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sabato 24 marzo 2012

TESTIMONIANZA ALESSANDRO D'AVENIA


 TESTIMONIANZA ALESSANDRO D'AVENIA
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Carissimi amici, mi sono permessa di sbobbinare, in modo da poter condividere con voi, le parole del professore e scrittore Alessandro D'Avenia, in occasione di un raduno giovanile del movimento cattolico dei giovani salesiani.
Come sempre, quando il Prof.2.0 parla, lascia un segno e, poichè sono rimasta colpita dalla semplicità (come sempre), con cui riesce a snocciolare concetti fondamentali per l'uomo, mi sembrava opportuno, dare ad ognuno di voi, l'occasione per poter godere della sua immensa umanità e profonda Fede. Ringraziamo il Cielo per averci fatto un dono così grande; un giovane uomo che non ha paura di parlare ai giovani, rivelando loro la Verità.
PS: il linguaggio è rimasto in stile colloquiale, proprio per rispettare la naturalezza e l'immediatezza comunicativa di Alessandro.
 

«Quando avevo 16 anni, una sera son tornato a casa e cercavo come tutti voi, l’ennesima scusa per non fare i compiti. E la miglior scusa è la televisione, cioè almeno ai miei tempi era la televisione. Ho acceso,  e c’era un film, in cui un insegnante, faceva lezione. Quel film era: “L’Attimo Fuggente.” Quella sera ho deciso che sarei diventato insegnante. Però, come capite bene,  pensare a 16 anni di diventare insegnanti è un po’ un sogno da sfortunati; voi usate un altro termine che comincia con S ed F.  E mai avrei pensato oggi di parlare a  6mila ragazzi.
Allora forse, la vostra è l’età giusta per cominciare a sognare un sogno  le cui proporzioni non sono chiare e magari voi avete quel piccolo sogno di fare lezione a 20 ragazzi e poi ne avete di fronte 6mila.
C’è una bambina. Elementari. Questa bambina,  è una bambina di quelle che fanno fatica a concentrarsi, durante le lezioni è sempre distratta. Le maestre non sanno più che fare. C’è solo una lezione in cui questa bambina è a suo agio: la lezione di disegno. La vedi lì intenta con i colori,  a disegnare. Il mondo attorno a lei, sparisce. C’è solo quel foglio di carta ed i suoi colori.
Allora un giorno davanti la lezione di disegno…Se io adesso me ne andassi, voi mi direste: “No, almeno finisci di raccontare la storia!” La forza del racconto. Ma c’è qualcuno a cui raccontare la nostra storia? Lì, fuori, c’è qualcuno?
Torniamo alla bambina: la maestra si avvicina e le chiede:
-“Che stai facendo?”
E la bambina senza distogliere lo sguardo dal foglio, dice: “Sto facendo un ritratto a Dio.”
-“Come un ritratto a Dio? Nessuno l’ha mai visto Dio!”
E la bambina continua a disegnare e risponde alla maestra:
-“Fra pochi minuti, lo vedrete.”
Quando ho sentito raccontare questa storia da una maestra, ho capito una cosa: ciascuno di noi, fin da bambino, sa che della sua vita deve fare un ritratto di Dio. E non lo deve fare inventando qualcosa di strano,  lo deve fare esattamente con le cose che sa fare. Quella bambina ama disegnare e  farà il ritratto di Dio, che nessuno è mai riuscito a fare, ma lei bambina di 7 anni lo sa, con i suoi colori, con la sua carta bianca.
Allora ragazzi, noi siamo su questa terra per fare il ritratto a Dio. La gente nel vedervi deve vedere il volto di Dio.  Ma per fare questo, non bisogna fare cose strane! Bisogna raccontare la propria storia. Allora, la prima domanda che vi faccio è: tu, che storia sei venuto a raccontare?
E quando la mattina ti svegli e ti guardi allo specchio e alla vostra età, lo specchio è la forma più crudele di verità...entri lì, dentro al bagno...già diciamo c'è la grande tragedia della sveglia: suona la sveglia e siamo costretti  a venire alla luce e tutte le volte che veniamo alla luce, ci facciamo un pianto. La prima volta che siamo venuti alla luce, ci siamo fatti un bel pianto, poi mamma ci ha portato alla mammella, abbiamo cominciato a succhiare e abbiam detto: "Mmmh! Tutto sommato, si può fare!"
