San Luigi Orione
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santi, don orione
Steensen, Niels (1638 - 1686)
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Francesco Abbona
Giovanni
Paolo II, Omelia e Discorso in occasione della beatificazione di Niels
Steensen, Roma 23.10.1988, Insegnamenti XI,3 (1988), pp. 1304-1311 e pp. 1315-1318.
I.
Cenni biografici - II. I contributi scientifici - III. Il metodo di
studio - IV. La personalità e le convinzioni - V. Il pensiero filosofico
- VI. Il rapporto scienza-fede.
Nel
panorama scientifico del Seicento Niels Steensen occupa una posizione
secondaria rispetto ai grandi nomi di Keplero, Galilei, Newton,
Cartesio, Pascal, eppure è una personalità non meno geniale e certo
delle più affascinanti di quel secolo così decisivo per la storia della
cultura. «È uno dei grandi spiriti della sua epoca» (Gohau, 1990, p.
32). A
renderlo tale non sono solo le sue scoperte fondamentali in anatomia ed
in altre discipline, che lui stesso inaugura come paleontologia,
geologia e cristallografia, ma soprattutto le sue qualità: spirito di
ricerca, rigore di metodo, unità di pensiero e di azione, onestà e
integrità di vita.
In
un'epoca in cui si stavano consolidando i nazionalismi, egli percorse
l'Europa con autentico spirito universale, che non ignora il paese
d'origine, ma sa integrarlo in una sintesi culturale di più ampio
respiro. Per questo è anche una delle personalità più rappresentative ed
interessanti dell'Europa del suo tempo, di attualità anche per l'Europa
di oggi.
I. Cenni biografici
Niels
Steensen, in latino Nicolaus Stenonis, in italiano Niccolò Stenone,
nacque il 1° gennaio 1638 (calendario giuliano) a Copenhagen da Steen
Pedersen, discendente di una famiglia di pastori luterani, orafo e
fornitore della casa reale, e da Anne Nielsdatte. Niels rimase orfano di
padre all'età di 6 anni; la madre si risposò successivamente altre due
volte, sempre con orafi. Di salute cagionevole, il piccolo Niels
trascorse l'infanzia in compagnia di adulti, di cui seguì con curiosità
le conversazioni serie e gravi, ispirate ad un luteranesimo praticato
con fede e devozione. All'età di dieci anni fu avviato agli studi
primari nella scuola di Notre Dame. Qui sotto la guida di appassionati
insegnanti ricevette una buona educazione umanistica e letteraria,
apprendendo anche nozioni di matematica e scienze naturali. La posizione
della famiglia gli consentì di frequentare famiglie illustri, tra cui
quella di Simon Paulli, professore di anatomia e medico personale del
re. L'ambiente era austero, come suggeriscono le massime sapienziali di
casa Paulli: «Uomo, ricordati dell'eternità! L'occhio di Dio è posato su
di te». «Vivi pensando alla morte, il tempo passa, noi non siamo che
ombre». Frequentava il laboratorio paterno, dove assisteva e spesso
partecipava alle operazioni che vi si svolgevano: misura di volumi,
saggi chimici, molatura di lenti, osservazioni al microscopio,
costruzione di macchine idrauliche.
La
vita era dura e precaria: nel 1648 era finita la guerra dei trent'anni e
di lì a poco, nel 1657, sarebbe scoppiata la guerra con la Svezia. Nel
1654 la peste portò via un terzo della popolazione di Copenhagen e metà
dei compagni di Stenone, ma le pratiche della carità cristiana erano
vive: anche Stenone si era prodigato nella sepoltura dei compagni.
A
diciott'anni si iscrisse all'Università di Copenhagen, scegliendo come
campo di studi medicina e scienze naturali, mentre avrebbe preferito
matematica e geometria.
Tra i professori ebbe i fratelli Thomas e Rasmus Bartholin: il primo
era un famoso anatomo; il secondo, allievo di Cartesio, coltivava la
geometria cartesiana e le scienze naturali. Le personalità che più
ebbero influenza furono però Ole Borch e Simon Paulli, entrambi cultori
di scienze naturali e della sperimentazione. Il periodo era tutt'altro
che favorevole agli studi: il 9 agosto 1658 Copenhagen venne posta in
stato d'assedio dalle truppe del re svedese Carlo X Gustavo, per cui gli
studi furono interrotti. Stenone, arruolato nella difesa della città,
si dedicò nei momenti liberi alla lettura nella Biblioteca
dell'Università ed in altre private. Dopo che l'assedio venne respinto
(11 febbraio 1659), Stenone volle fare il punto sullo stato delle sue
conoscenze e più in generale della sua vita, e stese tra l'8 marzo e il 3
luglio 1659 una specie di diario, che intitolò Chaos, testimone prezioso per comprendere la formazione e la personalità dello Stenone.
Nel
1659, terminato il triennio di studi all'Università di Copenhagen,
passò a completare i suoi studi in Olanda, allora all'apogeo della
potenza ed in pieno rigoglio intellettuale e culturale, con cui la
Danimarca intratteneva stretti rapporti commerciali e culturali. Scelse
come sede Amsterdam, dove poco dopo il suo arrivo (Pasqua
del 1660) fece la prima scoperta in anatomia: il dotto che porterà il
suo nome, che trasferisce la saliva dalla parotide alla cavità orale.
Questa scoperta fu causa di una controversia tra lui e il suo
professore, Blasius, che cercò di appropriarsene; essa si concluse solo
nel 1663, con il riconoscimento della paternità a Stenone. L'esperienza
di Amsterdam lo deluse, cosicché dopo aver sostenuto una dissertazione
sulle acque termali, De Thermis, nel luglio dello stesso anno
si trasferì a Leida, sede di una celebre Università. Qui trovò un
ambiente stimolante e favorevole alle ricerche anatomiche, dove
insegnavano valenti studiosi, tra cui Francesco de la Boe (Sylvius) e
Jan van Horne. Nel giro di tre anni conseguì risultati ragguardevoli, consegnati in quattro dissertazioni (Observationes anatomicae), che lo imposero all'attenzione dell'Europa scientifica. Per questi meriti fu nominato dottore in medicina in absentia (4.12.1664).
Il
soggiorno a Leida rappresentò un momento fondamentale anche sotto un
altro aspetto. L'ambiente intellettualmente vivo e tollerante, dove gli
interessi scientifici si intrecciavano con quelli filosofici e
teologici, e la frequentazione di Baruch Spinoza (1632-1677) furono
all'origine di un profondo ripensamento delle convinzioni religiose. La
riflessione sulle sue esperienze in anatomia gli consentì di superare la
crisi e di rinsaldarsi nella fede dei padri. Nella primavera del 1664
ragioni familiari lo costrinsero a ritornare a Copenhagen. Qui pubblicò
tre dissertazioni, tra cui una De musculis et glandulis in cui
riassunse i risultati delle sue ricerche. La mancata nomina a professore
di anatomia e la morte della madre lo indussero a lasciare la città
nell’agosto del 1664.
Si
portò quindi a Parigi dove si trovavano alcuni suoi amici. Qui la fama
di anatomo gli aprì le porte del circolo di Melchisedec Thévenot, un
mecenate umanista, che raccoglieva l'aristocrazia intellettuale e
scientifica di Parigi. Eseguì alcuni lavori di embriologia e numerose
dissezioni, che lo fecero altamente apprezzare, e tenne una celebre
conferenza sul cervello (Discours sur l'anatomie du cerveau).
Anche in questo soggiorno si manifestarono i vasti interessi di Stenone,
in particolare quelli religiosi, suscitati dal contatto con persone ed
istituzioni cattoliche. Importanti furono i colloqui con Maria
Perriquet, cugina di Thévenot, alla cui azione egli attribuì un ruolo
decisivo nella sua evoluzione religiosa.
Verso
la fine dell'estate del 1665 lasciò Parigi per un lungo viaggio in
Francia, che lo portò tra l'altro a Montpellier. Qui conobbe W. Croone,
J. Ray e M. Lister, naturalisti inglesi interessati alla
In quello stesso periodo si verificò un avvenimento decisivo per la sua vita spirituale. Il 2 novembre 1667, dopo lunghe approfondite riflessioni, decise di abbracciare la fede cattolica.
Il passaggio al cattolicesimo non modificò il suo stile di vita né le
sue ricerche, ma suscitò ripercussioni negative in ambito protestante.
Di fronte a critiche spesso ingenerose, Stenone intervenne più volte
con scritti ora apologetici ora polemici. Furono probabilmente queste
reazioni a far sì che egli lasciasse cadere l'invito del suo re a
rientrare in patria, cui peraltro rimase sempre profondamente legato.
Nell'autunno del 1668 intraprese un lungo viaggio per l'Europa. Prima visitò Roma e Napoli, quindi risalì a Bologna, dove compì studi anatomici con Malpighi; fu poi a Innsbruck, dove le ricerche anatomiche (De vitulo hydrocephalo)
si accompagnarono ad escursioni mineralogiche e geologiche in Tirolo e
dintorni. Fu a Vienna. Visitò le famose miniere di Scemnitz e Kremnitz,
donde inviò minerali a Firenze. Da Praga si portò in Olanda, dove rimase
fortemente impressionato dalle condizioni di indifferenza, se non di
Nel luglio 1672, dopo otto anni di assenza, rimise piede a Copenhagen. Pur essendo anatomicus regius,
le sue lezioni e dissezioni si svolsero tuttavia in case private. Una
sola fu la dissezione pubblica, di cui fu pubblicato nel 1673 il Prooemium. Durante il soggiorno si occupò anche del sistema muscolare degli animali e pubblicò la prima grande monografia di zoologia: Historia Musculorum Aquilae
(1673), che fu anche l'ultimo lavoro scientifico di Stenone. Lo stato
di incertezza personale, alcuni attacchi da parte protestante, il
restringimento della libertà religiosa lo convinsero ad abbandonare la
Danimarca per rientrare a Firenze, dove Cosimo III lo attendeva.
Nel Natale del 1674 lo troviamo a Firenze, dove fu nominato precettore del principe ereditario, per il quale scrisse: Trattato di morale per un principe. L'interesse religioso si concretò nella scelta del sacerdozio: il 13 aprile del 1675, giorno di Pasqua, fu ordinato sacerdote.
Da questa data fino alla morte (1686), Stenone non si occupò più
direttamente di scienza per dedicarsi interamente agli impegni del suo
ministero sacerdotale. Furono dodici anni di vita condotta nel più puro
spirito evangelico di povertà, dedizione agli altri e ascesi «per amor
di Dio». Furono anni molto duri, per le difficoltà obiettive
dell'ambiente in cui fu inviato ad operare, la Germania del Nord, e per
le incomprensioni che gli vennero anche dalla comunità cattolica. Pur
mite di carattere, si dimostrò inflessibile in un caso di simonia e
comandò ai missionari di tenere linguaggio e comportamento evangelici
nella polemica contro i protestanti.
Il 26 settembre 1677, su richiesta del duca di Hannover, il cattolico Giovanni Federico, Stenone fu nominato vescovo di Hannover; qui strinse relazione con
II. I contributi scientifici
Fu
detto che Stenone era come il re Mida: ogni cosa che toccasse, la
trasformava in oro, nell'oro della conoscenza. E difatti in tutti i
settori disciplinari che affrontò, lasciò una traccia duratura:
anatomia, geologia, paleontologia, cristallografia. Gli scritti si
distaccano nettamente da quelli dei suoi contemporanei per chiarezza,
concisione, forza di argomentazione, rifiuto di vane speculazioni,
evidente riflesso di un pensiero geniale, dalle idee chiare e distinte.
Riepiloghiamo quindi, in modo schematico, alcuni dei risultati più
significativi.
Impareggiabile anatomo, era di una grandissima abilità manuale e di eccezionale chiarezza espositiva: «la
cosa più straordinaria in lui è che egli fa tutto in modo così evidente
che uno è costretto a convincersi, e fa meraviglia che le stesse cose
siano sfuggite a tutti i precedenti anatomi» (Journal des Sçavans, 1665). Appena ventiduenne,
scopre il dotto parotideo (che da lui prende nome), e nel giro dei tre
anni successivi compie una serie di importanti scoperte sulle ghiandole,
da lui definite un «capolavoro del Creatore», che farà dire a H. Moe, storico della medicina: «rivoluziona le idee sulle ghiandole e ne fonda la scienza». A
lui spetta il merito di avere distinto tra ghiandole secernenti e
ghiandole linfatiche e di aver dato la corretta interpretazione della
funzione secretiva ghiandolare. Rettifica l'interpretazione data da
Cartesio circa la formazione delle lacrime e spiega la continuità della
lacrimazione rispetto al pianto.
Anche sul cuore i suoi apporti sono decisivi: dimostra che il
Anche
il cervello «principale organo dell'anima» è oggetto delle sue ricerche
ed è al centro di una celebre lezione tenuta a Parigi, pubblicata con
il titolo Discours sul l'anatomie du cerveau (1669). Definita
come «un raggio di luce nell'oscurità» (O.J. Rafaelsen, in Poulsen
et al., 1986), quest’opera «è il vero punto di partenza dei moderni
studi sul cervello» (Darenburg, 1870, in Poulsen et al., p. 27);
contiene una lucida denuncia della radicale insufficienza delle
conoscenze e delle idee preconcette sul cervello ed è altresì un testo
fondamentale per la metodologia di studio del cervello e per le prime
descrizioni di anatomia comparata. Interpreta le circonvoluzioni
cerebrali come sede delle funzioni superiori, contrariamente a Cartesio,
che attaccato allo schema interno-esterno non vi vedeva che una specie
di imballaggio o involucro.
Stenone si occupa anche dell' organo riproduttivo femminile. Comparando
gli organi sessuali di animali e di esseri umani, scopre che gli organi
detti «testes muliebres» sono ovaie, destinate a produrre uova,
trasportate nell'utero lungo le trombe uterine (tube di Falloppio).
Non mancano altri studi anatomici, tra cui indagini sull'embriologia
del pulcino; studio della muscolatura di un'aquila; anatomia dei
selacei.
Il trattato Elementorum Myologiae Specimen del 1667 contiene due appendici Canis carchariae dissectum caput e Dissectus piscis ex canum genere, dove la dissezione di una testa di squalo lo porta quasi insensibilmente a ricerche prima paleontologiche e poi geologiche.
Dalla rassomiglianza dei denti di squalo attuali con le glossopietre,
oggetti duri di forma triangolare presenti in certi terreni, in
particolare a Malta, egli perviene ad una corretta interpretazione della
natura dei fossili, resti di animali marini vissuti in epoche
precedenti. Già altri, tra cui Leonardo da Vinci (1452-1519) e Fabio
Colonna (1567-1640), si erano espressi in tal senso. Il merito di
Stenone è di averne dato una chiara dimostrazione e soprattutto di aver
saputo cogliere il significato della loro presenza collegandola ai
sedimenti che li includono. Per questi lavori Stenone è considerato il fondatore della paleontologia.
«I princìpi della ricerca così eccellentemente stabiliti da Stenone nel
1669 sono quelli che sin da allora, consciamente o inconsciamente,
hanno guidato le ricerche in paleontologia» (T. Huxley, The Rise and Progress of Paleontology, 1881, cit. in Poulsen et al., 1986, p. 187).
Dai
fossili Stenone passa quindi ad occuparsi dell'ambiente del loro
ritrovamento, cioè dei sedimenti. I risultati delle sue ulteriori
ricerche e le considerazioni che ne trae sono consegnate nel Prodromus del 1669. In questo breve, rivoluzionario trattato egli
enuncia i princìpi della geologia stratigrafica tuttora validi (il
principio della sovrapposizione degli strati; della orizzontalità
iniziale e della continuità laterale) e pone così le basi per la
costruzione della scala del tempo geologico. Nelle sue osservazioni
applica implicitamente il principio dell'attualismo, formulato oltre
cent'anni più tardi da Hutton (1795). Studia l'erosione; si occupa del
problema dell'origine delle montagne e ricostruisce le vicende
geologiche della Toscana. Per questi contributi è considerato Geologiae Fundator (come scolpito sul monumento di fronte alla biblioteca universitaria di Copenhagen). Dall’osservazione
dei cristalli di quarzo e di ematite deduce la prima legge della
cristallografia — la costanza degli angoli diedri —
generalizzata nel 1783 da Romé de l'Isle. Respinge come
fantasiose le spiegazioni correnti sulla formazione dei cristalli e
dimostra che essi crescono per deposito di materia sulle facce,
demolendo così l'idea diffusa che si formino come le piante. Propone
il corretto meccanismo di crescita delle facce dei cristalli per strati
e osserva il carattere anisotropo della crescita. Per questo è considerato anche fondatore della cristallografia. Per Schack A. Krogh, premio Nobel 1920 per la medicina, il Prodromus
e i trattati del 1667 sono gli esempi più belli di come si origina e si
sviluppa un’idea scientifica fino alla sua conferma attraverso prove
irrefutabili. E lo storico contemporaneo, Gohau (1990), annota: «la
geologia gli deve molto, anche se ci mise molto tempo per accorgersene, e
non si sia finito di riconoscere il suo merito».
III. Il metodo di studio
La
frequentazione del laboratorio paterno, la sviluppata cultura tecnica
del suo paese, la diffusione del metodo cartesiano spiegano l'importanza
data da Stenone all'esperimento ed all'osservazione come strumenti
privilegiati di conoscenza nell'indagine dei fenomeni naturali. In
questo applicava l'insegnamento di uno dei suoi primi maestri, Ole
Borch: «L'esperienza è la vera via regale che conduce alla conoscenza
della verità». Non che sottovalutasse l'importanza della
teoria, anzi riconosce esplicitamente la necessità di princìpi. Si
legge nel manoscritto dell'opera di Stenone, Chaos: «Nel
campo delle scienze naturali noi non sappiamo nulla se non attraverso
esperimenti ed osservazioni, insieme con tutto quello che può essere
dedotto con i principi metafisici e meccanici». Sono le teorie allora in vigore a suscitare le sue riserve perché non ancorate all'osservazione: «In
questioni di scienze naturali è bene non legarsi ad alcuna teoria, ma
classificare con ordine tutte le osservazioni, cercando di arrivare con
la propria iniziativa ad un risultato».
Il suo punto di partenza è l'assioma di
La
verità rimane l'obiettivo della ricerca. Nello studio di fenomeni
complessi, quali ad esempio il cervello, riconosce che si rende
necessaria l'azione di più competenze ed invita gli studiosi ad unire
gli sforzi «per
conseguire qualche conoscenza della verità, e questo dovrebbe invero
essere il grande scopo per coloro che pensano e studiano con onestà e
serietà». Stenone è conscio della necessità di una visione globale: «poiché
la ricerca scientifica di più aree comporta che uno non possa mantenere
le varie aree isolate le une dalle altre, ma è obbligato a prenderne
molte in considerazione allo stesso tempo. E quanto più a lungo uno è
occupato con il particolare, maggiore è il numero degli elementi di cui
manca nell'insieme»
(cfr. Poulsen et al., 1986, p. 116). Il lavoro dello studioso è duro e
deve mirare ad una conoscenza certa. Scrive Stenone nel Prooemio (1673): «[…]
cercherò di combinare esperienza e ragionamento in modo tale che se non
tutti, almeno molti fatti, quando tutto sia preso in considerazione,
raggiungano la certezza della prova» (cfr. Moe, 1994, p. 138). Tuttavia ammette che l'impresa non è facile soprattutto a causa dei condizionamenti personali: «Poiché
nulla è più difficile che metter da parte i pregiudizi, anche opere
moderne, sebbene sia stata applicata la più grande cura, non risultano
così indenni da non contenere traccia di idee preconcette; e se io
volessi fare eccezione a me stesso, meriterei la censura per il mio
sfrontato orgoglio» (ibidem). Il principio di studio degli oggetti naturali è formulato chiaramente: «Dato un corpo dotato di una figura e prodotto secondo le leggi della natura [qui si riferisce ai cristalli naturali], trovare nel corpo stesso la spiegazione del modo e del luogo della produzione» (De solido... prodromus, 1669).
Il giudizio sulla
Conscio della complessità dei fenomeni naturali e della possibilità di più interpretazioni, onestamente dichiara: «Mentre
dimostro la plausibilità del mio punto di vista, non intendo accusare
di disonestà coloro che sostengono tesi opposte. Lo stesso fenomeno può
essere spiegato in vari modi, invero la natura nei suoi processi
persegue lo stesso fine con mezzi diversi» (cfr. ibidem,
p. 108). Fu sempre ammirato per la sua modestia, che spesso era una
“dotta ignoranza”. A proposito delle prime dissezioni della testa di
squalo: «Non sono ancora arrivato ad un conoscenza abbastanza solida in
questo settore per poter presentare il mio giudizio». Dopo anni di
indagini sul cervello, inizia la sua famosa lezione a Parigi (1665)
confessando: «Signori,
invece di promettervi di soddisfare la vostra curiosità a proposito
dell'anatomia del cervello, vi confesso onestamente e francamente che
non ne so nulla».
Ma nello stesso tempo demolisce tutte le supposte conoscenze di cui
dimostra l'inconsistenza, espone le conoscenze sicure, frutto di
osservazione, e pone le basi per un nuovo metodo di indagine del
cervello. Acutissimo ed ancora attuale è il suo giudizio su questo
organo: «È
cosa certa che il cervello è il principale organo della nostra anima e
lo strumento con cui essa compie cose meravigliose; essa crede di avere
penetrato ciò che è al di fuori di sé al punto che non c'è nulla al
mondo che possa limitare la sua conoscenza: eppure, quando rientra in
casa sua, non saprebbe descriverla e non vi si riconosce più» (OP, p. 3;
Anche
quando tratta di religione, Stenone applica lo stesso spirito critico.
Dibattuto tra confessione luterana e cattolica, si documentò non sulle
traduzioni latine, ma sui testi originali scritti in ebraico e greco,
lingue che aveva appreso in gioventù. E nel confronto tra le confessioni
religiose, utilizza un criterio che è ancora “sperimentale”: Doctrinae veritatem vitae sanctimonia demonstrat (la santità della vita dimostra la verità della dottrina, Lettera a Leibniz, 1675).
IV. La personalità e le convinzioni
Ad
un primo rapido sguardo, la vita di Stenone appare segnata da
instabilità e provvisorietà. Certo essa fu movimentata, come risulta dai
numerosi viaggi che compì per l'Europa — si calcola che abbia
percorso poco meno di 30000 Km, visite pastorali escluse, in circa 27
viaggi — al punto da essere definito dal Redi «pellegrino del mondo
per nativa curiosità». Fu per le sue ricerche in Danimarca, Olanda,
Francia, Italia, Germania, Austria, ma non sostò in nessuna sede per più
di tre anni, se si eccettua Firenze. Fu, come quasi tutti gli studiosi
del suo tempo, uomo di molteplici interessi: scientifici, filosofici,
religiosi. La sua ricerca scientifica fu occasionale e molto differenziata, spaziando dall'anatomia alla geologia.
Un evento mutò radicalmente la sua vita: non tanto il passaggio al
cattolicesimo, quanto l'ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1675, e
due anni più tardi l'elezione a vescovo. Questi eventi significarono
l'abbandono della ricerca scientifica a motivo della sua dedizione
all'attività pastorale.
Il
radicale cambiamento di vita diede luogo ad un dibattito sulle sue
motivazioni, sorto già dopo il suo passaggio al cattolicesimo nel 1667.
Ci fu chi vide opportunismo, inganno, ingenuità. Leibniz ironicamente
gli chiese se aveva trovato la fede cattolica «nel midollo delle ossa» e
sentenziò: «Da grande naturalista è diventato un mediocre teologo», ma
dirà di lui: «Io lo stimo oltre misura, ... e riconosco in lui zelo ispirato da vero amore per il prossimo».
Nel 1881 Capellini, al congresso internazionale di Geologia a Bologna,
espresse il suo interrogativo in forma rude «che desse un addio alle
scienze naturali e si facesse frate, non so perdonarglielo, né so
rendermi ragione come un tale addio non dovesse costargli grandissimo
sacrificio», ma si fece promotore di una lapide sulla tomba di Stenone a
Firenze. Più recentemente fu avanzata un'altra interpretazione: «negli
anni della maturità abbandonò la scienza per una carriera nella Chiesa»
(J.G. Burke, Origins of the Science of Crystals, Berkeley
1966). Per altri «abbandona le attività scientifiche per l'abito talare
forse perché non riesce a conciliare opere scientifiche con convinzioni
religiose» (Y. Gayrard-Valy, I fossili, orme di mondi scomparsi,
Torino 1992) e dello stesso avviso sembra Morello (1979). Secondo
altri, invece, è «una scelta consapevole dell'impossibilità di
conciliare due missioni, che non potevano essere svolte altro che con
una completa dedizione» (Cipriani, 1986).
Eppure,
se c’è una personalità fortemente unitaria, è proprio quella di
Stenone: modo di pensare, convinzioni religiose, metodo di studio,
attività di ricerca, comportamento personale sono così strettamente
intrecciati da una logica interna, conseguente ad un’unica ispirazione
di fondo, che se questa non viene colta, il senso dell'agire risulta
incomprensibile o per lo meno ambiguo. Ciò è dovuto anche al fatto che
Stenone espose il suo pensiero in modo non sistematico, ma occasionale,
cosicché possiamo ricostruirlo solo a partire dall'insieme dei suoi
scritti.
Un'opera
fondamentale per comprenderne la personalità giovanile e gli sviluppi
della maturità è un manoscritto, redatto a 21 anni, che intitolò Chaos,
con l'intestazione, significativa, «In nomine Jesu». È un documento di
grande interesse, in cui egli riporta citazioni, commenti, idee di
esperimenti, progetti di vita. Dimostra di avere letto un centinaio di
opere scientifiche di 80 autori diversi, tra cui Keplero, Galileo,
Cartesio, Gassendi. Manifesta la sua adesione al metodo cartesiano e
alle teorie di
Queste
convinzioni, formatesi nel pio ambiente famigliare, conosceranno una
forte crisi durante il soggiorno olandese, che egli riuscirà a
sormontare grazie ai risultati delle sue osservazioni anatomiche.
Superato lo scoglio di un razionalismo pretenzioso, gli fu più chiaro il
senso del ricercare. Così si esprimerà nel Prooemio (1673): «Questo
è il vero scopo dell'anatomia, che attraverso l'ingegnosa struttura del
corpo gli spettatori siano portati a cogliere la dignità dell'anima e
di conseguenza attraverso le meraviglie del corpo e dell'anima, imparino
a conoscere ed amare il Creatore […]. Pertanto la ragione è sollevata
dalla contemplazione delle singole parti e dal confronto di queste tra
loro, a cercare il Creatore di così grandi meraviglie» (OP, vol. II, p. 242).
Alcuni
tratti della sua personalità sono propri della cultura danese in cui si
era formato: profondo senso religioso, inquietudine spirituale, spirito
di concretezza, senso di lealtà, valorizzazione della tecnica e della
sperimentazione. Altri sono suoi specifici: trasparenza di carattere,
tensione verso unità di pensiero e di vita, acutezza di giudizio, onestà
intellettuale, spirito critico, indipendenza di giudizio, sensibilità
d'animo, affabilità di tratto. Un elemento molto importante, che forse ereditò dall'ambiente di lavoro paterno, fu il senso della
Una caratteristica costante della sua vita furono la ricerca della certezza e della verità, e la coerenza. Riconobbe che oltre la certezza matematica esiste la certezza morale, e che anch’essa ha il suo fondamento nella ragione. Oltre queste esiste una certezza divina, che è il punto di incontro della ricerca dell'uomo e del dono di Dio. Tra le due certezze c'è continuità. Scrive a Leibniz: «Mi
sembra che Dio nella sua provvidenza mi abbia dato le conoscenze e le
scoperte di naturalista come una specie di grazia naturale, affinchè io
fossi preparato a ricevere la grazia sovrannaturale». Ma ammette: «Sed divina certitudo nemini nisi eum experienti demonstrari potest (ma la certezza divina non può essere dimostrata a nessuno se non a colui che ne fa esperienza)» (E, n. 73). Pervenuto a questa certezza, ne trae con logica coerenza le conseguenze: «mi sento spinto dal profondo del cuore ad offrire a Dio ciò che ho di meglio, e il meglio possibile». Decise di offrire i giorni restanti della sua vita. «Dio...
ti ha fatto vedere nella natura ciò che era necessario per confutare
errori di filosofi e medici... ti ha fatto tanti doni... non arrestarti a
questi doni, ma volgiti verso il Donatore! ... Egli ha convertito la
tua anima e ha messo in te l'ardente desiderio dell'eternità presso di
Lui. Quid retribuam Domino pro omnibus quae retribuit mihi? (cfr. Sal 116,12)» (De actionum perfectione in generali). Si orientò verso il sacerdozio «per
poter presentare le azioni di grazie per i benefici ricevuti,
l'espiazione per i peccati commessi e ogni offerta che possa piacere a
Dio» (lettera a Kircher).
È
doveroso qui accennare ai rapporti di Stenone con il mondo protestante.
Oggetto di critiche ed attacchi anche pesanti, rispose sempre con
decisione in numerosi scritti, non transigendo sui principi — era
convinto della verità della dottrina cattolica —, ma sempre
rispettando l'interlocutore. Intervenne sempre e talora duramente contro
i giudizi ingenerosi e le intemperanze da parte cattolica. Vescovo ad
Hannover, seppe conquistarsi la stima dell'ambiente protestante e
attirarsi la simpatia, ricambiata, del vescovo luterano, di cui ammirava
la pietà e la carità. C'erano speranze di un riavvicinamento delle
Chiese, e molti operavano in tal senso. Il più illustre promotore era
Leibniz, che più volte ne discusse con Stenone. Ma le posizioni e le
mentalità dei due erano troppo distanti. Stenone concluse avvertendo
Leibniz, propenso a soluzioni sincretistiche, che «chi asserisce di poter trovare la vera fede in quasi tutte le religioni, stia attento a non ritrovarsi escluso da tutte […]. Non è in alcun luogo, chi vuole essere dovunque»
(Angeli, 1996, p. 244). E fu di fronte a cattolici e protestanti che la
sera del 24 novembre 1686, prima di spirare, fece pubblicamente la sua
ultima confessione.
La
scienza e il sacerdozio furono per lui due modi di realizzare la stessa
profonda aspirazione della sua vita, quale si era già delineata nel suo
diario Chaos. Come si era dato all'una («Il dovere di fare delle ricerche che ci insegnano la verità richiede un uomo tutto dedito, che non abbia che quello da fare», Discorso sul cervello), così si dà tutto all'altra, dove aveva trovato verità e pienezza di vita.
V. Il pensiero filosofico
Stenone occupa un posto singolare nel contesto filosofico del suo tempo. Letture fin dal periodo della stesura di Chaos
e contatti successivi, soprattutto nei soggiorni di Leida, Parigi e
Firenze, lo avevano messo al corrente dei principali filoni di pensiero
dell'epoca. Come appassionato cultore di geometria e matematica, avrebbe
potuto essere attratto dalle idee neoplatoniche e pitagoriche che
dominavano soprattutto in ambito italiano, come studioso di cristalli
avrebbe potuto aderire all'atomismo che sembrava la dottrina più adatta
per spiegare i fenomeni da lui osservati. Stenone invece volle mantenere
separata la ricerca scientifica da passeggere idee filosofiche o
sistemi preconcetti e pervenire piuttosto a leggi ed osservazioni
comunque valide.
La
riserva nei riguardi della filosofia trova una ragione nella sua
esperienza personale. Stenone era stato così affascinato dalla filosofia
razionalista di Spinoza, per cui conta solo il sapere che trova la
certezza nella ragione, che sembra abbia pensato di aderirvi e di
lasciare nel contempo la medicina per la geometria, in quanto strumento
di solida conoscenza. Riuscì a superare il pericolo di «idolatrare il
pensiero umano» grazie alle sue scoperte, fatte proprio in quel periodo:
«In
un modo meraviglioso, contro ogni attesa, Dio mi ha fatto comprendere e
riconoscere la vera composizione del cuore e dei muscoli. Così le loro [dei cartesiani] ingegnose costruzioni sono state rovesciate senza una sola parola, semplicemente da preparazioni anatomiche» (E, n. 72). Riconobbe che la sua fede aveva corso un grosso rischio, ma ne era stato salvato «perchè
Dio con le scoperte anatomiche mi fece rinunciare alla presunzione
filosofica e mi ricondusse poco a poco a ricevere l'amore dell'umiltà
cristiana, che è il più degno amore dell'anima ragionevole» (E, n. 143). Già vescovo, Steensen scriverà a Leibniz nel 1677: «Se
questi signori, che quasi tutti gli studiosi adorano, hanno ritenuto
come dimostrazioni infallibili ciò che io in un'ora di tempo posso far
preparare da un giovinetto di dieci anni al punto che, senza alcuna
parola, la sola vista fa crollare i più ingegnosi sistemi di questi
grandi spiriti, quale sicurezza posso avere delle altre sottigliezze di
cui si vantano? Voglio dire, se costoro nelle cose materiali esposte ai
sensi si sono talmente ingannati, quale sicurezza mi daranno di non
ingannarsi allo stesso modo, quando trattano di Dio e dell'anima?» (ibidem).
Era
l'applicazione coerente del metodo cartesiano da lui seguito a
fornirgli argomentazioni contro le pretese degli stessi cartesiani. Però
precisa: «Io
non critico il metodo di Cartesio, ma il cattivo uso che egli ne fa. Io
debbo al metodo la luce sulle mie idee preconcette; il suo cattivo uso
avrebbe potuto allontanarmi dallo studio della religione, ciò di cui si
hanno molti esempi» (OT, vol. I, p. 390). Stenone aveva infatti constatato che «molti si lasciano
trascinare verso ciò che è ancor peggio del cartesianesimo e, anche se
non si allontanano dal cristianesimo, lasciano che svanisca […]. Questo
si vede bene in Spinoza e seguaci, che dicono di aver spinto la
filosofia cartesiana ancora più lontano, ma in realtà l'hanno rovesciata
con il risultato di essere diventati perfetti materialisti […]. E
poiché al modo di Cartesio non vogliono confessare la loro ignoranza sui
rapporti tra anima e corpo, tra ciò che è pensiero e ciò che è
estensione, sono caduti nel più grave degli errori pretendendo che
pensiero ed estensione siano attributi della stessa sostanza […]. Non
conoscendo che la materia, essi erigono a dio la somma di tutte le cose e
permettono tutti i godimenti dei sensi. Non essendoci libero arbitrio,
la preghiera è vana, perchè la morte non è seguita né da sanzione, né da
ricompensa» (ibidem, p. 388).
La
riserva nei riguardi della filosofia non significa però che egli
escluda princìpi interpretativi a priori. Quando disseziona la testa
dello squalo, enuncia un criterio importantissimo che gli consentirà di
individuare la natura dei fossili: «Con
riguardo alla forma dei corpi […], poichè questa corrisponde
perfettamente a parti di animali, la somiglianza delle forme sembra
suggerire una somiglianza di origine» (GP, p. 110). E a proposito degli esperimenti fatti in laboratorio: «io non dubito che la Natura operi in modo simile nel seno della Terra» (p. 112).
I criteri gnoseologici sembrano ispirarsi ad un realismo di tipo empirico. Dal Prooemio (1673): «C'è
chi accusa i sensi di non mostrare le cose come stanno in sé e di darci
una falsa o incerta impressione di ogni cosa […]. Ma i sensi non sono
intesi a presentarci le cose come sono o a darci un giudizio su di esse;
essi sono intesi a trasmettere per l'investigazione della ragione
quanto del carattere esterno delle cose è adeguato per raggiungere una
conoscenza delle cose che corrisponda alle necessità dell'uomo» (cfr. Moe, 1994, p. 136). È sempre viva in lui la preoccupazione di una conoscenza ben fondata. Sempre dal Prooemio: «allo
scopo di evitare errori, io non mi atterrò alla sola esperienza, né
presenterò esclusivamente argomenti di ragione, ma cercherò di
raggiungere una combinazione di entrambi i punti di vista, cosicché se
non tutto, almeno molto di quello che dirò, possa contenere una certezza
dimostrabile» (cfr. Poulsen et al., 1986, p. 132).
Egli si avvicina dunque alla natura senza preconcetti di tipo magico-numerico, e mutua da Cartesio e
VI. Il rapporto scienza-fede
Sulla
base delle considerazioni sopra svolte, appare evidente che non ci fu
conflitto in Stenone tra fede religiosa e sapere scientifico. Se
tensione ci fu, fu tra visione religiosa e concezioni filosofiche. Come
la grande maggioranza degli studiosi del Seicento, Stenone era cresciuto
in un contesto culturale ove vigeva una triplice fede: in Dio, nella
intelligibilità del reale e nelle capacità della ragione umana di
raggiungere la
Commentando
le varie modalità di inserimento dei vasi linfatici nella vena cava,
annota, riferendosi al determinismo di Spinoza, che sosteneva la
necessità del tutto: «Da
questa eccezionale varietà negli individui della stessa specie è facile
dedurre che, tra gli attributi della Divinità che noi possiamo
conoscere attraverso lo studio dei corpi, Dio creatore ha voluto
proporci anche questi due: che Egli non è trascinato dal caso, perchè
segue una regola generale, e che nello stesso tempo Egli non è costretto
da alcuna necessità, perchè in ciascun individuo cambia liberamente le
condizioni particolari» (OP, vol. I, p. 142).
