa educazione, credetemi, deve essere fondata su due elementi essenziali: l’amore e la religione - e le due cose sono strettamente unite. In questo povero, contorto ometto del medioevo, brilla il trionfo della fede che ispirò l’amore e dell’amore che fu leale alla fede professata. Ermanno ci dà la prova che il dolore non significa infelicità, né il piacere la felicità”.
*                      *                                 *
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 Alma Redemptoris Mater

Alma Redemptóris Mater
quae pérvia coeli porta manes,
et stella maris,
succúrre cadénti,
súrgere qui curat, pópulo:
tu quæ genuísti, natura miránte,
tuum sanctum Genitórem,
Virgo prius ac postérius,
Gabriélis ab ore
Sumens illud Ave,
peccatórum miserére   

O santa Madre del Redentore
.
O santa Madre del Redentore,
porta del cielo sempre aperta,
stella del mare,
soccorri un popolo decaduto,
che desidera risorgere,
tu, che nello stupore della natura,
generasti il tuo Genitore,
tu, vergine prima e dopo,
che dalla bocca di Gabriele
udisti quell'Ave,
abbi pietà dei peccatori.



                   


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santi, ermanno lo storpio

martedì, 29 agosto 2006


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Il venerabile Matteo  Talbot

Ex alcolizzato cronico

Da:  http://www.preghiereagesuemaria.it/bambini/strade%20nuove%20con%20la%20mamma.htm