Allora questo venire alla luce è continuo, succede tutte le mattine e alla vostra età si viene alla luce in una maniera nuovissima, in cui non sono più papà e mamma che mi dicono cosa devo fare.
Io ho un nipotino di due anni che quando cade, aspetta prima di decidere se si è fatto male o meno. Guarda i suoi genitori e se sorridono e sono tranquilli, sorride, se si preoccupano, scoppia a piangere. Pensate ai bambini! Il fatto che lui provi dolore dipende da come mamma e papà lo stanno guardando. E allora, non sarà che noi, per poter raccontare la nostra storia, abbiamo bisogno di un paio di occhi che ci sappiano guardare anche nelle nostre fragilità?
E per la vostra età, questo venire alla luce ha finalmente messo da parte papà e mamma. Tanto che fino a qualche tempo fa, tornavate a casa e raccontavate spontaneamente tutto quello che avete fatto a scuola! Stasera tornerete a casa, la mamma starà cucinando e vi chiederà:
-"Cosa hai fatto oggi?" e voi, in coro, adesso, rispondete:
-"NIENTE!".
Siete in piena adolescenza. Quel niente, è la vostra benedizione, perchè vuol dire che finalmente, vi siete messi alla ricerca di quella parte più interiore, più interna, che finalmente vuole venire alla luce, senza che più mamma e papà gli dicano cosa dire. Vuole farsi carico della propria libertà.
E allora, quando ad un ragazzo chiedi:
-"tu, che storia sei venuto a raccontare?"
Senti un vuoto, lì all'altezza della pancia e tu lo senti quando ti prende.
E allora sei lì, davanti lo specchio, che vorresti quasi mettere le mani dentro lo specchio per modellare la faccia che hai e adattarla alla storia che vuoi raccontare.
Ma purtroppo ti è capitata quella faccia. Ma la cosa bella è proprio avere quella faccia. Allora cominci a farti la cresta, ti fai i pearcing…Io quando vedo entrare in classe un mio alunno con i capelli verdi dico:
- "Oh, finalmente ci siamo! Abbiamo cominciato a fare sul serio!"
Perchè vuol dire che è iniziata quella ricerca, questa libertà che emerge da dentro: io sono venuto a raccontare qualcosa di unico, irripetibile! E vado alla ricerca di qualcuno a cui raccontarlo. Infatti ti svegli la mattina ti guardi allo specchio e il 50% degli uomini pensa:
-"Meno male che c'è lei, che c'è lui.
L'altra metà dice:
-"Speriamo di trovare lei o lui."
Allora quella ricerca di quel "tu" a cui raccontare la storia, è quel "tu" che ci salva,  quel "tu" che avete imparato a dire da bambini ancor prima di "io", avete imparato a dire "mamma" e "papa", prima di dire il vostro nome. Noi impariamo "tu" prima di "io". E finalmente andiamo a cercare lì fuori qualcuno a cui poter raccontare la nostra storia, nella parte anche più fragile.
Cioè noi vogliamo sapere di essere amati non per quello che sappiamo fare, per quello che abbiamo, per come appariamo, ma per quello che siamo in profondità. Tanto che, una delle prime cose che fanno due quando s'innamorano è che cominciano a raccontarsi l'un l'altro. Consegnamo il nostro cuore ad un'altra persona,  con tutti i rischi che questo comporta. Allora "ti do la vita" è radicalmente, qualcosa che abbiamo dentro di noi, perchè quando vogliamo essere amati, vogliamo mettere la nostra vita nelle mani di qualcun altro...Io me lo ricordo ancora.
Primo giorno della IV ginnasio:
-“Miriam...Miriam...”
E così per tutto il primo mese! A ripetere questo nome. Ed il mio migliore amico che mi incoraggiava. No! Quell'estasi per cui tu vorresti che la nostra vita, fosse guardata da quegli occhi e quella tua vita, guardata da quegli occhi, diventa improvvisamente sensata e bella. E' vero che vogliamo tutti questo?!