I risultati delle ricerche geologiche sono inseriti nella concezione biblica del suo tempo (
Pur avendo il grande merito di avere introdotto i fondamentali concetti di
Come
profonda era la sua passione per la scienza, altrettanto intensa era la
sua fede. Sono frequenti nei suoi scritti anche scientifici le note
vibranti della sua personale preghiera. Già le prime annotazioni
giovanili, riportate nel manoscritto Chaos, rivelano uno spirito profondamente religioso: «Conducimi,
o Signore, per la gloria del tuo nome. Dammi di poter fare qualcosa di
buono con ordine e costanza». «Dio mio, concedimi la forza di astenermi
da ogni peccato, soprattutto da ogni giudizio troppo affrettato e
sconsiderato, e da affermazioni su cose a me sconosciute o non
perfettamente note». «Oggi
ho fatto ben poco di buono. Perdona, o Dio... Fa' che abbia sempre
davanti agli occhi l'idea della morte, e sulle labbra le parole: memento
mori». E ancora: «Sii presente, Gesù, con la tua grazia!».
La
ricerca scientifica porta elementi di contemplazione al suo spirito
riflessivo e la spiritualità si affina. Già prima del passaggio alla
confessione cattolica, a 25 anni, redige la preghiera che porterà sempre
con sè: «Tu,
senza il cui cenno non cade capello dal capo, foglia dall'albero,
uccello dall'aria, né viene un pensiero alla mente, una parola alla
lingua, un movimento alla mano, Tu mi hai condotto finora su vie a me
sconosciute. Guidami ora, veggente o cieco, sul sentiero della Grazia. A
Te è certamente più facile accompagnarmi là, dove Tu vuoi che io vada,
che a me tenermi lontano da ciò, cui il mio ardente desiderio mi
sospinge» (OT, p. 387).
La
meraviglia di fronte alle bellezze della natura che egli stesso ha
contribuito a scoprire lascia il posto ad una meraviglia più profonda
che si trasforma in gioia quando si sente oggetto dell'attenzione
speciale di Dio: «La grazia
divina mi riempie di una tale felicità che i miei amici possono vedere
la mia gioia interiore da segni esterni. Ma questa certezza divina non
vale che per chi la esperimenta» (E, n. 73). Johann von Rose testimoniò che «erano
evidenti la sua gioia e la sua esaltazione, quando parlava della gloria
di Dio e del bene delle anime, e lo faceva con tanta grazia che anche
gli eretici restavano catturati dal suo fascino, e spesso si
convertivano parlando con lui» (cit. in “Stenoniana” (1991), p. 103). Al tempo del suo apostolato missionario in Germania scrive: «Quanto
meno l'umana speculazione si aspetta in materia divina, tanto più
chiaro emerge alla luce del giorno il disegno della Provvidenza. […] In
questioni apostoliche uno deve agire in modo apostolico, afferrando le
occasioni come vengono e lasciando l'esito alla clemenza divina» (ibidem, p. 107).
Viene l'ora della sofferenza fisica. Sul letto di morte confessa: «Soffro
dolori indicibili e spero, mio Dio, che essi Ti inducano a perdonarmi,
se non penso costantemente a Te. Non Ti chiedo di liberarmi da questi
dolori, bensì di concedermi la grazia di saperli sopportare con santa
pazienza. Se dalla Tua mano abbiamo accettato il bene, perchè non
dovremmo accettare anche il male? Sia che Tu ora voglia che io continui a
vivere oppure che io muoia, io voglio solo ciò che Tu vuoi, mio Dio.
Sii lodato in eterno, e sia fatta la Tua volontà!» (J. von Rose, La vie et la mort de Sténon,
cit. in Moe, 1994, p. 166). Il giorno prima di morire si preoccupa
dell'estinzione di un debito di 300 talleri e acutamente descrive i
sintomi del suo male. Chiude l'esistenza terrena con l'invocazione
giovanile: «Jesu, sihi mihi Jesus! — Gesù, sii sempre per me Gesù».
Francesco Abbona
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santi, testimonianza, stenone
Grazie Don Benzi!
Un mendicante d'anime sui viali della riviera romagnola
***
L'editoriale (03 novembre 2007)
di Marina Corradi
«Se
chiama qualcuno dalla strada e vuole venirne via, dare subito il numero
di cellulare di don Oreste». La scritta in caratteri grossi, neri,
dietro la scrivania in una stanza di via Grotta Rossa a Rimini, era
imperiosa. L’ordine della casa, cui nessuno poteva contravvenire. Nel
caso di un barlume di ripensamento, magari nello sfinimento di un’alba
livida su un viale di periferia, don Benzi – 58 anni di sacerdozio –
sapeva che bisognava esserci, subito: prima che la rassegnazione
seppellisse il principio di una sparuta speranza.
Il vecchio prete morto nel suo letto, nel sonno, tra la notte dei Santi e quella dei Morti, aveva sotto la tonaca lisa qualcosa di una statura epica. A seguirlo nel fondo delle notti riminesi, nei giri in cui raccattava prostitute e drogati per convincerli a cambiare vita, si aveva inizialmente l’impressione di uno straordinario don Chisciotte. Le ragazze dei viali guardavano come un folle gentile quel prete coi capelli bianchi che prometteva una vita diversa. Pareva, ad accompagnarlo in quelle bolge notturne, surreale il dialogo fra un sacerdote ottantenne e rumene o nigeriane diciottenni. Credevi che quelle ragazze sarebbero scoppiate a ridere. Invece no: lo ascoltavano, infastidite prima, poi meravigliate. Guarda, diceva il vecchio nella luce rossastra dei falò, che tu non sei nata per vivere così, guarda che puoi ricominciare tutto da capo. E sotto il trucco pesante, da marciapiede, due occhi lo guardavano, stupiti, dopo tanto tempo, nel sentirsi guardare come qualcosa di prezioso. Cinquecento donne hanno cambiato vita incontrando una notte quel prete. Un cacciatore d’anime sui viali della riviera romagnola; o, più che cacciatore, un mendicante. Gentile, ostinato, allungava tenacemente la mano. Non si arrendeva mai. Un combattente, anche. Uno che si alzava alle 5 del mattino e diceva le Lodi e il rosario in macchina, in viaggio verso uno dei 33 centri della Comunità Giovanni XXIII. Tuttavia, il mare di cose che riusciva a fare, a stargli accanto solo per qualche ora, pareva quasi un secondo lavoro rispetto al vero centro delle sue giornate: la preghiera, ora esplicita, ora interiore. Baricentro costante e silenzioso. Era strano vedere un sacerdote in tonaca nera fra la folla vociante e sguaiata delle notti di Rimini. E arrancandogli accanto – a 80 anni, alle due di notte don Oreste non era stanco – domandavi se non si sentiva a disagio, in quel caos. «A disagio? Qui sto benissimo. Faccio contemplazione. Cerco Cristo nella faccia di tutti quelli che incontro». È stata la profezia di don Benzi: per trovare Dio non occorre chiamarsi fuori dal mondo, o frequentare buone compagnie. In mezzo agli uomini invece, nelle loro notti avide o smarrite, a riconoscere cosa c’è davvero dietro quell’ansia di vivere – che cosa attendono e non trovano, nell’ebbrezza del buio e dell’estate, in fondo a nessun gioco o bicchiere. In mezzo agli uomini, tra di loro e anzi tra quelli che crediamo peggiori. A testa alta, sicuro – eppure sempre con quella mano aperta e tesa. Ci resterà, di don Benzi, il ricordo di un colloquio nel suo studio con una giovane prostituta africana appena sfuggita ai suoi protettori. Guardavamo in basso, e così abbiamo notato i piedi. Quelli della ragazza, neri, agili come di una gazzella inseguita, e irrequieti di paura. Quelli di don Oreste, le scarpe grosse con le suole consunte da prete di marciapiede. Immobili, piazzati a terra come colonne. Come di chi ha radici di una fede profonda, e non oscilla, e non ha paura di nessuno.
***
Il
commento al brano biblico di Giobbe (19,1.23-27) scritto da don Benzi
per venerdì 2 novembre, Commemorazione di tutti i fedeli defunti, e
giorno in cui lui è tornato al Padre
Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che sarà vicino dirà: è morto. In realtà è una bugia. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma in realtà la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa terra mi apro all'infinito di Dio. Noi lo vedremo, come ci dice Paolo, faccia a faccia, così come Egli è (1Cor 13,12). E si attuerà quella parola che la Sapienza dice al capitolo 3: Dio ha creato l'uomo immortale, per l'immortalità, secondo la sua natura l'ha creato. Dentro di noi, quindi, c'è già l'immortalità, per cui la morte non è altro che lo sbocciare per sempre della mia identità, del mio essere con Dio. La morte è il momento dell'abbraccio col Padre, atteso intensamente nel cuore di ogni uomo, nel cuore di ogni creatura. (da Pane Quotidiano novembre-dicembre 2007) |
Postato da: giacabi a 15:04 |
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santi, testimonianza, don benzi
n. 260 del 2007-11-03
È morto Don Benzi il prete di strada che aiutava i disperati
di Andrea Tornielli
Stroncato
a 82 anni da un infarto, ha speso una vita dalla parte dei giovani, gli
emarginati e le prostitute. La testimonianza di Alina, 23 anni: "Don Oreste mi ha strappato dalla schiavitù"
da Milano
Le ultime parole le aveva preparate per la liturgia di ieri, per commemorazione dei defunti: «La morte non esiste, perché appena chiudo gli occhi a questa terra, mi apro all’infinito di Dio».
Don Oreste Benzi, il prete fondatore dell’Associazione Comunità
Giovanni XXIII che ha speso la sua vita per aiutare poveri, abbandonati,
bambini senza famiglia e disadattati, prostitute schiavizzate, non
poteva immaginare, mentre vergava quelle parole, che il momento di
chiudere per sempre gli occhi in questo mondo sarebbe arrivato così
presto.
Il
sacerdote si è spento l’altra notte presso la parrocchia della
Resurrezione di Rimini dove abitava, stroncato da un infarto. Due sere
prima era a parlare ai giovani all’entrata di una discoteca di
Cattolica, mentre poche ore prima di morire aveva espresso il suo dolore
per la morte di Giovanna Reggiani, la donna assalita e massacrata da un
giovane romeno a Roma. Ma aveva anche ricordato le parole dei
funzionari della polizia di Bucarest: «Noi collaboriamo con loro per far
rimpatriare le ragazze che salviamo dalla strada. E ci dicono: “Siete
voi italiani che foraggiate e mantenete i criminali romeni, sfruttando
30mila ragazze del nostro Paese che vengono portate sui vostri
marciapiedi ancora bambine!”».
Mancherà
soprattutto a loro, alle ragazze salvate dalla prostituzione, ai
bambini senza famiglia che grazie a lui e alla sua associazione sono
tornati a sorridere.
Nato il 7 settembre 1925 a San Clemente, un piccolo paese
dell’entroterra romagnolo, settimo di nove figli in una famiglia di
operai, Oreste era entrato in seminario all’età di dodici anni grazie al
lavoro straordinario che la madre si era sobbarcata per mantenerlo.
Ordinato prete nel 1949, l’anno successivo è chiamato nel seminario di
Rimini come insegnante e quindi diventa vice-assistente della Gioventù
Cattolica.
Inizia allora a maturare in lui la convinzione dell’importanza di
aiutare gli adolescenti e di realizzare attività che favoriscano «un
incontro simpatico con Cristo».
Don Benzi fa per molti anni il professore nelle scuole pubbliche di Rimini e nel
’68 fonda l’associazione Giovanni XXIII. Si batte per trovare una
famiglia ai bambini gravemente handicappati che vengono abbandonati, poi
si concentra sui tossicodipendenti, apre case di accoglienza nella sua
parrocchia di Grottarossa, una frazione del comune di Rimini. È un prete
tutto d’un pezzo, che non si toglie mai la tonaca e il colletto romano
di plastica. In tonaca don Oreste va per le strade di notte,
accompagnato dai suoi volontari, per cercare di convincere le prostitute
a cambiare vita, offrendo loro un rifugio e una possibilità concreta di
riscatto. Quella tonaca diventa sempre più lisa e rattoppata. Con
addosso quell’abito nel 2003 Benzi ha accompagnato al cospetto di un
commosso Papa Wojtyla un’ex prostituta nigeriana ammalata di Aids.
Un’altra
delle sue battaglie e quella contro l’aborto. Anche la sera prima di
morire aveva organizzato veglie di preghiera davanti ai cimiteri per i
«bambini mai nati», richiamando l’attenzione su questo fenomeno e sulla
necessità di permettere la presenza di operatori volontari nei
consultori per cercare di convincere le donne a non abortire. Don Oreste Benzi, il vecchio sacerdote romagnolo con la tonaca lisa,
lascia duecento case famiglia in Italia, sei case preghiera, sette case
di fraternità, quindici cooperative sociali per inserire persone
svantaggiate, sei centri diurni per valorizzare persone con handicap
gravi, trentadue comunità terapeutiche. La sua associazione,
riconosciuta dalla Santa Sede, è presente in Albania, Australia,
Bangladesh, Bolivia, Brasile, Cile, Cina, Croazia, India, Kenya,
Romania, Russia, Tanzania, Venezuela e Zambia.
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Postato da: giacabi a 08:25 |
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santi, testimonianza, don benzi
Il vero volto del comunismo
LA LEZIONE DEL 28 OTTOBRE…
***
Il
28 ottobre prossimo in Vaticano saranno beatificati 498 martiri della
feroce persecuzione religiosa esplosa in Spagna dopo il 1931 e
specialmente fra il 1934 e il 1936. Una cerimonia di massa di tali
proporzioni non ha precedenti. Aveva cominciato Giovanni Paolo II
beatificando nel 1987 tre suore carmelitane che erano state crudelmente
massacrate per le strade di Madrid. Poi papa Wojtyla celebrò altre
undici cerimonie di beatificazione per un totale di 465 martiri
spagnoli. Domenica prossima saranno dichiarati beati 2 vescovi, 24
preti, 462 religiosi e religiose, 2 diaconi, 1 seminarista e 7 laici,
tutti vittime di quella persecuzione. Sarà l’occasione
per conoscere una delle più sanguinarie tempeste anticristiane
scatenate nell’Europa del nostro tempo ad opera dei rivoluzionari
repubblicani (una miscela di comunismo, socialismo, anarchia e
laicismo). “Mai
nella storia d’Europa e forse in quella del mondo” ha scritto Hugh
Thomas “si era visto un odio così accanito per la religione e per i suoi
uomini”. Chiese e conventi (con una quantità di opere d’arte) furono
incendiati e distrutti. In pochi mesi furono ammazzati 13 vescovi, 4.184
sacerdoti e seminaristi, 2.365 religiosi, 283 suore e un numero
incalcolabile di semplici cristiani la cui unica colpa era portare un
crocifisso al collo o avere un rosario in tasca o essersi recati alla
messa o aver nascosto un prete o essere madre di un sacerdote come
capitò a una donna che per questo fu soffocata con un crocifisso ficcato
nella gola.
Molti vescovi o sacerdoti sarebbero potuti fuggire, ma restarono al loro posto, pur sapendo cosa li aspettava, per non abbandonare la loro gente. Non colpisce solo l’accanimento con cui si infierì sulle vittime, inermi e inoffensive (per esempio c’è chi fu legato a un cadavere e lasciato così al sole fino alla sua decomposizione, da vivo, con il morto). Ma colpisce ancora di più la volontà di ottenere dalle vittime il rinnegamento della fede o la profanazione di sacramenti o orribili sacrilegi. Qua c’è qualcosa su cui non si è riflettuto abbastanza. Faccio qualche esempio. I rivoluzionari decisero che il parroco di Torrijos, che si chiamava Liberio Gonzales Nonvela, data la sua ardente fede, dovesse morire come Gesù. Così fu denudato e frustato in modo bestiale. Poi si cominciò la crocifissione, la coronazione di spine, gli fu dato da bere aceto, alla fine lo finirono sparandogli mentre lui benediva i suoi aguzzini. Ma è significativo che costoro, in precedenza, gli dicessero: “bestemmia e ti perdoneremo”. Il sacerdote, sfinito dalle sevizie, rispose che era lui a perdonare loro e li benedisse. Ma va sottolineata quella volontà di ottenere da lui un tradimento della fede. Anche dagli altri sacerdoti pretendevano la profanazione di sacramenti. O da suore che violentarono. Quale senso poteva avere, dal punto di vista politico, per esempio, la riesumazione dei corpi di suore in decomposizione esposte in piazza per irriderle? Non c’è qualcosa di semplicemente satanico? E il giovane Juan Duarte Martin, diacono ventiquattrenne, torturato con aghi su tutto il corpo e, attraverso di essi, con terribili scariche elettriche? Pretendevano di farlo bestemmiare e di fargli gridare “viva il comunismo!”, mentre lui gridò fino all’ultimo “viva Cristo Re!”. Lo cosparsero di benzina e gli dettero fuoco. Qua non siamo solo in presenza di un folle disegno politico di cancellazione della Chiesa. C’è qualcosa di più. A definire la natura e la vera identità di questo orrore ha provato Richard Wurmbrand, un rumeno di origine ebraica che in gioventù militò fra i comunisti, nel 1935 divenne cristiano e pastore evangelico, quindi subì 14 anni di persecuzione, molti dei quali nel Gulag del regime comunista di Ceausescu. Anch’egli aveva notato – nei lager dell’Est – questo oscuro disegno nella persecuzione religiosa. In un suo libro scrive: “Si può capire che i comunisti arrestassero preti e pastori perché li consideravano contro rivoluzionari. Ma perché i preti venivano costretti dai marxisti nella prigione romena di Piteshti a dir messa sullo sterco e l’urina? Perché i cristiani venivano torturati col far prendere loro la Comunione usando queste materie come elementi?”. Non era solo “scherno osceno”. Al sacerdote Roman Braga “gli vennero schiantati i denti uno ad uno con una verga di ferro” per farlo bestemmiare. I suoi aguzzini gli dicevano: “se vi uccidiamo, voi cristiani andate in Paradiso. Ma noi non vogliamo farvi dare la corona del martirio. Dovete prima bestemmiare Iddio e poi andare all’inferno”. A un prigioniero cristiano del carcere di Piteshti, riferisce Wurmbrand, i comunisti ogni giorno ripetevano in modo blasfemo il rito del battesimo immergendogli la testa nel “bugliolo” dove tutti lasciavno gli escrementi e costringevano in quei minuti gli altri prigionieri a cantare il rito battesimale. Altri cristiani “venivano picchiati fino a farli impazzire per obbligarli a inginocchiarsi davanti a un’immagine blasfema di Cristo”. Si chiede Wurmbrand, “cos’ha a che fare tutto ciò con il socialismo e col benessere del proletariato? Non sono queste cose semplici pretesti per organizzare orge e blasfemie sataniche? Si suppone che i marxisti siano atei che non credono nel Paradiso e nell’Inferno. In queste estreme circostanze il marxismo si è tolto la maschera ateista rivelando il proprio vero volto, che è il satanismo”. In effetti il libro di Wurmbrand s’intitola “Was Karl Marx a satanist?” ed è stato tradotto in italiano dall’ “editrice uomini nuovi” col titolo “L’altra faccia di Carlo Marx”. L’autore si spinge, indagando negli scritti giovanili di Marx e nelle sue vicende biografiche, fino a ritenere che trafficasse con sette sataniste. Peraltro nel brulicare di sette e società esoteriche di metà Ottocento sono tante le personalità che hanno avuto strane frequentazioni. E su Marx anche altri autori hanno fatto ipotesi del genere. Wurmbrand sostiene soprattutto che la filantropia socialista non era l’ispirazione vera di Marx, ma solo lo schermo, il pretesto per la sua vera motivazione che era la guerra contro Dio. Realizzata poi su larga scala con la Rivoluzione d’ottobre e quel che è seguito (nei regimi comunisti fatti, correnti, episodi e personaggi che portano in quella direzione sono chiari). Sul satanismo non so pronunciarmi, ma gli effetti satanici dell’esperimento marxista (planetario) sono sotto gli occhi di tutti anche se rimossi clamorosamente dalla riflessione pubblica: la più colossale e feroce strage di esseri umani che la storia ricordi e la più vasta guerra al cristianesimo di questi duemila anni. Siccome capita di sentir formulare, in ambienti cattolici, giudizi indulgenti sugli “ideali dei comunisti”, che sarebbero poi stati traditi nella pratica o mal tradotti, è venuto il momento di definire una buona volta la natura satanica dell’ideologia in sé e di tutto quel che è accaduto. Visto che un grande filosofo come Augusto Del Noce da anni ha dimostrato quanto l’ateismo sia fondamentale nel marxismo e niente affatto marginale o facoltativo. La tragedia spagnola, su cui il popolo cristiano non sa quasi niente (e che fu perpetrata anche da altre forze rivoluzionarie e laiciste) dovrebbe far riflettere, se non altro per le proporzioni di quel martirio. Antonio Socci Da “Libero”, 21 ottobre 2007 |
Postato da: giacabi a 17:13 |
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comunismo, santi, cristianesimo, ateismo, socci
Quando uno ama Cristo
***
1. Cercate anime non denari;
2. Usate carità e somma cortesia con tutti; 3. Prendete cura degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini; 4. Fate che il mondo conosca che siete poveri negli abiti, nel vitto, nelle abitazioni e voi sarete ricchi in faccia a Dio e diverrete padroni del cuore degli uomini; 5. Fra di voi amatevi, consigliatevi, correggetevi ma non portatevi mai né invidia, né rancore, anzi il bene di uno sia il bene di tutti, le pene e le sofferenze di uno considerate come pene e sofferenze di tutti e ciascuno studi di allontanarle o almeno mitigarle; 6. Ogni mattino raccomandate a Dio le occupazioni della giornata S. Giovanni Bosco Raccomandazioni ai missionari |
Postato da: giacabi a 08:58 |
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santi, cristianesimo
Un uomo per la Chiesa
***
Si cerca per la Chiesa un uomo...
Si cerca per la Chiesa un uomo
senza paura del domani, senza paura dell'oggi,
senza complessi del passato.
Si cerca per la Chiesa un uomo,
che non abbia paura di cambiare,
che non cambi per cambiare,
che non parli per parlare.
Si cerca per la Chiesa un uomo
capace di vivere insieme agli altri,
di lavorare insieme, di piangere insieme,
di ridere insieme, di amare insieme,
di sognare insieme.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di perdere
senza sentirsi distrutto, di mettersi in dubbio
senza perdere la fede, di portare la pace
dove c'è inquietudine e l'inquietudine dove c'è pace.
Si cerca per la Chiesa un uomo
che abbia nostalgia di Dio,
che abbia nostalgia della Chiesa,
nostalgia della gente,
nostalgia della povertà di Gesù,
nostalgia dell'obbedienza di Gesù.
Si cerca per la Chiesa un uomo
che non confonda la preghiera
con le parole dette d'abitudine,
la spiritualità col sentimentalismo,
la chiamata con l'interesse,
il servizio con la sistemazione.
Si cerca per la Chiesa un uomo capace di morire per lei
ma ancora di più capace di vivere per la Chiesa;
un uomo capace di diventare ministro di Cristo,
profeta di Dio, un uomo che parli con la sua vita.
Si cerca per la Chiesa un uomo.
Primo Mazzolari
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Postato da: giacabi a 19:21 |
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santi, cristianesimo, don mazzolari
Testimoni di Cristo
***
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Postato da: giacabi a 15:02 |
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santi, testimonianza
Postato da: giacabi a 22:25 |
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santi, don bosco
La santità
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Tommaso d’Aquino La santità non consiste nel sapere molto o meditare molto; il grande segreto della santità consiste nell’amare molto.
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Postato da: giacabi a 17:57 |
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santi, stommaso
Beato Faà di Bruno
***
Tratto dal libro: IL BEATO FAA' DI BRUNO di VITTORIO MESSORI ed. Biblioteca Universale Rizzoli
Nel
frattempo, i miei nuovi interessi religiosi mi avevano fatto scoprire
qualcosa di ciò che stava dietro quella chiesa di via San Donato, dietro
quell'altissimo campanile, quegli edifici, quel giardino al di là del
muro. Si trattava delle "opere" costruite da un cattolico nato nel 1825 e
morto nel 1888, meno di due mesi dopo il suo grande amico don Bosco,
tal Francesco Faà di Bruno, dichiarato dalla Chiesa "servo di Dio",
poi, nel 197l, "venerabile"; e, nel 1988, nel centenario della morte,
"beato", ultimo gradino prima della vetta suprema: l'inserimento nel
canone (la "canonizzazione"), l'elenco cioè dei
Personaggio
singolare, appresi, fattosi sacerdote a quasi 52 anni, dopo aver già
avviato le sue molte opere, compresa una comunità religiosa femminile.
Uno che non veniva da un seminario ma dall'esercito, addirittura dallo
Stato maggiore del regno di Sardegna. E che, più che la teologia, sembrava aver praticato le scienze
naturali - dall'astronomia alla fisica alla geometria per
l'insegnamento delle quali sino all'ultimo aveva tenuto cattedra
all'Università di Torino e alle quali aveva dedicato studi ponderosi.
La
chiesa era sì quella del Suffragio ma nel senso dell'aiuto - in
preghiera e opere di carità - ai morti. Quanto a santa Zita, era
chiamata in causa, qui, perché il Francesco
Faà di Bruno si era occupato di assistenza sociale e religiosa alle
serve, come allora brutalmente si chiamavano, che costituivano buona
parte del proletariato torinese dell'Ottocento. E delle serve, delle
donne di servizio, protettrice celeste è appunto, una loro straordinaria
collega della Lucca del XIII secolo, santa Zita.
Quanto
allo smisurato campanile, era un monito religioso (ricordare alla
città, così spesso immemore, la fine della storia che la fede attende,
il giudizio universale a cui tutti dovranno comparire), ma anche una
sorta di virtuosismo, di prova delle conoscenze matematiche e delle
valentie tecniche di Faà di Bruno, un grande credente che era al
contempo un grande studioso, un famoso scienziato.
LA VITA
Nasce
nel 1825 il 29 marzo, in Alessandria. Sarà battezzato con nomi di
Francesco da Paola, Virginio, Secondo, Maria. E' il dodicesimo e ultimo
figlio (sette femmine, cinque maschi) di Luigi, marchese di Bruno,
nonché conte di Carentino, signore di Fontanile e patrizio di
Alessandria. La madre è la nobildonna Carolina Sappa de' Milanesi.
Un'unione felice, una famiglia tra le più benestanti (e tra le più
generose per i bisognosi) della nobiltà terriera piemontese Forte e
autentica in casa, anche la dimensione di fede: delle due figlie e dei
tre figli che sceglieranno la vita religiosa, una monaca della
Visitazione, morirà in fama di santità; uno diverrà superiore generale
della Società dell'apostolato cattolico (i "Pallottini"). Questi, di
nome Giuseppe Maria, ha anch'egli (come il fratello beato) un suo posto
nella storia ecclesiastica: dimorando molti anni, da religioso, a
Londra, vi costruì (con elemosine da lui stesso raccolte pellegrinando
in tutta Europa, Polonia compresa), il Tempio nazionale italiano, con
funzioni non soltanto di assistenza religiosa ma anche di aiuto concreto
alla numerosa, spesso poverissima, colonia di nostri immigrati. A lui
si devono anche innumerevoli conversioni di americani al cattolicesimo:
il suo libro Catholic Belief (Fede cattolica) fu diffuso negli Stati
Uniti in milioni di esemplari.
Nel
1836, Francesco entra nel collegio di Novi Ligure dei Padri Somaschi e
nel 1840 è ammesso alla Regia accademia militare di Torino. Nel 1846,
terminanti i corsi, è nominato luogotenente nel corpo di stato maggiore
generale. Inizia il biennio di specializzazione (in topografia) e si
perfeziona nelle lingue straniere.
Nel
1848 partecipa alla prima guerra d'indipendenza nella Brigata Guardie
comandata dallo stesso principe ereditario, Vittorio Emanuele, di cui è
aiutante di campo. Dopo il battesimo del fuoco a Peschiera, approfitta
del ristagno delle operazioni per disegnare la Gran carta del Mincio,
che si rivelerà decisiva nel 1859, quando sarà impiegata nella grande
battaglia di Solferino e di San Martino. Quel suo lavoro fu da lui
tenacemente voluto: il ventitreenne tenente, formato a serietà estrema
nell'affrontare il dovere, qualunque fosse, era rimasto sbalordito e
umiliato scoprendo che i suoi generali non possedevano carte esatte e
recenti di quel Lombardo-Veneto che pur da decenni si ripromettevano di
invadere. Nel 1849 viene promosso capitano di Stato maggiore. Combatte
valorosamente nella luttuosa giornata di Novara, perdendo almeno due
cavalli sotto la fucileria austriaca e restando ferito a una gamba.
Sulla scorta di alcuni forti scrupoli morali, chiede di lasciare
l'esercito per continuare gli studi universitari. Nel
1850 frequenta le lezioni universitarie in scienze astronomiche e
matematiche alla Sorbona a Parigi. Prende intanto contatto con gli
ambienti del cattolicesimo sociale francese e aderisce alle prime
Conferenze di San Vincenzo De' Paoli fondate da Federico Ozanam (che
conoscerà personalmente) e alla diffusione delle quali si dedicherà al
suo ritorno nel regno di Sardegna.
Pietro
Palazzinì: "Il suo tempo parigino trascorre tra quel centro di
spiritualità e di assistenza sociale che era la grande parrocchia di St.
Sulpice, l'università, l'attività caritativa vincenziana con le visite a
domicilio per i poveri. Come svago, le visite ai librai e ai negozi di
strumenti scientifici" Sin da questi anni dà alla sua vita un ordine e
una precisione - da scienziato e da soldato - che non abbandonerà più e
che gli permetterà di utilizzare per il bene ogni minuto della giornata.
Nel 1851, ottenuto il diploma di Licencié-ès-Sciences, rientra a
Torino, ma la casta politica anticlericale e settaria che si sta
formando al governo impedisce la nomina a precettore dei principi di un
credente così esplicito. "Gli uomini di stato piemontesi che avevano
creato un clima ostile alla Chiesa non erano disposti a tollerare vicino
al re in carica e come precettore del re in fieri un cattolico
militante del tipo di Faà di Bruno che già a Parigi aveva elogiato la
spedizione francese contro la Repubblica romana di Mazzini e Garibaldi"
(P.Palazzini).
Tra
i drammi maggiori della sua vita, vi sarà sempre il contrasto tra le
sue aspirazioni, da sincero patriota, all'unità italiana e il rifiuto,
come cattolico fedelissimo al papa, dei metodi e dei modi inaccettabili
con cui quell'unità era perseguita, con la persecuzione e il sopruso
verso la Chiesa. Malgrado questo suo leale rifiuto (e alla pari, anche
qui, di don Bosco), non cessò mai di offrire collaborazione alle
autorità, pur anticlericali, quando sì trattasse di unirsi per il
vantaggio dei bisognosi o per la gloria di Dio, com'egli l'intendeva.
Nel 1854
ha inizio il suo apostolato verso le donne in generate e le domestiche
in particolare: presso la sua parrocchia torinese, quella di San
Massimo, in Borgo Nuovo, avvia una Scuola di canto domenicale cui
partecipano, soprattutto, donne di servizio e popolane. Egli stesso vi
suona l'organo. E il primo coro femminile italiano oltre che il solo
diretto da un giovane laico.
Fidando
in una promessa governativa (essa pure sarà disattesa, alla pari di
quella dì farlo precettore dei principi reali o di pagare le spese per
la carta del Mincio), la promessa, questa volta, di essere addetto
all'Osservatorio di Torino, nel maggio ritorna a sue spese alla Sorbona
di Parigi per ottenervi la laurea in matematica e astronomia. Nel
1855 studia e lavora all'Osservatorio nazionale francese, accoltovi dal
celeberrimo Urbain Le Verrier lo scopritore, col solo calcolo, del
pianeta Nettuno. In contatto con la cultura francese, decide di
dedicarsi alla dimostrazione dell'armonia tra scienza e fede.
Nel
1856, stimolato anche dalla infermità agli occhi della sorella Maria
Luigia, inventa e fabbrica uno scrittoio per ciechi che sarà elogiato da
molte accademie, premiato a numerose esposizioni e che darà grande
aiuto a numerosi infelici, in Europa e in America. Nell'autunno, si
laurea brillantemente in matematica e astronomia col famoso barone
Augustin Cauchy, uno dei maggiori scienziati del secolo e tra gli
esponenti più in vista del cattolicesimo sociale. Prima di rientrare scrive a Maria Luigia:
"Per
me, ora, l'unico affare, se Dio mi sostiene, è di viverre da santo e di
meritare di fare una morte santa. Tutto il resto e' veramente inutile e
non sono che giochi da ragazzi".
Nel
1857 pubblicò su una rivista scientifica americana la "formula Di
Bruno", nota ancor oggi sui manuali d'informatica internazionali, in
quanto impiegata per certi complessi calcoli al computer. Si tratta,
dicono gli esperti, di una formula ancora insuperata, che fornisce
direttamente la derivata ennesima di una funzione composta.
Nel
1858, a contatto con la miseria del popolo torinese, che visita
quotidianamente con i confratelli della San Vincenzo, si prodiga per
impiantare, almeno durante l'inverno, dei Fornelli economici per
lavoratori, da lui visti e studiati a Parigi. Si tratta di cucine dove
preparare e vendere vivande calde, a prezzo bassissimo; ma non
gratuitamente. Perché, come scrive per esporre il progetto al ministro
degli interni, "la popolazione povera componsi di gente che soffre,
sebbene lavori, e non osa da approfittare delle distribuzioni gratuite,
per sentimento di dignità e di amor proprio. L'operaio più suscettibile
potrà venire con la fronte alta a comperare e non a mandare ciò che è
necessario a' suoi bisogni e a' suoi gusti, non già regalato ma posto in
vendita.
Costa meno alla modesta sua borsa e nulla costa alla sua dignità". Per
aprire un primo Fornello, scrive il Faà, occorrono 4000 lire, 1000 delle
quali aveva già raccolto da benefattori, donandone egli stesso
altrettante. Con un sussidio pubblico di 2000 lire si impegnava a
distribuire per i 5 mesi invernali 600 porzioni giornaliere di minestra e
carne al prezzo di vendita di 5 centesimi l'una.
E così assicurava al ministro, in una lettera che è tra i primissimi documenti del cattolicesimo sociale italiano:
"Son
pronto ad assumere qualunque responsabilità, a rassegnare qualunque
conto. Se tutto io potessi, il farei; ma ciò non essendomi dato, mi sia
almeno concesso di confidare in Vostra Eccellenza. Dal sussidio
ministeriale dipende l'intraprendere o no l'opera. Tutte le misure son
prese; non manca più che un ordine onde tutto si muova. Degnisi pertanto
V.E. di non defraudare il povero di tanto bene".
A
questo grido di aiuto, non corrispose alcuna risposta dalle autorità,
sia governative sia municipali, malgrado il piano preciso di costi e
ricavi presentato dal Faà. Il quale, così, avvia da solo l'iniziativa
che oltre dieci anni dopo sarà assunta dal Comune - costrettovi dalla
carestia e da una ennesima epidemia di colera - funzionando per alcuni
decenni, seppure a costi più alti e a condizioni ben peggiori di quelle
proposte dal Beato.
Il
2 febbraio 1859 istituisce la Pia opera di Santa Zita in un terreno
dell'allora malfamato Borgo San Donato, comprato grazie al suo
patrimonio personale e ai fondi da lui raccolti con circolari ed
elemosinando alla porta delle chiese. Il luogo è scelto innanzitutto
perché abitato da una popolazione poverissima e abbandonata, ma anche
perché attiguo a un canale che permette l'istituzione di una lavanderia
modello (con macchine a vapore progettate dallo stesso Faà) dalla quale
si ricavano utili per il mantenimento dell'istituto. Cura del Faà
(polemico contro la scandalosa incuria degli industriali per le
condizioni igieniche cui costringono i lavoratori) è corredare
l'impianto "d'ogni comodità per lavare ad ogni stagione senza
inconvenienti, avendo tutti i riguardi richiesti dalla salute delle
giovani".
Nella
Torino che stava secolarizzandosi, il giovane Faà Di Bruno ebbe l'amara
sorpresa di vedere giungere donne (alcune erano bambine di 12-13 anni)
lacere, denutrite, maltrattate, schiacciate per pochi sodi da pretese
disumane e spesso anche immorali. Fu quello choc che svegliò in lui il
cristiano radicale e gli indicò la sua strada.
L'Opera
di Santa Zita è eretta per il ricovero, l'istruzione professionale, il
collocamento delle donne di servizio disoccupate, licenziate, malate,
anziane o appena inurbate. Nella città capitale del regno di Sardegna
(e, presto, del regno d'Italia) il personale femminile di servizio
rappresentava la parte più numerosa e più abbandonata ancor più che le
operaie - del proletariato urbano.