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Dublino, inizio della seconda metà del secolo XIX. La famiglia Talbot, dal padre ai figli, era «consacrata» a bere. Il padre, Charles Talbot, 33-enne, basso di statura, gran lavoratore del por­to, beveva molto, almeno nel fine-settimana, me­glio ancora tutti i giorni.
I figli, 12, nei primi vent'anni di matrimonio di Charles con Elizabeth Bagnall, quelli che riusci­rono a crescere e a farsi adulti, furono gran lavo­ratori, ed insieme bevitori potenti, implacabili.
Solo John e la madre facevano eccezione. La mam­ma, Elisabeth, era una donna meravigliosa, fer­vente cristiana, capace di sacrificarsi come una martire antica, ricca dell'indomabile forza che è la preghiera.
Da quella famiglia, meglio sarebbe dire: dà quella tribù irlandese, nacque il sabato 3 maggio 1856 Matteo Talbot. Nella sua famiglia poté trova­re quel che abbiamo detto: povertà, lavoro, vino, ubriacature solenni... e la fede della madre.
Un loro conoscente diceva:
«Questionavano sempre. Al sabato, quando avevano strabevuto, era un cozzare di contrasti». Una famiglia di spugne assorbenti vino e poi ancora vino.
Bacco dominava incontrastato. Schiavo del bicchiere
Andare a scuola non era obbligato. Le scuole nazionali erano anticattoliche. Perciò molti catto­lici non mandavano a scuola i loro rampolli. Esi­stevano però della scuolette per ragazzi poveri.
Matteo - detto Matt, familiarmente - crebbe libero e vagabondo fino a undici anni. Il 6 maggio 1867 fu mandato a scuola: vi imparò a leggere e a scrivere, un po' di grammatica e di aritmetica, eb­be istruzione religiosa e fu preparato a ricevere i sacramenti.
Cominciata la scuola a maggio, Matt imparò la prima poesia: era dedicata alla Madonna e dice­va così:
O Madre di bontà, di giorno in giorno di più col cuore mio ti voglio amare, tu spargi i doni tutto a me dintorno come la sabbia in riva al nostro mar. Anche se povertà, fatiche, affanni faran pesar la vita su di me, chi non lo sa che fra i peggiori danni il buio è la luce per chi ama Te?
Matt cantava con amore gli inni della Madon­na, specialmente quando i ragazzini si radunavano insieme al suono dell'Angelus a mezzogiorno. La mamma gli aveva insegnato ad amare Maria. Ma nel resto non si impegnava. Il maestro, sul regi­stro, scrisse una nota triste: «A Mitcher» cioè «poltrone».
Cresciuto libero e selvaggio fino a undici anni, preferiva marinare la scuola. C'era più gusto. Là dentro, in fondo, era una prigione.
L'anno dopo fu mandato a lavorare, piccolo incauto dodicenne. Il padre lo impiegò in un ma­gazzino di vini e di birra. Dopo poco tempo, Matt sentiva una voglia pazzesca di bere. E cominciò a bere allegramente.
A 16 anni, Matt era un alcoolizzato cronico che non si interessava più di nulla, né di feste, né di giochi o balli: solo il bere era per lui inte­ressante.
Lavorava senza risparmiarsi. Guadagnava di­scretamente, ma «beveva» quasi tutto. Anzi faceva debiti per bere. Vendette persino scarpe e cami­cia, pur di avere soldi per bere. Tuttavia aveva an­cora un certo senso della dignità personale: non era volgare, era ancora affettuoso e delicato con mamma e sorelle.
A suo modo, continuava ad essere devoto del­la Madonna: di tanto in tanto qualche Ave Maria, e alla domenica, la Messa, anche se ormai era di­ventato il povero schiavo del bicchiere di vino.
La mamma però non disperava di recuperare quel ragazzo. La gente del luogo diceva: «Povero Matt, va diritto al diavolo». La mamma gli sbarra­va la strada con una siepe di Rosari, sempre più spessa.
Eppure Matt fu un ubriacone fino a 28 anni. Un sabato del 1884 non aveva avuto lavoro quella settimana.
Era senza soldi: Sperava che gli amici lo invitassero a bere. Il bar era di fronte a lui, seducente. Ma nes­suno dei suoi amici si fermò per farlo bere. Lo de­ridevano allegramente: «Toh, vedilo, l'ubriaco, og­gi a bocca asciutta! ».
Matt andò barcollante fino al parapetto del ponte sul fiume. Provava vergogna di se stesso. Guardò un po' l'acqua che scorreva: veloce e scura del fiume Liffey. Tentato suicidio? Nessuno può dirlo... Si allontanò dal fiume e andò a casa, facendo gesti da rivoluzionario. Era ora di finirla con quel­la vita disumana. Si sarebbe tolto a viva forza, ce l'avrebbe fatta sarebbe riuscito ad essere un uomo normale.
Giunto a casa, la mamma rimase stupitissima: per la prima volta non era ubriaco: «Già qui, ra­gazzo mio?» gli disse. «Sì, mamma» - rispose. Ri­mase in casa anche dopo pranzo, poi disse alla ma­dre: «Vado a fare voto di non bere più».
Si recò da Padre Keane, docente del seminario di Dublino. Si confessò e chiese di fare il voto. Lo fece per tre mesi, come prova. La domenica suc­cessiva, Matt andò a Messa e fece, dopo tanti anni, la Comunione: «O Gesù, ti offro il desiderio bru­ciante di non più offenderti, di cominciare una vi­ta nuova con la tua grazia».
Potevano sembrare parole. Come resistere al­la voglia di bere?
La mattina dopo, il lunedì, era alla Messa del­le cinque, per essere sul lavoro alle sei. Da allora fece sempre così, tutti i giorni. Dopo il lavoro, per fuggire le cattive compagnie, andava in una chiesa lontana, a pregare fino all'ora di tornare a casa prima di notte.
La sorella Susanna diceva: «Matt è diventato un altro! ».
La mamma, trasecolata di gioia, continuava a dire Rosari, perché Maria lo sostenesse in quella lotta senza quartiere contro l'alcool e la bestialità. Matt conserverà sempre il ricordo vivissimo che la sua conversione era dovuta ai Rosari sgranati da sua madre, e che era avvenuta di sabato dedica­to alla Madonna.
Maria, la Madre di Cristo, e la sua mamma si erano accordate per ridargli la vita, quella vera.