Infatti, la prima cosa che vogliamo dalla persona di cui ci innamoriamo è la totale sincerità. Sapete, i romani, quando dovevano restaurare le statue che si crepavano a causa del tempo, mettevano nelle crepe della cera, cosicchè non si vedessero quelle ferite delle statue. Le statue particolarmente preziose non venivano riparate, perchè avevano un valore anche con quelle crepe; ed infatti erano statue sine cera: sincere. Noi quando ci lasciamo amare da qualcuno, facciamo vedere le crepe. Allora, ragazzi, viviamo in una società in cui non si può essere men che perfetti ed invece la nostra unicità passa attraverso quelle crepe, per quello che non abbiamo; rispetto a quello che abbiamo. Allora, c'è lì, fuori, qualcuno, che è capace di dirmi "Ti amo" con tanto di crepe che mi porto addosso? Questo cerchiamo. E a questo interlocutore, vogliamo dare la vita. Non ce l'ha spiegato nessuno. E' una cosa talmente radicale che è simile allo sbocciare di una rosa che dispone i propri petali secondo la sezione aurea di un segmento. Ogni rosa fa questo. ogni mattina l'alba torna. Ogni anno la primavera torna. C'è una bellezza nella realtà, inesorabile, inarrestabile, che opera costantemente. Solo che noi non la vediamo più. Abbiamo sempre a che fare con le cose fatte dagli uomini; e invece questa bellezza, inarrestabile, va avanti. Questa bellezza ce l'avete dentro. C'è un passaggio bellissimo del Cantico dei Cantici, in cui l'innamorato, che sta corteggiando l'innamorata, ad un certo punto le dice: "Tu, sei tutta bella". Quando un ragazzo dice ad una ragazza: "Tu sei tutta bella", è veramente innamorato. Attenzione! Non si sta riferendo solo ad un discorso di forme e superfici, anche quello ci sta. Il "tutta" è in ogni tempo: passato, presente, futuro.
C'è qualcuno lì fuori, che mi sappia dire:
-"Tu sei, tutta bella, tutto bello? Sempre e comunque? Perchè se c'è io gli do la vita."
Perchè mi conviene; così come volevo che quel "tu", di cui sono alla ricerca,  diventasse il mio interlocutore perchè io diventassi io. Ma a volte questo ci risulta difficile. Allora vi racconto un’altra storia. Un bambino delle elementari,  si comporta malissimo, fa i dispetti ai propri compagni, dice parolacce ai propri insegnanti e ad un certo punto ruba delle cose e decidono di espellerlo dalla scuola.
Plotone di esecuzione degli insegnanti che lo accompagnano all’uscita.
Questo è un bambino orfano; una maestra, mentre lui esce, scoppia in lacrime, allora lui si ferma e torna indietro, l’abbraccia e le dice:
-“D’ora in poi, mi comporterò bene.
La maestra chiede:
-“Perché?”
-“Perché nessuno aveva mai pianto sulla mia vita.”
Allora, io quello che vi suggerisco, è questo: cercatevi quegli interlocutori che sappiano piangere sulla vostra vita, quegli occhi che vi sappiano dire: “tu sei tutto bello, tu sei tutta bella”.
Io ho avuto la fortuna di avere occhi così, durante il periodo dell’adolescenza, 15, 16, 17 anni e vi racconto solo di tre persone che sono stati questi occhi per me.
I primi: sono i miei genitori. 46 anni di matrimonio, 6 figli, quindi una vita spesa per noi, che si amano tutt’ora come allora. Qualche tempo fa c’era la presentazione di uno dei miei libri a Milano e si sono presentati a sorpresa; cioè tra il pubblico vedo due che assomigliano ai miei genitori, perché erano loro. E loro mi hanno amato così tanto, quand’ero bambino ed adolescente, che mi hanno aiutato a costruire dentro di me questa forza, questo essere tutto bello; ma non perché sono bravo a far le cose, ma  perché sono stato amato profondamente a percepire la mia vita unica ed indistruttibile, come la rosa che esplode e dà tutto il meglio di sé. 