Una
delle costanti preoccupazioni del Beato divenne il formare le donne di
servizio non solo professionalmente, ma anche moralmente perché fossero
(sono sue parole) "strumento di pace e di concordia all'interno delle
famiglie in cui lavorano".
Al
rancore tra le classi, all'odio sociale che cominciavano a essere
predicati, voleva sostituire sì una difesa dei diritti dei più deboli,
ma al contempo affidare a questi una preziosa funzione di operatori di
pace, di portatori di serenità in quei nidi di vipere che rischiavano di
essere - e spesso erano - gli interni aristocratici e borghesi delle
grandi città.
In
effetti, la classe servile costituiva uno di quei problemi umani e
sociali fatti esplodere dalla società borghese, senza alcun pensiero di
rimediarvi.
A
queste ultime tra gli ultimi, il potere ufficiale provvedeva unicamente
in modo repressivo, poliziesco, carcerario, con case di correzione,
internamenti coatti, fogli di via per rimandarle ai luoghi d'origine.
Era
la stessa repressione che don Bosco constatò tra i ragazzi e ai quali,
dunque, applicò il suo celebre "metodo preventivo". Così anche, per
quanto riguardava le ragazze, il Faà. Il quale, lo disse più volte, non
voleva occuparsi di "già traviate", ma tutto mise in opera per evitare
il traviamento, con un metodo che definiva "insieme positivo e negativo:
formare al bene, allontanare dal male"
Alle
Figlie non si stancava di ricordare i doveri; ma li ricordava anche ai
padroni e, poco fidandosi delle promesse, quando possibile voleva che
fossero messi nero su bianco in quei contratti che la legge dello stato,
scandalosamente, ancora non prevedeva. (Come non ne prevedeva per
quell'altra categoria del tutto indifesa costituita dai giovani
apprendisti: i primissimi contratti che li riguardino sono firmati (da
un maggiorenne, come loro tutore. E' un prete, un certo don Bosco...).
Coloro
che si ostinano a leggere la storia secondo lo schema della reazione e
del progresso, devono rovesciare le parti che abitualmente, per
l'Ottocento, attribuiscono ai cattolici (visti come reazionari) e ai
liberali (spacciati per progressisti). I fatti mostrano assai spesso che
la verità stava nel contrario.
Sempre
nel 1859, per sua iniziativa (don Bosco accetta la vicepresidenza),
sorge, ed è la prima in Italia, l'Opera per la santificazione delle
feste per difendere i lavoratori dal lavoro domenicale cui sono
costretti dallo spietato capitalismo della prima industrializzazione.
Nel
1860 fonda, all'interno dell'Opera di Santa Zita, la Classe delle
Clarine (dalla protettrice santa Chiara): ragazze di umile condizione e
affette da menomazioni fisiche anche rilevanti e, dunque, destinate a
una vita di stenti o dì abbandono. La Classe delle Clarine è ancora
esistente: in 130 anni ha dato mezzi di sussistenza, e uno scopo alla
vita, a migliaia di abbandonate e di handicappate.
Nello stesso anno fonda
l'infermeria di San Giuseppe per donne povere inferme e, soprattutto,
convalescenti. Se già esisteva qualche ospedale e ricovero per le
malate, mancava del tutto una struttura di assistenza intermedia tra la
fase acuta del morbo e la guarigione completa. Molte lavoratrici,
rigettate subito nella piena attività, avevano così pericolose ricadute.
Nel 1862 fonda "un pensionato-ospizio per donne anziane e invalide".
Dà
vita a un liceo (don Bosco vi invia i suoi primi cinque giovani che
devono conseguire titoli riconosciuti dallo Stato). Questo istituto è il
suo con tributo alla lotta dei cattolici per una scuola libera, contro
il monopolio statale dell'istruzione imposto da un liberalismo che,
anche qui, fa ben poco onore al suo nome.
Propone
al Municipio di Torino un piano dettagliato per la costruzione di una
rete di bagni e lavatoi pubblici economici, anche per contrastare, con
l'aumento dell'igiene, le ricorrenti epidemie, soprattutto di tifo e di
colera, e per soccorrere le povere massaie, costrette a lavare i panni
sulle rive dei fossi, esposte alle intemperie, e poi ad asciugarli in
casa, con conseguente umidità che favoriva le malattie. Malgrado
l'offerta di costituire una impresa mista, pubblica e privata (c'è,
anche qui, una intuizione precorritrice), il Comune massonico anche
questa volta, come già per i Fornelli, decide di non farne nulla. Il
progetto del Faà prevedeva un primo stabilimento in Borgo San Donato con
40 vasche per i panni e 15 posti bagno: da parte sua assicurava terreni
e denaro per 45.000 lire (più la direzione gratuita) e chiedeva al
Municipio un contributo di sole 20.000 lire. Già aveva costituito una
società, raccogliendo quote azionarie, scrivendo di voler mostrare che
"si può far molto, bene e a buon mercato". Poiché non si volle aiutarlo,
il primo bagno pubblico (creato però anch'esso da una iniziativa
filantropica) fu aperto a Torino solo nel 1880.
Quanto
agli istituti di Borgo San Donato, dopo il colera del 1865 la Giunta
comunale invia al Faà una lettera di congratulazioni per l'ottima
situazione igienica riscontrata dall'apposita commissione sanitaria dopo
un'ispezione. Nel vasto complesso "tutto", scrive lo stesso Fondatore
al fratello con l'orgoglio di quel militare che era stato, "tutto è in
ordine e muove come un orologio". All'Opera
di Santa Zita aggiunge un Pensionato per sacerdoti anziani o ridotti in
miseria dalle leggi statali di confisca, senza indennizzo, dei beni
ecclesiastici.
Nel
1863, istituisce, per la prima volta a Torino, una Biblioteca mutua
circolante, con invio dei libri al domicilio degli associati. Tra gli
scopi, non soltanto preoccupazioni religiose ma pure l'intento di
"moltiplicare la lettura di buoni libri scientifici", anche in lingua
straniera.
Nel
1864 Fonda la Classe delle educande per la formazione professionale di
giovani povere con corsi triennali di economia domestica.
Nel
1866 - Dà vita alla Classe delle allieve maestre e istitutrici, per la
formazione di insegnanti elementari seriamente preparate sia a livello
professionale che religioso. Egli stesso tiene i corsi di discipline
scientifiche e redige i libri di testo. Questa iniziativa è per lui
importantissima: assunte e pagate direttamente dai Comuni (molti dei
quali, a differenza del governo centrale, sono restati in mano a
cattolici), le maestre costituiscono una valida testa di ponte per la
resistenza e la riconquista religiosa. I corsi (già rivoluzionari per
scuole femminili, con la grande importanza data all'insegnamento delle
scienze naturali) prevedono - e sono novità assolute per l'Italia -
lezioni di meteorologia per consigliare i contadini sul tempo previsto e
persino di telegrafia, per coadiuvare in caso di bisogno gli addetti al
telegrafo, unico legame dei villaggi col resto del mondo
Nel
1868 - inizia la costruzione della chiesa di Nostra Signora del
Suffragio a servizio della sua Opera, del quartiere di San Donato e dei
morti dimenticati, soprattutto i caduti in tutte le guerre e sotto
qualunque bandiera.
Poiché,
come scrive, "una Casa non può andare bene materialmente, moralmente e
religiosamente senza una corporazione religiosa", decide di fondare una
congregazione di suore: "Chi mira a Dio, a lasciare per secoli una
successione di bene, non può far senza di religiose".
Nel
1869 "Consegna della mantellina" alle prime postulanti delle Minime di
Nostra Signora del Suffragio. Tuttavia, le prime professioni solenni
avverranno solo ventidue anni dopo, nel 1891, tre anni dopo la morte del
Fondatore. Il quale, pur tutto mettendo in opera per affrettare i
tempi, accetterà serenamente il ritardo (dovuto anche alle diffidenze
dell'arcivescovo di Torino per tutto ciò che sembrava sottrarsi alla sua
autorità diretta: e ne saprà qualcosa pure don Bosco con i suoi
salesiani). Ripeterà spesso, per calmare le impazienti, la parola della
Scrittura per la quale, nella Chiesa, "c'è
chi semina e c'è chi miete". Il nucleo iniziale di candidate, tuttavia,
non si scoraggerà e sino alla fine resterà fedele al Fondatore, a
conferma della forza di un carisma singolare.
Le
Otto Classi ciascuna dedicata a un preciso e diverso bisogno del mondo
femminile sono unite sotto il nome comune di Conservatorio del Suffragio
(ma il popolo, sino ai nostri giorni, preferirà usare la dizione
originaria di Opera di Santa Zita).
Per
venire incontro alle necessità dei parroci poveri, sulla via San Donato
apre un Emporio cattolico, magazzino di vendita ove e possibile
procurarsi a prezzi modici arredi per il culto, paramenti liturgici,
pubblicazioni religiose.
Nel
1881 è nominato professore, ma solo incaricato, di analisi matematica e
di geometria analitica all'Università di Torino. Malgrado ogni suo
diritto; malgrado la fama europea come scienziato; malgrado il suo zelo
pedagogico e l'intervento di autorevoli colleghi, scandalizzati per le
umiliazioni cui è sottoposto (per ben sette volte sia il rettore
dell'ateneo torinese sia preside e insegnanti della Facoltà di scienze
chiesero inutilmente per lui la cattedra); malgrado tutto questo, la
casta settaria che dominava anche le università della Nuova Italia fu
irremovibile nel non concedergli la dignità di professore ordinario.
Nel
1874 acquista proprietà e direzione di un periodico - "II Cuor di
Maria" - cui dà grande diffusione a livello nazionale. Quando ancora la
sua congregazione non è formata, già progetta di inviare in Africa un
gruppo delle future religiose. Dopo la sua morte, le sue suore andranno
in America Latina, dove tuttora lavorano.
Negli
istituti di via San Donato attrezza una moderna tipografia, gestita
(novità anch'essa scandalosa) da sole donne, direzione tecnica compresa.
Vi stampa libri di devozione e di catechesi che raggiungeranno alte
tirature, diretti soprattutto al popolo. Egli stesso curerà traduzioni
di opere spirituali dal tedesco e dall'inglese.
Nel
1875 Decide di farsi prete, anche per poter meglio dirigere la
congregazione di suore in formazione e in vista del compimento della
chiesa per la quale occorre un rettore sacerdote.
Nel 1877 realizza la Pia casa di preservazione per le ragazze madri.
Nel
1878 inventa e brevetta uno svegliarino elettrico, ponendo ancora una
volta la scienza a servizio della carità: è infatti apostolo dell'arte
di "ben impiegare il tempo", di far fruttificare a ogni momento i
talenti in vista del giudizio divino e della vita eterna.
Nel
1881, nelle Langhe a Benevallo d'Alba, acquista un piccolo castello per
farne una scuola comunale e un educandato per l'istruzione
professionale delle giovani di una zona tra le più povere e isolate del
Piemonte. Vi invia alcune sue suore, ma deve misurarsi anche con la
diffidenza dei contadini che non vogliono che le figlie, braccia utili
in campagna, sin da piccole perdano tempo a studiare. Nel castello tiene
anche esercizi spirituali e ritiri per signore.
II
27 marzo 1888 muore, pare per una infezione all'intestino, due giorni
prima del suo sessantatreesimo compleanno. Il testimone Mario Cecchetto
dichiarò: "Fu magnanimo anche nella morte. Alle pezzenterie, alle
faziosità dei reggitori della Pubblica Istruzione rispose al suo solito,
disponendo nel testamento la donazione alla Facoltà di scienze di
quell'Università di Torino, dalla quale era stato sempre escluso a pieno
titolo, della preziosa collezione di libri e periodici scientifici
nazionali ed esteri: una delle più ricche biblioteche private d'Italia,
raccolta in 38 anni di studio e di lavoro". …….
Alla direzione delle sue opere, succede il canonico Agostino Berteu.
In
ogni biografia normale, quello sulla morte è, né può non esserlo,
l'ultimo capitolo. Al massimo, qualche pagina finale sarà dedicata al
ricordo che lo scomparso ha lasciato, all'influsso postumo, sociale e
culturale, della sua opera o del suo pensiero.
Non
così per la vita di un santo, dove quello sulla morte non è mai
l'ultimo ma sempre il penultimo capitolo. Lo è perché la sua presenza
tra i vivi continua al di là del sepolcro: e non è solo spirituale,
immateriale, ma concreta e tangibile, occorrendo, per salire i gradini
degli altari, prove (vagliate da apposite, prudentissime commissioni che
la sua intercessione in Cielo ha inciso sulla vita dei fratelli che
ancora penano sulla Terra. Le grazie ottenute, per mezzo della sua
intercessione, dal Signore della Vita - e che gli riconoscono i vivi,
riuniti ancora, in attesa di raggiungerlo, nella Chiesa militante - sono
parte del necessario capitolo che segue quello sulla sua morte
Ma
se il santo (come nel caso nostro) fu anche fondatore di una famiglia
religiosa, ecco un'altra parte del capitolo, e anch'essa concreta e
viva, di quella vita che si è fatta strumento docile e che, nel volgere
delle generazioni, coinvolge creature venute magari secoli dopo di lui e
che pure, con Lui, hanno un rapporto intimo, una comunione ancor più
stretta di quella che unisce tra loro tutti i battezzati.
C'è
una misteriosa quanto evidente fecondità che è solo cristiana, quella
dei fondatori, che va oltre la morte e che continua a dare, per secoli,
quando non per millenni, figli e figlie proprio a coloro che nella vita
terrena spesso accettarono la chiamata alla verginità.
Fecondità
che sembra anch'essa inverare la parola di Gesù: "Io sono venuto perché
abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10). (E va detto che
anche in questo - conforme, al solito, allo stile di discrezione che
ben conosciamo - la famiglia di cui Faà di Bruno fu padre spirituale non
ebbe clamorosi sviluppi quantitativi, restando sempre nell'ordine di
qualche centinaio di religiose. Ma, chi le conosce, sa quale sia la
qualità dell'amore verso quell'uomo che, morendo, augurò loro di "non
ricevere mai grosse eredità", intendendo, forse, neppure di novizie;
assicurandole al contempo che "la goccia della Provvidenza non sarebbe
mai mancata"; il che sembra essere avvenuto anche nelle vocazioni).
Dal Vangelo di Marco leggiamo:
"Mentre
usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e,
gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: Maestro buono, che
cosa devo fare per avere la vita eterna?. Gesù gli disse: Perché mi
chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i
comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non
dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre. Egli
allora gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla
giovinezza". Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una cosa sola
ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro
in cielo; poi vieni e seguimi". Ma egli rattristatosi per quelle parole,
se ne andò afflitto poiché aveva molti beni".
Francesco
Faà di Bruno fu tra coloro che accettarono integralmente la scommessa,
che ne accolsero con coerenza la logica e le regole: sul tavolo
gettarono tutta quanta la posta disponibile, non tenendo nulla di
riserva. Alla pari degli altri cristiani coerenti, puntò tutta quanta la
vita, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto.
"Santità"
ha detto qualcuno "è uno spirito indomabile in un corpo sempre da
domare". Sino a quale punto questo avvenisse anche in Faà di Bruno, noi
non sapremo mai. Ma qualcosa possiamo intuire da una confidenza
sfuggitagli un giorno con un intimo e che era ben lontano dal sospettare
che decenni dopo sarebbe finita negli atti del processo dove costituì
motivo di qualche difficoltà. Mentre a noi sembra aprire uno squarcio
umanissimo sulla sua lotta diuturna, che fu quella di tutti i colleghi
in santità: "Ah, se dovessi ricominciare da capo, non so cosa farei!".
Certo
è che tutte le testimonianze ci restituiscono il contrario di uno di
quegli eunuchi morali e magari anche fisici che (come vociava un
Nietzsche e come sospetta da sempre - oggi, più che mai - il mondo)
trovano nella religione un compenso alla loro debolezza, alla loro
impotenza. Il cristianesimo come vendetta degli imbelli e dei vinti. O -
marxisticamente - come proiezione nei cieli dell'ingiustizia patita in
terra. Per quest'uomo, siamo all'opposto: il prestigio della nascita in
un casato tra i più nobili in una società monarchica, dove
l'appartenenza all'aristocrazia costituiva lo status privilegiato; la
salute non solo, ma anche la prestanza fisica (era dritto e alto a tal
punto che, a quanto si racconta, quando a Novara il cavallo gli cadde
sotto fulminato da una palla, restò in piedi sulle lunghe gambe...); una
rendita cospicua, come confermano anche le imponenti somme di denaro
personale gettato nelle sue imprese benefiche; doti di coraggio come due
campagne di guerra in prima linea ben testimoniano; doni di
intelligenza tali da imporlo all'attenzione della comunità scientifica
internazionale.
Dietro
tutto questo, poi, un temperamento non certo languido, snervato,
carente di ormoni, ma a proposito del quale un teste così depose al
processo: "Aveva un carattere forte, imperioso, impulsivo" eppure,
aggiunse lo stesso testimone, "appena aveva fatto lo scatto lo si vedeva
fermarsi, divenire pallido come un cencio e generosamente chiedere
scusa").
I famigliari
e la nobiltà piemontese era imbarazzata per quel tipo di impegno che lo
fece definire più volte "un originale", uno che "faceva stranezze", un
aristocratico che rischiava di compromettere il nome onorato non solo
preoccupandosi, ma addirittura abitando "tra quei serventun" (servacce,
in piemontese), per dirla con il poco velato disprezzo di un suo parente
stretto, pur buon cattolico ma perplesso davanti a quegli estremismi.
Come scrisse il Berteu, suo primo biografo oltre che successore: "Quando
il Cavaliere iniziò la sua opera sotto il nome di santa Zita, una
povera serva, alcuni dei suoi congiunti se ne adontarono: egli lasciò
che la tempesta passasse e continuo umile per la sua strada. Talvolta
ridendo diceva: "I miei congiunti vanno per Torino in vettura propria
con due cavalli e col cocchiere in livrea; io mi contento di andare con
la vettura di san Francesco, sempre a piedi"".
Onestà
impone però di rilevare che, malgrado stentasse a capirlo, la sua
famiglia non lo ripudiò e nemmeno lo abbandonò, assecondando anzi, non
di rado, le sue richieste pressanti di aiuto economico. Il suo rapporto
con Alessandro - il fratello maggiore ed erede dunque del titolo di
marchese - durò cordiale e fecondo per tutta la vita: appassionato
agricoltore, aperto al progresso nella coltura dei campi, Alessandro
approfittò anche dei viaggi all'estero e delle conoscenze scientifiche
di Francesco per introdurre migliorie che spesso erano anteprime per il
Piemonte. Ma, pur nell'affetto e nella stima per quel fratello
eccentrico, l'erede della casata - ce ne è traccia nelle lettere - ha
spesso l'aria di sospirare manzonianamente:
"Che sant'uomo! ma che tormento!".
E
così, sorridendo, ci piace immaginare il marchese Alessandro anche
quando Francesco lo sollecitò a venire a visitare l'Esposizione
universale di Parigi, nel 1855, per ampliare le sue conoscenze e dar
consigli utili ai figli, raccomandandogli però di portare poco denaro
per comprare souvenir perché, scrive, "tutto ciò che è inutile è roba rubata ai poveri".
Nella
famiglia dei Faà di Bruno non mancavano certo gli ecclesiastici: quel
che ci si aspettava da Francesco era che, dopo le dimissioni
dall'esercito, dopo l'inizio delle sue fondazioni religiose, con quelle
convinzioni e con quel tipo di missione scegliesse lo stato clericale.
Dove, senza dubbio, avrebbe ricalcato le orme dei suoi antenati, giunti
sino alla consacrazione a vescovi; o anche di suo fratello Giuseppe
Maria, uomo di grande e sincera carità ma (come quasi doveroso per un
Faà) di autorità e di prestigio, divenuto in effetti Superiore generale
della congregazione dove aveva scelto di entrare.
E,
invece, quella sua scelta di restare laico, sino a oltre i
cinquant'anni, lo teneva in uno stato ibrido, sottraendogli prestigio in
quanto secolare e non concedendogli la possibilità di far "carriera"
nello stato ecclesiastico.
Ma
nelle sue scelte era incrollabile: a questo si sentiva chiamato, questo
avrebbe fatto. E questo fece, sino all'ultimo, nella solitudine che
sempre contrassegnò la sua vita: senza famiglia propria; senza
possibilità di riversare, almeno visibilmente, il suo affetto sulle
beneficate, colle quali doveva mantenere il più distaccato dei contegni
fino al limite della rigidezza; senza l'aiuto di collaboratori stretti,
che gli fossero alla pari quanto a carità e a impegno (escludendo, ma
già avanti negli anni e con austere prudenze, la signorina e poi suor
Gonella); senza neppure, negli anni di sacerdozio, il conforto di una
comunità di confratelli o anche di un prete solo, di un consacrato come
lui.
"Devo
fare tutto da me, tutto grava sulle mie povere spalle", constata in
certe lettere. Aveva pensato di fondare una congregazione maschile di
Sacerdoti del Suffragio, da affiancare a quella femminile. Ne stese pure
le regole. Ma gli mancò il successo anche perché "nel clero torinese si
era creata una fama, per quanto ingiusta, di individuo poco socievole"
(P. Palazzini).
In
realtà, lasciò scritto il can. G. B Pallanca che fu cappellano
dell'Opera, che dovette poi lasciare perché richiamato a Imperia dal suo
vescovo: "Mi era stato detto che non sarei durato quindici giorni
all'istituto, alludendo al carattere del sig. Abate. Il fatto dimostrò
tutto il contrario: non mi scontentò in nessuna domanda, anzi mi
prevenne in ciò che non avrei osato chiedere. Si disse taciturno a
tavola coi sacerdoti: io lo trovai sempre pronto a dispute di teologia,
di filosofia, di storia, di scienze. Sfuggiva, però, i discorsi inutili
e, piuttosto che perdere tempo, leggeva giornali e libri. Non faceva né
ricreazione né pigliava divertimenti; levatosi da tavola, andava
immantinente al lavoro".
In
realtà, è lo stesso don Pallanca che conferma che quella fama di
eccessiva austerità e di scarsa socievolezza veniva dal fatto che "per
evitare anche l'ombra del peccato" (e le chiacchiere della gente) aveva
adottato "disposizioni assai rigide, innanzitutto verso se stesso".
Ma
veniva anche dal fatto che - per quest'uomo che, oltre alle chiese,
conosceva sin da giovanissimo caserme e aule scientifiche - la vita era
davvero una cosa seria, da vivere con serietà in ogni aspetto, perché
occasione irripetibile di guadagno dell'eternità.
Dopo
la sua morte la presenza maschile nell'Opera finì per essere sostituita
interamente da quella femminile: al canonico Agostino Berteu (morto nel
1913) succedette mons. Giuseppe Gilli, cappellano del re e custode
della S. Sindone, morto nel 1927, "finché poi i superiori verranno
sostituiti in tutto dalle Superiore generali, succedutesi nel governo
pieno della congregazione" (P. Palazzini)
Avendo
infatti concluso tutto il lungo e complesso percorso delle successive
approvazioni ecclesiastiche, le Minime di Nostra Signora del Suffragio
acquistavano piena autonomia e, con essa, responsabilità diretta
sull'eredità spirituale e materiale del Fondatore.
L'opera
iniziata da un giovane scapolo era - ed è - interamente assunta da
menti, cuori e mani femminili: esito significativo per chi, sfidando la
mentalità ottocentesca (e, di certo, non solo clericale ma anche, forse
soprattutto, liberale: fu essa a creare in quei decenni la mistica
dell'angelo deI focolare), aveva dato la vita per la promozione vera
della donna.
E
ciò non con proclami demagogici o con progetti utopici, ma nella
concretezza dell'attività quotidiana, assicurando a quelle ultime nella
scala sociale un ricovero, un ufficio di collocamento, un'associazione
contro le incertezze della vita, un'infermeria contro le malattie; ma
anche scuole e corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale,
perché anche così potessero avere un'esistenza più degna e umana e
meglio potessero tutelare i loro diritti.
Alla
fine, quelle altre donne che erano le sue suore e alle quali aveva dato
tutto quel che poteva - non riuscendo neppure, in vita, a vederle
"sistemate" in modo canonicamente stabile - relegarono gli uomini a pur
indispensabili compiti di assistenza spirituale e agirono (e tuttora
agiscono) in prima persona, senza dover rendere conto a superiori
maschili delle loro scelte.
Torniamo
alla fine (quella, almeno, che tale è secondo il mondo) di quella vita.
Torniamo al martedì della Settimana Santa del 1888, a quel 27 marzo,
alle nove del mattino, nelle stanze di via San Donato 31, ricche solo di
libri, di strumenti scientifici, di immagini sacre.
Stanze
dove, anche negli inverni più crudi, non aveva mai voluto
riscaldamento, con un ostinazione che qualcuno, al processo, fu tentato
di rimproverargli, come fosse un eccesso di eroismo, una mancanza di
discrezione, di prudenza. Dimenticando, però, che quel tipo di ascesi
era molto facilitato a chi, come lui, sin da giovanissimo era stato
allevato alle durezze - per noi quasi inconcepibili - della vita
militare della prima metà dell'Ottocento.
Tra le sue spesso ignorate primizie c'è anche l'avere introdotto in Torino l'adorazione eucaristica notturna.
Divenuto
sacerdote, rifiutava ogni elemosina per la messa quotidiana, volendo
essere libero di dedicarla alle sue intenzioni: l'Opera, i benefattori,
le anime dei defunti, a cominciare da quelle dei soldati caduti in
guerra Negli atti dei "processi" c'è persino l'eco di qualche malumore
nella comunità per la lunghezza di quelle sue messe. Al che replicava di
"essere lesto in tutto il resto" ma di voler essere "lento nella
celebrazione del Mistero eucaristico, per dargli l'onore dovuto"
Né
la sua devozione eucaristica era solo del sentimento visto che - lo
vedemmo - a quella Presenza misteriosa aveva dedicato un saggio,
tentando di applicarvi, per meglio capirlo, le categorie scientifiche.
Ma
che avvenne, dunque, dopo le nove di quel lontano mattino di marzo,
dopo che - ricevuta l'estrema unzione e gli altri sacramenti, mentre
attorno al suo letto gli intimi, inginocchiati, pregavano senza
interruzione - dopo che ebbe esalato l'ultimo respiro? Su quel dopo - di
lui come, prima o poi, di ogni altro - le strade radicalmente
divergono: (è una via laica dove, ovviamente, del tutto si tace,
limitandosi semmai a riferire che cosa i vivi abbiano fatto attorno a
quel cadavere. E c'è una via devota, quella della agiografia
tradizionale, che non ha esitazioni: l'anima immortale venne subito
accolta dal Cristo così come il Vangelo promette: "Vieni, servo buono,
sei stato fedele nel poco, io ti darò autorità sul molto".
UN AIUTO CONCRETO
Quella
di Giovanni Bosco che a Valdocco raccoglieva quegli scarti della nuova
società che erano i ragazzi abbandonati era la stessa prospettiva, la
stessa sfida del suo grande amico, del fratello nella stessa fede che a
San Donato raccoglieva quegli altri scarti che erano le serve
disoccupate, malate, incinte, invalide, invecchiate.
Anche
a lui (come a tutti gli altri santi "sociali") si può applicare quanto
Piero Bairati, storico contemporaneo dell'economia, scrive di don Bosco:
"In una società disgregata, si afferma come organizzatore. In un mondo
di sbandati, insegna il valore della disciplina e instilla nei giovani
il senso di appartenenza a un'istituzione. Ai miserabili e ai derelitti
non predica una vaporosa religione del cuore, ma un severo ordine
interiore e il culto del lavoro, della precisione, delle cose ben
fatte".
In
effetti, questi cattolici che affrontano di petto i drammi sociali
scatenati dall'irrompere della modernità, nella diagnosi concordavano
con i nascenti movimenti dei lavoratori (che verranno però dopo, molto
dopo di loro: si pensi che la fondazione del Partito socialista italiano
non è che del 1892, a quattro anni cioè dalla morte di don Bosco e
dell'abate Faà di Bruno!).
È però nella terapia che divergevano.
Terapia che è poi tutta condensata in una convinzione che il Faà non si stancava di ripetere: i
guai sociali derivavano dall'abbandono della pratica coerente di un
cristianesimo solidale, autentico. E, dunque, battersi per la
restaurazione religiosa non era solo uno strappare anime all'inferno, ma
anche contribuire efficacemente a creare una società migliore, più
giusta e più umana. Per dirla con le sue stesse parole: "Salvare il
mondo con una religione vissuta profondamente".
Sapeva
che la fede autentica produce anche buoni cittadini: quegli "italiani
seri" di cui la caotica, improvvisata nuova nazione aveva disperato
bisogno. Lui, del resto - lui, il nobile, il privilegiato, il ricco, il
colto - era il primo a dimostrarlo.
Né
si creda che quella sua opera fosse marginale, insignificante: già nel
1879, a vent'anni dai primi inizi dell'Opera, tra le sue mura erano
passate oltre 10.000 donne. Un numero quasi pari, cioè, a tutte le
domestiche di Torino. Quel passaggio produceva inoltre frutti duraturi,
in quanto la maggioranza delle ricoverate temporanee aderiva poi a una
associazione con scopi religiosi e di mutuo soccorso. E, ciascuna di
esse, poteva essere un fermento di cristianesimo all'interno di quasi la
totalità delle famiglie torinesi abbienti a sufficienza da permettersi
una domestica: a questo, del resto, il Beato mirava; e questo spiega
anche l'ostilità di cui era circondato dalla casta liberale. I numeri
andarono moltiplicandosi negli altri nove anni della sua vita e
aumentarono in modo impressionante dopo la sua morte, per giungere sino a
noi, dove attorno agli istituti di via San Donato e alle sue suore si
coagulano ora le nuove povertà delle domestiche africane, asiatiche,
sudamericane.
È
solo un esempio, questo, della terapia messa in atto dal Beato (come
dagli altri cattolici del tempo) per rispondere con fatti concreti a una
situazione sulla cui diagnosi era implacabile; alla pari, anzi con
ancora maggiore severità, dei nascenti socialismi e sindacalismi laici.
Questi, in effetti, ai ricchi, ai privilegiati minacciavano tasse,
riforme, espropri, magari la rivoluzione stessa.
Cose
gravi, ma di certo infinitamente meno di quanto, Scrittura alla mano,
minacciavano quei credenti: niente di meno che la sventura e la
sofferenza eterne, l'ira implacabile di Dio stesso. In una parola sola e
terribile: l'inferno.
Altro
non praticavano, in questo modo, che la fedeltà a tutto il Vangelo,
nella lettera come nello spirito. E di Gesù stesso il "guai a voi
ricchi, perché avete già la vostra consolazione! guai a voi che ora
siete sazi, perché avrete fame!" (Lc 6,24 s).
Ed
è nello stesso terzo evangelo l'inquietante parabola che cosi comincia:
"C'era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni
banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla
sua porta coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva
dalla mensa del ricco...". E ben si ricorda il terribile seguito, con il
ricco che, stando nell'inferno, tra i tormenti, chiede almeno un po' di
refrigerio, avendone come risposta: "Ricordati che hai ricevuto i tuoi
beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora, invece, lui è
consolato e tu sei in mezzo ai tormenti..." (Lc 16).
In
quella prospettiva da credenti radicali nella quale, per rendere loro
giustizia, vanno sempre giudicati, non c'era per loro minaccia
socialista, marxista, anarchica che si avvicinasse alla terribilità di
quelle altre parole che gli evangeli attribuiscono ancora al Cristo:
Poi (il Figlio dell'uomo) dirà a quelli posti alla sua sinistra:
"Via,
lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e
per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare,
ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero forestiero e non mi
avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non
mi avete visitato [...]. E se ne andranno, questi al supplizio eterno e i
giusti alla vita eterna"(Mt 25,4-44 e 46)
Da
queste parole del Cristo - e da tante sue altre, esplicite e
inesorabili - già i primi credenti trassero subito le conseguenze. Dalla
lettera che il Nuovo Testamento attribuisce all'apostolo Giacomo:
E
ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi
sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono
state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono
consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza
contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato
tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai
lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida: e le proteste dei
mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete
gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete
ingrassati per il giorno della strage (Gc 5,1-5).
Espressioni,
come si vede, assai poco carine per i ricchi destinatari; e sulla base
delle quali, la Chiesa, tra i peccati più gravi - quelli "che gridano
vendetta al cospetto di Dio" - pose proprio il "defraudare i lavoratori
della giusta mercede". Coerenti - senza sconti né mediazioni - con le
parole della Scrittura giudeo-cristiana e della millenaria Tradizione
cattolica che ad essa si era uniformata, questi credenti del secolo del
liberalismo capitalista e del socialismo rivoluzionario non si
limitarono, nella loro predicazione, a delle vaghe esortazioni, a degli
innocui auspici o alla richiesta di qualche spicciolo che illudesse i
ricchi di salvare la propria coscienza (e la propria anima) e al
contempo tenesse buoni i poveri.
Faà
di Bruno, di solito così controllato, allergico a ogni atteggiamento
demagogico, a ogni parola urlata, alza invece la voce contro i padroni
che, per sete di guadagno, rendevano schiavi i dipendenti negando loro
persino il riposo festivo: "Anche tra noi sono i barbari che costringono
il povero operaio a rovinarsi la sanità per lavorare la domenica". E,
altrove, parla di "quegli uomini che rendono schiavi altri uomini
incatenandoli e degradandoli sotto il giogo del continuo lavoro".
Nutrito
di cultura francese, leggeva e citava spesso, nelle sue omelie da
sacerdote, ma anche nei discorsi e nelle lettere da laico, Bossuet, il
predicatore della corte secentesca di Versailles che, davanti ai grandi
del regno, non temeva di dire: "I pregiudizi del secolo impediscono ai
ricchi di comprendere che pesante fardello sia l'abbondanza. Ma,
allorché arriveranno là dove sarà di nocumento essere troppo ricchi,
allorché compariranno davanti a quel tribunale dove bisognerà rendere
conto non solo dei talenti impiegati ma anche dei talenti sotterrati e
rispondere a quel giudice inesorabile non solo dello speso ma anche del
risparmiato e messo da parte, allora, Signori, conosceranno che le
ricchezze sono un gran peso e si pentiranno indarno di non essersene
scaricati". E, ancora: "O grandi, o ricchi del mondo, quanto la vostra
condizione mi fa paura!".
Sentiamo,
al proposito, un brano del discorso pubblico che l'ormai vecchio don
Bosco tenne il Sabato Santo del 1882 a Lucca dove si era recato - al
solito - a sollecitare aiuti per i suoi giovani:
Uno
avrà mille franchi di rendita e di ottocento può onestamente vivere;
orbene, i duecento che avanzano cadono sotto le parole di Gesù: "Ciò che
è di più, datelo in elemosina!".
"Ma una necessità impreveduta, una fallanza nel raccolto, una disgrazia nel commercio…".
Ma
sarete ancora in vita allora? E poi Iddio: che al presente vi aiuta,
non vi aiuterà specialmente se avrete dato per amor suo? Io dico che chi
non dà il superfluo ruba al Signore e con san Paolo dico: regnum Dei
non possidebit.
"Ma
la mia casa è povera; ho bisogno di rinnovare certe suppellettili già
troppo vecchie e non più secondo il gusto che corre." Se permettete,
entro con voi nella vostra casa. Veggo là suppellettili molto ricercate,
qui una tavola fornita di ricchi servizi, altrove un tappeto ancor
buono. Non si potrebbe lasciar di cambiare questi oggetti e, invece di
ornare i muri e la terra, coprire tanti poveri giovinetti che soffrono e
che pure sono membra di Gesù Cristo e tempio di Dio? Veggo là
risplendere argento e oro e ornamenti tempestati di brillanti.
"Ma
sono una memoria..." Aspettate voi che vengano i ladri a rubarveli? Voi
non li usate, né vi sono necessari. Prendete questi oggetti, vendeteli e
datene il prezzo ai poveri: voi li date a Gesù Cristo e acquistate una
corona in cielo. In questo modo non isquilibrate punto le vostre
sostanze, né vi levate il necessario.
"E quella cassetta così ben chiusa?" "E niente!" "E niente? Lasciate vedere!"
"Ecco:
è qualche migliaio di napoleoni d'oro: li conservo perché può venire
una malattia; e poi c'è un vicino che mi disturba; vorrei comprare
quella possessione, e così farebbe miglior vista la mia tenuta." Ma
questo è superfluo, io dico; voi siete obbligato a prendere quel denaro
che non giova a nessuno e a farne ciò che comanda Gesù Cristo. Volete
conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate, il demonio verrà e di quel
denaro farà una chiave per aprirvi l'inferno.
Se
volete sfuggire a tanta sventura, imitate l'esempio dei Santi e
soccorrete i poveri. Dando ai bisognosi le vostre sostanze, voi le
mettete come in mano agli Angeli, i quali ne faranno una chiave per
aprirvi il cielo nel giorno della vostra morte.