Una vita completamente diversa

Ora era un convertito. D'accordo, ma quanta voglia di bere aveva ancora in corpo! Una voglia strana da strozzarlo. Eppure resisteva con una forza di volontà da far paura. Non si sentiva solo in quella lotta impari. Quando provava « sete », fug­giva dai bar come dalla peste, correva verso la chiesa, vi entrava, andava a mettersi ai piedi del Crocifisso, pregava: «O Maria, mia buona mamma... ».
I suoi compagni di bevute erano stupiti. Matt era diventato un altro, non solo perché non beveva più, ma perché voleva liberare gli amici dal vizio dell'alcool. Un giorno un amico, Pat Doyle, andò a cercarlo per portarlo al bar. Rifiutò e lo accompagnò, quasi furiosamente, presso una chiesa e lo af­fidò ad un sacerdote.
Pat si confessò di tutto il suo brutto passato, poi scappò via veloce. Anche lui aveva fatto voto di non bere piu!
Da parte sua, Matt capiva che ora doveva co­struire la sua vita in modo completamente nuovo. La sua istruzione era molto elementare, sapeva la­vorare duro, era irascibile, insomma sembrava un «masso di pietra» grezzo e spigoloso, ancora tutto da scolpire. Come avrebbe fatto a «sgrossarsi»?
Come prima e più di prima, continuò a lavora­re in modo deciso e costante, senza risparmiarsi. Poi riempì le sue giornate di letture spirituali, per istruirsi a fondo nella fede, di preghiera quasi ininterrotta, di penitenza, come un antico eremita. Il cuore, con il passare del tempo, gli ardeva di un amore fortissimo al Cristo e a Sua Madre. Questo amore lo trasformava dentro e fuori.
Dal maggio del 1884 aveva un lavoro fisso, a cui fu così fedele da meritarsi il titolo del «miglio­re lavoratore di Dublino». La sua giornata, piena di lavoro, si apriva alle 5, prima dello spuntare del sole, con la Messa e la Comunione. Prima aveva già pregato due ore a casa sua. Al ritorno dal lavo­ro, consumato un pasto frugale, ritornava a prega­re, a leggere cose spirituali.
Il sabato pomeriggio e la domenica, libero dal lavoro, li trascorreva inginocchiato, davanti al tabernacolo, in lunghe, interminabili ore di preghie­ra eucaristica. A volte, nei primi tempi, la sua vo­glia di bere ruggiva in petto. Fu tentato fortemen­te di rompere il voto, ma resistette, ed allora rinnovò il voto per altri sei mesi, poi per un anno, infine per tutta la vita.
La mamma, felice perché quel suo figlio «che era morto, ora era tornato in vita», lo sosteneva a resistere e lo affidava continuamente alla Madonna.
Dopo la sua conversione, andò ad abitare in una stanza da solo, vicino alla sorella Maria. La buona sorella testimonierà un giorno che Matt dormiva su un tavolaccio con ún tronco per guan­ciale. E che pregava sempre, quando era in casa. Voleva essere povero come Gesù. Nella stanza poverissima, non c'era che un letto di ferro, un ta­volo, una sedia, un Crocifisso. Si disfece di tutto. Si privò anche del fumo, oltre che del vino e della birra: e questo per lo stomaco di ex-alcoolizzato è un vero prodigio.
Dentro di lui cresceva l'amore verso il Cristo ed è questo che conta. Si mortificava per amare di più, per essere più libero per il suo Dio, per rasso­migliare di più al suo Signore Crocifisso.
Penitenza per liberarsi dal vino e da ogni lega­me con il negativo o il superfluo. Un tempo ebbro di vino, ora «ebbro di Dio», per il quale incatenava il suo corpo e trovava la libertà più vera. A noi non è chiesto di imitare la sua mortificazione se que­sta non è la nostra vocazione, ma a tutti è dato di imitare il suo amore al Cristo e la sua devozione filiale alla Madonna Santissima.
E Matt visse così per anni, passando di luce in luce...

Burlone e amico di tutti

Severo con se stesso, si scioglieva in tenerezza con gli altri. Tra i suoi compagni di lavoro, non so­lo era gentile, pronto sempre ad aiutare chiunque in qualsiasi difficoltà, ma aveva sempre la barzel­letta pronta, la battuta allegra per incoraggiare o sbloccare una situazione difficile e aspra.
Era sempre felice, di un'intima gioia. Parlava con schiettezza, teneva fede, e pretendeva che lo facessero con lui, alla parola data. Prestava dena­ro, voleva che gli fosse restituito... per poterlo do­nare con generosità, perché lui era fin troppo ric­co di Dio!
Nel 1909 cambiò lavoro e passò presso i Mar­tin, commercianti di legnami da costruzione, per­ché con il loro orario aveva più tempo per leggere, pregare, vivere la sua unione con Dio. Era diventa­to popolarissimo tra gli altri lavoratori che, ben­ché rudi, lo stimavano per la sua laboriosità, il buono umore, la vita santa che conduceva.
Alla sera, quando il lavoro cessava, accompa­gnava a casa i suoi compagni di lavoro e, durante il percorso, li invitava ad una visita in chiesa, per pregare Gesù nell'Eucarestia, e la «sua» Regina, la Madonna. Quegli uomini, dalle mani callose e dal­le parole «grosse», a volte volgari, lo rispettavano e lo seguivano; Matt aveva per loro l'autorevolezza della fede, dell'amicizia con Dio, della carità verso tutti.
Per conto suo era un eremita; con gli altri era migliore di un fratello.

