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18 marzo 2012 / In News
Monopolizzano la scena ormai da mesi: la “signora crescita”
e il “signor pil”. E inseguiamo tutti drammaticamente il loro matrimonio. Anche
in queste ore sono al centro delle trattative fra partiti, governo e sindacati.
La politica italiana si è perfino suicidata sull’altare di
questa nuova divinità statistica da cui sembra dipendere il nostro futuro. Se
però alzassimo lo sguardo dalla cronaca dovremmo chiederci: chi è questo
“signor Pil”?
I manuali dicono che è il “valore di beni e servizi finali
prodotti all’interno di un certo Paese in un intervallo di tempo”. Ma fu
proprio l’inventore del Pil, Simon Kuznets, ad affermare che “il benessere di
un Paese non può essere facilmente desunto da un indice del reddito nazionale”.
Lo ha ricordato ieri Marco Girardo, in un bell’articolo su
“Avvenire”, aggiungendo che ormai da decenni economisti e pensatori mettono in
discussione questo parametro: da Nordhaus a Tobin, da Amartya Sen a Stiglitz e
Fitoussi.
KENNEDY
LO SAPEVA
Girardo ha riproposto anche un bell’intervento di Bob
Kennedy, che già nel 1968, tre mesi prima di essere ammazzato nella campagna
presidenziale che lo avrebbe portato alla Casa Bianca, formulò così il nuovo
sogno americano:
“Il
Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra
saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al
nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente
degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo
essere orgogliosi di essere americani”.
Non è una discussione astratta. Infatti con l’esplosione e
lo strapotere della finanza – che nei primi anni Ottanta valeva l’80 per cento
del Pil mondiale e oggi è il 400 per cento di esso – questo “erroneo” Pil è
diventata la forca a cui si impiccano i sistemi economici, il benessere dei
popoli e la sovranità degli stati.
Oggi la ricchezza finanziaria non è più al servizio dell’economia
reale e del benessere generale, ma conta più dell’economia reale e se la
divora, la determina e la sconvolge (e con essa la vita di masse enormi di
persone).
Anche perché ha imposto una globalizzazione selvaggia che
ha messo ko la politica e gli stati e che sta terremotando tutto.
PRIGIONIERI
DELLA FINANZA
La crescita del Pil o la sua decrescita decide il destino
dei popoli, è diventata quasi questione di vita o di morte e tutti – a
cominciare dalla politica, ridotta a vassalla dei mercati finanziari – stanno
appesi a quei numerini.
Dunque le distorsioni e gli errori che erano insiti
nell’originaria definizione del Pil rischiano di diventare giudizi sommari e
sentenze di condanna per i popoli.
Per questo, l’estate scorsa, nel pieno della tempesta
finanziaria che ha investito l’Italia, un
grande pensatore come Zygmunt Bauman, denunciando “un potere, quello
finanziario, totalmente fuori controllo”, descriveva così l’assurdità della
situazione: “C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la
crescita del pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca”.
Nessuno ovviamente può pensare che non si debba cercare la
crescita del Pil (l’idea della decrescita è un suicidio). Il problema è cosa
vuol dire questa “crescita” e come viene calcolata oggi. Qui sta l’assurdo.
Bauman faceva un esempio:
“se lei fa un
incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di
medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile
del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto
antipatriottico perché il pil non cresce. Questo è il tipo di economia che
abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza
scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di
credito”.
Con questa assurda logica – per esempio – fare una guerra
diventa una scelta salutare perché incrementa il pil, mentre avere in un Paese
cento Madre Teresa di Calcutta che soccorrono i diseredati è irrilevante.
Un esempio italiano: avere una solidità delle famiglie o
una rete di volontariato che permettano di far fronte alla crisi non è
minimamente calcolato nel Pil.
Eppure proprio noi, in questi anni, abbiamo visto che una
simile ricchezza, non misurabile con passaggio di denaro, ha attutito dei
drammi sociali che potevano essere dirompenti.
IL
PAPA CI ILLUMINA
Ciò significa che ci sono fattori umani, non calcolabili
nel Pil, che hanno un enorme peso nelle condizioni di vita di una società e
anche nel rilancio della stessa economia.