Si
andava davvero sul pesante, dunque. Alla pari, anzi assai più, della
predicazione sociale dei riformisti laici o dei rivoluzionari atei del
tempo i quali (lo ricordiamo ancora) minacciavano ai ricchi sventure ma,
necessariamente, limitate nel tempo, in vita. Qui, invece, le sventure
sono predette nella eternità, senza limite né fine.
Ma
l'aspetto che distingue un Bossuet, un don Bosco o un Faà di Bruno da
un Marx, da un Engels, da un Bakunin, da tutti gli altri "apostoli della
giustizia" da ottenere con mezzi politici; la chiave per capire quanto
la passione per i poveri sia la medesima ma differente la terapia,
diversa la prospettiva è in quel: "Volete conservarlo? Conservatelo
pure, ma ascoltate. Il demonio verrà...".
Si
raccomandava, dunque, sulla scorta di Paolo che scriveva a Timoteo: "Ai
ricchi in questo modo raccomanda di non essere orgogliosi, di non
riporre la speranza nell'incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che
tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; raccomanda di fare
del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di
essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il
futuro, per acquistare la vita vera" (1Tim 6,17).
Questi
credenti del secolo del socialismo miravano cioè anch'essi (e con quale
vigore) a una migliore giustizia, a una società più umana ma, nel loro
realismo cristiano, non credevano che ciò fosse raggiungibile per via
coercitiva, per via rivoluzionaria. Volevano l'esproprio di ciò che,
superando il lecito, non apparteneva più ai ricchi ma toccava ai poveri:
volevano però che nascesse da un'esigenza libera, dalle ragioni della
coscienza, dal profondo del cuore. Se proprio non da altro, almeno dal
timore di presentarsi carichi di fardelli inutili davanti al Giusto
Giudice per eccellenza, quello le cui sentenze sono immodificabili e
inappellabili.
Intuivano
che la rivoluzione predicata dagli agitatori politici non avrebbe
risolto i problemi, anzi ne avrebbe creati altri, anche peggiori: come
tutto ciò che nasce dalla forza. 183
E
come, in effetti, presto si vide. E come, soprattutto, noi oggi
vediamo, con il disastro e il crollo dei regimi costruiti in nome del
socialismo scientifico e, in generale, con quelle rivoluzioni cui questi
credenti si opponevano non certo per insensibilità, non per miopia, non
per interessi di conservazione sociale ma, al contrario, proprio per
preservare il popolo da illusioni che si sarebbero rivelate rovinose.
Seguaci
di quel Gesù che "sapeva quel che c'è nel cuore dell'uomo", membri di
una Chiesa millenaria "esperta in umanità", prevedevano che ogni
rivoluzione solo esterna come quella politica sarebbe stata illusoria;
anzi, alla lunga, malgrado le buone intenzioni, si sarebbe rivelata
rovinosa, creando una nuova classe di ancor più scandalosi privilegiati e
impoverendo ancor più i già poveri. Perché solo la rivoluzione interna
(il cambiare la coscienza, l'aprire il cuore alla pietà, alla
misericordia, alla solidarietà) può, sia subito che alla lunga,
significare per tutti frutti benefici. E guardando alla Rivelazione di
Dio prima che agli schemi degli uomini che l'uomo può scoprirsi fratello
di ogni altro uomo. E ciò che don Bosco e Faà di Bruno intendevano,
ripetendo sempre di "non voler fare altro che la politica del Padre
Nostro"
La
tradizione cristiana, quella cattolica in particolare, conosce da
sempre dei tentativi per anticipare già qui il mondo e l'uomo nuovi
promessici: ma si tratta di quei piccoli pezzi di umanità che sono gli
ordini e le congregazioni religiose. Dove (almeno nelle intenzioni-) si
tende a un regime davvero fraterno, in cui tutto sia in comune, in cui
l'egoismo sia il più possibile vinto. E' un affrettare i tempi, un
proporre un modello di ciò che é già e, insieme, non e ancora.
Ma,
non a caso, per accedere a questi spazi escatologici, la Chiesa parla
di una misteriosa e gratuita chiamata, di una vocazione di Dio
assolutamente necessaria. E non a caso si premunisce con regole e norme
precise, con austerità e ascesi programmate, ben sapendo come anche in
queste comunità di chiamati l' homo naturalis tenda sempre a rispuntare,
con quella che il linguaggio religioso chiama la concupiscentia.
Invece,
le ideologie che perseguono l'utopia dell'uomo nuovo e del mondo nuovo,
del paradiso già in terra, non vogliono proporre ma imporre l'ideale:
volendo trasformare il mondo intero in un monastero, in un convento,
finiscono per ridurlo a carcere e campo di concentramento, dove la virtù
alla fine è imposta dalla polizia e dal terrore di uno Stato oppressivo.
Rifuggendo
questi santi, da veri seguaci del Vangelo, da ogni odio, anche di
classe, e da ogni guerra, anche civile, proponevano per la società e i
suoi problemi la via della solidarietà, della compassione (nel senso
etimologico: patire insieme), della collaborazione. In una parola,
dell'amore.
Ma,
questo, senza alcuna ingenuità, anzi con sano e sodo realismo.
Profondamente convinti del valore della redenzione operata dal Cristo
con la sua passione, morte e risurrezione, erano però altrettanto
convinti, sempre sulla scorta di quella loro fede integrale, che, se il
peccato d'origine era stato riparato, le sue scorie, le sue conseguenze
negative resteranno sino al secondo, definitivo ritorno del Cristo per
instaurare - e soltanto allora - le "terre nuove " e i "cieli nuovi".
Sapevano,
come dirà un convertito alla fede cristiana, il premio Nobel per la
letteratura Thomas Eliot, che e illudersi, e rovinosamente, il pensare
di poter creare, per via di riforme politiche e sociali, "un mondo così
perfetto, una società dalle leggi così giuste che ci dispensi dalla
necessità di essere buoni".
Erano
scambiati spesso per ritardatari, per difensori di una prospettiva
illusoria e ormai anacronistica: ed erano invece, anche in questo, i
veri profeti. Come noi, a più di cent'anni di distanza, possiamo ben
constatare. Noi che abbiamo visto (e non lo ricorderemo mai abbastanza)
come il bel sogno di creare il paradiso in terra non con la rivoluzione
innanzitutto dei cuori, ma con quella della forza, si rovesci sempre,
immancabilmente, nell'incubo concreto dell'inferno in terra. Noi che,
dopo tante amare esperienze (le cui conseguenze peggiori hanno patito
soprattutto quegli ultimi che si credeva di aiutare), dovremmo ormai
sapere che - per dirla con Giovanni XXIII - "mai ci saranno pace e
giustizia fuori, nella società, se non ci saranno prima dentro,
nell'intimo di ogni uomo".
Si
spingevano, quei credenti, a minacciare ai privilegiati la punizione
eterna per cercare di diminuire al massimo l'ingiustizia; per alleviare
al massimo le sofferenze; per sconfiggere al massimo l'individualismo.
Al contempo, però, sapevano che lo spessore del peccato, dell'egoismo,
dell'indifferenza mai sarà del tutto eliminato; che, malgrado ogni
sforzo, la perfezione non e di questo mondo, già salvato dalla
redenzione del Cristo e insieme ancora afflitto dalle conseguenze del
peccato.
Diffidavano
poi - anche qui da veri cristiani, in opposizione alle nuove ideologie -
dei discorsi teorici, dei mirabili programmi per il futuro, dei
pronunciamenti generali. Ora sappiamo (ma allora non era così evidente,
al contrario) che facile è fare magnifici progetti per l'umanità,
difficile è chinarsi sulle miserie dell' uomo che sta accanto a noi.
E,
dunque, preferivano - più che scrivere trattati di utopie sociali o
infiammare le piazze con rivendicazioni e promesse - rimboccarsi le
maniche subito e agire concretamente a favore dei bisogni concreti. Le
scale dei miserabili, le salivano portando pacchi di cibi e di vestiti
che servissero per l'immediato e non opuscoli di propaganda politica che
promettessero il benessere per un indefinito futuro; al clamore del
comizio sostituivano l'aiuto, magari silenzioso, discretissimo, come nel
caso del nostro Beato.
Ricordiamo
tutti (ma non tutti, nemmeno tra cristiani, ne traiamo le giuste
conseguenze) la parabola del decimo capitolo di Luca, raccontata da Gesù
per rispondere alla domanda di un dottore della Legge che, sentendolo
esortare ad "amare il nostro prossimo come noi stessi", chiese, forse
capziosamente: "E chi è il mio prossimo?".
Gesù
rispose: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei
briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono
lasciandolo mezzo morto...". Si sa che solo un samaritano, "passandogli
accanto, lo vide e ne ebbe compassione". Ma in che modo?
Stando
a tutti i rivoluzionari e ai riformisti, e poi, in seguito, stando ai
cattolici che "vogliono andare a monte", che denunciano anch'essi,
sdegnati, la "carità alienante", i "santi della beneficenza"),
quell'"avere compassione", per essere autentico, efficace, deve
necessariamente passare per le vie della politica.
Pertanto, il samaritano avrebbe dovuto battersi per:
un'azione
dello Stato - previa un'approfondita indagine sociologica - per
rimuovere le cause di disagio e di emarginazione che spingevano alcuni
diseredati al brigantaggio, creando per il loro recupero, a spese e
direzione pubbliche, apposite comunità;
in attesa delle misure per risolvere "a monte" il problema di una delinquenza di cui non i presunti banditi, ma la società era responsabile, occorreva un'azione, anch'essa statale, di tutela per i viaggiatori meno abbienti che, come questo, viaggiavano a piedi e senza scorta; creare una rete di posti sanitari di pronto soccorso, gratuiti e pubblici; stanziamenti per rimborsare gli aggrediti dei danni subiti e pensioni per chi ne avesse ricavato invalidità; manifestazioni di protesta per ottenere la sistemazione e l'illuminazione della via Gerusalemme-Gerico come di ogni altra arteria importante; istituzione nelle scuole di corsi di educazione civica che, certamente, avrebbero dissuaso i giovani dall'aggredire i viandanti... Diverso il comportamento del samaritano vero, quello di Gesù. "Ebbe compassione", è detto: per manifestarla in concreto, "gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno".
Comportamento
scandalosamente "poco sociale", "non risolutivo", al limite "alienante"
e "diseducativo"; e che invece Gesù, inopinatamente, considera quello
giusto e propone ad esempio: "Va', e anche tu fa' lo stesso".
Proprio
per obbedire a questo antico e sempre attuale comando (e per restare in
quella Torino di diciotto secoli dopo che quella parabola era stata
raccontata), un Cottolengo, un Cafasso, un Bosco, un Murialdo, un Faà di
Bruno passarono all'azione immediata prima di elaborare progetti che,
in futuro, risolvessero definitivamente i problemi degli handicappati,
dei carcerati, dei giovani abbandonati, degli apprendisti sfruttati,
delle serve schiavizzate.
Alzarono
la voce, certo; denunciarono lo scandalo dell'indifferenza;
minacciarono addirittura l'inferno. Ma, più che scrivere manifesti,
distribuire volantini, creare una nomenklatura di funzionari di partito e
di sindacato, ai bisogni di quelle vite risposero con la loro vita
stessa.
Puntarono
sì il dito sugli altri, ma solo perché prima l'avevano puntato su se
medesimi. Per avere il diritto di far pagare altri, pagarono di persona
essi stessi.
Gli
ideologi discorrevano di umanità, di classi; questi non si occupavano
di astrazioni, di teorie, ma di persone: quei sofferenti concreti e
reali in cui il Cristo stesso, accanto a loro, era ancora e sempre in
agonia.
Faà
di Bruno non fece troppi discorsi sul proletariato (il quale, in ogni
caso, lo vedemmo, per il suo bisogno di giustizia sociale a 360 gradi,
comprendeva anche "il proletariato dell'Aldilà"), preferendo
battersi per far funzionare subito delle mense popolari; non rimandò le
serve lacere e sporche ("tanto che niun padrone le vuole", scriverà)
che bussavano alla sua porta al giorno in cui la rivoluzione avrebbe
trionfato, ma creò asili e scuole e laboratori per loro; non auspicò una
giustizia futura, ma le mise in grado di ottenere subito la maggior
giustizia possibile; non elaborò un progetto generale di riforma
sanitaria, ma si diede da fare per costruire e far costruire bagni
pubblici; non scrisse trattati sulle misure pubbliche contro
l'inquinamento, ma insegnò alle serve ad ammazzare le mosche; non
aspettò una legislazione sulla tutela della salute dei lavoratori, ma
costruì ambienti senza pericolo per chi vi faticava; non aizzò allo
sterminio dei privilegiati ma cercò, concretamente, di convincere
costoro a rispettare i loro doveri di cristiani e, se tali non erano,
almeno di uomini.
I
politici, i teorici, gli agitatori sociali di allora e di sempre
rimandavano e rimandano a un futuro radioso, al "domani che canta"
Questi cristiani, esaminato il loro presente, si mettevano al lavoro per
renderlo subito e il più possibile meno disumano.
Esemplare,
al proposito, la vicenda dell'orologio sulla torre. Di quel suo
campanile, Faà di Bruno volle fare un segno religioso e al contempo (lo
vedemmo) un segno dell'armonia tra scienza e fede, mostrata in concreto
sia nell'arditezza del calcolo sia nell'osservatorio astronomico e
meteorologico alla sommità.
Dunque,
la sfida del laico cattolico e poi sacerdote professor Faà di Brune è
il mostrare, con la pietra e il metallo organizzati dal calcolo
matematico, che la fede non teme che il "Satana" della modernità
"spenni" l'arcangelo; ma che proprio anche con quel presunto "Satana del
progresso" si può glorificare il Dio che Michele adora e serve.
Giovanni
Paolo Il stesso, in visita a Torino, volle consacrare al nuovo beato la
cappella dell'Arsenale dove ha sede l'Accademia militare, indicando
nell'antico capitano un protettore degli ufficiali. Ma, in questi anni,
molti scienziati si sono rivolti alla Santa Sede perché questo loro
collega sia dichiarato ufficialmente "patrono dei matematici":
categoria, quest'ultima, priva sinora di un degno rappresentante in
Cielo.
Sulla
base non di auspici teorici, ma di un'esperienza cominciata sin dalla
prima giovinezza, Faà di Bruno non solo non ammetteva contrasto tra
progresso tecnico e religione vissuta nel modo più tradizionale, tra
scienza più avanzata e fede più ortodossa, ma giudicava queste realtà
necessariamente legale tra di loro.
Nel
1928, interrogata dai giudici del primo processo canonico, un'anziana
suora, che era stata sua allieva, così tra l'altro testimoniava: "Mi
ricordo come fosse solito dire che un vero scienziato non può non
credere in Dio e nel cattolicesimo. E perché, pel desiderio di schiarire
le mie idee, io insistevo che allora non si sarebbe potuto spiegare
come certi uomini di scienza non avessero fede, il Servo di Dio mi
diceva: "O non sono veri scienziati o non hanno studiato la religione
cattolica"".
Insegnava
che l'armonia scoperta dallo scienziato nel mondo fisico è "un'ombra
delle perfezioni di Dio"; e che "il vero ricercatore, purché oggettivo,
non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose
regolarità matematiche su cui si regge l'universo una provvida e
onnipotente Sapienza". Si diceva convinto, per pratica personale, che
"l'alta matematica conduce alla logica e questa alla filosofia e questa a
sua volta alla teologia".
Diceva ancora che, non la scienza è la regina del sapere, ma la
teologia, di cui la scienza è I' ancella: perché le parziali verità che
lo scienziato scopre non sono che frammenti dell'unica Verità che tutte
le contiene.
Ma,
al di là dei pur importanti simboli, a quel campanile della sua chiesa
in borgo S. Donato volle anche dargli una funzione sociale.
Tra
i molti drammi - grandi e piccoli, in ogni caso sino ad allora inediti -
causati dalla società moderna, c'era l'aver come ingabbiato il tempo in
orari precisi (sconosciuti alla cultura agricola, cui bastava il
"pressappoco" del sole) senza però permettere alla massa di accedere
agli strumenti di misura di quel tempo fattosi padrone esigente. Un
orologio era allora un lusso per privilegiati.
In
attesa di una società in cui tutti potessero permettersi di
acquistarlo, Faà di Bruno pensò a risolvere subito il problema. Con il
consueto rigore di scienziato, calcolò che un orologio le cui lancette
avessero la lunghezza di due metri, collocato a cinquanta metri di
altezza e munito di un quadrante per ciascuno dei quattro punti
cardinali, poteva indicare l'ora esatta a ben ottantamila persone.
Calcolò poi che la spesa superava le seimila lire e si rivolse dunque al
Municipio con una richiesta di sussidio, firmata anche dagli abitanti
del Borgo, per questa che era certamente un'opera a favore della città.
Forse
per la prima e unica volta il Comune rispose alle sue richieste di
aiuto, deliberando però soltanto un contributo di duemila lire. Al
solito, tutto il resto fu pagato dal Faà che, tra l'altro, ottenne la
delibera comunale nel 1878 ma incasso le duemila lire alla fine del
1882, più di quattro anni dopo, subendo visite di controllo e
inquisizioni varie.
Ora,
forse, nessuno si affaccia più alle finestre per vedere che ora sia al
campanile di Santa Zita: ma, per decenni, centinaia di migliaia di
torinesi senza altro orologio lo fecero.
Secondo
lo stile di questi cristiani, i poveri ebbero una risposta pronta e
concreta al loro bisogno, non promesse di una società in cui tutti
avrebbero avuto diritto a un cronometro al polso.
Ma
sia chiaro che questo pragmatismo nel beneficare non impediva loro (e,
soprattutto, non impedirà ai cattolici che verranno dopo di loro) di
pensare anche alle riforme sociali, oltre a quelle morali. Come
testimonierà soprattutto la coraggiosa enciclica papale,
la Rerurn novarum, che è del 1891 (tre anni dopo la morte del Faà e del
Bosco, un anno prima della fondazione del Partito socialista), ma la
cui gestazione è assai precedente, risalendo agli inizi stessi della
questione sociale. Quell'enciclica di Leone XIII condannava al contempo,
come si sa l'egoismo liberale e l'utopismo comunista, perfezionando,
precisando e riproponendo quella terza via, quella via cristiana che
credenti come questi torinesi avevano già praticato, mostrandone
l'efficacia e il valore con l'esperienza concreta.
Durissimo
col liberalismo borghese trionfante, ai cui guasti si sforzò fino
all'ultimo di rimediare, Faà di Bruno scuoteva scettico il capo davanti
alle teorie comuniste (che negano Dio), sbrigandosela con poche parole
da realista piemontese e da cattolico che ben conosceva la complessità
del cuore umano. Dicono, quelle parole che ci sono state conservate: "Il comunismo è una falsa teoria, condannata dalla Chiesa, ma condannata prima dal buon senso". E
che così fosse, sta ora a dimostrarlo la storia disastrosa dei
tentativi di tradurre in pratica quell'utopia che, essendo appunto
"condannata dal buon senso", esige la forza, il sangue, li polizia per
essere instaurata e mantenuta con fatiche e sacrifici inenarrabili, per
non riceverne che ulteriori ingiustizie, miserie, sofferenze. E, alla
fine, rivolta violenta dei presunti beneficati.
È
la storia, è una tragica storia che ci ha mostrato che "quelli che
vogliono rendere gli uomini felici, non esitano a massacrarli per
questo". E che "fra tutte le idee, quella di rendere perfetta l'umanità è
di tutte la più pericolosa"
Queste due citazioni sono di Karl Popper,
il filosofo che molti considerano il maggiore del nostro secolo, un
agnostico, un non-cristiano, di certo un non-credente. Il quale, però,
ha scritto parole che questi nostri santi "sociali" avrebbero
sottoscritto volentieri.
Sentiamo, dunque, Popper che così scrive: "Agisci
per l'eliminazione dei mali concreti, piuttosto che per realizzare dei
beni astratti. Non mirare a realizzare la felicità con mezzi politici.
Tendi piuttosto a eliminare la miseria alla tua diretta portata. Non
cercare di realizzare questi obiettivi concependo e cercando di attuare
un ideale remoto di società perfetta. Non permettere che i sogni di
questo mondo perfetto ti distolgano dai bisogni degli uomini che vivono
qui e ora. I nostri simili di adesso hanno diritto a essere aiutati
adesso: nessuna generazione presente deve essere sacrificata per il bene
di quella futura, in vista di un'utopia di felicità".
Era
composto di gente socialmente impegnata, di paladini dei lavoratori, di
intellettuali militanti o almeno di fiancheggiatori del movimento
operaio, lo staff che nel 1983 fu incaricato di una ricerca. La quale
(come diceva il titolo, consisteva in una "indagine sul Borgo San Donato
dal 1850 al 1900" ed era commissionata da quel comitato di quartiere a
maggioranza comunista, con l'appoggio socialista: alla pari, del resto, e
da otto anni, dell'amministrazione municipale di Torino.
Da
quella ricerca lunga e ambiziosa, con pretese di completezza (vi
risultarono impegnati un coordinatore, due responsabili scientifici, tre
ricercatori, sei collaboratori e infine due responsabili del Consiglio
di circoscrizione) vennero una mostra e un volume fitto di documenti
anche rari e con grande scialo di noie erudite. Il tutto, ovviamente,
pagato con il denaro pubblico.
Stando
a quanto ricostruito da quegli "esperti", quasi non è esistita, nel
Borgo, l'instancabile, enorme attività svolta in quei decenni e tra
quelle vie dai
grandi cattolici sociali: e non solo il Faà, ma altre figure
straordinarie come il teologo Gaspare Saccarelli che nel suo Istituto
della Sacra Famiglia giunse a mantenere 250 fanciulle orfane e 300 figli
di operai; o come don Pietro Merla, morto nel 1855 per le percosse e le
sassate ricevute da un gruppo di giovinastri cui aveva sottratto delle
giovani prostitute, accogliendole nel suo Istituto di San Pietro.
Credenti che non a caso fissarono la loro attenzione fraterna su questa
zona cittadina, dove oltre la metà della popolazione risultava
nullatenente e bisognosa di assistenza; e dove (come il tragico episodio
di cui fu vittima don Merla conferma) la malavita imponeva la sua legge
di violenza.
A
quei credenti che diedero tutta la loro vita per i derelitti della
zona, gli "storici" del comitato "rosso" di quartiere non dedicano che
pochi, spesso sprezzanti cenni, quasi sempre per far sospettare qualche
loro speculazione sulle aree, qualche inghippo per ottenere lucrose
varianti urbanistiche (come se, tra l'altro, il Comune non fosse in quei
decenni saldamente in mano a una consorteria faziosamente anticlericale
che, lo abbiamo visto, a tutto era disponibile tranne che a favorire
dei cattolici, dei preti).
Quanto
a Francesco Faà di Bruno, il breve cenno che lo riguarda, lo dice,
testualmente, iniziatore di "un'Opera che e una vera e propria fabbrica
di serva". E, in una nota, si spiega che "questa istituzione", dietro il
pretesto della "caritatevole assistenza", a questo, in realtà, mirava:
"assicurarsi mano d'opera ben addestrata e a buon mercato". Dunque, il
nostro Beato come uno speculatore sulla miseria, quasi un mercante di
carne umana, un astuto organizzatore di traffici lucrosi a danno delle
"serve" da lui "fabbricate": e, il tutto, in combutta con la classe
borghese, quella stessa classe che però, curiosamente, lo minacciava di
confisca, lo sbeffeggiava sui giornali, gli sabotava la carriera
scientifica. E che egli ricambiava con l'epiteto di "barbara!"…).
Non
occorrono di certo commenti. Al lettore di queste pagine, se è giunto a
leggerle sin qui, lasciamo il giudizio su simili "storici" e sullo
schematismo triviale di un'ideologia la quale, del resto, ricalca le
orme di un'altra ideologia, quella della borghesia liberale: quando, nei
primi mesi del 1888, morirono don Bosco e Faà di Bruno, il maggior
quotidiano di Torino, La "Gazzetta del popolo", ignorò la notizia,
malgrado il coinvolgimento popolare. Il periodico "Il Ficcanaso",
diretto da un garibaldino, parlò della "morte di un briccone esperto
nell'arte di pelare i bipedi", un "capo di gaglioffi": questo, per quei
"democratici", era S. Giovanni Bosco.
|
Postato da: giacabi a 18:36 |
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santi, cristianesimo, faa di bruno
Gli occhi di Madre Teresa, costretti da un Dio geloso a frugare nel buio sempre alla ricerca di Lui
***
Tempi num.37 del 13/09/2007 di Corradi Marina «C'è un'oscurità terribile in me, come se ogni cosa fosse morta». Leggi tra le lettere ai confessori di Madre Teresa di Calcutta, pubblicate in Gran Bretagna sotto il titolo Come Be My Light, e ti viene in mente l'unica volta che l'hai incrociata, molti anni fa, a Rimini. Davanti agli occhi, come fosse stato appena ieri. Era così piccola di statura, che ti arrivava a stento al petto. E curva, come piegate le spalle sotto al peso di un oscuro giogo. Deforme quasi quel corpo, secondo i canoni estetici consueti. Ma gli occhi. Dal basso all'alto, ti piantava in faccia quei suoi occhi chiari. Non aggressivi, ma nemmeno dolci, nel senso sentimentale del termine. Guardavano, quegli occhi, con un intenso interesse umano, come un appassionato d'arte davanti a un'opera mai vista. Come uno studioso che apra un manoscritto antico e raro. E sotto a quello sguardo, ci si sentiva brutalmente svelati. Questa donna sa leggerti dentro, ti eri detta in una sottile paura, e arretrando istintivamente di un passo, quasi a sottrarti - a richiudere le pagine del libro. E tuttavia, nel rapidissimo e tacito scambio qualcosa ti aveva subito rassicurato. Non c'era in quegli occhi chiari la luce fredda dell'avidità puramente intellettuale: non solo un'ansia di conoscere, ma una evidente passione di capire lo sconosciuto che le stava davanti, di comprenderlo. Un attimo, e già l'affondo da scrutatrice d'anime era finito, e si allargava in uno sguardo di misericordia. Come se, avendo in un momento già letto, e capito, inarrestabile fosse l'abbraccio, e il perdono. Ritorni a quell'istante - intanto che facevi quasi distrattamente due domande per il servizio che dovevi scrivere - mentre leggi: «Io non ho alcuna fede. Io non ho niente, neppure la realtà della presenza di Dio nell'ostia consacrata». Oscurità, scriveva ai confessori, ghiaccio - lunga notte attraversata in silenzio, mentre senza darsi pace curava i disperati di Calcutta. Si stupiranno, si scandalizzeranno di quel buio i nati tranquilli, e i soddisfatti. Ma la memoria di quegli occhi piantati in faccia è quella di una donna che cercava, con ostinata passione, dietro il volto di ogni uomo casualmente per un minuto incontrato, un Altro - sepolto, nascosto. Che inseguiva, ovunque, unico fine e orizzonte, Cristo. Forse, che quel buio le fosse dato perché non si fermasse, perché costantemente continuasse a intravedere e trovare dietro ai nostri occhi opachi il Dio che è "tutto in tutti"? Un Dio che non si concedeva mai pienamente, per essere ogni giorno scorto nelle facce della folla distratta, o disperata. Così che, vecchia, Teresa scrive: «Sono giunta ad amare il buio, perché penso che sia una piccolissima parte della sofferenza di Cristo sulla Terra». Amare il buio, che cosa a noi incomprensibile. Amare il buio in cui la lasciava un Dio geloso, che vuole essere ogni giorno riconosciuto nelle facce degli uomini. |
Postato da: giacabi a 20:07 |
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santi, madre teresa
Postato da: giacabi a 21:17 |
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educazione, santi
I santi
«I moralisti considerano volentieri la santità come un lusso. Essa è una necessità. È la santità, sono i santi che mantengono quella vita interiore senza la quale l’umanità si degraderà fino a morire». G. Bernanos
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Postato da: giacabi a 20:55 |
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santi, bernanos
SANTA TERESA
DI GESÙ BAMBINO
***.asp?id
La piccola via
Consigli e ricordi di Céline Martin, una delle quattro sorelle di santa Teresina
Domenica
19 ottobre 1997, papa Giovanni Paolo II – dopo che già ne aveva dato
annuncio il 27 agosto a Parigi, durante la XII Giornata della gioventù –
proclamava santa Teresa di Lisieux (nata ad Alençon il 2 gennaio 1873 e
morta a Lisieux, a soli ventiquattro anni, il 30 settembre 1897)
dottore della Chiesa universale. Con questo titolo, spiegava il Papa in
quell’occasione, «il magistero intende segnalare a tutti i fedeli, e in
modo speciale a quanti rendono nella Chiesa il fondamentale servizio
della predicazione o svolgono il delicato compito della ricerca e
dell’insegnamento teologico, che la dottrina professata e proclamata da
una certa persona può essere un punto di riferimento, non solo perché
conforme alla verità rivelata, ma anche perché porta nuova luce sui
misteri della fede, una più profonda comprensione del mistero di
Cristo».
Al
processo, quando il promotore della fede mi ha domandato perché
desideravo la beatificazione di suor Teresa del Bambin Gesù, gli risposi
che era soltanto per far conoscere la “piccola via”. È così che Teresa
chiamava la sua spiritualità, il suo modo di andare a Dio.
Gran Dio... non lasciare giammai che alcuni spiriti, di cui alcuni si annoverano tra i dotti, altri tra gli spirituali, possano essere accusati al tuo terribile tribunale di aver contribuito in qualche modo a chiuderti l’accesso in non so quanti cuori, perché tu volevi entrarvi in un modo la cui sola semplicità li urtava, e attraverso una porta la quale, benché aperta dai santi fin dai primi secoli della Chiesa, non era, forse, ancora abbastanza loro nota; piuttosto fa’ in modo che, diventando tutti
Così Teresa amava molto intrattenermi con queste parole che attingeva dal Vangelo: «Lasciate
che i fanciulli vengano a me, perché di essi è il regno dei cieli... i
loro angeli vedono continuamente il volto del Padre mio celeste...
Chiunque diventerà piccolo come un fanciullo sarà grande nel regno dei
cieli... Gesù abbracciava i fanciulli dopo averli benedetti»5.
Devozione al mistero dell’Incarnazione e del presepe
Passare sotto il cavallo
Come baciare il proprio crocifisso
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Postato da: giacabi a 10:17 |
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santi, steresina
La sola cosa che conta
***
" Che individuo impossibile sono — pensò — e come sono inutile.
Non ho fatto nulla per nessuno. Tanto valeva non aver vissuto mai... —
Lacrime corsero sul suo viso: in quel momento non aveva paura della
dannazione, perfino la paura della sofferenza fisica era in seconda
linea. Provava soltanto una delusione immensa, perché doveva andare verso Dio a mani vuote, senza aver fatto nulla. Gli pareva che sarebbe stato così facile essere un santo! Ci sarebbe stato bisogno soltanto di un po' di freno e di un po' di coraggio. Si sentiva come qualcuno che per pochi secondi avesse perduto l'appuntamento con la felicità. Sapeva ora che alla fine c'era soltanto una cosa che contasse: essere un santo.”
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Postato da: giacabi a 07:21 |
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santi, greene
San Nicola della Flüe
Il Padre e Patrono della Svizzera
***
di Régine Pernoud tratto da I santi nel medioevo, Rizzoli 1986
San
Nicola della Flüe è in realtà un santo straordinario, che ha
instaurato, nel suo tempo, lo stato più moderno che si possa concepire,
quello in cui le istituzioni democratiche funzionano -
quali che siano le vicende nel corso dei tempi - in una maniera che si
può considerare paradigmatica alla fine del nostro secolo XX, e che
inoltre ha assicurato, in Europa, la presenza di quello spazio pacifico
che è rimasta
"Bruder Klaus", come è chiamato nel suo paese, è uno di quei santi che sembrano appartenere a una parte speciale dell'umanità, un po' come Giovanna d'Arco, sebbene siano bene radicati nella vita quotidiana e nella società più umile, quella dei contadini vicinissimi alla terra - ricordandoci bruscamente come questa terra sia creazione divina. E’ un semplice contadino nato nel Tutta la vita di Nicola testimonia una profonda pietà che attinge alla fonte stessa della fede, nella contemplazione della vita trinitaria, alimentata dal sacramento dell'eucaristia. Nicola, sua moglie e i loro figli vivono "come gli altri". Un giorno, improvvisamente, Nicola abbandona il suo paese e la sua famiglia. Ha cinquant'anni. Non gli è accaduto nulla di straordinario, fuorché un appello interiore a vivere d'ora in poi nella solitudine e nella preghiera. Ciò avvenne il 16 ottobre 1467. Dapprima vuole allontanarsi, raggiungere l'Alsazia; lo arrestano e poi lo fanno tornare indietro diverse circostanze: prima una specie di esitazione, poi l'incontro di un amico. Ritorna nel suo paese e finisce per recarsi nel Ranft, una gola solitaria nel Melchtal, situata non lontano dalla dimora della sua famiglia. Vi costruisce una piccola capanna. Ben presto i suoi compatrioti vi edificheranno spontaneamente una cappella e un romitaggio. Nicola trascorre i giorni che gli restano da vivere nella preghiera - nella preghiera, nella solitudine e anche con un'astinenza assoluta, poiché non mangia ne’ beve e si nutre solo dell'eucaristia, quando un prete viene a celebrare la messa nella cappella del Ranft. Si è diffusa la voce di questo digiuno miracoloso che pratica. Per un mese le autorità municipali incaricano delle guardie di controllare giorno e notte se non sia nutrito di nascosto da qualche suo familiare. In capo a un mese si stancano: non è stata constatata nessuna frode. In seguito sono le autorità ecclesiastiche, in particolare il vescovo Ermanno di Costanza, che vengono a rendersi conto della realtà di questa vita di astinenza totale. Pur consacrando la cappella per fratello Nicola, il prelato gli ordina di mangiare un boccone di pane e di bere un po' di vino. L'eremita si sente così male che il vescovo non insiste più. Quando gli sono rivolte domande indiscrete (poiché nasconde questo suo digiuno), quando gli chiedono se è vero che non ha mangiato né bevuto per molti anni, risponde: "Dio la sa". Di fatto lo hanno confermato tutte le testimonianze. Una preghiera di Nicola della Flüe è stata conservata e compare in un manoscritto della fine del XV secolo. Riassume, nella sua semplicità, tutto ciò che costituisce la santità di quest'uomo: O mio Signore e mio Dio, allontanami da me stesso e donami interamente a Te. Mio Signore e mio Dio, prendimi tutto ciò che mi separa da Te. Mio Signore e mio Dio, donami tutto ciò che mi avvicina a Te. Il romitaggio del Ranft, così strano nella sua posizione in fondo al Melchtal, a poco a poco diventa una specie di meta di pellegrinaggi. Vengono a vedere colui che vi abita; Nicola fa quello che può per evitare le domande indiscrete, ma non sfugge le visite di coloro che gli chiedono aiuto, consiglio, assistenza per la loro vita interiore. In seguito molti hanno lasciato le loro testimonianze preziose per la storia, come Giovanni di Waldheim, scrittore conosciuto, o l'umanista Albrecht von Bonstetten, decano di Einsiedein. E così (sempre come Giovanna d'Arco, sebbene in condizioni molto diverse) Nicola della Flüe è conosciuto attraverso ogni specie di testimonianze concordanti. In quell'epoca la vita della Confederazione Elvetica era molto agitata e perturbata. L'unione già abbozzata tra i diversi cantoni si rivelava difficile da mantenersi, di fronte all'ostilità divenuta quasi tradizionale fra i cantoni rurali e quelli urbani; i cantoni di campagna rifiutavano l'ingresso nella Confederazione alle città di Friburgo e di Soletta, poiché temevano già il potere delle città (Zurigo, Berna, Lucerna), e queste discordie interne furono notevolmente incentivate quando le guerre contro Fu in queste condizioni che, nel novembre del 1481, i delegati delle città e delle campagne svizzere si riunirono a Stans, per tentare di liquidare le diverse cause di turbamento e di elaborare un nuovo statuto per Nessuna soluzione era sembrata accettabile, e si affrontavano più che mai diversi campi; si considerava la possibilità dello scontro armato. Il 21 dicembre tutti i delegati lasciavano l'assemblea, tornavano nelle loro locande e si preparavano alla partenza fissata per l'indomani. Faceva parte dell'assemblea il curato di Stans. Senza parlarne con nessuno, lo stesso giorno (21 dicembre) prese la strada del Ranft. Si chiamava Heini am Grund, e riteneva che solo un uomo potesse ristabilire l'accordo di tutti: l'eremita del Ranft. La mattina del 22 dicembre, quando i delegati per lo più erano già montati a cavallo per partire, ricompare il curato Heini am Grund; grondava sudore, poiché aveva cavalcato tutta la notte. Corse dietro a quelli che se ne andavano, supplicò tutti i delegati, "con le lacrime agli occhi, di volersi nuovamente riunire, in nome di Dio e di fratello Nicola, per sentire la sua opinione e il suo consiglio". A lungo si è creduto che Nicola della Flüe si fosse allora presentato di persona all'assemblea; la cronaca di un testimone oculare, Diebold Schilling, riferisce invece che Nicola aveva solo affidato un messaggio al curato di Stans, ma questo messaggio ci è stato comunicato integralmente, ed è anche riferito dal verbale della dieta di Stans: "Rinunciate alle alleanze particolari che possono solo ingenerare dissensi; rammentate i servigi che vi hanno reso Friburgo e Soletta; ammettetele nel grande Corpo elvetico. Un giorno vi rallegrerete di avere seguito il mio consiglio... Litigate tra voi per il bottino: cari amici, dividete le terre conquistate seguendo il numero dei cantoni, e il resto del bottino secondo il numero degli uomini... Unitevi con un comune vincolo di amore di fedeltà e di ordine". Un cronista scrive: "Prima di mezzogiorno le cose andavano malissimo, ma grazie a questo messaggio migliorarono molto, e nello spazio di un'ora tutto fu perfettamente risolto e regolato". Alle cinque pomeridiane di quel 22 dicembre la pace era conclusa; era stabilito il nuovo statuto della Confederazione dei dieci cantoni, ed era assicurata la pace tra essi. In tutto il paese, in quel giorno vicino a Natale, le campane si scatenarono per annunciare la notizia: "Fratello Nicola ha fatto bene le cose... " ripeteva la gente del popolo, e il cancelliere di Soletta, Giovanni di Stali, se ne faceva eco: "Voi avete ristabilito la pace, la calma e l'unione in tutta A distanza di tempo si è potuta apprezzare l'importanza del consiglio dato da fratello Nicola, eremita del Ranft: scartando a priori le alleanze straniere, ha consentito la neutralità della Svizzera, per secoli interi e fino a oggi. Ciò ha avuto l'effetto - in occasione delle guerre più spaventose, quelle del nostro secolo XX - di assicurare, proprio al centro dell'Europa, uno spazio di pace, il solo in grado di accogliere, nel 1918-1919, i delegati di tutte le nazioni che avevano conosciuto carneficine così crudeli. In altri termini, quella Società delle Nazioni (…), avrebbe mai potuto essere riunita in una località diversa da Ginevra, con la protezione del governo svizzero? Nicola della Flüe è stato l'uomo della pace per eccellenza, l'artefice di una pace durevole, e anche di più: oggi è riconosciuto come il padre della patria sia dalla Svizzera protestante che da quella cattolica. Tardi, del resto, poiché è stato canonizzato solo il 15 maggio 1947 (nel giorno dell'Ascensione). |
Postato da: giacabi a 19:11 |
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santi
Essere una cosa sola in Dio
Essere una cosa sola con Dio: questa è la prima cosa. Ma una seconda ne segue immediatamente. Se nel corpo mistico Cristo è il capo e noi le membra, allora noi siamo membra gli uni degli altri e tutti insieme siamo una cosa sola in Dio, una vita divina. Se Dio è in noi e se egli è amore, allora non possiamo che amare i fratelli. Per questo il nostro amore del prossimo è la misura del nostro amore di Dio.