Laico «consacrato»

Ancora giovane ebbe una proposta di fidanza­mento. Una ragazza che lo stimava, piuttosto ric­ca, gli propose il matrimonio: sarebbe stata felice con lui. Matt volle riflettere e fece una novena alla Madonna per essere illuminato sul suo futuro. Aveva allora solo trent'anni ed era molto equili­brato rispetto alla vita sregolata condotta prima.
Alla buona ragazza, disse di no: era stata la Vergine a dirgli di non sposarsi. Non avrebbe po­tuto congiungere la vita matrimoniale con lo stile che lui voleva vivere. E così disse ancora di no ad altre offerte di matrimonio. Non disprezzava cer­to il matrimonio, ma cercava per se stesso la «vo­lontà di Dio».
Il 18 ottobre 1891 entrò nel Terz'Ordine di S. Francesco, prendendo il nome di «Fra Giusep­pe». Si iscrisse pure all'Associazione di Maria Im­macolata e cercava di portarvi anche altri. Pro­prio presso l'associazione mariana, parlava in quegli anni il Padre gesuita Toni Murphy sui gran­di problemi della fede. Matt ne era entusiasta e s'industriava di portare i suoi amici ad ascoltare la parola di quel grande uomo.
Un'attività notevole come la sua, non poteva certo reggersi sul nulla. Gli era necessaria una vi­ta interiore ricchissima e insieme anche una pre­parazione culturale, religiosa, cristiana, capace di attrezzarlo ad essere un valido testimone di Cristo.
Matt diventò per questo un formidabile ed acuto divoratore di libri.
Leggeva assiduamente la Bibbia, meditandola nel suo cuore. Con la Bibbia tra le mani, pregava con fervore per comprendere la Parola di Dio e tradurla in pratica nella sua vita. Prediligeva il Deuteronomio e il Vangelo di Matteo, di cui porta­va il nome. Sui margini, diventavano sempre più fitti i segni ai passi che più lo avevano colpito.
Lesse altresì molti libri di spiritualità di otti­mi autori e libri di teologia, così da apparire esperto in questioni religiose. Approfondì le que­stioni della società e del lavoro nel suo tempo. Molti compagni lo consultavano e ne ricevevano risposte esaurienti. Un giorno un compagno gli pose un problema difficile... e Matt si procurò un li­bro facendolo arrivare da New York, spendendo lo stipendio di una settimana, pur di poter rispon­dere con competenza.
Appassionato dalla santità, desideroso di arri­varci, lesse numerose vite di santi, tra i quali si sentiva «a casa sua».
Nel mondo del lavoro, seppe essere vicino ai compagni, condividendo problemi e fatiche. Di lo­ro, del loro benessere, si interessava con un senso vivissimo dell'amicizia.
Un giorno, uno dei direttori dell'azienda gli domandò: «Il tale è arrivato in ritardo?». Gli rispo­se Matt: «Non desidero di ricevere di queste do­mande!» Poi andò a cercare l'amico e gli spiegò: «Non voglio mentire per coprirti».
Un'altra volta una signora vide nella tasca di Matt «un catechismo socialista del lavoro». Lo ac­cusò di essere marxista. Matt le rispose con parole di fuoco e la signora capì che quell'uomo era fede­lissimo alla Chiesa e nel medesimo tempo ai lavo­ratori.
Un collega parlò con lui di uno dei proprietari chiamandolo «padrone». Matt ribattè: «Non è il mio padrone, è solo un datore di lavoro. Io ho sol­tanto un Padrone in cielo».
Nel 1900 gli operai scioperarono, per una cau­sa che Matt ritenne giusta. E partecipò allo sciope­ro, senza ritornare al lavoro, fino a quando pensò bene farlo. Di nuovo scioperò nel 1913. Non bada­va al proprio interesse: i suoi colleghi gli misero tra le mani l'indennizzo di sciopero, ma egli lo pas­sò ai lavoratori più poveri.
E nelle vertenze di lavoro andava davanti al Tabernacolo a perorare i diritti dei lavoratori.
«Il cuor ch'elli ebbe»
Alla morte di due fratelli, bevitori incorreggi­bili, Matt pagò lui le spese per i funerali. Un gior­no, prima di convertirsi, aveva rubato il violino ad un mendicante. Pentito, andò a ricercarlo per re­stituirgli tutto. Il pover'uomo, nel frattempo, era morto e Matt fece celebrare per lui delle Messe.
Nel 1899 gli morì il padre. Matt andò ad abita­re con la mamma che diventò la testimone della sua profonda conversione. Quando la mamma mo­rì, Matt la pianse e ne suffragò l'anima con lar­ghezza riconoscente.