Il secondo: il mio professore di lettere, che mi prestava i suoi libri preferiti, mi confidava il suo segreto di professore: “Alessandro, questo è il mio libro di poesie preferito, te lo presto, me lo restituisci tra tre settimane” ed io che come tutti gli studenti, studiavo una volta sì ed una volta no,  in tre settimane mi leggevo tutto quel libro.
Terza persona: Padre Giuseppe Puglisi, professore di religione del mio liceo.
Un uomo che aveva fatto il ritratto di Dio con il suo corpo e che un giorno appunto, al quarto anno di liceo, non è tornato in classe, perché gli avevano sparato nel quartiere in cui faceva volontariato con i suoi ragazzi. Sapete com’è stato ammazzato? E’ stato ammazzato da un sicario, da un ragazzo che 5 anni dopo s’è pentito ed ha cominciato a collaborare con la giustizia. Sapete cos’ha detto nell’interrogatorio questo assassino?
Ha detto:
-“In questi 5 anni io non mi sono pentito, per il fatto di avere ucciso quell’uomo, ma per la maniera in cui quell’uomo mi ha sorriso quando io stavo per sparargli.”
Allora, voi capite che cos’è fare il ritratto di Dio? E’ dire ad un uomo che ti sta per uccidere:
-“Tu sei tutto bello” .
Quell’uomo ha quel sorriso piantato dentro di sé e sa che è molto di più di quello che sta facendo. Ora, da questi sguardi, da questi ritratti di Dio che io ho ricevuto da persone che facevano semplicemente il loro mestiere: dei genitori, che fanno i genitori,  un professore che faceva un professore,  un sacerdote che faceva il sacerdote,  ho ricevuto quella forza, che mi costringe ogni giorno, con gioia, a dare la vita.
Allora io vi auguro di costruire dentro di voi questo nucleo forte ed indistruttibile, che vi porterà in maniera quasi naturale, spontanea, ad un debito di riconoscenza e a portare quella unicità che siete venuti a portare agli altri. Ma facendo quello che sapete fare.
A me entusiasma, che Nostro Signore ha passato trenta di trentatrè anni  a fare tavoli. Cioè, non è che è venuto a farci la lezioncina dal deserto, un personaggio misterioso dicendo:
-“Ragazzi, vi siete comportati male, adesso vi spiego io come si fa.”
 Per trent’anni ha fatto tavoli, certo…tavoli da…Dio!
Allora, capite che non c’è niente della vostra umanità che rimane fuori da quello sguardo? Perché ha sudato, ha avuto fame, ha piallato, ha riparato, ha fatto tutto quello che ad un uomo è concesso di fare. Per trenta di trentatrè anni. E allora, tutto quello che io ho da fare, ogni giorno…lì, in quelle cose lì, io trovo Dio. Cioè, voi immaginatevi, io trovo Dio nel fare lezione. Io trovo Dio nel preparare una lezione, io parlo con Dio mentre scrivo e quello sguardo che mi guarda in quella maniera di cui dicevamo prima; mi consente di raccontare così la mia storia; tanto che quando la mia storia finirà ed io mi troverò faccia a faccia con Lui, non mi dirà:
-”Ti sei comportato bene?”
No!
Ma: -“Alessandro, sei stato Alessandro?”
Perché il peccato è questo: è non essere se stessi. E ve lo chiederà a ciascuno di voi, e se avrete raccontato la vostra storia, che emerge da dentro di voi, perché in ciascuno di voi ci sono dei talenti che emergono a poco a poco e ci vogliono quegli sguardi che li riconoscano e li facciano fiorire, sarete in Paradiso. Ma perché il Paradiso è già cominciato! Noi ci facciamo questa idea che Inferno, Purgatorio e Paradiso, siano cose che vengono dopo…sono già adesso!
Uno lo può dire:
-“La mia vita è un Paradiso! La mia vita è un’Inferno!” lo diciamo, no?
Finisco, che mi sono già dilungato troppo. Siete chiamati ad essere ritratti di Dio, ma la cosa più divertente di Dio è che nel tentativo di fare il Suo ritratto, attraverso le cose che sai fare, quello che scopri è che il ritratto  l’ha fatto Lui, tu semplicemente gli hai prestato i colori e questa è la libertà. Decidere se prestare i colori a Dio o no.
