CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


domenica 4 marzo 2012

Nathanson, eroe pro-life


Nathanson, eroe pro-life






di Marco Respinti 25-02-2012

Il 26 luglio 2011 avrebbe compiuto 85 anni, ma gli è mancato il tempo. Bernard Nathanson è scomparso solo pochi mesi prima, esattamente il 21 febbraio, nell’indifferenza dei più. La sua vita ha avuto però dell’incredibile. «Sono personalmente responsabile di 75mila aborti. Questo mi dà le credenziali per parlavi dell’argomento con autorevolezza». Il suo Confession of an Ex-Abortionist (“Confessione di un ex abortista”), un documentino asciutto, mira al punto, niente fronzoli. Legittimo chiedersi come si sia sentito poi. Perché sì, questo famosissimo medico di New York con la faccia da Woody Allen è stato a lungo un gran macellaio, ma ne è uscito. Rinato. Un uomo diverso che si è messo ventre a terra a ricostruire ciò che aveva disfatto.
Nato nella Grande Mela nel 1926, nel 1949 Nathanson si laureò in Medicina alla McGill University di Montreal, in Canada, nel 1952 ottenne l’abilitazione alla pratica medica dallo Stato di New York; nel 1957 iniziò a esercitare e, infine, nel 1960 ricevette la certificazione in Ostetricia e Ginecologia. Con questa attrezzatura ben temperata, ebreo ateo, Nathanson entrò da professionista nei “Sixties”, cioè il Sessantotto che negli States è durato un decennio, attraversandolo da protagonista: la rivoluzione sessuale, la pillola, il femminismo, la famiglia alle ortiche, il superamento della società borghese, in una parola l’alba di quell’umanesimo nuovo con cui finalmente si prende il destino in mano. Ma era una sfida enorme. Occorreva eliminare nemici antichi. Fu la neolingua a sbrigare molto del lavoro sporco, e “libertà” prese a significare che si poteva far fuori un bimbo nel ventre della sua mamma e che “aborto” si dice “pro-choice” (“per la scelta”). Però non bastava ancora. Occorreva colpirne uno per educarne cento, e Nathanson pensò di educare il mondo dando l’esempio. «A metà degli anni 1960», ha poi ricordato, «misi incinta una donna [...] e non solo le chiesi di porre fine alla gravidanza […] ma freddamente la informai anche che, siccome ero uno dei più capaci esecutori del mestiere, avrei operato io stesso l’aborto. E così feci».

A SCOPO DI LUCRO
Attraverso il Center for Reproductive and Sexual Health di New York, cioè la più grande clinica di aborti della città, che per lungo tempo egli diresse, Nathason industrializzò l’aborto. I famosi suoi 75mila aborti si calcolano in circa 5mila operazioni praticate in prima persona, 10mila supervisionate e le altre 60mila interruzioni di gravidanza praticate dalla sua équipe in quel centro dall’acronimo famoso (gli americani adorano gli acronimi) che suona sfacelo, CRASH.
«La clinica», scriverà Nathanson parecchio dopo, «pagava ai medici 75 dollari per ogni aborto. Nonostante io credessi fermamente, e creda ancora, nella teoria capitalista del libero mercato, quella cifra pareva eccessiva perfino a me. In un turno di otto ore, i medici guadagnavano più di mille dollari, eseguendo due ed a volte anche tre aborti all’ora; alcuni facevano due turni al giorno, raddoppiando così le proprie entrate». Era del resto un «sistema di pagamento basato sul numero degli aborti eseguiti» che «incoraggiava gli abusi. I medici lottavano per accaparrarsi le pazienti paganti, trovavano scuse per non occuparsi di quelle mandate dal Clergy Service con la richiesta di riduzione di tariffa e sparivano del tutto quando dovevano eseguire degli aborti gratis».
A Chicago, nel 1969, durante il First National Conference on Abortion Laws: Modification or Repeal?, svoltosi tra il 14 e il 16 febbraio, Nathanson fu tra i solerti fondatori del NARAL, National Association for the Repeal of Abortion Laws (esiste ancora e, grazie alle vittorie della neolingua, oggi si chiama NARAL-Pro Choice America), ovvero l’Associazione nazionale per l’abrogazione delle leggi sull’aborto che divenne l’ariete per abbattere un intero impianto giuridico. Quello che negli Stati Uniti si fonda sulla “religione” della Dichiarazione d’indipendenza dove «life, liberty and the pursuit of happiness» sono i «diritti inalienabili» dati dal «loro Creatore» a «tutti gli uomini creati uguali», cosa, questa, che l’intero Paese, da sempre, considera «di per sé evidente».