Ad alcuni compagni di lavoro, volle pagare un giorno un buon paio di scarpe per ciascuno: ne avevano bisogno. Prestava volentieri il suo dena­ro, ma non accettava più la restituzione. Venne una volta un religioso a far «la questua» nella dit­ta dei legnami dove lavorava e Matt gli diede tutto lo stipendio.
Aiutava i missionari, anzi fece studiare a sue spese alcuni aspiranti alla vita missionaria. Vole­va bene ai ragazzi. Thomas O'Kelly che diventò due volte Presidente dell'Irlanda, da ragazzo, tra gli otto e i quindici anni conobbe Matt Talbot, quando faceva il chierichetto. Scrive: «Gli parlai più volte. Ci conosceva e ci chiamava per nome. Ci dava buoni consigli. Certi ragazzi lo burlavano, ma non se la prendeva mai. Mai lo vidi adirato, era sempre calmo, sereno».
Ed amava la sua patria, l'Irlanda, pregava per la sua libertà, ricordava nella preghiera i suoi ca­duti e di essi conservava le foto ritagliate dai giornali.
Era diventato l'uomo dell'amore.
La sua capacità di amare gli veniva dalla pre­ghiera, intensa, fervorosissima, prolungata. Tutto il suo tempo libero lo passava in preghiera.
Scrive il Presidente O'Kelly: «L'ho visto fare la Via Crucis. Più di una volta lo vidi pregare con le braccia spalancate, ad alta voce, gli occhi rivolti al Crocifisso. Sembrava in estasi».
Sul lavoro, nei momenti di requie, estraeva di tasca il suo Rosario e pregava la Madonna. Arrivò ad alzarsi alle due del mattino, per poter pregare fino all'ora di Messa. Sulla porta della chiesa, an­cora a volte chiusa, si inginocchiava e pregava, qualunque tempo facesse.
La sua chiesa era «S. Francesco Saverio», ma di domenica frequentava diverse chiese, per parte­cipare a tante Messe, ognuna secondo un'intenzione diversa. Il suo secondo direttore spirituale, P. Michael Hickey, un prete straordinario, lo aiutò a trasformare tutta la sua vita in preghiera.
Si lasciava guidare: per questo non fu mai strano nelle sue manifestazioni. Un uomo tutto di Dio, ma sempre gentile, cortese, profondamente umano.
«La mia buona Regina»
Per tutta la vita Matt si ritenne un «privilegia­to» di Maria. Non era stata lei la buona Mamma che l'aveva aiutato a strapparsi al bere e l'aveva avviato sulla strada della conversione al Cristo? Dunque, con Maria, occorreva continuare il cammino.
La mamma, mentre negli ultimi anni della sua vita, abitava con lui, si alzava di notte per vedere il «suo bambino» che pregava la Madonna. Con la corona del Rosario tra le mani, Matt parlava con la Madonna.
Un giorno Matt disse alla sua mamma: «Nes­suno sa che buona Regina è Maria per me». Ogni gesto della sua vita, la preghiera, il digiu­no, gli atti di carità, il lavoro, tutto doveva essere ringraziamento per la conversione che Maria gli aveva donato. Gli sembrava di non poter mai fare abbastanza per quell'intervento della Madonna nella sua vita.
Al sabato digiunava in onore della Madonna. Ogni giorno diceva il Rosario intero di quindici de­cine alla Madonna. Lo testimonia anche il Presi­dente O'Kelly, che da ragazzo, vedeva spesso Matt in ginocchio sugli scalini della chiesa, col Rosario tra le mani, oppure all'altare della Madonna. Allo stesso modo raccomandava ai ragazzi di dire tutti i giorni il Rosario.
Parlava della Madonna ai suoi compagni di la­voro. Recitava tutti i giorni l'Angelus. Viveva uni­to alla Madonna la sua «vita con Maria»: ne rivive­va i sentimenti, la fede, l'adorazione umile a Dio, il servizio agli uomini.
«O beata Madre, ottienimi da Gesù di parteci­pare alla sua follia» - era questa la invocazione prediletta.
E alla sera si addormentava con una statuina di Maria col Bambino Gesù sul cuore.
Maria lo condusse a vivere un lungo ininter­rotto «a tu per tu» con Cristo. Per Lui voleva esse­re limpido, puro, senza macchia, come l'Immaco­lata. Aveva una fame senza limiti di Gesù, Pane della vita, che voleva ricevere ogni giorno nella Comunione.
Le ore libere del lavoro, le trascorreva davanti al Tabernacolo: sempre davanti al Cristo, con sua Madre, come per una cura di sole che lo penetras­se tutto e lo riempisse di amore. Arrivò a trascorre­re sette ore della giornata davanti al Tabernacolo.
Discorreva un giorno con una signora. Costei le confidò che era sola e desolata perché suo fra­tello era andato in America. Matt le rispose: «So­la?! Come può sentirsi sola con Gesù nel Taber­nacolo?».
Gesù-Eucarestia era divenuto il centro vivo della sua esistenza.