Ma si tratta di un amore diverso dall’amore naturale per gli uomini. L’amore
naturale si dirige verso questo o verso quello, verso chi è a noi
legato da vincoli di sangue, da affinità di carattere o da interessi
comuni.
Gli altri sono "estranei", di essi "non ci importa alcunché", anzi
possiamo addirittura provare avversione nei loro riguardi a motivo della
loro indole, per cui ci guardiamo bene dall’amarli.
Per il cristiano non esiste alcun "estraneo".
Nostro "prossimo" è chi sta via via davanti a noi e ha più bisogno di
noi, sia egli o meno nostro parente, ci "piaccia" o no, sia "moralmente
degno" o meno del nostro aiuto. L’amore di Cristo non conosce confini, non viene mai meno, non si ritrae di fronte all’abiezione morale e fisica. Cristo è venuto per i peccatori e non per i giusti. E se il suo amore vive in noi, allora agiamo come lui e andiamo dietro alla pecorella smarrita.
L’amore naturale tende ad avere per sé la persona amata e a possederla nella maniera più indivisa possibile. Cristo è venuto per riportare al Padre l’umanità perduta; e chi ama col suo amore vuole gli uomini per Dio e non per sé.
Questa è naturalmente nello stesso tempo la via più sicura per possederli eternamente: quando infatti abbiamo posto in salvo una persona in Dio, siamo con lei in Dio una cosa sola, mentre il desiderio di conquistarla conduce spesso - anzi prima o poi sempre - alla sua perdita. Ciò vale per l’altrui anima come per la propria e per ogni bene esteriore: chi si dedica alle cose esteriori per conquistarle e conservarle, le perde. Chi ne fa dono a Dio, le guadagna.
Edith Stein[Testo tratto da: La mistica della croce - Scritti spirituali sul senso della vita, Città Nuova 1985, p.64
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santi, cristianesimo, stein
San Giuseppe Moscati
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
Verso
la fine di ottobre del 1987 si chiudeva a Roma il Sinodo generale dei
Vescovi che per quasi due mesi avevano discusso sul tema della
«vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo».
Il
problema era stato molto dibattuto, anche al di fuori del Sinodo, e
non erano mancate certe dure polemiche perché esso faceva emergere con
radicalità una questione grave e urgente, quella della «identità cristiana»:
che cosa vuol dire oggi essere cristiani, senza aggettivi o ruoli
specifici, collocati esattamente là dove tutti gli altri uomini vivono e
costruiscono la storia?
Prima
che i Vescovi se ne partissero da Roma — nonostante che le conclusioni
del dibattito non fossero state ancora tratte — il Papa decise di
intervenire, in modo indiretto ma denso di significato, offrendo come
esempio la figura e l’esperienza di un cristiano, laico appunto.
Procedette dunque a una canonizzazione, introducendola così:
«L’uomo
che oggi invocheremo come Santo della Chiesa universale si presenta a
noi come un’attuazione concreta dell’ideale del cristiano laico: Giuseppe
Moscati, medico primario ospedaliero, insigne ricercatore, docente
universitario di fisiologia umana e di chimica fisiologica….».
Non
molti, a dire il vero, conoscevano Moscati: la maggior parte, tra
Vescovi e fedeli, si accontentò di veder confermato un punto essenziale
dell’insegnamento conciliare: che anche i laici, cioè, sono chiamati alla santità e possono realizzarla nel mondo, nell’esercizio della loro professione secolare.
Qualcuno
sapeva qualcosa di più e poteva predicare a lungo sulle particolari
virtù di questo nuovo santo, soprattutto quelle oggi più apprezzate:
amore ai poveri, disinteresse a tutta prova, coerenza evangelica,
sacrificio di sé...
Pochissimi
però — anche tra gli esperti — sono stati disposti a confrontarsi con
un dato irriducibile e particolarmente urtante: la concezione di
«laicità» vissuta e difesa da Moscati.
Diciamolo
subito a chiare lettere: dal punto di vista «laicale» Moscati si
comportò nel modo esattamente opposto a quello insegnato da tutti
coloro che si affannano a descrivere esattamente i limiti entro i quali
un laico deve restare: Moscati non ebbe limiti, non rispettò
distinzioni.
Gli
intellettuali cattolici oggi amano molto l’imprecisa formula
maritainiana che insegna a «distinguere per unire». Altri suggeriscono
più correttamente di «distinguere (piuttosto) nell’unito». E tutti
intendono dire che bisogna saper collegare assieme con prudenza ciò che
appartiene alla fede e ciò che appartiene alla scienza, ciò che
appartiene alla «Chiesa» e ciò che appartiene al «mondo», ciò che è
dovuto alla propria professione cristiana e ciò che è dovuto alla
propria professione sociale.
Ebbene, noi non vogliamo dire che questi problemi non siano veri o non siano importanti.
Diciamo semplicemente che se
Moscati ebbe un carisma e un compito nella Chiesa, esso fu quello di
mostrare una tale unità tra i vari campi (prima e oltre ogni possibile
distinzione) da rasentare l’incredibile: nessuno oggi oserebbe imitarlo
nel modo con cui egli intrecciava insieme scienza e fede, professione
umana e professione cristiana, cura del corpo e cura dell’anima.
Anzi, questi aspetti della sua vita vengono raccontati con disagio,
vengono minimizzati dai biografi. Insomma, inserire veramente l’esempio
di Moscati nell’attuale dibattito sulla laicità si rivela come una
operazione dirompente e non priva di umorismo.
Ma
iniziamo pure da quel che è più ovvio: la conferma della vocazione
universale dei cristiani alla santità: tutti possono diventare santi.
Giovanni
Paolo II, canonizzando Moscati, non ha detto ai laici di imparare in
primo luogo le sue virtù morali, ma di imparare a riflettere sulla
propria vocazione: «
Anche
noi comunque cominceremo raccontando gli esempi morali che il Santo ci
ha lasciato, ma lo faremo ricordando costantemente che i suoi
atteggiamenti virtuosi sono come le annotazioni scritte sulla sua carta
d’identità: servono a identificarlo, ma non sono la sua identità.
L’identità emergerà piuttosto da questo volto personale, da quel cuore,
in cui si evidenzierà il suo modo di considerare il rapporto
medico-malato come evento integrale di salvezza cristiana.
Giuseppe Moscati nasce nel
Napoli
sarà dunque la sua città: dove riceve la prima Comunione, si iscrive
al ginnasio, dà la maturità classica e si laurea in medicina nel 1903.
Una
infanzia e una giovinezza assolutamente normali, in una f amiglia
veramente cristiana, nella quale non mancano le sventure: il papà muore
improvvisamente quando Peppino si è appena iscritto all’università;
qualche anno dopo, in seguito a lunga malattia, gli muore un fratello
che ha solo 32 anni. La carriera medica di Giuseppe Moscati durerà 24
anni, poiché egli muore nel 1927, ad appena quarantasette anni di età.
Vince il concorso per Aiuto straordinario agli Ospedali Riuniti di Napoli nel 1903. Durante
l’eruzione del Vesuvio gli è affidata la responsabilità dell’ospedale
di Torre del Greco, da cui porta in salvo i malati a rischio della sua
stessa vita.
Nel 1908 è Assistente ordinario nell’Istituto di Chimica fisiologica.
Nel
1911 diventa Aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti, vincendo un
concorso a cui partecipano i più colti medici e docenti del Mezzogiorno,
dato che è un concorso atteso da trent’anni.
Moscati è il più giovane e vince superando ben due futuri direttori di
clinica universitaria. E nominato socio della Regia Accademia
Medico-chirurgica. Nello stesso anno ottiene
Nel 1919 è nominato Primario della tu Sala degli Incurabili.
Nel 1922 una Commissione appositamente nominata dal ministero della Pubblica Istruzione gli conferisce anche
Nel 1923 è inviato quale rappresentante del Governo italiano al Congresso internazionale di fisiologia, a Edimburgo.
Abbiamo
voluto rileggere in modo scarno e ridotto il curriculum della sua
carriera professionale proprio per far percepire — col semplice
scandire date, titoli e specializzazioni — una vita tesa
intelligentemente a ciò che qualunque studente di medicina sogna per
sé, anche se in forme e indirizzi diversi. Aggiungiamo solo che — se Moscati l’avesse soltanto voluto —
Una
esposizione simile potremmo fare elencando i titoli delle sue
pubblicazioni scientifiche: dalla tesi di laurea, giudicata degna di
pubblicazione, che aveva a tema «L’ureogenesi epatica», agli ultimi due
articoli scritti per
Ma
in che cosa dunque Moscati, che seppe percorrere così brillantemente e
velocemente la sua carriera professionale, maturò una particolare
santità?
Dobbiamo anzitutto ripensare al tempo in cui egli visse. Scrive giustamente un suo biografo: «La
figura di Moscati deve essere inquadrata nel clima culturale dominato
dal positivismo che dilaga negli ultimi anni dell’800 e nei primi del
‘900. Egli fece parte del gruppo di laici che, nonostante la tendenza
del momento, contribuirono in modo determinante a far riscoprire nel
mondo la vitalità e la perenne giovinezza della Chiesa».
Il
documento che introduce la sua causa di beatificazione (durante la
quale furono raccolte tutte le testimonianze che lo riguardano) inizia
con una osservazione interessante, soprattutto perché risale
all’immediato dopoguerra: «Il
Servo di Dio visse in questo nostro tempo in cui per colpa del
laicismo, come si usa dire, la massa della gente è stata strappata dalla
Chiesa, la fede è stata separata e messa in opposizione alla scienza,
la professione della fede cristiana è stata separata dalla professione
delle arti liberali e dagli impegni civili ed è stata relegata nel
chiuso degli invisibili confini della coscienza. Contro tale
nefastissimo laicismo
Il
merito di questa impostazione — che i successivi biografi ebbero il
torto di trascurare — è quello di individuare bene il cuore della
testimonianza di Moscati, evitando di presentarlo subito, e
astoricamente, come il «medico santo» solo per il suo comportamento
disinteressato, per la sua modestia, per la sua sobrietà, o per
l’essersi messo a servizio gratuito dei più diseredati.
Certo,
anche questi aspetti furono splendidi e commoventi e non vanno affatto
trascurati, ma, a insistere su di essi, si rischia di osservare e amare
il colore e la forma dei fiori senza prendersi cura della radice che li
nutre.
Cominciamo pure, comunque, da questi ricordi più immediatamente affascinanti.
Celebre era, tra i colleghi di Moscati, il suo assoluto disinteresse per il denaro. Ecco la significativa testimonianza di un medico che spesso lo osservò nell’esercizio della professione: «Egli,
che amava vedere negli ammalati la dolorosa figura di Cristo, non
voleva ricevere denaro e di ogni offerta soffriva visibilmente.
Se
visitava dei ricchi o dei benestanti, certo accettava il denaro dovuto,
ma la sua preoccupazione — davanti a se stesso e davanti a Dio —
restava tuttavia quella di non essere mai un approfittatore».
Ecco una lettera indirizzata alla moglie di un paziente: «Egregia
Signora, vi restituisco parte dell’onorario perché mi sembra che mi
abbiate dato troppo. Certo, da altri, che fossero pescecani, io
prenderei di più, ma da uomini di lavoro, no. Spero che Dio vi doni la
gioia della guarigione di vostro marito. E fate che costui non si
allontani da Dio e frequenti la fonte della salute (la santa
Comunione). Vi saluto. G. Moscati».
Un
giorno venne chiamato ripetutamente al capezzale di un ragazzo
quindicenne di cui egli si prese cura fino alla completa guarigione.
Quando tutto fu finito ricevette una busta con l’onorario. La aprì
mentre tornava a casa e si accorse che conteneva una somma allora
notevole: mille lire. Lo videro tornare bruscamente indietro, salire
agitato le scale e tendere nervosamente la busta con queste parole: «O voi siete pazzi o mi avete preso per un ladro».
I
parenti pensarono che il celebre professore fosse scontento d’aver
ricevuto troppo poco e il padre del ragazzo, impacciato, gli tese un
altro biglietto da mille. Ma il professore non solo scartò con
impazienza quella nuova offerta, ma, aprendo il portafoglio, restituì
ottocento lire affermando che duecento erano più che sufficienti. Poi
se ne andò tutto contento, lasciando esterrefatti gli astanti.
Se dunque i ricchi se lo contendevano per la sua fama di diagnostico, i
poveri gli si riversavano addosso perché sapevano che non sarebbe
stato chiesto loro nulla, o addirittura ci avrebbero guadagnato.
Nei casi più dolorosi infatti Moscati giungeva fino a mettere lui
qualche banconota in mezzo alla ricetta, o sotto il cuscino del
paziente di cui intuiva le condizioni disagiate, soprattutto quando
s’accorgeva che la malattia era provocata o aggravata dalla
denutrizione.
A
volte provvedeva lui stesso all’acquisto delle medicine che aveva
prescritto o a pagare la retta dell’ospedale per chi non ne avrebbe
avuto la possibilità.
Un
giorno un collega che l’aveva accompagnato per una visita gli fece
osservare, a nome della categoria, che il suo disinteresse per il denaro
li metteva tutti in difficoltà, ma la risposta che ne ebbe — nel quasi
dialetto napoletano che Moscati normalmente usava — fu assai espressiva:
«Peppì, scusate: ‘lla ce sta ‘na mamma che piange per la salute del
figlio e vuie me venite a parla’ ‘e solde!».
Lo
si poteva chiamare nei quartieri più malfamati, nei vicoli bui dove era
pericoloso anche solo avventurarsi, in quegli androni fatiscenti dove
era costretto a farsi luce con un cerino, ed egli non rifiutava mai di
recarvisi. Se lo si metteva in guardia rispondeva: «Non si può avere
paura, quando si va a fare del bene».
Lo
incontrò un amico di sera, al Vomero, in piazza Vanvitelli, lontano dal
solito giro. Gli chiese cosa stesse facendo da quelle parti:
«Sai — disse Moscati ridendo — vengo ogni giorno a fare da sputacchiera per un povero studente».
Si
trattava di un giovane che viveva solo in una camera d’affitto, malato
di TBC, anche se non in fase contagiosa. Se i padroni l’avessero
saputo, l’avrebbero cacciato sulla strada, e allora Moscati veniva ogni
sera a portar via i fazzoletti pieni di catarro per bruciarli, e ne
lasciava di puliti.
In
casa Moscati, la sorella che lo assisteva riceveva tutti i suoi
guadagni e li amministrava con l’impegno di trattenere il necessario per
vivere decorosamente e di destinare il resto ai bisognosi. Lo
stesso professore tornava dalle visite portando con sé gli indirizzi
delle famiglie povere che aveva incontrato, li passava alla sorella e le
diceva di provvedere.
Un episodio tra tutti è di una tenerezza e di una bontà senza pari.
C’era
un vecchietto povero e solo, che un tempo era stato compositore di
canzoni (in quegli anni a Napoli furono composte le più celebri
melodie!): le sue condizioni erano critiche anche se non disperate e il
male poteva aggravarsi improvvisamente. Avrebbe avuto bisogno di
controlli quotidiani, ma Moscati non glieli poteva garantire, assorbito
com’era dal lavoro in ospedale. Si misero d’accordo così: tutte le
mattine il vecchietto si faceva trovare in un caffè, lungo la strada che
Moscati percorreva per recarsi in ospedale e lì consumava (a spese del
Professore, s’intende) una bella tazza di latte caldo e biscotti. Il
Professore passava, metteva dentro la testa, controllava che egli fosse
presente, gli sorrideva e se ne andava in fretta. Se qualche mattina
non lo vedeva, allora sapeva di doverlo raggiungere al più presto nel
suo tugurio fuori mano, per soccorrerlo.
I racconti
si potrebbero moltiplicare, ma non devono far dimenticare che la
carità di Moscati non era quella di un tranquillo bene-fattore, ma
quella di un medico di prestigio alle prese con una professione
stressante, lacerato da richieste molteplici: come studioso doveva
aggiornarsi, fare esperimenti di laboratorio, scrivere relazioni
scientifiche; come medico la sua presenza era necessaria sia
all’ospedale, sia nelle case dei privati che gli inviavano continue
richieste e sollecitazioni; come libero docente doveva preparare
lezioni, insegnare, seguire il lavoro dei discepoli e — in tutto questo
e al di là di tutto questo — c’era la sua decisione «cristiana» di non
sottrarsi mai alle richieste dei più poveri.
Alla
sua morte prematura gli amici parleranno della sua «fatica quotidiana, a
tutte le ore, senza riposo, senza tregua, senza respiro». A chi gli
chiedeva come facesse a resistere, rispondeva semplicemente: «Chi fa
A testimonianza delle sue capacità mediche possiamo ricordare il suo incontro col celebre tenore Enrico Caruso. Questi tornava nella sua Napoli dopo che a New York durante un concerto era stato stroncato da una emorragia. Aveva consultato, in America, i più illustri clinici; lo stesso aveva fatto a Roma, e nessuno era riuscito a fargli una diagnosi utile. Finalmente era giunto da Moscati. Era ormai troppo tardi e gli restavano solo due mesi di vita, ma l’intuito del medico napoletano diagnosticò subito che si trattava di un ascesso subfrenico.
Tutti
dovettero poi dargli ragione, anche se era una scienza ormai inutile
per il quarantottenne tenore che era partito povero da Napoli e vi
ritornava nel 1921 con un patrimonio valutato più di cinquanta milioni
d’allora.
Non
gli servì la scienza di Moscati, ma gli servì la sua fede. Egli infatti
non esitò a dire a Caruso «che aveva consultato tutti i medici, ma non
aveva consultato Gesù Cristo».
E il tenore rispose: «Professore, fate quello che volete».
Ed egli si preoccupò che gli portassero in tempo gli ultimi sacramenti, assistendolo fraternamente fino alla fine.
Torniamo per ora alla sua fama di medico.
«Giungeva — testimoniò un suo collega — a sfumature diagnostiche che sbalordivano discepoli e maestri».
Basterà dire che colui che allora era considerato da tutti il Maestro dei maestri — quell’Antonio Cardarelli che era divenuto in Italia una istituzione — considerava Moscati come suo discepolo prediletto («il migliore che ho avuto in sessant’anni», diceva), lo aveva scelto come suo medico personale e a volte si commuoveva fino alle lacrime quando lo osservava nell’esercizio dell’arte medica.
A parte le visite ai malati e l’enorme clientela che giungeva da tutto il meridione e letteralmente lo soffocava, il
suo ininterrotto lavoro aveva luogo nelle corsie dell’ospedale, che
egli percorreva attorniato dai suoi discepoli, ai quali insegnava
medicina direttamente dalla osservazione dei malati («trattava anche gli
studenti del primo anno come ‘colleghi’ e non mancava mai di chiedere
la loro opinione»).
Soleva
dire: «Vicino all’ammalato non ci sono gerarchie. Tutti veniamo qui per
apprendere: direttori, coadiutori, assistenti, siamo tutti presso il
letto dell’infermo, perché l’ammalato rappresenta il libro della natura».
La lezione continuava poi nell’anfiteatro anatomico.
L’istituto
anatomo-patologico era allora in decadenza: nessuno voleva occuparsene e
Moscati aveva accettato di curarne a titolo gratuito «la
riorganizzazione e il razionale funzionamento». Sulla parete d’ingresso
c’era un vecchio motto scelto dal fondatore, a cui nessuno prestava più
molta attenzione. Diceva: «Hic est locus ubi mors gaudet succurrere
vitam», «questo è il luogo in cui la morte è lieta di poter soccorrere la vita».
Moscati
cominciò col far appendere a quelle spoglie pareti un bel crocifisso e,
sotto, la scritta: «O mors, ero mors tua», «O morte, io sarò la tua
morte!». Con questa promessa del Risorto, Moscati riscattava quel luogo
definito da tutti «malsano, disadorno, gretto, opprimente».
Quando
il gruppo entrava e si disponeva attorno al professore, egli guardava
un attimo la croce e tutti si accorgevano che stava silenziosamente
pregando; poi cominciava a sezionare iniziando sempre con qualche
richiamo breve ma assai esplicito: «Qui finisce la superbia dell’uomo!
Ecco che cosa siamo! Come è istruttiva la morte!». Oppure, indicando il
cadavere, diceva: «Mentre l’altro giorno costui era un nostro paziente,
oggi vediamo alcuni organi che gli appartennero... Se voi giovani
faceste di tanto in tanto la considerazione della morte, sareste molto
più buoni».
Così
quell’istituto, che era — come egli amava sempre ripetere — «il luogo
in cui noi medici controlliamo le nostre diagnosi e i nostri errori»,
nonostante la modestia dei locali e l’insufficienza dei mezzi tecnici,
raggiunse a detta di tutti «il suo massimo splendore dal punto di vista
scientifico».
I
discepoli che seguivano quotidianamente Moscati letteralmente lo
veneravano e molti lo accompagnavano fino a casa, continuando per via a
discutere con lui e a interrogano. Uno di loro rievoca commosso la
scena divenuta familiare a Napoli: «Lo portavamo in processione come se
fosse un santo». E quasi tutti finivano, dopo il giro domenicale nelle
corsie, per accompagnarlo a Messa.
Il professore stesso scriveva in una lettera: «Ho
formato come una comunità religiosa di frati: i miei amici e io
lavoriamo insieme con emulazione, con idealizzazione. Siamo tanto
sentimentali! Iddio ci guida. Ho creduto che tutti i giovani [...]
avessero il diritto di perfezionarsi leggendo un libro che non fu
stampato in caratteri, nero su bianco, ma che ha per copertina i letti
ospedalieri e le sale di laboratorio, per contenuto la dolorante carne
degli uomini e il materiale scientifico, libro che deve essere letto con
infinito amore e con grande sacrificio per il prossimo» (11 settembre 1923).
E
aggiungeva: «Ho pensato che fosse debito di coscienza istruire i
giovani aborrendo dall’andazzo di tenere misterioso gelosamente il
frutto della propria esperienza, ma rivelarlo loro...».
Questa
concezione quasi monastica della propria vocazione e della comunità
ospedaliera ci rimanda a un’altra caratteristica della laicità di
Moscati, ad una novità.
In
un tempo in cui le vocazioni si dividevano in forma piuttosto netta (o
matrimonio o convento), Moscati scelse di restare nel mondo,
completamente laico — senza particolari appartenenze a istituti
religiosi, nemmeno come «terziario» — ma scegliendo coscientemente la
condizione verginale.
In
un biglietto che la sorella raccolse dal cestino della carta straccia
leggiamo una specie di confessione che egli scrisse per se stesso:
«Mio
Gesù amore! Il vostro amore mi rende sublime; il vostro amore mi
santifica, mi volge non verso una sola creatura, ma a tutte le
creature, all’infinita bellezza di tutti gli esseri, creati a vostra
immagine e somiglianza».
Trattare
Gesù come una persona cara, alla quale ci si rivolge con le parole più
affettuose e con la quale si esperimenta una intimità bruciante, sembra
ridicolo ai nazionalisti di tutti i tempi e sembra anche a molti
cristiani un’esperienza possibile solo nella penombra mistica dei
monasteri.
Ma che questo possa accadere nel mondo, là
dove il lavoro diventa per molti l’unico dio e dove le preoccupazioni
scientifiche e materiali sembrano invadere anche lo spirito, questo è
per il mondo un interrogativo che si apre direttamente sul mistero del
Figlio di Dio, divenuto «nostro prossimo»: al quale cioè possiamo dare
con somma verità tutti i nomi più familiari.
Racconta un sacerdote che ascoltava spesso la sua confessione:
«Richiesto
da me che cosa avesse pensato in una tramvia affollatissima dove
c’eravamo trovati insieme e aveva anche pagato per me il biglietto, mi
rispose: “A Dio, padre, al cielo”».
«Amare
Dio senza misura nell’amore, senza misura nel dolore»; questa era la
massima che identificava assieme sia la sua missione di medico
cristiano, sia lo sguardo con cui osservava i malati. Eppure i tempi, allora, e l’ambiente non erano per nulla facili.
Ecco alcune testimonianze tratte dai processi di beatificazione:
«Il
servo di Dio subiva la lotta di tutti i medici iscritti alla
massoneria per la sua aperta professione cristiana e anche di quelli
che vedevano in lui un competitore valentissimo, benché di giovane età».
Questo
odio massonico contro Moscati aveva dunque un risvolto inconfessabile
(«la gelosia e l’invidia di chi non sapeva tollerare la superiorità
scientifica di lui») e un motivo ufficialmente sbandierato con acre
insistenza.
Dice un testimone: «Era
disprezzato, motteggiato da quelli che non vedevano bene la sua franca,
schietta e coraggiosa professione di fede cattolica: lo chiamavano
maniaco, isterico, esaltato, fanatico».
Altre
ingiurie che gli gettavano addosso (e qualche collega più arrabbiato
faceva in modo che gli giungessero all’orecchio, quando passava) erano
quelle di «fanatico, iettatore, pazzo da manicomio, medico di preti e suore».
Moscati
viveva, dunque, in un ambiente frequentato da medici di dichiarata
appartenenza massonica e di aperta professione materialista, ed egli lo
sapeva benissimo. Anzi quando era in gioco la verità e la giustizia ne parlava senza mezzi termini.
«Io
— scriveva in una lettera — sono una stella di infima grandezza in
mezzo a tanti astri brillanti e sarò contento di eclissarmi, se però
saranno gli astri illuminati a sorgere e non alcune fiacche nebulose..
Nei
concorsi chiedeva che non ci fossero «né compromessi, né manovre
traverse..., ma solo riconoscimento del valore assoluto all’infuori di
età, di scuola, di sette».
In
una lettera da lui indirizzata a Benedetto Croce, allora ministro
della Pubblica Istruzione, Moscati caldeggiava la nomina alla Cattedra
di Igiene di un collega da lui ritenuto il più idoneo e non ebbe paura
di scrivergli:
«So che un pezzo altissimo della Massoneria vuol venire a ingrossare il
numero dei ‘fratelli’ nella Facoltà che è divenuta per questi ultimi
una casa grande».
Certi
testimoni dicono esplicitamente e senza mezzi termini
sull’atteggiamento che la setta aveva verso Moscati: «volevano
distruggerlo, annientarlo».
Ma notavano anche che la lotta non lo scalfiva neppure: «Tutti
sapevano — dice un testimone — che il Professor Moscati era come un
sacerdote, e la lotta fattagli dai massoni medici e dagli altri colleghi
materialisti non l’ha mai abbattuto... Soleva dirmi: “Che cosa
m’importa degli altri? Il mio pensiero è contentare Dio”».
Del
resto vedremo tra breve che la professione di fede del Moscati era
pubblica in modo quasi intollerabile, tanto che oggi verrebbe forse
criticata anche dai credenti più pii e integristi.
Nei
processi canonici, durante i quali i suoi atteggiamenti sono stati
minuziosamente analizzati e giudicati, la domanda ricorrente del giudice
ecclesiastico (nemmeno tanto velata) è questa: «Moscati era un maniaco
religioso?». «No rispondono tutti i testimoni — era equilibrato, attento, rispettoso». E tuttavia aveva della sua professione medica un’idea — e conseguentemente una prassi — certo non usuale.
Il problema consisteva in questo: Moscati
era assolutamente convinto «che il medico non deve guardare solamente
la salute del corpo dell’infermo, ma anche sopperire ai bisogni del
malato e della sua famiglia, sotto qualunque aspetto si potesse considerare il bisogno».
Perciò
egli si era imposto quell’ atteggiamento caritatevole verso tutti i
bisognosi di cui abbiamo parlato. Ma con la stessa inesorabile logica
egli considerava come prioritario il bisogno spirituale dei pazienti e
la cura delle loro anime.
Esprimiamoci
con assoluta chiarezza. Dice un testimone: «I malati sapevano che per
essere curati da Moscati bisognava frequentare i Sacramenti». E ancora: «A
tutti i malati domandava se erano in grazia di Dio, se frequentavano i
Sacramenti, se erano in regola con la loro coscienza. Insomma, curava
prima l’anima e poi il corpo degli infermi che andavano da lui».
Moscati
sosteneva tranquillamente che nell’ospedale «missione di tutti» —
suore, infermieri, medici — era «collaborare alla misericordia di Dio».
La
suora del suo reparto doveva anzitutto interessarsi della situazione
spirituale del paziente in modo da poterne avvertire il professore: il
quale, mentre esercitava la sua arte medica con tutta la bravura e la
dedizione possibile, riusciva a far percepire al malato la globalità del
suo problema, l’integralità del suo bisogno, e quasi sempre riusciva a
portarlo con ferma dolcezza a un desiderio di guarigione intesa
davvero come «salvezza».
Espressioni
come «confessatevi», «mettetevi in grazia di Dio», «accostatevi al
Signore», «pensate all’anima immortale», «Dio è il padrone della vita e
della morte» entravano o prima o poi nelle indicazioni «sanitarie» che
Moscati dava ai suoi pazienti, soprattutto quando si accorgeva che la
loro vita era in pericolo e in pericolo era il loro destino eterno. Il
fatto è che, quando le usava, gli volevano già così bene che quasi
sempre le accettavano con riconoscenza, e molti gli obbedivano.
A
un illustre avvocato milanese, dopo aver fatto la diagnosi sul suo
stato di malattia, consegnò una lettera in cui gli indicava il nome di
un prete della sua città «perché si mettesse in pace con Dio, siccome
da anni se ne era allontanato, altrimenti non avrebbe potuto curargli
il corpo».
A
un altro che, dopo un mese di cura, non sembrava reagire alla terapia,
disse candidamente: «Voi non vi siete confessato, perciò non guarite.
Iddio così ve lo ricorda».
A
chi si meravigliava del suo stile spiegava così: «E mia abitudine di
parlare agli infermi di altre cose oltre il corpo, perché essi hanno
anche un’anima... La
cosiddetta psicanalisi di Freud è una cura; che cosa è la psicanalisi? È
la confessione fatta al medico per scardinare le idee fisse. Ma questo
va bene per i paesi protestanti dove non c’è la confessione: presso di
noi c’è la confessione cattolica».
A
un giovane, la cui più grave malattia sembrava l’assoluta mancanza di
spina dorsale, diede una ricetta su cui c’era scritto: «Cura di
Eucaristia».
È
difficile per noi immaginare come Moscati coniugasse la cura dello
spirito con quella del corpo (da notare che egli introduceva il
problema, poi rimandava i «malati d’anima» a qualche prete di sua
conoscenza, e si interessava personalmente che l’incontro avesse luogo).
In
una lettera a un collega Moscati scrive: «Beati noi medici se
ricordiamo che oltre i corpi abbiamo di fronte delle anime immortali per
le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi. Lì è la
soddisfazione e non nel sentirci proclamare risanatori di un male
fisico» (E aggiungeva con un pizzico di ironia: «Soprattutto quando la
coscienza ci ammonisce che il male fisico guarisce da sé!»).
«È
il medico dei corpi e delle anime», diceva di lui Bartolo Longo — il
costruttore del Santuario di Pompei, anch’egli oggi Beato— quando si
faceva visitare.
In molte lettere si vede come il Professore inculcasse questi principi nei suoi allievi: «Abbiate,
nella missione affidatavi dalla Provvidenza, vivissimo il senso del
dovere: pensate cioè che i vostri infermi hanno soprattutto un’anima a
cui dovete sapervi avvicinare, e che dovete avvicinare a Dio; pensate
che vi incombe l’obbligo di amore allo studio, perché solo così potete
adempiere il grande mandato di soccorrere l’infelicità. Scienza e fede!»
(16 luglio 1926).
«Ricordatevi
che non solo del corpo vi dovete preoccupare, ma delle anime gementi
che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il
consiglio e ricorrendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni
da inviare al farmacista» (1923).
A
un paziente raccomandava: «Vi prego di ricordarvi dei giorni vostri
d’infanzia e dei sentimenti che vi tramandarono i vostri cari, la vostra
mamma; tornate all’osservanza e vi giuro che, oltre il vostro spirito,
ne sarà nutrita la vostra carne: guarirete con l’anima e con il corpo,
perché avrete preso la prima medicina, l’infinito amore» (23 giugno
1923).
Ma
bisogna insistere nel ricordare che Moscati non faceva il guaritore o
il santone: faceva il medico e lo faceva alla perfezione, ma era
parimenti convinto d’avere davanti soprattutto un’anima immortale.
Mai
tuttavia deviava nello spiritualistico, trascurando il corpo. A una
suora che lo voleva trascinare a una sacra funzione durante l’orario di
lavoro rispose brusco: «Suora, Iddio si serve lavorando».
E a una pia signora, che rifiutava di curarsi perché diceva che le
bastava
pregare, ribatté: «Per la vostra anima vale più fare una sola iniezione
per la vostra malattia che dire molte preghiere».
La
personalità integrale di Moscati emerse, sotto gli occhi di tutti i
suoi colleghi, anche di quelli dei suoi nemici, in un episodio che restò
celebre negli annali di Napoli.
Era
il febbraio 1927 (due mesi prima della morte di Moscati, che nulla
faceva allora prevedere). Veniva a Napoli, per parlare a un congresso
medico, il celebre professor Leonardo Bianchi: era stato titolare della cattedra di Psichiatria e Neurochirurgia, prima a Palermo, poi a Napoli. Era stato Ministro della Pubblica Istruzione, poi Ministro della Difesa e Vicepresidente della Camera dei Deputati. A 75 anni aveva pubblicato il libro La meccanica del cervello. Inoltre era uno tra i più noti massoni che appena qualche anno prima aveva tenuto una pubblica conferenza contro Gesù Cristo.
Il settantanovenne professore parlò davanti a un’aula gremita di medici e docenti ed ecco che, mentre scrosciano gli applausi, egli si accascia al suolo.
C’erano presenti medici specialisti per ogni urgenza e tutti si
accostarono, compreso Moscati. Ma ascoltiamo direttamente la
testimonianza del santo: «Non
volevo andare a quella conferenza essendomi da lungo tempo allontanato
dall’ambiente dell’Università, ma quel giorno una forza sovrumana,
alla quale non seppi resistere, mi ci spinse... Si avverò quello che
dice la parabola del Vangelo che i chiamati all’undicesima ora avranno
la stessa ricompensa di quelli chiamati alla prima ora del giorno.
Sento ancora ora l’impressione di quello sguardo (del morente) che
cercava me tra tanti docenti convenuti... E Leonardo Bianchi sapeva
bene i miei sentimenti religiosi, conoscendomi fin da quando io ero
studente. Gli corsi vicino, gli suggerii parole di pentimento e di
fiducia, mentre egli mi stringeva la mano, non potendo parlare...».