Voi, noi, ciascuno di noi, è il sogno di Dio e quindi se anche quei “tu” che ci andiamo a cercare ci deluderà; c’è un “Tu” a cui ogni giorno, possiamo raccontare la nostra storia e Lui la rimette a posto. Tu fai uno schizzo sbagliato sulla tua tela e lui usa quello schizzo per fare una cosa ancora più bella.
Dice:
-“Guarda, adesso ti stupisco! Tu l’hai voluta rovinare? Ed io faccio una cosa ancora più bella!” Chiudo con questo, non sono chiacchiere, sono parole della Scrittura, Geremia, lo racconto sempre, il mio personaggio della Bibbia preferito, è un ragazzo che ha un difetto: è balbuziente.
Ad un certo punto Dio lo chiama e gli dice:
-“Geremia, Geremia, ti devo chiedere una cosa, puoi fare il profeta?”
 Geremia:
-“C’è un difettino di fabbrica, non ci potevamo pensare prima?”
A me piace questo senso dell’ironia di Dio, no?! Noi abbiamo sempre questa idea di Dio di con la barba lunga, noioso, invece…grande ironia! Cioè, uno che ha inventato la giraffa! Ditemi voi se non è un comico! Un animale che se beve l’acqua ed alza troppo in fretta il collo, sviene!
Va, beh, allora lo chiama e Geremia dice:
-“Ma io, sono balbuziente, sono un giovane, non sono capace!”
E Dio gli risponde:
-“Geremia, ma io, io ti conoscevo prima che tu entrassi nel grembo di tua madre…”
Sostituite il nome di Geremia col vostro:
-“Alessandro, io ti conoscevo prima che tu entrassi nel grembo di tua madre e tu sei tutto bello. Balbuzie compresa. Perché io adesso ti faccio fare il profeta e tu col fatto che balbetti, non dimenticherai mai che questo è un dono che ti ho dato io. Tu goditela a farlo.”
Geremia è uno che dovrà soffrire per fare questo, ma è conosciuto da Lui prima di entrare nel grembo. I vostri genitori vi hanno voluto e sognato, ma voi siete voluti e pensati da sempre e per sempre.
Ultimo libro della Sacra Scrittura: Apocalisse, cosa dice? Che a ciascuno di noi, quando finirà la nostra vita verrà dato un sassolino bianco, con su scritto il nostro vero nome. Allora quella cosa che vi dicevo prima, che ci verrà chiesto:
-“Sei stato Alessandro?” non è una battuta, non è una finzione, è che finalmente nel volto di Dio, vedremo chi eravamo veramente e tutto il tempo che abbiamo perso, perché ci addormentiamo a non essere noi stessi. 
Lasciatevi attraversare da quello sguardo e vi assicuro, nella mia vita tutte le volte che sono andato in crisi, è bastato rimettersi sotto quello sguardo e poter raccontare di nuovo la mia storia.
Ci sono momenti della vita in cui tu questo arazzo che stai facendo con i fili, con il retro in cui ci sono intrecci e nodi che non si capiscono, poi ad un certo punto, Dio ti chiama e ti dice:
-“Alessandro, vieni dall’altra parte…”
-“Oh, cavolo, stavo facendo quello?! Non lo sapevo!”
E’ che Lui già lo vede! E ci difende e ci protegge da noi stessi. Avete una possibilità: come il giovane ricco, a cui ad un certo punto, prima ancora che Gesù gli dicesse cosa fare c’è scritto: “guardatolo lo amò.”
Gli entra fin dentro al cuore e gli dice: “Tu sei mio.” A quel punto, tocca a lui decidere. Lui se ne andò triste, di lui non sappiamo neanche il nome, è riconosciuto come il giovane ricco, è rimasto un senza nome. Invece chi ha il coraggio e di coraggio ce ne vuole per dire di sì, riceve un nome, quel nome è la sua storia. Così come dice un poeta spagnolo che amo molto: “ Tu mi hai scelto/fu l’amore che scelse/ quando mi hai scelto/mi hai liberato dal nulla.
Dal fatto di non avere un nome.»

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