Sulla vetta

Nel 1921 la sua salute si indebolì. Aveva 64 an­ni. Fu ricoverato al Mater Hospital. Il dottor Moo­re capì che stava curando un santo. Matt si riprese e ricominciò la scalata verso la santità. La vetta non era più lontana.
Nel 1923 fu due volte all'ospedale. Si riprese ancora. Un'altra ricaduta nel 1925, ma la sua fine sembrava ancora lontana. Lavorava ancora. Il 17 giugno, domenica, festa della Trinità, partecipò al­la Messa delle otto e fece la Comunione. Tornò a casa pallido, ma volle uscire di nuovo per parteci­pare ad un'altra Messa.
Stramazzò al suolo, colpito da infarto. Nella zona nessuno lo conosceva. Lo portarono all'ospe­dale. Morì quella sera, solo, poverissimo, scono­sciuto. All'indomani la sorella Susanna, non ritrovandolo, andò all'ospedale e riconobbe la salma. Sui fianchi aveva una catena che gli stringeva le carni.
Il manovale di Dublino ora vedeva il volto di Dio e della sua Mamma, felice.
Il giovedì seguente, - solennità del Corpus Do­mini, si svolsero i funerali. Lo vestirono con il suo abito da Terziario francescano. Seguirono la sua bara i suoi amici operai, i suoi poveri che lui aveva aiutato di nascosto, perché solo Dio sapesse.
In breve tempo tutta l'Irlanda ne parlava. In soli sei mesi furono venduti centoventimila esem­plari della biografia.
I leaders sindacali irlandesi si dissero orgo­gliosi di porre una lapide commemorativa dove Matt era vissuto e lo considerarono uno dei fonda­tori del loro movimento, anzi «un faro di luce» per tutti i lavoratori.
Dopo i processi diocesani per sondare la sua fama di santità, iniziati nel 1931, e quelli apostoli­ci a Roma, Papa Paolo VI lo proclamo «Venerabi­le», cioè eroico nella sua vita cristiana. Lo stesso Paolo VI disse ad alcuni pellegrini di Dublino: «Ho letto la vita di Matteo Talbot; ne sono commosso. È tempo che venga canonizzato. Farò del mio meglio».
Matt Talbot, un povero facchino di Dublino, che Maria trasformò in un eroe del Cristo.