Proviamo
a immaginare, in quel tempio della Massoneria che era allora
l’Università di Napoli, non solo l’inaudito ingresso di un prete con i
Sacramenti (fatto chiamare da Moscati), ma la scena del vecchio massone morente fra le braccia del più santo dei medici mentre costui recita a voce chiara l’atto di dolore e il Credo.
Questi era Moscati.
E
potremmo riportare la testimonianza scossa, sconvolta quasi, di altri
notissimi esponenti della cultura e della medicina che, frequentando
questo insolito tipo di cristiano (da notare che con
Moscati si poteva parlare di filosofia, di arte, di letteratura, di
musica, di teologia, di urbanistica, e sempre con profitto e godimento
intellettuale), divennero pensosi sulla propria identità e sul proprio destino.
Un
altro celebre medico napoletano, il Castellino, non «credente», disse
di lui: «Era una delle creature più care, che amava vivere nel colloquio
continuo con Cristo che forza i sepolcri e vince la morte».
Un
altro medico disse: «Fu la più perfetta incarnazione che io abbia mai
conosciuto della carità di cui parla san Paolo nella lettera ai
Corinzi».
Tutti sanno quale sia stata la posizione di Benedetto Croce.
Ebbene, il filosofo abitava in un’alta mansarda da cui tutte le
mattine vedeva passare Moscati che frettolosamente si recava in
ospedale. Spesso i due si incontravano e chiacchieravano assieme. A
volte non c’era tempo e allora il filosofo dal balcone lo chiamava da
buon napoletano:
«Don Peppino non te capisco, perché corri tanto? Dove vai? Che speri di raggiungere...? Tutto viene a tempo».
E poi, rientrando, alla sua domestica diceva: «Fossero tutti così i cattolici.., tutti come don Peppino!».
Chi era dunque quest’uomo che a se stesso, nelle pagine del suo diario diceva: «Ama
la verità, mostrati quale sei e senza infingimenti e senza paure e
senza riguardi. E se la verità ti costa persecuzione, e tu accettala; e
se (ti costa) il tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi
sacrificare te stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacrificio».
Giungiamo
così a quel problema fondamentale da cui siamo partiti senza volerlo
risolvere in anticipo: che cos’è la laicità cristiana? Quest’uomo, che
Noi
non possiamo qui affrontare il problema dal punto di vista di una
completa riflessione teologica, richiamando i necessari principi e
conducendo le opportune analisi.
Possiamo dare per ammesso che c’è in Moscati anche qualcosa di unico e irripetibile:
non è copiando i suoi modi di fare (atteggiamenti, indicazioni,
espressioni) che lo si può imitare, ma comprendendo anzitutto il lavoro
che la grazia di Dio ha operato in lui: un lavoro di «unificazione», di
«integrazione» a cui la creatura si rende totalmente disponibile:
questo lavoro bisogna anzitutto desiderare per sé, ad esso bisogna
anzitutto disporsi con grande umiltà e ascesi.
Viviamo
in un’epoca in cui noi cristiani siamo diventati abilissimi a
«distinguere»: natura e soprannatura, chiesa e mondo, fede e ragione,
rivelazione e scienza, evangelizzazione e promozione umana, unità e
pluralismo, ecc. Ma queste attente distinzioni dovrebbero essere
applicate da un soggetto, da un «io» così totalmente appartenente a
Cristo, così organicamente innestato nella Chiesa che le distinzioni
gli servono ad esprimere solo i diversi metodi secondo cui fluisce e si
dilata e si applica una stessa e identica carità. Invece troppo spesso
le distinzioni servono come alibi intellettualistico per nascondere e
giustificare una identità incompiuta o timida o faticosamente
aggiustata, se non addirittura disgregata.
E
così ogni tanto Dio decide di offrirci delle «forme» integrali, dei
modelli cristiani talmente integri che si vorrebbe quasi accusarli di
integrismo, se non fosse che l’unità della «forma cristiana» irraggia
da ogni parte. Qui possiamo solo delineare per punti successivi la
«forma compiuta» a cui Moscati si lasciò condurre ed educare.
1. Essere chiamati all’esistenza ed essere chiamati a una missione dovrebbero
per il cristiano diventare una sola cosa, come lo fu per Gesù, il cui
«io» consisteva totalmente nel «lasciarsi mandare» dal Padre, nel fare
totalmente la sua volontà. Spesso invece queste due «vocazioni»
(all’esistenza e alla missione) restano due mondi separati che cercano
faticosamente di restare almeno allacciati tra loro.
Moscati
ebbe la grazia di sentire e vivere la vocazione di medico come
totalmente espressiva del senso e dello scopo della sua esistenza, ed
essa ricoprì tutto il suo essere ed esistere.
Ancora
diciassettenne, alla madre che gli prospettava le difficoltà e i
pericoli della professione medica rispondeva: «Che dite, mamma, io sono
pronto a coricarmi nel letto stesso del malato!».
E
la madre che lo conosceva bene aveva commentato, come per un presagio:
«Per alleviare le sofferenze dei malati diventerà lui stesso un
martire!».
Le
biografie di Moscati testimoniano concordemente che egli considerò la
professione medica come una vocazione e una missione che dovevano
«esaurirlo» anche fisicamente, perché soltanto così il progetto di Dio
avrebbe potuto compiersi. E perciò egli
accettava semplicemente e totalmente quell’essere avvolto e tirato da
ogni parte che a volte, con un umorismo non privo di sofferenza, egli
chiamava il «mastodontico groviglio di guai in cui mi trovo da mille
parti ingrovigliato».
Confessava
ad un amico: «Mi riduco a notte inoltrata per scrivervi. Vi assicuro
che non ho nemmeno il tempo di mettermi le mani nei capelli. Ospedale,
laboratori, lezioni ufficiali, lezione mia di semeiotica e di clinica,
baraonda di malati gravi, impressionati, mi tengono tutto per loro e mi
inibiscono per altre cose» (gennaio 1919).
E,
per quanto disponibile fosse il professore, doveva lottare
quotidianamente con un carattere nervoso, pronto a scattare e a
diventare insofferente verso ogni contrattempo: ma sempre pronto a
riprendersi, a lasciarsi «limare», «rifinire», quasi, dalle circostanze
sempre più catturanti. Morì, improvvisamente, nella piena maturità,
appena terminata una visita, senza nemmeno poter avere per sé un attimo
di conforto e di aiuto.
È
un giudizio su tutte quelle situazioni in cui i cristiani si
ritraggono dal fare la volontà di Dio, dal lasciarsi «usare come servi
inutili» proprio perché percepiscono
la loro missione nella Chiesa e nel mondo come qualcosa di «informe»,
di aggiunto quasi alla loro esistenza, alla loro persona, e perciò
restano ultimamente incerti, nostalgici di altre possibilità, dubbiosi
della validità del loro stato (vergini che vorrebbero essere coniugati,
coniugati che vorrebbero essere «diversamente» sposati o addirittura
vergini, chierici che vorrebbero essere laici e laici che vorrebbero
essere chierici, professionisti che sognano una situazione a loro più
confacente e dove potersi finalmente esprimere, e molte altre cose
simili): un giudizio su tutte quelle esistenze che non si versano
totalmente sulla missione loro affidata, e su tutte le pretese
«missioni» scelte come fuga dai propri disagi esistenziali.
2. Esistenza
e missione del cristiano sono anzitutto affezione a Cristo, calda
adesione personale a Lui come persona vivente (non come idea le o come
«causa a cui rifarsi»). Soprattutto di ciò la condizione verginale è
segno bruciante nel mondo.
Ogni
amore per il prossimo deve essere riflesso di questa prima «prossimità»
offerta da e a Cristo Signore. Per un cristiano l’amore dei prossimo o
ha una radice «verginale» (nasce tutto dalla appartenenza personale a
Cristo) o è solo un tentativo psicologico di rintracciare Cristo,
affaticando moralisticamente la propria affettività.
Moscati,
a questa nostra epoca (per la quale la carità sociale sembra essere
addirittura un’obiezione a Cristo), viene a ricordare che la carità
cristiana ha un’origine e una identità esplicita: è la carità di Cristo,
che deve struggere il cuore dei suo discepolo, come diceva san Paolo.
Nessuno,
guardando la vita e le opere di Moscati, poteva dubitare che egli
amasse personalmente e dichiaratamente Cristo. A chi rifiutava il
Signore Gesù, Moscati appariva come un maniaco da combattere e da
eliminare. Ma se uno «riconosceva» Cristo (anche timidamente) e ancora
lo «ricordava» (anche tra le nebbie di una fede un tempo posseduta),
allora Moscati con le sue «opere di carità» glielo raffigurava in modo
bruciante, persuasivo, convincente. E nessuno poteva sbagliarsi, nemmeno
per un attimo, pensando che si trattasse di una fortunata naturale
bontà dei professore.
L’impegno ascetico-caritativo era per Moscati il presupposto, la
carta
di credito, il «titolo» che gli dava occasione di annuncio integrale a
favore dei suo Signore Gesù: si staccava dal denaro per poter parlare
di tutto senza ambiguità, si faceva tutto a tutti per poter indicare
Colui che era «tutto», lasciava che gli «consumassero questa vita» per
avere il diritto di parlare della vita eterna. Arrivava fino a chiedere
al malato che invece dei soldi gli desse il regalo di accostarsi alla
Eucaristia, di tornare alla fede perduta.
«Gli
chiesi una volta perché avesse rinunciato all’onorario offertogli da
un ammalato facoltoso, che versava in gravissime condizioni e che era un
gran peccatore, ed egli mi rispose: ‘Lo convertirò’ ».
Moscati
ha insegnato con una evidenza abbagliante che — contrariamente a
quanto oggi si pensa e si insegna — l’amore dei prossimo è vero solo
quando è tutto teso, da ogni direzione, a un esplicito amore di Cristo
(Dio-fatto-prossimo).
L’impegno
professionale-ascetico-caritativo o è per un laico il modo con cui egli
«fonda» il suo annuncio integrale a favore di Cristo (dare tutto
Cristo a tutti gli uomini), oppure perfino le sue opere buone verranno
risucchiate via, consumate da coloro che ne approfittano per lasciarsi
ancor più cullare nella loro spirituale pigrizia e indifferenza.
Se
chi opera per Cristo pensa di poterlo fare anonimamente, tanto più
sarà lecito restare anonimo a chi riceve il frutto di questa stessa
opera. Da ciò può derivare l’attuale paradosso di una Chiesa e di un
laicato che sviluppano un grande potenziale di impegno professionale e
caritativo e del fatto che tuttavia la fede viene progressivamente meno proprio là dove i cristiani sembrano più vivere e operare.
Secondo
Moscati: bisogna compiere «opere e opere» di carità per potersi
permettere di essere integri neii’annuncio di Cristo, e bisogna essere
integri nell’annuncio di Cristo perché le opere di carità non anneghino
in una vaga filantropia di cui si serve anzitutto con scaltrezza proprio
chi vuoi rassodare se stesso e il mondo nei rifiuto di Cristo.
3. Quanto più la carità è veramente cristiana (nei senso in cui
l’abbiamo
descritta) tanto più essa tende a unificare dall’interno la coscienza
dell’uomo, manifestando così una forza onniavvolgente: fa emergere
legami impensati, rivela possibilità quasi sconosciute, produce energie
a tutto campo. I diversi «piani» della realtà non vengono
integristicamente negati, ma ha luogo una inattesa fluidità, per cui il
naturale si versa «naturalmente» nel soprannaturale e il soprannaturale
«soprannaturalmente» si apre al naturale.
Nella vita di Moscati tale fluidità si manifesta in varie direzioni, alle quali possiamo solo accennare.
a.
Dal punto di vista dell’arte medica possiamo dire che le sue capacità
professionali vennero incredibilmente potenziate. E ciò in due sensi. Da
un lato sembrava che la fede (il modo cristiano di
osservare il malato) acuisse le sue già notevolissime doti
diagnostiche: dava persino l’impressione di «indovinare», di «vedere»
le malattie del corpo, di percepirle da segni impercettibili che
stupivano i colleghi. Dall’altro lato tale intuizione penetrante
scendeva a una tale profondità che egli diagnosticava spesso anchè le
malattie dell’anima.
Egli
stesso confessò: «È tale l’intuito chiaro che mi concede il Signore
che non mi sembra possibile trattenerlo, e non rare volte vedo anche le
deformità delle loro anime».
Accadevano
episodi che a volte spaventavano lui stesso. Un giorno tornò a casa
turbato e raccontò alla sorella: «Sai cosa mi è accaduto oggi? E venuta
da me una signora con la figlia. La signorina poteva avere
ventiquattro o venticinque anni. Guardandola le ho detto:
‘Signorina,
lei non ha ancora fatto la prima Comunione!’. Da alcune lacrime mi sono
accorto che la cosa era vera. Poi ho fissato la signora e le ho detto:
“Signora, lei convive con un sacerdote apostata”. Sai, era tutto vero e
non riesco a spiegarmi come ho fatto!».
La sorella dovette consolarlo e dirgli che si trattava certamente di un caso, come a volte ne accadono.
Sia per quanto riguarda la malattia fisica che per quanto riguarda la malattia spirituale, egli sembra dunque dotato di un di più (analogo a quello che il Vangelo racconta di Cristo!). Ma occorre intenderci bene: in Moscati questo di più non
appariva tanto come qualcosa di miracolistico, di meccanicamente
aggiunto alle normali capacità mediche: appariva invece come una sorta
di miracolo di unificazione. Per spiegare: era come se la sua persona,
dopo aver percorso tutto il campo della scienza (il cui studio era
continuo e indefesso) e dopo aver percorso anche tutto il campo della
maturazione spirituale che gli era possibile, si trovasse collocata nel
punto di innesto di questo duplice itinerario: là dove il suo sguardo
poteva ugualmente spaziare in ambedue le direzioni, e farne una
sintesi.
A
un certo punto della vita, in Moscati, scienza e fede mostrarono non
solo la loro non-contrarietà ma la loro identica struttura di carità: il
loro essere aspetti diversi di quell’unica intelligenza di amore che
ci ha assieme creati e redenti.
Quando
si fu ben collocato nella «carità», Moscati si trovò ad essere sia un
grande medico anche in forza della sua fede, sia un grande credente
anche in forza della sua scienza.
Dal
punto di vista del paziente l’unificazione operata dalla carità fece
percepire a Moscati il binomio malattia-guarigione come relativo a
tutto l’essere umano, anticipando tutte le più recenti acquisizioni
della scienza. Ha detto Giovanni PaoloII nel discorso di canonizzazione
che egli fu «anticipatore e protagonista di quella umanizzazione della
medicina avvertita oggi come condizione necessaria per una rinnovata
attenzione e assistenza a chi soffre».
Certo,
negli ultimi decenni, molti medici sono diventati sempre più perplessi
sulle possibilità di curare un uomo come se fosse solo «una malattia» o
un organo malfunzionante. Ci si è anche dedicati alla cura della psiche,
sviluppandola purtroppo solo in forme parallele e per tentativi, «per
scuole», che spesso trattano anche la psiche come una parte malata (da
raggiungere spesso a costo di incredibili manipolazioni e amputazioni).
La
«carità» di Moscati gli fece intravedere tale unità del paziente e nel
paziente e lo rese duro nel rivendicare la dignità del malato.
Quando
si parlò della clinicizzazione degli ospedali, voluta da Gentile, egli
scrisse una lettera all’amico Benedetto Croce per protestare contro «i
decreti che dispongono della carne umana come di mercanzia» e da cui gli
«ammalati sono sbattuti come titoli in borsa».
Scrive in una recensione: «Il
dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma
come il grido di un’anima a cui un altro fratello, il medico, accorre
con l’ardenza dell’amore, la carità».
Eppure
anche qui bisogna fare un passo ulteriore: Moscati non era preoccupato
solo dell’unità somatico-spirituale dell’uomo, e di una visione
integralmente umana della malattia, ma ciò gli sembrava il minimo
indispensabile per un ulteriore affondo sull’integrum dell’uomo.
La cura dell’unità psico-fisica doveva spingersi fino alle ultime
profondità spirituali, fino all’ultima sofferenza dell’anima, fino
all’ultima esigenza di felicità, con un deciso orientamento
ultraterreno.
Dal
punto di vista della medicina il problema malattia-guarigione doveva
essere considerato percependo sia l’unità del «male» (fino al
male-peccato), sia l’unità della salute (fino alla salute-salvezza), sia
l’unità tra chi opera nei diversi campi (unità, non semplice
distribuzione dei ruoli), sia infine l’unità delle strutture in cui il
bisogno di guarigione viene accolto e trattato.
Moscati
non solo percepì la sua professione in stretta connessione con quella
del sacerdote, ma, nella situazione del suo tempo, tentò di coprire
misericordiosamente e intelligentemente tutto lo spazio che conduceva
fino al ministro del perdono di Dio e della vita soprannaturale. Ciò
che egli fece da solo, in una situazione e in un tempo in cui
l’istituzione si disinteressava totalmente della profonda identità dei
pazienti, può oggi essere riproposto a livello di progetto.
Alla
lettera piena di gratitudine di un discepolo medico che lo lasciava
per un primo incarico, Moscati rispondeva lasciandogli in eredità
questo ricordo: «Non
la scienza ma la carità ha trasformato il mondo... Ho sempre vivo nel
cuore il rammarico di sapervi lontano e solo mi conforta che abbiate
conservato in voi qualcosa di me; non perché io valga nulla, ma per quel
contenuto spirituale che mi sforzo di trattenere e di diffondere
intorno. Io vi tengo presente, siatene sicuro. Vi bacio in Cristo!».
Forse adesso capiamo perché il cardinale Roncalli, quando lesse la vita di Moscati, lo definì Lumen ecclesiae, luce
della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, da lui voluto, avrebbe detto poi
che il compito della Chiesa è «riflettere nel mondo quella Luce delle
Genti (Lumen Gentium) che è Cristo».
Ebbene, questo
Mentre,
il giovedì santo del 1927, il corteo funebre si snodava per le vie di
Napoli, con un immenso seguito di docenti, di studenti e di umile gente,
un vecchietto si avvicinò al tavolino posto nell’androne di casa
Moscati e sul registro delle condoglianze scrisse con mano tremante: «Noi lo piangiamo perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di ogni virtù, e i malati poveri hanno perso tutto».
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Postato da: giacabi a 20:51 |
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santi, san g moscati
Beato Pier Giorgio Frassati
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca BookC’è voluto recentemente un sinodo dei vescovi e poi un documento del Papa (Christifideles laici) per cercare di definire l’identità del laico cristiano, ma essa non è ancora chiarita nell’intelligenza e nella coscienza di molti. Tanto è vero che appena si mette a tema questa " identità " si osserva subito un violento ribollire di sentimenti e di risentimenti: ognuno teme di vedere messe in crisi le sue appartenenze culturali, sociali , politiche, partitiche e perfino " ecclesiali " (dato che proprio su tale questione Cercherò di esporre qui il problema con semplicità, usando di una sola breve formulazione: questo secolo, a partire dai primi fondamentali vent’anni, ha messo sempre più in triste evidenza che la scristianizzazione, di cui tutti parlano, non riguarda tanto il deterioramento morale della vita, quanto direttamente la fede (ecco perché il Papa parla spesso del bisogno di una " nuova evangelizzazione "): il disfacimento riguarda il soggetto popolare cristiano che, in quanto tale, non si sente più responsabile (socialmente e globalmente responsabile) della verità di Cristo e della verità che è Cristo. Di conseguenza, per non aver sufficientemente badato a questo, per aver trascurato che la fede, ricevuta in dono si facesse cultura (impregnasse cioè l’anima stessa della società), ogni altro sforzo di risanamento etico e di impegno caritativo non è stato in grado di impedire la scristianizzazione del nostro popolo. La tragedia è consistita in questo: che ciò che pur esplodeva come carità e apostolato (si pensi a tutto l’immenso lavoro del volontariato laicale, al molteplice impegno socio-politico dei cristiani e a tutto l’impegno assistenziale messo in atto dalle congregazioni religiose) veniva sistematicamente risucchiato via da una progressiva perdita di fede di tutto il popolo cristiano senza distinzioni apprezzabili (devastando perfino lo stesso mondo " religioso " e " teologico "). Sono contraddizioni storiche su cui spesso ci si rifiuta ostinatamente di interrogarsi, per una sorta di complesso di colpa che si preferisce censurare. Il tentativo più penoso di rimozione è quello di chi vuole attribuire questa " sconfitta " a un’opera di necessaria purificazione: al fatto cioè che i cristiani hanno dovuto imparare a distinguere tra Chiesa e mondo, natura e grazia, fede e ragione, vocazione ecclesiale e vocazione laicale, cristianesimo e politica, ecc. Non possiamo qui dimostrare l’inconsistenza suicida di queste spiegazioni e di queste scuse, divenute per altro ostinato patrimonio comune. Ciò ha provocato anche dei tentativi paradossali: c’è chi cerca oggi tra i santi alcuni " campioni di laicità cristiana ", ma quando pensa di averli trovati è poi costretto a manipolarli per far coincidere la vita e l’esperienza di questi nuovi santi con le proprie distinzioni ideologicamente prefabbricate. Se poi si va a guardare nei fatti, ci si accorge che di tante distinzioni, divenute oggi di moda, questi " santi " sono completamente ignari, anzi le trascurano allegramente. E che la loro vita e’ una continua contestazione di chi crede che " laicità cristiana " voglia dire realizzare sapienti equilibri e sapienti trasfusioni tra appartenenza al mondo e appartenenza alla Chiesa. È ciò che abbiamo visto nei riguardi dì S. Giuseppe Moscati, è ciò che accade con Pier Giorgio Frassati, beatificato il 20 maggio 1990. Una tra le più recenti biografie che gli sono state dedicate si conclude praticamente con queste parole: " Pier Giorgio semplicemente si era comportato da laico nella Chiesa e da cristiano nel mondo ": quattro concetti incrociati per collocare esistenzialmente una sola persona, la quale oltretutto si sarebbe molto meravigliata di un simile linguaggio. La verità è che il giovane Frassati ha compreso la sua " laicità cristiana " in un modo che è esattamente agli antipodi di ciò che oggi intenderebbero o vorrebbero alcuni che si presentano come eredi della sua " memoria ". Non ci resta che raccontare, andando alla prova dei fatti, i quali dimostrano con sconcertante evidenza che il termine " laico " e il termine " cristiano " si equivalgono in maniera assoluta per la persona del battezzato, quando costui non abbia ricevuto una particolare vocazione ministeriale o di speciale consacrazione, che esigono di essere ulteriormente precisate. Pier Giorgio nasce a Torino il sabato santo (6 aprile) del 1901 da una ricca famiglia borghese di stampo liberale: la madre, Adelaide Ametis una nota pittrice; il padre, Alfredo Frassati, nel Ma se la situazione della famiglia è confortevole e stimolante dal punto di vista del prestigio sociale, essa è invece triste dal punto di vista dei legami affettivi. Padre e madre vivono un accordo difficile e assai formale, mantenuto unicamente per il decoro e per i figli: il papa è sempre occupato " altrove ", tra i grandi problemi del giornale e della vita pubblica, la mamma si ripaga con brillanti relazioni sociali e con un sistema educativo rigido e freddo. I testimoni la definiscono come " una donna moderna, in anticipo persino sul suo tempo per l’estrema liberalità delle idee ". Liberalità che comunque non riguarda i figli: Luciana, la sorella ancora vivente di Pier Giorgio, ha raccontato che la loro infanzia, mai veramente vissuta, trascorse come un " maldefinito incubo in quella vasta casa signorile che a volte sembrava " una triste caserma ". Per decenni è stato di moda presentare questo santo giovane universitario come modello di freschezza e di purezza, di gioia di vivere, di rigore fisico e spirituale e di ricca generosità verso i meno privilegiati, nonché di impetuoso impegno socio-politico. Ma si sono trascurati e taciuti troppo gli aspetti di passione e di crocifissione (quelli che soli permettono di vivere come " risorti ") che stanno sullo sfondo quotidiano della sua vita e della sua morte. Torniamo per ora agli inizi del suo itinerario spirituale. La famiglia gli trasmise soprattutto un sistema di regole e di doveri (il che in se stesso non è certo un male, ma può essere piuttosto triste), sistema che attraverso la madre si riallacciava a una comprensione genericamente cristiana della vita, mentre attraverso il padre si riallacciava a una bontà naturale, priva però di fede. La vita cristiana Pier Giorgio l’assorbì immergendosi spontaneamente e per scelta personale nelle acqua viva che Si resterebbe sorpresi a elencare tutte le " associazioni " a cui Pier Giorgio volle iscriversi, spesso contro il parere dei suoi familiari, partecipandovi poi attivamente e assumendovi responsabilità. I nomi di queste associazioni possono sembrarci oggi desueti e pietistici, ma non devono farci dimenticare che allora essi indicavano i nuclei vivi di una Chiesa in fermento: Apostolato della preghiera, Lega eucaristica, Associazione dei giovani adoratori universitari (con l’impegno dell’adorazione notturna ogni secondo sabato del mese), Congregazione mariana terz’ordine domenicano, e altre ancora. E queste sono soltanto alcune " appartenenze " attraverso le quali egli si educò soprattutto alla preghiera, cioè a possedete un cuore cristiano, una memoria, un desiderio, una " mendicanza " assoluta del suo essere. Potremmo dedicarci a descrivere le pratiche e gli impegni che quelle associazioni comportavano, ma l’aspetto più importante è di osservare che li sua persona non si perdeva né si frantumava in mille piccoli pezzi o in mille piccole devozioncelle, ma si strutturava integralmente in modo da non lasciare spazi vuoti o deboli o meschini. Soprattutto, ogni cosa aveva un centro: " Sei un bigotto? ", gli chiese un giorno qualcuno in università (così allora si ingiuriavano i credenti, sia dal versante massonico-liberale, che da quello fascista, che da quello social-comunista). " No, rispose Pier Giorgio restituendo il colpo con bontà, ma con altrettanta fermezza, no, io sono ‘rimasto’ cristiano! ". Infatti tutta quella preghiera generava in lui una passione certa per tutta la realtà ed egli, con la stessa intensità, viveva il dovere e il piacere di appartenere ugualmente ad associazioni culturali, sportive, sociali, politiche, fino a quel " partito popolare " che allora nasceva come speranza per l’impegno e l’identità anche politica dei credenti. Nel 1919, ancora minorenne, Pier Giorgio si iscrisse al circolo universitari " Cesare Balbo ", che comprendeva anche una " Conferenza di San Vincenzo ". Ecco come descrivono l’ambiente alcuni soci di allora: Il circolo era secondo me muffito e poco interessante e la presenza era più che altro giustificata dal fatto di poter giocare al biliardino. E un altro: Tanto al " Cesare Balbo " quanto al pensionato cattolico dove abitavano c’erano moltissimi bravi ragazzi, ma un centinaio di essi almeno non facevano che parlare di avventure femminili mentre altri, ipocriti o bigotti, apparivano dei veri chierici mancati. È una buona descrizione del perché si è assistito nei decenni passati al crollo di certo associazionismo cattolico e alla devitalizzazione di gran parte di oratorii parrocchiali. Frassati e alcuni amici decisero perciò di prendere in mano il circolo. In un volantino di autopropaganda si proposero come responsabili: Studenti! volete svecchiare e rinsanguare il circolo? volete che esso viva di vita sua e cristianamente audace al di sopra di ogni rancidume quarantottesco e codino? Affidatene le sorti ai seguenti colleghi: Borghesio, Oliviero, ... Frassati. Quella recente biografia a cui abbiamo accennato, spiega che Pier Giorgio stava allora con i più progressisti e porta questa testimonianza: Era sempre all’opposizione, non capiva i mezzi termini, le misure blande, diplomatiche, pur necessarie a volte per dirigere una barca con in equipaggio così numeroso e difficile come quello di un circolo universitario. Era massimalista, avrebbe voluto applicate alla lettera il Vangelo e talvolta era un po’ rude e angoloso. Non ammetteva deviazioni, gli accomodamenti erano contrari al suo carattere e non era il tipo del malleabile. Mistero delle parole: oggi persone di tal genere sono definite " reazionarie ed integriste ". Pier Giorgio viene invece fatto passare per " progressista ". Ciò non basta per nascondere un fatto evidente: che egli non è stato proprio un esempio di " laicità " nel senso in cui oggi viene diffuso e propagandato questo valore. È il caso perciò di vagliare bene questo tipico " progressismo " che si è disposti a riconoscere solo ai santi. Abbiamo a disposizione una serie di episodi. Nel settembre Ecco una testimonianza che riguarda il nostro " santo " giovane; Pier Giorgio tiene alta con le due mani la bandiera tricolore del circolo Cesare Balbo. All’improvviso sbucano dal portone di Palazzo Altieri, dove erano accantonate, circa duecento guardie regie agli ordini del più settario funzionario di polizia che io abbia mai conosciuto. Grida: " Addosso coi moschetti, togliete le bandiere! ". Pare che abbiano a trattare con belve. Picchiano coi calci dei moschetti, afferrano, strappano, spezzano le nostre bandiere. Le difendiamo come possiamo con le unghie e con i morsi. Vedo Pier Giorgio alle prese con due guardie che tentano di strappargli la bandiera... Ci spingono nel cortile del Palazzo che funziona da camera di sicurezza... Intanto a piazza del Gesù lo spettacolo bestiale continua… Un sacerdote è buttato letteralmente nel cortile con l’abito talare strappato e una guancia insanguinata. Al nostro grido di protesta ci sono nuovamente addosso con i calci dei moschetti... Insieme ci inginocchiammo per terra, nel cortile, quando quel prete lacero alzò il rosario e disse: " Ragazzi, per noi e per quelli che ci hanno percosso, preghiamo!". La rivista Civiltà Cattolica, in quel tempo in cui si usava chiamare le cose col loro nome, raccontando i fatti li spiegò così: " La setta, inviperita da così inattesa dimostrazione di fede, ne volle un primo ricatto ". E ancora: "Il fatto, dovuto a mene torbide di setta e di partito... ". E definisce le cronache distorte che allora ne diedero il Giornale d’Italia e il Resto del Carlino come opera di " certi giornalisti più abbietti e più settari ". L’indomani i giovani cattolici dovevano nuovamente recarsi a S. Pietro e Pier Giorgio con i suoi riattraversò la città portando in trionfo i mozziconi di bandiera spezzata e strappata a cui aveva appeso un grande cartello con la scritta: " Tricolore sfregiato per ordine del Governo ". Un fatto " progressista ", come si vede. Comunque se ne parlò in tutta Italia. Racconta un amico di Pier Giorgio: Mentre si faceva un gran parlare di lui, egli si mostrava riluttante alle congratulazioni che da ogni parte gli venivano. Quelle lodi gli sembravano strane perché non poteva comprendere come un giovane cattolico in quella circostanza potesse agire in modo diverso. L’anno seguente venne varata la legge che proibiva l’insegnamento religioso nelle scuole, proprio mentre a livello associativo cattolico ci si lamentava della " deplorevole disorganizzazione " degli studenti. A Torino Pier Giorgio scrisse una lettera ai soci del circolo " Milites Mariae ", cui egli apparteneva come delegato degli studenti. Scrisse: I nostri giovani hanno bisogno di una speciale istruzione adatta alle loro forze e di una solida base apologetica per far fronte ai continui pericoli, ai quali sono esposti frequentando le scuole pubbliche purtroppo molto corrotte... Noi che per grazia di Dio siamo cattolici non dobbiamo sciupare le nostre vite... Noi dobbiamo temprarci per essere pronti a sostenere le lotte che dovremo certamente combattere per il compimento del nostro programma. Pier Giorgio chiede esplicitamente: " preghiera continua ", " organizzazione e disciplina ", " sacrificio delle nostre persone e di noi stessi e offrì la possibilità di " un doposcuola dove (gli studenti) completeranno quella cultura che ora la scuola statale così poco seria non può dare, nello stesso tempo saranno istruiti nelle questioni religiose e filosofiche". Concludeva: Mentre vi ringrazio di quanto farete, certo che sarete ricompensati largamente nella vita, vi saluto cristianamente. Evviva Gesù! Il delegato degli studenti. Pier Giorgio Frassati. Sul finire di quello stesso anno Racconta un amico: Ricordo Pier Giorgio, ritto davanti alla bacheca con un bastone in mano, e attorno una canea urlante ai cento studenti. Insulti, minacce, percosse non valsero a smuoverlo. Il numero ebbe però il sopravvento. La bacheca andò in pezzi e l’avviso fu bruciato. Comunque la distruzione delle bacheche e degli avvisi era divenuta un vizio, dato che se ne incaricavano puntualmente gli anticlericali del circolo Giordano Bruno. Più di un " fucino ", gia allora, parlava della necessità di mantenere buoni rapporti e dì intavolare trattative. Frassati non ammetteva mezzi termini: " Io farei a pugni. Abbiamo o no il diritto di difendere la nostra bacheca, o soltanto loro hanno il diritto di romperla? Gli altri sostenevano che non era comunque possibile star li a far continuamente la guardia, ma Pier Giorgio era sbrigativo: " Io dico che bisogna dare una lezione ". In un’altra occasione, per le feste pasquali, aveva fatto affiggere nel cortile dell’università un avviso sacro. Lo strapparono. Pier Giorgio lo copiò a mano e lo rimise " con progressione geometrica ", fino a raggiungere il numero di 64 copie. Fin dagli inizi del 1920 quando cominciarono le agitazioni operaie, accompagnava come guardia del corpo, nei sobborghi rossi di Torino, un frate domenicano che andava a parlare ai giovani operai, " tra bolscevichi urlanti e minacciosi ", e non di rado, per difenderlo, si finiva per venire alle mani. In tempo di elezioni politiche passava notti intere girando con un’automobile piena di manifesti, volantini e stampati e tenendo sul predellino due grosse pignatte traboccanti di colla, e " attaccando " nei punti più caldi della città, non senza subire aggressioni e organizzando opportune difese. E non senza divertirsi. Quando poi si scateneranno le squadre fasciste, l’opposizione di Pier Giorgio sarà così determinata che la sua stessa casa sarà presa di mira: una domenica, mentre egli sta pranzando solo con la madre, una squadra irrompe in casa, munita di sfollagente a palle di piombo rivestite cuoio, e comincia a fracassate le specchiere dell’anticamera e i mobili che capitano a tiro. Pier Giorgio riesce a strappare ad uno Io sfollagente e a metterli in fuga. La notizia dell’episodio viene riportata perfino dalla stampa estera. In una lettera Pier Giorgio stesso racconta: Carissimo Tonino, ti scrivo per tranquillizzarti: leggerai sul giornale che abbiamo subito una piccola devastazione nell’alloggio da dei porci fascisti. È stata un’impresa da vigliacchi, ma niente di più… Sono senza pudore: dopo i fatti di Roma non dovrebbero, più farsi vedere e vergognarsi di essere fascisti. In un’altra occasione a chi lo aggrediva gridò: La vostra violenza non può superare la forza della nostra fede, perché Cristo non muore. Soffriva soprattutto perché incominciava a scoprire la debolezza di quel " partito popolare " in cui aveva tanto sperato. Vi si era iscritto già alla sua fondazione e lo propagandava senza paura. Era convinto che " il partito sarebbe stato veramente popolare quando fosse stato sostenuto da folte masse aderenti alle organizzazioni professionali cristiane ". Un amico racconta che, quando ne parlava, Pier Giorgio dimostrava di amarlo perché " lo sentiva come conseguenza sociale della sua fede ". Con l’avvento del fascismo era umiliato dal dover constatare la debolezza e il trasformismo di molti aderenti del partito popolare, ma a differenza di tanti vi restò tenacemente attaccato " con le ultime speranze, con gli ultimi pensieri, con le ultime volontà ". Quando il Direttore del Popolo, Giuseppe Donati, dovette partire per l’esilio, al confine per salutarlo e stringergli la mano, sfidando gli occhi della polizia fascista, c’era solo Pier Giorgio. Lo stesso Donati scrisse poi: " In lui io vidi l’ultimo amico della Patria che lasciavo ". E Pier Giorgio sarebbe morto tre mesi dopo. Dal punto di vista sociale e politico lo angustiava la scarsa intelligenza di fede di molti membri delle associazioni cattoliche: cioè la mancanza di uno sguardo di fede applicato alla realtà con amore intelligente. Già nel 1921, partecipando al congresso nazionale della FUCI a Ravenna, aveva proposto e difeso la tesi dello scioglimento della FUCI per farla confluire in una più ampia " gioventù cattolica " che mettesse assieme intellettuali, lavoratori, studenti e gente semplice. Trovò opposizione nell’assistente ecclesiastico della FUCI, ma non se ne diede per inteso. Frequentava i circoli operai più vigorosi, come il " Savonarola ", composto da operai metalmeccanici della Fiat, ben collocato in faccia a uno dei più agguerriti circoli comunisti. Ci recavamo, racconta un amico, nelle sedi di associazioni religiose, culturali, sociali e sindacali... Dappertutto, si può dire, Pier Giorgio era presente e ad ogni iniziativa cooperava e partecipava... Non mancava neppure al circolo dei Reduci (di particolare importanza, se si pensa che si era da poco conclusa la prima guerra mondiale) e all’Unione del Lavoro, dove gli studenti si incontravano con i lavoratori. L’identità cristiana era per Pier Giorgio aperta su tutto l’ambito del sociale e politico, anche oltre i confini nazionali. Si indignava perché Allo stesso modo sostenne con pubbliche dichiarazioni la lotta del popolo irlandese che chiedeva " l’indipendenza della propria terra e del proprio spirito". Si era appassionato all’associazione internazionale Pax Romana che legava gli universitari cattolici di tutte le nazioni; e di un suo convegno tenutosi a Torino volle essere l’organizzatore. Tutti questi accenni non devono far dimenticare che si tratta di uno studente universitario alle prese con esami continui e difficili che egli si impegna a superare con risultati abbastanza buoni, ma con notevole fatica. Per riuscire doveva applicarsi a lungo, e non era eccezionalmente dotato. Eppure anche il suo studio veniva illuminato di carità e di fede, se si pensa che tra tutte le possibilità che gli erano offerte, ed erano notevoli, data la sua condizione sociale, aveva preferito iscriversi alla facoltà di ingegneria mineraria, perché durante un suo soggiorno in Germania aveva constatato la particolare gravità delle condizioni di lavoro degli operai del settore: " Io voglio in miniera aiutare la mia gente e questo lo posso fare meglio da laico che da prete, perché da noi i sacerdoti non sono a contatto con il popolo ". Così egli spiegava il campo di studi che aveva scelto a Louise Rahner, la madre del celebre teologo, nella cui casa soggiornò per un certo tempo. Diceva di voler diventare " minatore tra i minatori " C’è ancora un aspetto della sua vita che dobbiamo descrivere, quello più noto, ma che ora, nel quadro più ampio che abbiamo delineato, trova la sua giusta collocazione. Si tratta di quel " volontariato della carità" a cui Pier Giorgio si dedicò costantemente, immergendosi nella più viva tradizione dei santi sociali della sua terra (Don Bosco, il Cottolengo, Faà di Bruno, Murialdo, Orione). Ecco un bozzetto delineato da G. Lazzati, per commemorate il 50° anniversario della nascita di Pier Giorgio: Straniti gli uomini, a partire dai suoi parenti, vedranno questo giovane a cui nulla sembrava mancare per essere campione di mondanità (...) trascinare per le vie di Torino carretti pieni di masserizie dei poveri in cerca di casa, e passare sudato sotto il carico di grossi pacchi anche male confezionati, ed entrare nelle case più squallide dove spesso miseria e vizio si danno la mano, sotto gli occhi ipocritamente scandalizzati di un mondo che nulla fa per aiutarli ad uscirne; e farsi, con sorprendente umiltà, lui, il figlio dell’ambasciatore d’Italia a Berlino, lui il figlio del senatore, questuante per i suoi poveri, e per essi ridursi al verde così da rincasare fuori orario per non avere neppure i pochi centesimi che gli bastino per il tram… La sorella Luciana ha rivelato che la situazione era più umiliante di quanto non ci si immaginasse: a casa Pier Giorgio passava per uno sciocco e lo tenevano piuttosto a corto di quattrini: per poter dare agli altri, egli doveva spesso privarsi non del superfluo ma del necessario. Che cosa abbia fatto per le numerose famiglie povere di cui si curava come membro della " San Vincenzo ", risulta da mille episodi pieni di carità e da mille testimonianze riconoscenti. Non era d’altra parte, la sua, una carità ottusa: " dare è bello diceva, ma ancor più bello è mettere i poveri in condizione di lavorare ". Sapeva bene che la carità era anzitutto una questione di giustizia sociale. " Si discuteva, narra un amico, di certi patti colonici. Egli sosteneva che la terra è dei contadini e va data a chi la lavora. Impulsivamente esclamai: ‘Ma tu che sei padrone di terre, lo faresti?’