Perché danno una coesione sociale che il mercato non può
produrre, ma senza la quale non c’è neppure il mercato.
Ecco perché Benedetto XVI nella sua straordinaria enciclica
sociale, “Caritas in Veritate”, uscita nel 2009, nel pieno della crisi
mondiale, ha spiegato che “lo sviluppo economico, sociale e politico, ha
bisogno, se vuole essere autenticamente umano di fare spazio al principio di
gratuità”, alla “logica del dono”.
Ovviamente il Papa non prospetta “l’economia del regalo”.
Il “dono” è tutto ciò che è “gratuito”, non calcolabile e che non si può
produrre: l’intelligenza dell’uomo, l’amore, la fraternità, l’etica, l’arte,
l’unità di una famiglia, la carità, l’educazione, la creatività, la lealtà e la
fiducia, l’inventiva, la storia e la cultura di un popolo, la sua fede
religiosa, la sua laboriosità, la sua speranza.
MIRACOLO
ITALIANO
Se vogliamo guardare alla nostra storia, sono proprio
questi fattori che spiegano come poté verificarsi, nel dopoguerra, quel
“miracolo economico” italiano che stupì il mondo.
Tutti oggi parlano di crescita (e siamo sotto lo zero), ma come fu possibile in Italia, dal 1951 al
1958, avere una crescita media del 5,5 per cento annuo e dal 1958 al 1963
addirittura del 6,3 per cento annuo?
Non c’erano né Monti, né la Fornero al governo. Chiediamoci
come fu possibile che un Paese sottosviluppato e devastato dalla guerra
balzasse, in pochi anni, alla vetta dei Paesi più sviluppati del mondo.
Dal
1952 al 1970 il reddito medio degli italiani crebbe più del 130 per cento,
quattro volte più di Francia e Inghilterra, rispettivamente al 30 e al 32 per
cento (se assumiamo che fosse 100 il reddito medio del 1952, nel 1970 noi
eravamo a 234,1).
E’ vero che avemmo il Piano Marshall, ma anche gli altri lo
ebbero. Inoltre noi non avevamo né materie prime, né capitali, né fonti
energetiche. Eravamo usciti distrutti e perdenti da una dittatura e da una
guerra e avevamo il più forte Pc d’occidente che ci rendeva molto fragili.
Quale fu dunque la nostra forza?
E’ – in forme storiche diverse – la stessa che produsse i
momenti più alti della nostra storia, la Firenze di Dante o il Rinascimento che
ha illuminato il mondo, l’Europa dei monaci, degli ospedali e delle università:
il cristianesimo. Pure la moderna scienza economica ha le fondamenta nel
pensiero cristiano, dalla scuola francescana del XIV secolo alla scuola di
Salamanca del XVI.
Noi c’illudiamo che il nostro Pil torni a crescere se
imiteremo la Cina. Ma la Cina – anzi la Cindia – non fa che fabbricare, in un
sistema semi-schiavistico (quindi a prezzi stracciati), secondo un “know how”
del capitalismo che è occidentale. Scienza, tecnologia ed economia sono
occidentali. L’Oriente copia.
ECCO
IL SEGRETO
Proprio l’Accademia
delle scienze sociali di Pechino, richiesta dal regime di “spiegare
il successo, anzi la superiorità dell’Occidente su tutto il mondo”, nel 2002,
scrisse nel suo rapporto: “Abbiamo studiato tutto ciò che è stato possibile dal
punto di vista storico, politico, economico e culturale”.
Scartate la superiorità delle armi, poi del sistema
politico, si concentrarono sul sistema economico: “negli ultimi venti anni”
scrissero “abbiamo compreso che il
cuore della vostra cultura è la vostra religione: il cristianesimo. Questa è la
ragione per cui l’Occidente è stato così potente. Il fondamento morale
cristiano della vita sociale e culturale è ciò che ha reso possibile la
comparsa del capitalismo e poi la riuscita transizione alla vita democratica.
Non abbiamo alcun dubbio”.
Loro lo sanno. Noi non più.
Antonio Socci da: QUI.
Da “Libero”, 18 marzo 2012
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