MATTEO TALBOT


Postato da: giacabi a 13:56 | link | commenti
santi, testimonianza, talbot matteo

martedì, 08 agosto 2006

Santa Ildegarda da Bingen
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uomo al centro della terra abbracciato da Dio
Questo immagine si trova in un libro “Storia e visioni di sant’Ildegarda”, http://www.culturacristiana.net/3.strumenti/santi/ildegarda.php una grande santa mistica del XII sec., (è un suo disegno riguardante una delle tante visioni) è la rappresentazione del mondo con al centro l’uomo. Il mondo è circondato dalle acque come si riteneva che fosse ma a sua volta è circondato da un abbraccio di fuoco, che è l’abbraccio amoroso di Gesù. L’uomo è veramente al centro del mondo solo se riconosce che il mondo è dentro l’abbraccio di Dio, della  Verità, della Bellezza, della Giustizia, dell’Amore. Solo così veramente l’uomo è al centro del mondo. Altrimenti, come abbiamo potuto constatare in questi ultimi 600 anni,  l’uomo  dimentico di Dio può combinare solo guai, vedi le ideologie e adesso  le manipolazioni genetiche in nome della pseudoscienza.uomo al centro della terra convinto di essere Dio

L'omino di Leonardo XV secolo

Postato da: giacabi a 15:21 | link | commenti
santi, medioevo, cristianesimo

giovedì, 13 luglio 2006
A proposito di San Benedetto


Ho letto questo Interessante articolo di don Luigi Negri, vescovo di San Marino, su San Benedetto che vi propongo:
Introduzione a Benedetto da Norcia
sussidio per la Scuola di Comunità, tratto da Litterae Communionis, anno VII, aprile 1980, p. 20.

"Le invasioni germaniche posero ai cristiani un problema doloroso: dai tempi di Costantino e, soprattutto, di Teodosio, la loro Chiesa si era integrata all'impero e la loro religione era diventata quella di Roma; ecco che ora, sotto la pressione dei barbari, l'impero e Roma vacillano. Che fare? Trincerarsi dietro un angusto nazionalismo e rifiutare ogni contatto con gli invasori? o abbandonare il mondo antico e unirsi ai Germani?
Alcuni uomini risolsero il dilemma. Pensatori come Agostino, nel «De civitate Dei», e Salviano, nel «De gubernatione Dei», trasferirono gli eventi storici in una prospettiva soprannaturale: non si trattava che di una crisi fra le tante che il mondo aveva conosciuto, una crisi di cui i cristiani dovevano comprendere il significato, ma che non poteva turbarli, né arrestarli. Uomini d'azione, come Germano d'Auxerre, continuarono la loro attività quotidiana, senza porsi ansiose domande sull'avvenire, e gli uni e gli altri dettero l'esempio ai loro correligionari. Da romani e da patrioti, questi difesero l'impero agonizzante e, morto, lo piansero; ma «da credenti nella provvidenza del Padre, nella presenza del Figlio e nell'aiuto dello Spirito, non si perdettero in vani rimpianti e si volsero verso il nuovo Occidente».
Nel volgere di tre secoli i loro vescovi, preti e monaci vi compirono un'opera considerevole; conquistarono i singoli, evangelizzarono i Germani ariani o pagani e gli autoctoni, soprattutto le popolazioni rurali, che la Chiesa non aveva ancora raggiunto; poi intrapresero l'opera, meno appariscente ma più difficile, di «cristianizzazione». Nello stesso tempo, intervennero sempre più nella vita collettiva; eredi del genio organizzatore di Roma, aiutarono i regni barbarici a svolgere la loro missione politica; essendo gli unici rappresentanti della cultura, si dedicarono, sostituendo la decadente società civile, all'insegnamento, alle scienze, alle lettere, alle arti. Gettarono così le fondamenta di quell'unità religiosa e spirituale che doveva rivelarsi decisiva per il medioevo".
L. Genicot, «Profilo della civiltà medievale», p. 73-74.

In questa pagina uno dei più grandi storici del medioevo ha indicato con chiarezza la grande sfida che la Chiesa cattolica riceveva dalla storia, nella rovina dell'impero romano e sotto l'incalzare dei nuovi popoli barbari che prendevano, di forza, il loro posto nel mondo di allora. La Chiesa ha saputo raccogliere questa sfida e vi ha risposto, mostrando che la fede sa, per sua natura e per sua forza, generare un mondo di valori umani, una civiltà per l'uomo.

San Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale, è la personalità in cui questa capacità diventa assolutamente esemplare: la sua persona e la sua opera rimangono l'immagine dell'energia che costruisce, lentamente ma irresistibilmente, il mondo cristiano medievale ed, insieme, la civiltà europea. Per San Benedetto la fede è il principio che lo ha chiamato a vita nuova ed ha conferito a lui una personalità nuova: è il principio sintetico capace di fornire i criteri per giudicare e l'intelligenza e la energia per agire. Uomo di fede, cristiano, perciò, prima ancora che romano: ma, proprio per questo, capace di valorizzare pienamente l'esperienza della romanità e di rilanciare il suo genio organizzativo in nuove forme e con nuova responsabilità. In lui è chiaro che la fede illumina la vita e la educa a piena maturità umana, personale e sociale.