. Mi guardò e mi disse in poche parole: ‘Non sono mie... Io lo farei subito!’ ". La coscienza con cui intanto egli agiva, sollevando come poteva la miseria dei poveri, col suo stesso fisico sudore, emergeva quando doveva convincere altri a partecipare alla sua impresa. Racconta un amico: Un giorno cercò di convincermi a far parte (della " S. Vincenzo "). Alla mia difficoltà che non mi sentivo il coraggio di entrare nelle case sporche e puzzolenti dei poveri, dove potevo prendere qualche malattia egli con tutta semplicità mi rispose che visitare i poveri era visitate Gesù Cristo. Diceva; " Intorno all’infermo, al miserabile, intorno al disgraziato io vedo una luce che non abbiamo noi...". Che frequentando i tuguri dei poveri si potesse andare incontro a qualche grave malattia non era un modo di dire. E difatti Pier Giorgio si ammalò nella maniera più terribile: nonostante avesse un fisico temprato dallo sport, contrasse durante una delle sue " visite " la poliomielite fulminante, che lo distrusse in una settimana. Fu una settimana di passione. Prima di raccontarla brevemente, rivediamo l’immagine che ci è stata tramandata di questo giovane universitario: " borghese ", aperto, sano, gioviale, appassionato di montagna e di sci, rumoroso nelle feste, animatore di una sana goliardia (aveva fondato una " Società dei Tipi Loschi " con tanto di statuto). Tutto ciò non era una facciata, era la sua natura. Eppure, questa stessa natura, senza dissociazioni, senza alti e bassi, senza mutevolezze di carattere, era anche profondamente seria, temprata dalla sofferenza propria e altrui. Tra le sue sofferenze più laceranti, dobbiamo anche ricordare l’amore profondo per una ragazza di umili condizioni, amore a cui si senti moralmente costretto a rinunciare quando si accorse che la sua scelta, per i pregiudizi della famiglia, non sarebbe stata mai accettata. Comprese anzi che una sua eventuale insistenza avrebbe provocato la definitiva rottura del legame tra i suoi genitori. Dio gli suggerì nel profondo del cuore (e dobbiamo leggere l’episodio nell’insieme della sua breve vita; senza saperlo, Pier Giorgio era già a un passo dalla morte) di non cercare la sua felicità a prezzo della " salvezza " dei suoi genitori: " non posso distruggere una famiglia, diceva, per formarne un’altra. Mi sacrificherò io ". Il 30 giugno 1925, tornando dal suo solito giro di carità, Pier Giorgio cominciò ad accusare emicrania e inappetenza. non gli badò nessuno: in quei giorni si andava spegnendo la sua vecchia nonna, e quel giovanottone alto e muscoloso, a cui non si badava mai troppo perché era troppo buono, con le sue febbri inopportune infastidiva. Pier Giorgio cominciò a morire, sentendo il suo giovane corpo distruggersi, mentre la paralisi avanzava progressiva e implacabile, senza che nessuno gli badasse. La nonna morente continuava a polarizzare su di sé l’attenzione della famiglia, la stanchezza fisica e il logoramento psicologico di tutti i familiari. A Pier Giorgio si faceva gentilmente capire di non seccare con i suoi malanni da niente, quando c’erano già abbastanza guai in casa e quando avrebbe fatto meglio a studiare per finire quegli ultimi esami che si trascinava da un po’ troppo tempo. Così egli, umile e mansueto, affrontò da solo i sintomi del male terribile, della cui gravità lui stesso non si rendeva completamente conto, e l’angoscia di ciò che gli accadeva, senza poterne nemmeno parlare, dato che ogni tentativo veniva stroncato sul nascere con inconsapevole crudeltà. Quando i genitori atterriti si accorsero di ciò che stava accadendo sotto. i loro occhi, era troppo tardi. Il siero fatto venire frettolosamente e eccezionalmente dall’istituto Pasteur di Parigi, arrivò quando ormai non poteva più giovargli. L’ultimo giorno di vita, alla sorella Luciana, Pier Giorgio chiese di andare a prendere nel suo studio una scatola di iniezioni che non aveva potuto recapitare a uno dei suoi poveri e volle scrivere un biglietto con le indicazioni e l’indirizzo necessari. È un biglietto che esprime visivamente la tragedia: lo volle scrivere, ad ogni costo con le sue stesse mani già tormentate dalla paralisi, e ne risultò un groviglio quasi inestricabile di righe e di lettere. È il suo testamento: le ultime energie per l’ultima carità. I funerali furono un accorrere di amici e soprattutto di poveri; i primi a restare allibiti, al vederlo tanto amato e tanto noto, furono i suoi stessi familiari che per la prima volta capivano dove Pier Giorgio avesse veramente abitato nei suoi pochi anni di vita, nonostante avesse una casa confortevole e ricca nella quale arrivava sempre in ritardo. La commemorazione post mortem più inconsueta e insospettabile è quella che gli dedicò il celebre socialista Filippo Turati. Scrisse sul suo giornale: Era veramente un uomo, quel Pier Giorgio Frassati che la morte a 24 anni ghermì.. Ciò che si legge di lui è così nuovo insolito che riempie di riverente stupore anche chi non divide la sua fede. Giovane ricco, aveva scelto per sé il lavoro e la bontà. Credente in Dio, confessava la sua fede con aperta manifestazione di culto, concependola come una milizia, come una divisa che si indossa in faccia al mondo, senza mutarla con l’abito consueto per comodità, per opportunismo, per rispetto umano. Convintamente cattolico e socio della gioventù cattolica universitaria della sua città, disfidava i facili scherni degli scettici, dei volgari, dei mediocri, partecipando alle cerimonie religiose, facendo corteo al baldacchino dell’Arcivescovo in circostanze solenni. Quando tutto ciò e manifestazione tranquilla e fiera del proprio convincimento e non esibizione ostentata per altri scopi, è bello e onorevole. Ma come si distingue la " confessione " dalla " affettazione "? Ecco la vita è il paragone delle parole e degli atti esteriori che valgono poco più delle parole Quel giovane cattolico era anzitutto un credente. (...) Tra l’odio, la superbia e lo spirito di dominio e di preda, questo " cristiano " che crede, e opera come crede, e parla come sente, e fa come parla, questo " intransigente " della sua religione, è pure un modello che può insegnare qualcosa a tutti. Forse Turati nemmeno sospettava che le parole conclusive da lui usate per descrivere un convincente laico cristiano (" agisce come crede, parla come sente e fa come parla ") sono pressappoco quelle che la chiesa usa quando consacra i suoi ministri: questione di " sacerdozio appunto. E i laici cristiani sono anch’essi sacerdoti in forza del loro stesso battesimo. C’è un’altra osservazione che è necessario fare prima di concludere. Spesso ci sì sente rivolgere una domanda (che brucia soprattutto il cuore dei cristiani che vivono in Piemonte): perché una terra che sul finire del secolo scorso fu così ricca di " santi sociali " è oggi così scristianizziata? Che cosa è accaduto? Dove la loro eredità non è Stata accolta e vissuta? Beatificando quest’ultimo torinese, un giovane laico, La santità di Pier Giorgio esprime infatti un valore di continuità con la tradizione della sua terra e un valore di novità: ed è questa sua funzione di " cerniera " (nel passaggio epocale) che occorre saper cogliere. Da un lato egli ha ereditato la più pura tradizione dei santi piemontesi: si è innestato nel loro immenso lavoro di difesa della fede, attraverso la carità profusa nel campo della emarginazione, prodotta dall’allora nascente contesto industriale-urbano. Dall’altro lato, egli però ha indicato il nuovo: la necessità che la fede si confrontasse con tutto l’arco dell’esperienza umana e " operasse caritatevolmente " in ogni ambito: negli ambienti dell’università, del lavoro, della stampa (Pier Giorgio raccoglieva abbonamenti non per il quotidiano di suo padre, ma per quello cattolico), dell’impegno politico e partitico, e dovunque era necessario difendere le libertà sociali, cercando sempre di concepire e fomentare l’associazionismo, come " amicizia cristiana " destinata alla nascita di un cattolicesimo sociale. Mentre si apriva e si documentava l’era della cristianizzazione di massa, Pier Giorgio intuì che occorreva riaprire la questione del rapporto Fede-Opere: esso era tradizionalmente applicato al campo caritativo - assistenziale - morale, bisognava estenderlo a tutte le opere dell’uomo (dalla economia allo sport!), senza accettare limitazioni e spazi precostituiti. Di lui resta questa splendida confessione: Ogni giorno di più comprendo quale grazia sia l’essere cattolici. Vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere una lotta per In un tempo di triste scristianizzazione, in un tempo di nuova e gioiosa evangelizzazione abbiamo bisogno di uomini così " persuasi ": laici, cioè cristiani, cioè santi. |
Postato da: giacabi a 15:50 |
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santi, pgfrassati
S. Massimiliano Kolbe
S. Massimiliano Kolbe
***
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
Oggi siamo di fronte a un volto luminoso, davanti al quale tutti, anche i non credenti, si inchinano volentieri e di cui tutti parlano con venerazione; S. Massimiliano Kolbe. Il fatto che egli abbia offerto la sua vita ad Auschwitz, riscattando con la sua carità e il suo martirio la dignità dell'uomo oppresso, basta ad attirargli tutte le simpatie.
Ma
noi vogliamo piuttosto imparare a comprendere quel suo gesto così
decisivo sullo sfondo di tutta la sua esistenza: la sua vocazione, gli
ideali coltivati, l'infaticabile operosità, la " ostinata "
missionarietà, perfino ciò che a qualcuno potrebbe sembrare "
eccessivamente integrista ", e che esprime invece la integralità della
sua fede. Per non correre il rischio di staccare artificialmente la sua
morte dalla sua vita.
P. Massimiliano Kolbe fu figlio del suo tempo e della sua terra: nacque nel
Dal 1912 al 1919 studia filosofia e teologia a Roma. Laurea in filosofia nel 1915 e laurea in teologia nel 1919. Si interessa di fisica e di matematica e giunge fino a progettare nuovi tipi di aerei ed altre apparecchiature.
A
Roma assiste a una processione di anticlericali-massoni che vanno a
celebrare Giordano Bruno inalberando uno stendardo nero su cui Lucifero
schiaccia S. Michele Arcangelo. In piazza S. Pietro vengono distribuiti
volantini in cui si dice che " Satana deve regnare in Vaticano e il Papa
dovrà fargli da servo ".
Il giovane Massimiliano ha una concezione cavalleresca della vita, al modo degli antichi cavalieri medioevali: ma la sua dama è
Si convince che è iniziata " l'Era dell'immacolata " quella in cui Maria dovrà, come dice
Scrive:
"Bisogna seminare questa verità nel cuore di tutti gli uomini che vivono e vivranno fino alla fine dei tempi e curarne l'incremento ed i frutti di santificazione; bisogna introdurre l'Immacolata nei cuori de gli uomini affinché Ella innalzi in essi il trono del Figlio suo e li trascini alla conoscenza di Lui e li infiammi d'amore verso il Sacratissimo Cuore di Gesù ".
Da parte sua ha una devozione totale e gentile: chiama
"
Cercare la conversione dei peccatori, degli eretici, degli scismatici,
dei giudei ecc. e soprattutto dei massoni (parola sottolineata due
volte); e soprattutto la santificazione di tutti sotto il Patrocinio e
con la mediazione della Beata Maria Vergine ".
Accennavo
all'accusa di integrismo che oggi P. Kolbe si tirerebbe addosso da
parte di molti cristiani benpensanti e schifiltosi. Infatti
Eccola:
"
Con l'aiuto di Dio dobbiamo fare in modo che i fedeli Cavalieri
dell'immacolata si trovino dappertutto, ma specialmente nei posti più
importanti come:
a) l'educazione della gioventù (professori di istituti scientifici, maestri, società sportive);
b)
la direzione dell'opinione delle masse (riviste, quotidiani, la loro
direzione e diffusione, biblioteche pubbliche, biblioteche circolanti,
conferenze, proiezioni cinematografiche);
c) le belle arti: scultura, pittura, musica, teatro.
I
militi dell'immacolata divengano in ogni campo i primi pionieri e guide
nelle scienze (scienze naturali, storia, letteratura, medicina,
diritto, scienze esatte ecc.).
Sotto
il nostro influsso e sotto la protezione dell'Immacolata sorgano, si
sviluppino i complessi industriali, commerciali, le banche.
In una parola
La realizzazione di questo progetto? Semplicemente incredibile per le possibilità di un uomo.
Nel 1927 inizia a costruire dal nulla un'intera città a circa
In pochi anni ecco descritta la prima realizzazione:
Un
complesso-editoria (che comprendeva): la redazione, la biblioteca, la
tipoteca, il laboratorio dei linotipisti, la zincografia con i gabinetti
fotografici, le tipografie..., ed ancora i vari reparti della
legatoria, dei depositi e delle spedizioni.
L'ala
sinistra... comprendeva, in fabbricati distinti, la cappella,
l'abitazione dei religiosi, il postulandato, il noviziato, la direzione
generale, l'infermeria e, alquanto distanziata, la grande centrale
elettrica. E poi, sparsi un po' dovunque, le officine dei fabbri e dei
meccanici, i laboratori per i falegnami, per i calzolai, per i sarti,
nonché le grandi rimesse per i muratori e il corpo dei pompieri.
Ma
non è ancora finito: c'erano il parco macchine, la piccola stazione
ferroviaria con il binario di raccordo con quella pubblica e statale;
previsto anche l'aeroporto con quattro velivoli e un progetto di
stazione radio trasmittente.
Dovunque grossi tronchi d'albero, depositi di legname, tubi e materiale edilizio di vario genere ".
La capacità di Massimiliano Kolbe di trascinare gli altri dietro questo suo ideale cavalleresco è data da queste cifre: dopo
una decina di anni o poco più a Niepokalanow vivono 762 religiosi: 13
sacerdoti, 18 chierici, 527 religiosi conversi, 122 giovani aspiranti
sacerdoti, 82 giovani aspiranti religiosi conversi.
Quando Massimiliano Kolbe, tornando sacerdote da Roma, aveva rimesso piede in Polonia
I frati di Massimiliano sono capaci di tutto: dall'organizzare
il corpo dei pompieri a prendere il brevetto di pilota, a studiare per
diventare direttore d'orchestra in modo da poter curare personalmente la
registrazione di dischi, a imparare i sistemi di regia cinematografica.
P.
Massimiliano Kolbe che fonda, e dirige per i primi anni, questa enorme
comunità, e ne resta sempre l'animatore, è descritto così:
"
Era tenace, ostinato, implacabile... Era un calcolatore nato: calcolava
e raffrontava senza posa, valutava, fissava, combinava bilanci e
preventivi. Se ne intendeva di tutto: di motori, di biciclette, di
linotype, di radio; conosceva quello che costava poco e quello che
costava molto; sapeva dove, come e quando era opportuno comperare… Non
c'era sistema di comunicazione troppo veloce per lui, il veicolo del
missionario, diceva spesso, dovrebbe essere l'aereo ultimissimo modello
".
La vita dell'intera comunità, invece, da P. Massimiliano Kolbe è descritta e spiegata con queste parole:
"
La nostra comunità ha un tono di vita un pochino eroico, quale è e deve
essere Niepokalanow se veramente vuole conseguire lo scopo che si
prefigge, vale a dire non solo di difendere la fede, di contribuire alla
salvezza delle anime, ma con
ardito attacco, non badando affatto a se stessi, conquistare
all'immacolata un anima dopo l'altra, un avamposto dopo l'altro,
inalberare il suo vessillo sulle case editoriali dei quotidiani, sulla
stampa periodica e non periodica, sulle agenzie di stampa, sulle antenne
radiofoniche, sugli istituti artistici e letterari, sui teatri, sulle
sale cinematografiche, sui parlamenti, sui senati, in una parola
dappertutto sulla terra; inoltre vigilare affinché nessuno mai riesca a
rimuovere quei vessilli.
Allora cadrà ogni forma di socialismo,
di comunismo, di eresie, gli ateismi, la massoneria e tutte le altre
simili stupidaggini che provengono dal peccato... Così io mi immagino
Niepokalanow ".
In questa nuova " città " sì stampano otto riviste per parecchie centinaia di migliaia di copie. (La maggiore tra esse, " Il cavaliere dell'Immacolata ", tocca in quegli anni il milione di copie. P. Massimiliano prevede traduzioni in italiano, inglese, francese, spagnolo e latino).
Lui vi abiterà pochissimi anni. Già nel 1930 è in Giappone dove
fonda dal nulla una città analoga e la chiama " Il giardino dell'immacolata ".
Un autore che è critico verso l'opera di Kolbe scrive:
"
Mirava né più ne meno che a conquistare il mondo. Per questo andò a
convertire i 'pagani' in Giappone; per questo ampliava incessantemente
le sue editrici, fondava monasteri, sognava piani per estendere a tutto
il mondo
Tutte
queste opere, concepite su scala gigantesca, le creò quasi dal nulla.
Senza un soldo in tasca, questuando incessantemente col proverbiale saio
rappezzato. Era un fenomeno di energia e di talento organizzativo.
Intraprendeva ogni iniziativa letteralmente con le proprie mani.
Mescolava la calce e portava i mattoni nel cantiere, lavorava alla cassa
di composizione in tipografia. A Nagasaki intraprese l'edizione della
versione locale de 'Il Cavaliere dell’Immacolata' senza sapere una
parola di giapponese...".
E durante l'edificazione della filiale giapponese " dormiva in una soffitta coprendosi col cappotto ".
La sua Milizia dell'Immacolata, nel 1939, contava 800.000 iscritti.
" Noi, diceva P. Kolbe, abbracceremo il mondo intero" e aveva piani che riguardavano l'india e il mondo arabo.
Nel
1932, quando costruiva Niepokalanow decise che fosse piccolo un solo
ambiente: il cimitero, perché diceva: " prevedo che le ossa dei miei
frati saranno disperse in tutto il mondo ".
Qual era dunque il suo ideale? Eccolo:
"
Bisogna inondare la terra con un diluvio di stampa cristiana e mariana,
in ogni lingua, in ogni luogo, per affogare nei gorghi della verità
ogni manifestazione di errore che ha trovato nella stampa la più potente
alleata; fasciare il mondo di carta scritta con parole dì vita per
ridare al mondo la gioia di vivere ".
La teologia di P. Kolbe era radicale e senza mezzi termini. Ecco come la sintetizza un suo biografo:
"
Si ostinò a credere, a dire, a scrivere che la verità è una sola,
quindi un solo Dio, un solo Salvatore, una sola Chiesa; gli uomini,
tutti gli uomini, di conseguenza, sono chiamati ad aderire ad un solo
Dio, ad un solo Salvatore, ad una sola Chiesa.
A
quell'ideale consacrò e immolò la sua vita di missionario della penna,
come amava definirsi". Questo fu l'uomo su cui si abbatté la furia
nazista. Sapeva ciò che gli aspettava. Aveva tanti amici che lo
avvertivano di tutto.
Fu arrestato una prima volta assieme ad alcuni suoi frati.. Li confortava con queste parole: " coraggio, andiamo in missione ".
in un primo tempo là Città dell'Immacolata fu adibita a ospedale con un
ufficio della Croce Rossa. Pian piano si riempiva di rifugiati e di
scampati, accolse 2000 espulsi dalla Polonia e alcune centinaia di
ebrei. I tedeschi cominciarono a considerarla come un campo di
concentramento.
Liberato
una prima volta, P. Kolbe riorganizzò la città per la sopravvivenza di
tutti i rifugiati organizzando infermeria farmacia, ospedale, cucine,
panetteria, orto e altri laboratori. il 17 febbraio 1941 viene arrestato
per la seconda volta. Dice: " Vado a servire l'immacolata in un altro campo di lavoro ". Il nuovo campo di lavoro è quello di Auschwitz.
Tutta l'energia di questo uomo fisicamente fragilissimo (malato di
tisi, con un solo polmone) è ora messa a confronto con la sofferenza più
atroce. Una sofferenza che lo colpisce sistematicamente, come gli altri
e più degli altri, perché appartiene al gruppo dei preti, quello che
per odio e maltrattamenti è accomunato agli ebrei.
Quando
lo vogliono portare all'ospedale del campo, se ne ha la forza, indica
sempre qualcun altro che, a suo parere, ha più bisogno di lui: " io
posso aspettare. Piuttosto quello lì... ".
Quando
lo mettono a trasportare cadaveri, spesso orrendamente mutilati, e ad
accatastarli per l'incenerimento, lo sentono mormorare pian piano: "
Santa Maria prega per noi " e poi: " Et Verbum caro factum est " (Il
Verbo si è fatto carne).
Nelle
baracche qualcuno la notte striscia verso di lui in preda all'orrore e
si sente dire lentamente, pacatamente, come un balsamo: " l'odio non è forza creativa; solo l'amore è forza creativa ".
Oppure
parla, dell'immacolata: " Ella è la vera consolatrice degli afflitti.
Ascolta tutti, ascolta tutti! ". Gli ammalati lo chiamano: " il nostro
piccolo padre ".
Poi
venne quel giorno in cui un detenuto del blocco 14 riuscì a Fuggire.
Padre Kolbe era stato assegnato a quel blocco solo da pochi giorni. Per
tre ore tutti i blocchi vennero tenuti sull'attenti. Alle 9, per la
misera cena, le file vengono rotte. Il blocco 14 dovette stare immobile
mentre il loro cibo veniva versato in un canale.
Il
giorno dopo, il blocco rimase tutto il giorno allineato immobile, sulla
piazza: guardati, percossi, digiuni, sotto il sole di luglio: distrutti
dalla fame, dal caldo, dall'immobilità, dall'attesa terribile. Chi
cadeva veniva gettato in un mucchio ai bordi del campo. Quando gli altri
blocchi tornarono dal lavoro si procedette alla decimazione: per un
prigioniero fuggito dieci condannati a morte nel bunker della fame.
Un condannato al pensiero della moglie e dei figli grida. A un tratto
il miracolo. P. Massimiliano esce dalla fila, si offre in cambio di
quell'uomo che nemmeno conosce. Lo scambio viene accettato. Il miracolo
per intercessione di P. Kolbe, Dio lo compie in quell'istante.
Dobbiamo
veramente ricostruire ciò che avvenne. Non molti poterono udire. Ma
tutti ricordano un particolare... Kolbe uscì dalla fila e si diresse
diritto, " a passo svelto " verso il Lagerfuehrer Fritsch, allibito che
un prigioniero osasse tanto.
Per il Lagerfuehrer Fritsch i prigionieri erano solo dei numeri.
La cosa più incredibile, il primo miracolo di Kolbe e attraverso Kolbe fu il fatto che il sacrificio venisse accettato.
Lo
scambio, con la sua affermazione di scelta e di libertà e di
solidarietà, era tutto ciò contro cui il campo di concentramento era
costruito. Il campo di concentramento doveva
essere la dimostrazione che " l'etica della fratellanza umana " era solo
vigliaccheria. Che la vera etica era la razza, e le razze inferiori non
erano " umane ". Il principio umanitario secondo l'ideologia nazista
era una menzogna giudeo-cristiana. Nel campo dì
concentramento si dimostrava che l'umano è ciò che di più esterno c'è
nell'uomo, una maschera che può essere levata a volontà.
" I campi di concentramento costituivano un frammento del dibattito filosofico definitivo " (Szczepanski).
Che
Fritsch accogliesse il sacrificio di Kolbe e soprattutto accogliesse lo
scambio (avrebbe dovuto almeno decidere la morte di ambedue) e quindi
il valore e l'efficacia del dono, fu qualcosa di incredibile. Era infatti un gesto che dava valore umano al morire, che rendeva il morire non più soggezione alla forza ma offerta volontaria.
Per Fritsch o fu un lampo di novità o fu la totale cecità di chi non
credeva più che quella gente avesse alcun significato storico. Di fatto
non c'era nessuna speranza umana che quel gesto oltrepassasse i confini
del campo di concentramento.
Né P. Kolbe poteva umanamente pensare a una qualsiasi eco storica del suo gesto. Ma
P. Kolbe riuscì a dimostrare fisicamente che quel campo era un
Calvario. E non mi riferisco a una immagine simbolica. Mi riferisco a
una Messa.
Da
quel giorno, da quella accettazione, il campo possedette un luogo
sacro. Nel blocco della morte i condannati vennero gettati nudi, al
buio, in attesa di morire per fame. Non venne dato loro più nulla,
nemmeno una goccia d'acqua. La lunga agonia era scandita dalle preghiere
e dagli inni sacri che P. Kolhe recitava ad alta voce. E dalle celle
vicine gli altri condannati gli rispondevano.
La
fama di ciò che avveniva si sparse anche negli altri campi di
concentramento. Ogni mattina il bunker della fame veniva ispezionato.
Quando
le celle si aprivano quegli infelici piangevano e chiedevano del pane;
chi si avvicinava veniva colpito e ributtato violentemente sul cemento.
P.
Kolbe non chiedeva nulla non si lamentava, restava in fondo seduto,
appoggiato alla parete. Gli stessi soldati lo guardavano con rispetto. Poi i condannati cominciarono a morire; dopo
due settimane erano vivi solamente in quattro con P. Kolbe. Per
costringerli a morire, il 14 agosto, venne fatta loro una iniezione di
acido fenico al braccio sinistro. Era la vigilia di una delle feste
mariane che Massimiliano amava di più: l'Assunta, a cui cantava sempre
volentieri quella lauda popolare che dice: " Andrò a vederla, un dì! ".
"
Quando aprii la porta di ferro, è il suo carceriere che racconta, non
viveva più; ma mi si presentava come se fosse vivo. Ancora appoggiato al
muro. La faccia era raggiante in modo insolito. Gli occhi largamente
aperti e concentrati in un punto. Tutta la figura come in estasi. Non lo
dimenticherò mai ".
Giovanni Paolo Il, predicando ad Auschwitz, ha detto:
"
In questo luogo che fu costruito per la negazione della fede, della
fede in Dio e della fede nell'uomo, e per calpestare radicalmente non
soltanto l'amore ma tutti i segni della dignità umana, dell'umanità,
quell'uomo (il P. Kolbe) ha riportato la vittoria mediante l'amore e la
fede".
P.
Kolbe ha dimostrato, in forza della sua fede, che l'uomo può creare
abissi di dolore ma non può evitare che essi siano inabitati dal
Crocifisso e dal mistero del Suo amore sofferente, che si riattualizza,
che autonomamente e con forza inarrestabile decide di farsi " presene ".
Fu soprattutto per questa decisione di Cristo che Fritsch, contro se
stesso, dovette " accettare " lo scambio.
Due
sono gli insegnamenti che ci restano contemplando il volto di P. Kolbe:
uno torna dal suo martirio alla sua vita, l'altro va dalla sua vita al
suo martirio.
Nel
primo insegnamento P. Kolbe ci dice che rispondere alla disumanità con
l'offerta e il sacrificio di sé non è la risposta di chi non sa fare
altro, di chi si rassegna e cede all'oppressore, di chi attende tutto
dall'al-di-là e perciò può subire.
P.
Kolbe ha dato la vita, accettando di morire, dopo che aveva spese tutte
le sue energie per la costruzione di un mondo diverso, di un mondo
nuovo, di un centuplo quaggiù. Il martirio non fu una fuga devota. Fu la
pienezza della sua energia vitale.
Nel
secondo insegnamento P. Kolbe ci dice che la stoffa di cui sono fatti i
martiri non è quella di chi nella sua vita si è divertito col
pluralismo e con l'irenismo ad ogni costo, anche se li chiama " dialogo "
ed " ecumenismo ".
Esiste
certamente un modo giusto di considerare questi valori (che è il modo
della carità, non della perdita di identità), ma tante volte essi sono
soltanto usati per preservarsi, per non dovere " dare la vita ".
P.
Kolbe definiva la fede con una nettezza impressionante, e con
altrettanta decisione la propagandava e la voleva incarnare in tutti gli
spazi della vita culturale e sociale; e seppe avere tanta carità da
essere il primo " martire della carità ". Proprio con questo titolo, mai
utilizzato prima, è stato canonizzato da Giovanni Paolo lI
Ma
chi, in nome di una pretesa carità cristiana, annacqua la fede e la
rende culturalmente inincidente e irrilevante nella storia è sicuro
d'avere proprio quella carità che abilita a dare la vita?
Questa
è la domanda seria che discrimina tutti gli atteggiamenti dei cristiani
e li giudica. La fede e la carità esigono, ambedue, forza e decisione, e
crescono assieme con lo stesso coraggio.
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Postato da: giacabi a 23:46 |
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santi, kolbe
SANT’ERMANNO LO STORPIO
*
*
Scorrendo
un calendario in tedesco, mi imbatto, il 24 di settembre, in Hermann
der Lahme, Ermanno lo storpio, che non penso molti conoscano.
È un monaco vissuto nella prima metà dell’XI secolo nel monastero di Reichenau, sul lago di Costanza, quasi certamente compositore del Salve Regina, e siccome mi appresto a scrivere questo testo nel mese di ottobre, quando il Papa ha appena promulgato l’anno del Rosario e proposto i Misteri della luce, penso che sia bello offrire all’attenzione dei lettori questa figura che ci insegna come il dolore non sia necessariamente infelicità. Vediamo perché... “Il 18 luglio dell’anno 1013 Eltrude, sposa di Goffredo, conte di Altshausen in Svevia, diede alla luce un figlio maschio. Gli sposi appartenevano entrambi a nobilissime famiglie e nomi di gentiluomini, di crociati e di alti prelati si ripetono continuamente nei loro alberi genealogici. Eppure di nessuno di costoro si è serbata durevole memoria, salvo che del piccolo essere che venne al mondo orribilmente deforme. Fu soprannominato ‘il Rattrappito’, tanto era storto e contratto: non poteva star ritto, tanto meno camminare; stentava perfino a star seduto nella sedia che era stata fatta appositamente per lui; le sue dita stesse erano troppo deboli e rattratte per scrivere; le labbra e il palato erano deformati al punto che le sue parole uscivano stentate e difficili ad intendersi.” Questo è l’inizio della storia, che evidentemente mi colpì molto quando, alla fine degli anni sessanta, ci fu proposta come riflessione in una vacanza di studio. Ma ancora di più, il seguito suscita stupore. ”In un mondo pagano egli sarebbe stato, senza esitazione di sorta, lasciato morire all’atto stesso della nascita. I pagani d’oggi, soprattutto quando si dica loro che il piccolo Ermanno era uno dei quindici figli, dichiareranno che non avrebbe mai dovuto nascere; se poi diventano ancor più razionali, affermeranno che un simile aborto avrebbe dovuto essere eliminato senza dolore. E lo ripeterebbero con calore ancora maggiore quando aggiungerò che i competenti di novecento anni fa lo dichiararono anche‚ deficiente.” Martindale scrive intorno al 1950. E noi cosa diremmo?... “Che cosa fecero quei poveretti ancor sommersi in quelle che abbiamo la faccia tosta di chiamare le ‘tenebre del medioevo’? Lo mandarono in un monastero e pregarono per lui.” La salvezza Considerata con occhi superficiali, questa decisione sembrerebbe assurda, ma vediamo come prosegue la storia. Dobbiamo intanto tener presente che “erano stati i monasteri a raccogliere e a sviluppare tutto quanto era stato possibile dell’antica cultura. In Germania la cultura del passato veniva non soltanto dal sud latino, ma anche dall’Inghilterra e, certamente dall’Irlanda. Inoltre essa era largamente diffusa tra il popolo. (...) C’erano traduzioni in tedesco dei vangeli, nelle chiese si predicava in tedesco e si può dire che tutti i grandi nomi delle letterature latina e greca giungevano, attraverso il pulpito, all’orecchio di tutti. Le fonti erano sempre (occorre dirlo?) i monasteri, - quali San Gallo, Fulda, Reichenau, che raccoglievano grandi biblioteche, nonché le scuole che seguivano l’imperatore. (...) Fu in uno di tali monasteri che venne mandato il mostriciattolo deficiente.” “Reichenau sorgeva in una deliziosa isoletta nel lago di Costanza, dove il Reno corre impetuoso verso le sue cateratte. Il monastero era stato fondato prima di Carlo Magno - esisteva cioè da più di duecento anni. Sulla strada maestra, sulla riva di fronte, transitavano continuamente viaggiatori italiani, greci, irlandesi e islandesi. Le sue mura ospitavano dotti famosi e una scuola di pittura. (...) Qui il ragazzo crebbe. Qui il ragazzo che poteva a mala pena biascicare poche parole con la sua lingua inceppata, trovò, chissà in virtù di quale psicoterapia religiosa, che la sua mente si apriva. Neppure per un solo istante, durante tutta la sua vita, egli può essersi sentito ‘comodo’ o, per lo meno, liberato da ogni dolore: quali sono tuttavia gli aggettivi che vediamo affollarsi intorno a lui nelle pagine degli antichi cronisti? Li traduco dalla biografia in latino: piacevole, amichevole, conversevole; sempre ridente; tollerante; gaio; sforzandosi in ogni occasione - ah, ecco una parola di difficile traduzione - di essere galantuomo con tutti, mi pare che sarebbe il nostro modo di esprimerci, oggi. Con il risultato che tutti gli volevano bene. Gli studi nel monastero: scienze...
E frattanto quel coraggioso giovinetto - che,
ricordate non era mai comodo, né seduto su una sedia, né sdraiato su un
letto - imparò la matematica, il greco, il latino, l’arabo,
l’astronomia e la musica. Scrisse un intero trattato sugli astrolabi
(...) e nella prefazione scrisse: ‘Ermanno, l’infimo dei poveretti di
Cristo e dei filosofi dilettanti, il seguace più lento di un ciuco,
anzi, di una lumaca (...) è stato indotto dalle preghiere di molti amici
(già, tutti gli volevano bene!) a scrivere questo trattato
scientifico’. Aveva sempre cercato di risparmiarsi lo sforzo, con ogni
sorta di pretesto, ma, in realtà, soltanto a causa della sua ‘massiccia
pigrizia’; tuttavia finalmente poteva offrire, all’amico al quale il
libro è dedicato, la teoria della cosa, e aggiungeva che, se l’amico
l’avesse gradito, avrebbe cercato, in seguito di svilupparlo su linee
pratiche e più particolareggiate. E, lo credereste, con quelle sue dita
tutte rattrappite, l’indomabile giovane riuscì a fare astrolabi, e
orologi e strumenti musicali. Mai vinto, mai ozioso!
...musica ... In quanto alla musica - magari i nostri coristi d’oggi leggessero le sue parole! - egli afferma che un buon musico dovrebbe essere capace di comporre un motivo passabile, o almeno di giudicarlo, e poi di cantarlo. In generale i cantori, egli dice, si curano del terzo punto soltanto, e non pensano mai. Essi cantano, o, per meglio dire, si sgolano, senza rendersi conto che nessuno può cantar bene se la sua mente non è in armonia con la sua voce. Per tali cantanti da strapazzo una voce forte è tutto ciò che conta. Il che è peggio di ciò che fanno i ciuchi i quali, dopotutto, fanno assai più rumore, ma non alterano mai un raglio con un muggito. Nessuno tollera, egli dice, gli errori di grammatica; tuttavia le regole della grammatica sono artificiali mentre ‘la musica sgorga diritta dalla natura’ e in essa non soltanto gli uomini non correggono gli errori che commettono, ma giungono fino al punto di sostenerli... Come si vede, l’allegro piccolo storpio sapeva, all’occorrenza, usare un linguaggio assai caustico! È peraltro quasi certo che egli fu il compositore dello stupendo inno Salve Regina (con quella sua caratteristica melodia in canto fermo che ancor oggi si canta in tutte le chiese cattoliche del mondo), dell’Alma Redemptoris e di alcuni altri. ... storia. Ma oltre a questo, Ermanno, dotato di un cervello straordinariamente attivo e vigoroso, e che era a conoscenza di tutte le tradizioni delle più importanti famiglie del suo tempo ed aveva accesso a molti libri antichi che noi non conosciamo a causa delle distruzioni che in anni successivi dispersero e rovinarono le biblioteche degli antichi monasteri, scrisse un Chronicon di storia del mondo, dalla nascita di Cristo al tempo suo. Si sa che l’opera si meritò le lodi dei competenti del tempo, che la giudicarono straordinariamente accurata, fondata naturalmente sulle tradizioni, ma tuttavia obiettiva e originale. Eccovi dunque il monacello storpio, chiuso nella sua cella, ma desto, vivo, con gli occhi spalancati a seguire la scena del mondo esterno eppure non mai cinico, non mai crudele (è così frequente il caso che la sofferenza generi crudeltà) e capace di tracciare un quadro completo delle correnti della vita in Europa.” Ci avviamo verso la conclusione di questa sorprendente storia, che racchiude in sé il contrasto tra la concretezza e la sofferenza da una parte e la bellezza e l’apertura verso l’infinito dall’altra: una vita reale. Venne il momento di morire Lascio al suo amico e biografo Bertoldo di parlarci di questo. ‘Quando alfine l’amorevole benignità del Signore si degnò di liberare la sua santa anima dalla tediosa prigione del mondo, egli fu assalito dalla pleurite e trascorse quasi dieci giorni in continue e forti tribolazioni. Alfine un giorno, nelle prime ore del mattino, subito dopo la santa messa, io, che egli considerava il suo più intimo amico, mi recai da lui e gli chiesi se si sentisse un poco meglio: <>’. Riferisce poi il cronista che il paziente gli disse che la notte precedente gli era parso di essere intento a rileggere quel famoso Hortensius di Cicerone con le molte sagge osservazioni sul bene e sul male, e gli erano ripassate per la mente tutte le cose che egli stesso aveva avuto in animo di scrivere su quello stesso argomento. ‘E sotto la forte ispirazione di quella lettura, tutto il mondo presente e tutto ciò che ad esso appartiene - questa stessa vita mortale era divenuta meschina e tediosa e, d’altra parte, “il mondo futuro, che non avrà termine, e quella vita eterna, sono divenuti indicibilmente desiderabili e cari, così che io considero tutte queste cose passeggere non più dell’impalpabile calugine del cardo. Sono stanco di vivere”. All’udire queste parole di Ermanno, Bertoldo non seppe più trattenersi e, dice ‘ruppi in grida scomposte e pianti! Ma Ermanno dopo un poco tutto indignato mi rimproverò, tremando un poco per l’ira e guardandomi di sottecchi con aria di meraviglia: “Amico del mio cuore, diss’egli, non piangere, non piangere per me!” Dopo di che chiese a Bertoldo di prendere le tavolette per scrivere onde annotare alcune ultime cose. “E, aggiunse il morente, ricordando ogni giorno che anche tu dovrai morire preparati con ogni energia per intraprendere lo stesso viaggio, poiché, in un giorno e in un’ora che tu noi sai, verrai con me - con me, il tuo caro, caro amico.” E furono queste le sue ultime parole. Ermanno morì, circondato dagli amici, dopo aver ricevuto il corpo e il sangue di Cristo nella santa comunione, il 24 settembre del 1054 e fu seppellito - oscuro monacello ch’egli era stato - ‘in mezzo a grandi lamenti’ nei suoi possedimenti di Altshausen ai quali aveva rinunciato da così lungo tempo.” E Martindale così conclude: “La prima volta che mi venne tra le mani questa sua Vita in un veccchio testo latino tutto accartocciato, nella biblioteca di Oxford, fu, per me, come se una ventata di aria purissima fosse penetrata a disperdere l’atmosfera stagnante della stanza (...). Poiché
*
*
*
Alma Redemptoris Mater
Alma Redemptóris Mater
quae pérvia coeli porta manes, et stella maris, succúrre cadénti, súrgere qui curat, pópulo: tu quæ genuísti, natura miránte, tuum sanctum Genitórem, Virgo prius ac postérius, Gabriélis ab ore Sumens illud Ave, peccatórum miserére O santa Madre del Redentore
.
O santa Madre del Redentore,
porta del cielo sempre aperta, stella del mare, soccorri un popolo decaduto, che desidera risorgere, tu, che nello stupore della natura, generasti il tuo Genitore, tu, vergine prima e dopo, che dalla bocca di Gabriele udisti quell'Ave, abbi pietà dei peccatori. |
Postato da: giacabi a 20:08 |
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santi, ermanno lo storpio
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Il venerabile Matteo Talbot
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Ex alcolizzato cronico
Da: http://www.preghiereagesuemaria.it/bambini/strade%20nuove%20con%20la%20mamma.htm
.
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Dublino, inizio della seconda metà del secolo XIX. La famiglia Talbot, dal padre ai figli, era «consacrata» a bere. Il
padre, Charles Talbot, 33-enne, basso di statura, gran lavoratore del
porto, beveva molto, almeno nel fine-settimana, meglio ancora tutti i
giorni.
|
I
figli, 12, nei primi vent'anni di matrimonio di Charles con Elizabeth
Bagnall, quelli che riuscirono a crescere e a farsi adulti, furono gran
lavoratori, ed insieme bevitori potenti, implacabili.
|
Solo John e la madre facevano eccezione. La
mamma, Elisabeth, era una donna meravigliosa, fervente cristiana,
capace di sacrificarsi come una martire antica, ricca dell'indomabile
forza che è la preghiera.
|
Da quella famiglia, meglio sarebbe dire: dà quella tribù irlandese, nacque il sabato 3 maggio 1856 Matteo Talbot. Nella sua famiglia poté trovare quel che abbiamo detto: povertà, lavoro, vino, ubriacature solenni... e la fede della madre.
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Un loro conoscente diceva:
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«Questionavano sempre. Al sabato, quando avevano strabevuto, era un cozzare di contrasti». Una famiglia di spugne assorbenti vino e poi ancora vino.
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Bacco dominava incontrastato. Schiavo del bicchiere
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Andare
a scuola non era obbligato. Le scuole nazionali erano anticattoliche.
Perciò molti cattolici non mandavano a scuola i loro rampolli.
Esistevano però della scuolette per ragazzi poveri.
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Matteo
- detto Matt, familiarmente - crebbe libero e vagabondo fino a undici
anni. Il 6 maggio 1867 fu mandato a scuola: vi imparò a leggere e a
scrivere, un po' di grammatica e di aritmetica, ebbe istruzione
religiosa e fu preparato a ricevere i sacramenti.
|
Cominciata la scuola a maggio, Matt imparò la prima poesia: era dedicata alla Madonna e diceva così:
|
O
Madre di bontà, di giorno in giorno di più col cuore mio ti voglio
amare, tu spargi i doni tutto a me dintorno come la sabbia in riva al
nostro mar. Anche se povertà, fatiche, affanni faran pesar la vita su di
me, chi non lo sa che fra i peggiori danni il buio è la luce per chi
ama Te?
|
Matt
cantava con amore gli inni della Madonna, specialmente quando i
ragazzini si radunavano insieme al suono dell'Angelus a mezzogiorno. La
mamma gli aveva insegnato ad amare Maria. Ma nel resto non si impegnava.
Il maestro, sul registro, scrisse una nota triste: «A Mitcher» cioè
«poltrone».
|
Cresciuto libero e selvaggio fino a undici anni, preferiva marinare la scuola. C'era più gusto. Là dentro, in fondo, era una prigione.
|
L'anno dopo fu mandato a lavorare, piccolo incauto dodicenne. Il padre lo impiegò in un magazzino di vini e di birra. Dopo poco tempo, Matt sentiva una voglia pazzesca di bere. E cominciò a bere allegramente.
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A 16 anni, Matt era un alcoolizzato cronico che non si interessava più di nulla, né di feste, né di giochi o balli: solo il bere era per lui interessante.
|
Lavorava senza risparmiarsi. Guadagnava discretamente, ma «beveva» quasi tutto. Anzi faceva debiti per bere. Vendette persino scarpe e camicia, pur di avere soldi per bere.
Tuttavia aveva ancora un certo senso della dignità personale: non era
volgare, era ancora affettuoso e delicato con mamma e sorelle.
|
A suo modo, continuava ad essere devoto del
|
La
mamma però non disperava di recuperare quel ragazzo. La gente del luogo
diceva: «Povero Matt, va diritto al diavolo». La mamma gli sbarrava la
strada con una siepe di Rosari, sempre più spessa.
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Eppure Matt fu un ubriacone fino a 28 anni. Un sabato del 1884 non aveva avuto lavoro quella settimana.
|
Era senza soldi: Sperava che gli amici lo invitassero a bere. Il bar era di fronte a lui, seducente. Ma nessuno dei suoi amici si fermò per farlo bere. Lo deridevano allegramente: «Toh, vedilo, l'ubriaco, oggi a bocca asciutta! ».
|
Matt
andò barcollante fino al parapetto del ponte sul fiume. Provava
vergogna di se stesso. Guardò un po' l'acqua che scorreva: veloce e
scura del fiume Liffey. Tentato suicidio? Nessuno può dirlo... Si
allontanò dal fiume e andò a casa, facendo gesti da rivoluzionario. Era
ora di finirla con quella vita disumana. Si sarebbe tolto a viva forza,
ce l'avrebbe fatta sarebbe riuscito ad essere un uomo normale.
|
Giunto
a casa, la mamma rimase stupitissima: per la prima volta non era
ubriaco: «Già qui, ragazzo mio?» gli disse. «Sì, mamma» - rispose.
Rimase in casa anche dopo pranzo, poi disse alla madre: «Vado a fare voto di non bere più».
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Si recò da Padre Keane, docente del seminario di Dublino. Si confessò e chiese di fare il voto. Lo fece per tre mesi, come prova. La domenica successiva, Matt andò a Messa e fece, dopo tanti anni,
|
Potevano sembrare parole. Come resistere alla voglia di bere?
|
La
mattina dopo, il lunedì, era alla Messa delle cinque, per essere sul
lavoro alle sei. Da allora fece sempre così, tutti i giorni. Dopo
il lavoro, per fuggire le cattive compagnie, andava in una chiesa
lontana, a pregare fino all'ora di tornare a casa prima di notte.
|
La sorella Susanna diceva: «Matt è diventato un altro! ».
|
La
mamma, trasecolata di gioia, continuava a dire Rosari, perché Maria lo
sostenesse in quella lotta senza quartiere contro l'alcool e la
bestialità. Matt conserverà sempre il ricordo vivissimo che la sua conversione era dovuta ai Rosari sgranati da sua madre, e che era avvenuta di sabato dedicato alla Madonna.
|
Maria,
|
Una vita completamente diversa
|
Ora
era un convertito. D'accordo, ma quanta voglia di bere aveva ancora in
corpo! Una voglia strana da strozzarlo. Eppure resisteva con una forza
di volontà da far paura. Non si sentiva solo in quella lotta impari.
Quando provava « sete », fuggiva dai bar come dalla peste, correva
verso la chiesa, vi entrava, andava a mettersi ai piedi del Crocifisso,
pregava: «O Maria, mia buona mamma... ».
|
I
suoi compagni di bevute erano stupiti. Matt era diventato un altro, non
solo perché non beveva più, ma perché voleva liberare gli amici dal
vizio dell'alcool. Un giorno un amico, Pat Doyle, andò a cercarlo per
portarlo al bar. Rifiutò e lo accompagnò, quasi furiosamente, presso una
chiesa e lo affidò ad un sacerdote.
|
Pat si confessò di tutto il suo brutto passato, poi scappò via veloce. Anche lui aveva fatto voto di non bere piu!
|
Da
parte sua, Matt capiva che ora doveva costruire la sua vita in modo
completamente nuovo. La sua istruzione era molto elementare, sapeva
lavorare duro, era irascibile, insomma sembrava un «masso di pietra»
grezzo e spigoloso, ancora tutto da scolpire. Come avrebbe fatto a
«sgrossarsi»?
|
Come prima e più di prima, continuò a lavorare in modo deciso e costante, senza risparmiarsi. Poi riempì
le sue giornate di letture spirituali, per istruirsi a fondo nella
fede, di preghiera quasi ininterrotta, di penitenza, come un antico
eremita. Il cuore, con il passare del tempo, gli ardeva di un amore
fortissimo al Cristo e a Sua Madre. Questo amore lo trasformava dentro e
fuori.
|
Dal maggio del 1884 aveva un lavoro fisso, a cui fu così fedele da meritarsi il titolo del «migliore lavoratore di Dublino». La sua giornata, piena di lavoro, si apriva alle 5, prima dello spuntare del sole, con
|
Il
sabato pomeriggio e la domenica, libero dal lavoro, li trascorreva
inginocchiato, davanti al tabernacolo, in lunghe, interminabili ore di
preghiera eucaristica. A
volte, nei primi tempi, la sua voglia di bere ruggiva in petto. Fu
tentato fortemente di rompere il voto, ma resistette, ed allora rinnovò
il voto per altri sei mesi, poi per un anno, infine per tutta la vita.
|
La
mamma, felice perché quel suo figlio «che era morto, ora era tornato in
vita», lo sosteneva a resistere e lo affidava continuamente alla
Madonna.
|
Dopo
la sua conversione, andò ad abitare in una stanza da solo, vicino alla
sorella Maria. La buona sorella testimonierà un giorno che Matt dormiva su un tavolaccio con ún tronco per guanciale.
E che pregava sempre, quando era in casa. Voleva essere povero come
Gesù. Nella stanza poverissima, non c'era che un letto di ferro, un
tavolo, una sedia, un Crocifisso. Si disfece di tutto. Si privò anche del fumo, oltre che del vino e della birra: e questo per lo stomaco di ex-alcoolizzato è un vero prodigio.
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Dentro
di lui cresceva l'amore verso il Cristo ed è questo che conta. Si
mortificava per amare di più, per essere più libero per il suo Dio, per
rassomigliare di più al suo Signore Crocifisso.
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Penitenza
per liberarsi dal vino e da ogni legame con il negativo o il
superfluo. Un tempo ebbro di vino, ora «ebbro di Dio», per il quale
incatenava il suo corpo e trovava la libertà più vera. A noi non è
chiesto di imitare la sua mortificazione se questa non è la nostra
vocazione, ma a tutti è dato di imitare il suo amore al Cristo e la sua
devozione filiale alla Madonna Santissima.
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E Matt visse così per anni, passando di luce in luce...
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Burlone e amico di tutti
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Severo con se stesso, si scioglieva in tenerezza con gli altri. Tra i suoi compagni
di lavoro, non solo era gentile, pronto sempre ad aiutare chiunque in
qualsiasi difficoltà, ma aveva sempre la barzelletta pronta, la battuta
allegra per incoraggiare o sbloccare una situazione difficile e aspra.
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Era
sempre felice, di un'intima gioia. Parlava con schiettezza, teneva
fede, e pretendeva che lo facessero con lui, alla parola data. Prestava
denaro, voleva che gli fosse restituito... per poterlo donare con
generosità, perché lui era fin troppo ricco di Dio!
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Nel
1909 cambiò lavoro e passò presso i Martin, commercianti di legnami da
costruzione, perché con il loro orario aveva più tempo per leggere,
pregare, vivere la sua unione con Dio. Era
diventato popolarissimo tra gli altri lavoratori che, benché rudi, lo
stimavano per la sua laboriosità, il buono umore, la vita santa che
conduceva.
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Alla
sera, quando il lavoro cessava, accompagnava a casa i suoi compagni di
lavoro e, durante il percorso, li invitava ad una visita in chiesa, per
pregare Gesù nell'Eucarestia, e la «sua» Regina,
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Per conto suo era un eremita; con gli altri era migliore di un fratello.
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Laico «consacrato»
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Ancora
giovane ebbe una proposta di fidanzamento. Una ragazza che lo stimava,
piuttosto ricca, gli propose il matrimonio: sarebbe stata felice con
lui. Matt volle riflettere e fece una novena alla Madonna per essere
illuminato sul suo futuro. Aveva allora solo trent'anni ed era molto
equilibrato rispetto alla vita sregolata condotta prima.
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Alla buona ragazza, disse di no: era stata
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Il
18 ottobre 1891 entrò nel Terz'Ordine di S. Francesco, prendendo il
nome di «Fra Giuseppe». Si iscrisse pure all'Associazione di Maria
Immacolata e cercava di portarvi anche altri.
Proprio presso l'associazione mariana, parlava in quegli anni il Padre
gesuita Toni Murphy sui grandi problemi della fede. Matt ne era
entusiasta e s'industriava di portare i suoi amici ad ascoltare la
parola di quel grande uomo.
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Un'attività
notevole come la sua, non poteva certo reggersi sul nulla. Gli era
necessaria una vita interiore ricchissima e insieme anche una
preparazione culturale, religiosa, cristiana, capace di attrezzarlo ad
essere un valido testimone di Cristo.
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Matt diventò per questo un formidabile ed acuto divoratore di libri.
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Leggeva assiduamente
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Lesse
altresì molti libri di spiritualità di ottimi autori e libri di
teologia, così da apparire esperto in questioni religiose. Approfondì le
questioni della società e del lavoro nel suo tempo. Molti compagni lo
consultavano e ne ricevevano risposte esaurienti. Un giorno un compagno
gli pose un problema difficile... e Matt si procurò un libro facendolo
arrivare da New York, spendendo lo stipendio di una settimana, pur di
poter rispondere con competenza.
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Appassionato dalla santità, desideroso di arrivarci, lesse numerose vite di santi, tra i quali si sentiva «a casa sua».
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Nel
mondo del lavoro, seppe essere vicino ai compagni, condividendo
problemi e fatiche. Di loro, del loro benessere, si interessava con un
senso vivissimo dell'amicizia.
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Un
giorno, uno dei direttori dell'azienda gli domandò: «Il tale è arrivato
in ritardo?». Gli rispose Matt: «Non desidero di ricevere di queste
domande!» Poi andò a cercare l'amico e gli spiegò: «Non voglio mentire
per coprirti».
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Un'altra
volta una signora vide nella tasca di Matt «un catechismo socialista
del lavoro». Lo accusò di essere marxista. Matt le rispose con parole
di fuoco e la signora capì che quell'uomo era fedelissimo alla Chiesa e
nel medesimo tempo ai lavoratori.
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Un
collega parlò con lui di uno dei proprietari chiamandolo «padrone».
Matt ribattè: «Non è il mio padrone, è solo un datore di lavoro. Io ho
soltanto un Padrone in cielo».
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Nel
1900 gli operai scioperarono, per una causa che Matt ritenne giusta. E
partecipò allo sciopero, senza ritornare al lavoro, fino a quando
pensò bene farlo. Di nuovo scioperò nel 1913. Non badava al proprio
interesse: i suoi colleghi gli misero tra le mani l'indennizzo di
sciopero, ma egli lo passò ai lavoratori più poveri.
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E nelle vertenze di lavoro andava davanti al Tabernacolo a perorare i diritti dei lavoratori.
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«Il cuor ch'elli ebbe»
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Alla
morte di due fratelli, bevitori incorreggibili, Matt pagò lui le spese
per i funerali. Un giorno, prima di convertirsi, aveva rubato il
violino ad un mendicante. Pentito, andò a ricercarlo per restituirgli
tutto. Il pover'uomo, nel frattempo, era morto e Matt fece celebrare per
lui delle Messe.
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Nel
1899 gli morì il padre. Matt andò ad abitare con la mamma che diventò
la testimone della sua profonda conversione. Quando la mamma morì, Matt
la pianse e ne suffragò l'anima con larghezza riconoscente.
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Ad
alcuni compagni di lavoro, volle pagare un giorno un buon paio di
scarpe per ciascuno: ne avevano bisogno. Prestava volentieri il suo
denaro, ma non accettava più la restituzione. Venne una volta un
religioso a far «la questua» nella ditta dei legnami dove lavorava e
Matt gli diede tutto lo stipendio.
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Aiutava i missionari, anzi fece studiare a sue spese alcuni aspiranti alla vita missionaria. Voleva bene ai ragazzi. Thomas
O'Kelly che diventò due volte Presidente dell'Irlanda, da ragazzo, tra
gli otto e i quindici anni conobbe Matt Talbot, quando faceva il
chierichetto. Scrive: «Gli parlai più volte. Ci conosceva e ci chiamava
per nome. Ci dava buoni consigli. Certi ragazzi lo burlavano, ma non se
la prendeva mai. Mai lo vidi adirato, era sempre calmo, sereno».
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Ed
amava la sua patria, l'Irlanda, pregava per la sua libertà, ricordava
nella preghiera i suoi caduti e di essi conservava le foto ritagliate
dai giornali.
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Era diventato l'uomo dell'amore.
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La
sua capacità di amare gli veniva dalla preghiera, intensa,
fervorosissima, prolungata. Tutto il suo tempo libero lo passava in
preghiera.
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Scrive il Presidente O'Kelly: «L'ho visto fare
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Sul lavoro, nei momenti di requie, estraeva di tasca il suo Rosario e pregava
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La
sua chiesa era «S. Francesco Saverio», ma di domenica frequentava
diverse chiese, per partecipare a tante Messe, ognuna secondo
un'intenzione diversa. Il suo secondo direttore spirituale, P. Michael
Hickey, un prete straordinario, lo aiutò a trasformare tutta la sua vita
in preghiera.
|
Si
lasciava guidare: per questo non fu mai strano nelle sue
manifestazioni. Un uomo tutto di Dio, ma sempre gentile, cortese,
profondamente umano.
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«La mia buona Regina»
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Per
tutta la vita Matt si ritenne un «privilegiato» di Maria. Non era
stata lei la buona Mamma che l'aveva aiutato a strapparsi al bere e
l'aveva avviato sulla strada della conversione al Cristo? Dunque, con
Maria, occorreva continuare il cammino.
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La mamma, mentre negli ultimi anni della sua vita, abitava con lui, si alzava di notte per vedere il «suo bambino» che pregava
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Un giorno Matt disse alla sua mamma: «Nessuno sa che buona Regina è Maria per me». Ogni
gesto della sua vita, la preghiera, il digiuno, gli atti di carità, il
lavoro, tutto doveva essere ringraziamento per la conversione che Maria
gli aveva donato. Gli sembrava di non poter mai fare abbastanza per quell'intervento della Madonna nella sua vita.
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Al sabato digiunava in onore della Madonna. Ogni giorno diceva il Rosario intero di quindici decine alla Madonna. Lo testimonia anche il Presidente O'Kelly,
che da ragazzo, vedeva spesso Matt in ginocchio sugli scalini della
chiesa, col Rosario tra le mani, oppure all'altare della Madonna. Allo
stesso modo raccomandava ai ragazzi di dire tutti i giorni il Rosario.
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Parlava della Madonna ai suoi compagni di lavoro. Recitava tutti i giorni l'Angelus.
Viveva unito alla Madonna la sua «vita con Maria»: ne riviveva i
sentimenti, la fede, l'adorazione umile a Dio, il servizio agli uomini.
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«O beata Madre, ottienimi da Gesù di partecipare alla sua follia» - era questa la invocazione prediletta.
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E alla sera si addormentava con una statuina di Maria col Bambino Gesù sul cuore.
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Maria
lo condusse a vivere un lungo ininterrotto «a tu per tu» con Cristo.
Per Lui voleva essere limpido, puro, senza macchia, come l'Immacolata.
Aveva una fame senza limiti di Gesù, Pane della vita, che voleva
ricevere ogni giorno nella Comunione.
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Le
ore libere del lavoro, le trascorreva davanti al Tabernacolo: sempre
davanti al Cristo, con sua Madre, come per una cura di sole che lo
penetrasse tutto e lo riempisse di amore. Arrivò a trascorrere sette
ore della giornata davanti al Tabernacolo.
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Discorreva
un giorno con una signora. Costei le confidò che era sola e desolata
perché suo fratello era andato in America. Matt le rispose: «Sola?!
Come può sentirsi sola con Gesù nel Tabernacolo?».
|
Gesù-Eucarestia era divenuto il centro vivo della sua esistenza.
|
Sulla vetta
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Nel 1921 la sua salute si indebolì. Aveva 64 anni. Fu ricoverato al Mater Hospital. Il dottor
Moore capì che stava curando un santo. Matt si riprese e ricominciò la
scalata verso la santità. La vetta non era più lontana.
|
Nel
1923 fu due volte all'ospedale. Si riprese ancora. Un'altra ricaduta
nel 1925, ma la sua fine sembrava ancora lontana. Lavorava ancora. Il 17
giugno, domenica, festa della Trinità, partecipò al
|
Stramazzò
al suolo, colpito da infarto. Nella zona nessuno lo conosceva. Lo
portarono all'ospedale. Morì quella sera, solo, poverissimo,
sconosciuto. All'indomani la sorella Susanna, non ritrovandolo, andò
all'ospedale e riconobbe la salma. Sui fianchi aveva una catena che gli
stringeva le carni.
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Il manovale di Dublino ora vedeva il volto di Dio e della sua Mamma, felice.
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Il
giovedì seguente, - solennità del Corpus Domini, si svolsero i
funerali. Lo vestirono con il suo abito da Terziario francescano.
Seguirono la sua bara i suoi amici operai, i suoi poveri che lui aveva
aiutato di nascosto, perché solo Dio sapesse.
|
In breve tempo tutta l'Irlanda ne parlava. In soli sei mesi furono venduti centoventimila esemplari della biografia.
|
I
leaders sindacali irlandesi si dissero orgogliosi di porre una lapide
commemorativa dove Matt era vissuto e lo considerarono uno dei
fondatori del loro movimento, anzi «un faro di luce» per tutti i
lavoratori.
|
Dopo
i processi diocesani per sondare la sua fama di santità, iniziati nel
1931, e quelli apostolici a Roma, Papa Paolo VI lo proclamo
«Venerabile», cioè eroico nella sua vita cristiana. Lo stesso Paolo VI
disse ad alcuni pellegrini di Dublino: «Ho letto la vita di Matteo
Talbot; ne sono commosso. È tempo che venga canonizzato. Farò del mio
meglio».
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Matt Talbot, un povero facchino di Dublino, che Maria trasformò in un eroe del Cristo.
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Postato da: giacabi a 13:56 |
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santi, testimonianza, talbot matteo
Santa Ildegarda da Bingen
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Questo immagine si trova in un libro “Storia e visioni di sant’Ildegarda”, http://www.culturacristiana.net/3.strumenti/santi/ildegarda.php una grande santa mistica del XII sec., (è un suo disegno riguardante una delle tante visioni) è la rappresentazione
del mondo con al centro l’uomo. Il mondo è circondato dalle acque come
si riteneva che fosse ma a sua volta è circondato da un abbraccio di
fuoco, che è l’abbraccio amoroso di Gesù. L’uomo è veramente al centro del mondo solo se riconosce che il mondo è dentro l’abbraccio di Dio, della Verità, della Bellezza, della Giustizia, dell’Amore. Solo così veramente l’uomo è al centro del mondo. Altrimenti, come abbiamo potuto constatare in questi ultimi 600 anni, l’uomo dimentico di Dio può combinare solo guai, vedi le ideologie e adesso le manipolazioni genetiche in nome della pseudoscienza.
L'omino di Leonardo XV secolo
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Postato da: giacabi a 15:21 |
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santi, medioevo, cristianesimo
A proposito di San Benedetto
Ho letto questo Interessante articolo di don Luigi Negri, vescovo di San Marino, su San Benedetto che vi propongo:
Introduzione a Benedetto da Norcia
sussidio per la Scuola di Comunità, tratto da Litterae Communionis, anno VII, aprile 1980, p. 20.
"Le invasioni germaniche posero ai cristiani un problema doloroso: dai tempi di Costantino e, soprattutto, di Teodosio, la loro Chiesa si era integrata all'impero e la loro religione era diventata quella di Roma; ecco che ora, sotto la pressione dei barbari, l'impero e Roma vacillano. Che fare? Trincerarsi dietro un angusto nazionalismo e rifiutare ogni contatto con gli invasori? o abbandonare il mondo antico e unirsi ai Germani?
Alcuni uomini risolsero il dilemma. Pensatori come Agostino, nel «De civitate Dei», e Salviano, nel «De gubernatione Dei», trasferirono gli eventi storici in una prospettiva soprannaturale: non si trattava che di una crisi fra le tante che il mondo aveva conosciuto, una crisi di cui i cristiani dovevano comprendere il significato, ma che non poteva turbarli, né arrestarli. Uomini d'azione, come Germano d'Auxerre, continuarono la loro attività quotidiana, senza porsi ansiose domande sull'avvenire, e gli uni e gli altri dettero l'esempio ai loro correligionari. Da romani e da patrioti, questi difesero l'impero agonizzante e, morto, lo piansero; ma «da credenti nella provvidenza del Padre, nella presenza del Figlio e nell'aiuto dello Spirito, non si perdettero in vani rimpianti e si volsero verso il nuovo Occidente».
Nel volgere di tre secoli i loro vescovi, preti e monaci vi compirono un'opera considerevole; conquistarono i singoli, evangelizzarono i Germani ariani o pagani e gli autoctoni, soprattutto le popolazioni rurali, che la Chiesa non aveva ancora raggiunto; poi intrapresero l'opera, meno appariscente ma più difficile, di «cristianizzazione». Nello stesso tempo, intervennero sempre più nella vita collettiva; eredi del genio organizzatore di Roma, aiutarono i regni barbarici a svolgere la loro missione politica; essendo gli unici rappresentanti della cultura, si dedicarono, sostituendo la decadente società civile, all'insegnamento, alle scienze, alle lettere, alle arti. Gettarono così le fondamenta di quell'unità religiosa e spirituale che doveva rivelarsi decisiva per il medioevo".
L. Genicot, «Profilo della civiltà medievale», p. 73-74.
In questa pagina uno dei più grandi storici del medioevo ha indicato con chiarezza la grande sfida che la Chiesa cattolica riceveva dalla storia, nella rovina dell'impero romano e sotto l'incalzare dei nuovi popoli barbari che prendevano, di forza, il loro posto nel mondo di allora. La Chiesa ha saputo raccogliere questa sfida e vi ha risposto, mostrando che la fede sa, per sua natura e per sua forza, generare un mondo di valori umani, una civiltà per l'uomo.
San Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale, è la personalità in cui questa capacità diventa assolutamente esemplare: la sua persona e la sua opera rimangono l'immagine dell'energia che costruisce, lentamente ma irresistibilmente, il mondo cristiano medievale ed, insieme, la civiltà europea. Per San Benedetto la fede è il principio che lo ha chiamato a vita nuova ed ha conferito a lui una personalità nuova: è il principio sintetico capace di fornire i criteri per giudicare e l'intelligenza e la energia per agire. Uomo di fede, cristiano, perciò, prima ancora che romano: ma, proprio per questo, capace di valorizzare pienamente l'esperienza della romanità e di rilanciare il suo genio organizzativo in nuove forme e con nuova responsabilità. In lui è chiaro che la fede illumina la vita e la educa a piena maturità umana, personale e sociale.
Una grande intuizione ha folgorato san Benedetto, e questa intuizione è la chiave di lettura di tutta la sua opera e dell'Europa cristiana che di questa opera è il frutto maturo. L'intuizione che, dalla fede vissuta in Cristo e per la fede vissuta in Cristo, nasce una realtà sociale, una capacità di coinvolgimento umano, una struttura sociale.
Il monastero benedettino è la prima realtà in cui, in modo elementare, si è espressa questa capacità sociale della fede. Nel monastero benedettino, per il fondamento che è la fede, sono accolti tutti, schiavi e liberi, romani e barbari, vincitori e vinti, dotti e indotti; e su quest'unico fondamento può nascere una convivenza che, nel mondo, sarebbe impossibile. Le differenze che nel mondo sono incolmabili e spunto per violenze continue vengono accolte dentro una unità più grande: quella della fede. Dal monastero benedettino tutto il cattolicesimo occidentale impara così la sua dimensione di popolo e la sua incidenza storica.
In questa fraternità «ordinata» avviene un cammino educativo per la persona. Il primo fine della fraternità è l'aiuto a svolgere la certezza della fede fino a giudicare presente e passato. Senza l'amore dei monasteri benedettini per la storia passata i grandi documenti letterari, storici, filosofici, scientifici e artistici del mondo antico non sarebbero stati «fisicamente » salvati, e tutto il mondo antico ed i suoi valori sarebbero naufragati.
Nel convento benedettino si sperimenta che la comunità cristiana è fonte di cultura. La memoria dell'avvenimento di Cristo diviene intelligenza, coscienza morale, personale e sociale. Una fraternità così fondata sulla fede educa la persona ad assumere liberamente la propria responsabilità morale ed a vivere la propria creatività personale.
San Benedetto ha testimoniato a pagani e a barbari, e addirittura ai cristiani, che il cristianesimo non è una dottrina astratta ma è una realtà viva documentabile e storicamente incidente. La fraternità benedettina ha mostrato infatti la capacità di incidenza operativa della fede creando una nuova nozione ed una nuova immagine del lavoro.
L'uomo nuovo cristiano si esprime infatti nel lavoro e il lavoro è la utilizzazione della realtà, spirituale e materiale, libera o determinata, per affermarvi il valore per cui si vive. Mentre il lavoro è per tutto il mondo antico un peso, soprattutto quello manuale, da far fare agli schiavi perché l'uomo libero (il vero cittadino) possa vivere il suo «otium», il mondo cristiano ha operato un rovesciamento radicale. Ogni lavoro (anche quello manuale, anche quello durissimo che sarà realizzato da migliaia di monaci per bonificare l'Europa dalle paludi e per rinnovare il ciclo dell'agricoltura, elemento primario della nuova Europa) è fatto nello spirito di un'offerta intelligente ed appassionata di sé a Dio, che potenzia una dedizione dell'uomo a trasformare le stesse condizioni materiali in cui è chiamato a vivere.
Così il lavoro diventa sintomo di libertà e di creatività. Nel monaco che «prega e lavora», che vive in una comunità di liberi ed uguali eppure in un «ordine» religioso, nel monaco che accoglie con responsabilità ed impegno la grande sfida di quella situazione, l'Europa cristiana contempla il fattore dinamico che l'ha creata.
Dietro l'«ora et labora» benedettino, che è stato per più di mille anni la grande regola intellettuale e morale dell'uomo medievale, sta un profondo suggerimento per il nostro presente e per la nostra responsabilità di cristiani di fronte alla realtà. Di fronte al vecchio mondo anticristiano che sta morendo e ancor più nei confronti del nuovo mondo alla cui costruzione siamo chiamati, come Benedetto, con la forza della fede nel Signore e con l'aiuto della fraternità che da questa fede nasce.
http://www.storialibera.it/epoca_medioevale/monachesimo/introduzione_a_benedetto_da_norcia.html
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