Una grande intuizione ha folgorato san Benedetto, e questa intuizione è la chiave di lettura di tutta la sua opera e dell'Europa cristiana che di questa opera è il frutto maturo. L'intuizione che, dalla fede vissuta in Cristo e per la fede vissuta in Cristo, nasce una realtà sociale, una capacità di coinvolgimento umano, una struttura sociale.

Il monastero benedettino è la prima realtà in cui, in modo elementare, si è espressa questa capacità sociale della fede. Nel monastero benedettino, per il fondamento che è la fede, sono accolti tutti, schiavi e liberi, romani e barbari, vincitori e vinti, dotti e indotti; e su quest'unico fondamento può nascere una convivenza che, nel mondo, sarebbe impossibile. Le differenze che nel mondo sono incolmabili e spunto per violenze continue vengono accolte dentro una unità più grande: quella della fede. Dal monastero benedettino tutto il cattolicesimo occidentale impara così la sua dimensione di popolo e la sua incidenza storica.

In questa fraternità «ordinata» avviene un cammino educativo per la persona. Il primo fine della fraternità è l'aiuto a svolgere la certezza della fede fino a giudicare presente e passato. Senza l'amore dei monasteri benedettini per la storia passata i grandi documenti letterari, storici, filosofici, scientifici e artistici del mondo antico non sarebbero stati «fisicamente » salvati, e tutto il mondo antico ed i suoi valori sarebbero naufragati.

Nel convento benedettino si sperimenta che la comunità cristiana è fonte di cultura. La memoria dell'avvenimento di Cristo diviene intelligenza, coscienza morale, personale e sociale. Una fraternità così fondata sulla fede educa la persona ad assumere liberamente la propria responsabilità morale ed a vivere la propria creatività personale.

San Benedetto ha testimoniato a pagani e a barbari, e addirittura ai cristiani, che il cristianesimo non è una dottrina astratta ma è una realtà viva documentabile e storicamente incidente. La fraternità benedettina ha mostrato infatti la capacità di incidenza operativa della fede creando una nuova nozione ed una nuova immagine del lavoro.

L'uomo nuovo cristiano si esprime infatti nel lavoro e il lavoro è la utilizzazione della realtà, spirituale e materiale, libera o determinata, per affermarvi il valore per cui si vive. Mentre il lavoro è per tutto il mondo antico un peso, soprattutto quello manuale, da far fare agli schiavi perché l'uomo libero (il vero cittadino) possa vivere il suo «otium», il mondo cristiano ha operato un rovesciamento radicale. Ogni lavoro (anche quello manuale, anche quello durissimo che sarà realizzato da migliaia di monaci per bonificare l'Europa dalle paludi e per rinnovare il ciclo dell'agricoltura, elemento primario della nuova Europa) è fatto nello spirito di un'offerta intelligente ed appassionata di sé a Dio, che potenzia una dedizione dell'uomo a trasformare le stesse condizioni materiali in cui è chiamato a vivere.

Così il lavoro diventa sintomo di libertà e di creatività. Nel monaco che «prega e lavora», che vive in una comunità di liberi ed uguali eppure in un «ordine» religioso, nel monaco che accoglie con responsabilità ed impegno la grande sfida di quella situazione, l'Europa cristiana contempla il fattore dinamico che l'ha creata.

Dietro l'«ora et labora» benedettino, che è stato per più di mille anni la grande regola intellettuale e morale dell'uomo medievale, sta un profondo suggerimento per il nostro presente e per la nostra responsabilità di cristiani di fronte alla realtà. Di fronte al vecchio mondo anticristiano che sta morendo e ancor più nei confronti del nuovo mondo alla cui costruzione siamo chiamati, come Benedetto, con la forza della fede nel Signore e con l'aiuto della fraternità che da questa fede nasce.

http://www.storialibera.it/epoca_medioevale/monachesimo/introduzione_a_benedetto_da_norcia.html

Postato da: giacabi a 07:36 | link | commenti 

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