CONTRO LA CHIESA CATTOLICA
Al fianco di Nathanson stava Betty Naomi Goldstein Friedan (1921-2006), la “profetessa” del “neovangelo” intitolato La mistica della femminilità (trad. it., Comunità, Milano 1963), che, diamine!, in traduzione non rende affatto la carica ideoteologica dell’originale, The Feminine Mystique (W.W. Norton and Co., New York 1963). Attraverso quel libro la Friedan fece più lei di chiunque altro per abbattere l’”antico regime”, lanciando poi, nel 1966, il NOW, National Organization of Women, la casamadre del neofemminismo americano. Un nuovo femminismo ideologico, cioè, che ha sepolto definitivamente il femminismo originario delle suffragette vere, da Elizabeth Cady Stanton (1815-1902) a Susan Brownell Anthony (1820-1906), tutte convenientemente arrabbiate quanto immancabilmente antiabortiste e oggi ricordate solo dalle Feminists for Life di Serrin M. Foster.
«Se dobbiamo portare l’aborto fuori dai libri e dentro le strade, dovremo reclutare le femministe. Friedan deve impegnare le sue truppe in questa causa, finché ha ancora il controllo su di esse». Conversava così, Nathanson, sul finire degli anni 1960, con l’amico Lawrence Lader (1920-2006), che la stessa Friedan definì il “padre” del movimento abortista americano. E Larry rincalzava: «… e l’altro obiettivo che dobbiamo raggiungere è quello di far uscire la gerarchia cattolica allo scoperto, per poterla combattere. Quello è il vero nemico. Il più grande e unico ostacolo alla pace e alla decenza, attraverso tutti i secoli». Lader era un tipo tosto, uno che fece causa (perdendo) al Fisco americano poiché consentiva alla Chiesa Cattolica di non pagare certe tasse, che si diede da fare per far rimuovere alcune restrizioni giuridiche all’uso del RU-486 e per farne produrre una variante statunitense, e che il giorno della Festa della mamma riusciva a portare in piazza madri e passeggini per dire che l’aborto ha i medesimi diritti della famiglia.
Fu questa squadra formidabile a regalare agli Stati Uniti quelle sentenza che da allora ha fatto 54 milioni e mezzo di morti (stima ufficiale del mondo filoabortista, diffusa dal Guttmacher Institute) basandosi su una clamorosa menzogna. Il 22 gennaio 1973, infatti, la Corte Suprema, a cui di per sé compete solo la vigilanza sulla costituzionalità delle leggi varate dal Congresso federale, legiferò di testa propria emettendo la sentenza-macigno che chiuse il caso “Roe v. Wade” e cancellò in un colpo solo tutte le clausole di legge a tutela della vita umana nascente esistenti in diversi Stati dell’Unione e certe clausole antiabortiste federali. L’interruzione volontaria della gravidanza diveniva così legale in tutti gli States nel momento in cui la suprema magistratura giuridica del Paese dava ragione alla giovane “Jane Roe”, vittima di uno stupro. O tanto povera e depressa da non potere reggere un figlio. Chi lo sa. Perché nel corso degli anni la versione della querelante cambiò. Cambiò così tanto che ella un giorno rivelò di essersi inventata tutto.

STORIA DI NORMA
La privacy tutelata dal nomignolo “Jane Roe” era quella di Norma Leah Nelson McCorvey, una infanzia impossibile e una vita pure peggio, con anche sangue cajun e cherokee nelle vene, nata Testimone di Geova, a Simmesport, Louisiana, nel 1947, e cresciuta a Houston, Texas. Il padre praticamente non lo conobbe; l’allevò la madre Mildred, alcolista violenta; si sposò, ma le gravidanze erano sempre indesiderate; si separò dal marito Woody e la primogenita Melissa venne data in adozione quando mamma Mildred la buttò fuori di casa il giorno che lei (ancora incinta e single, si era infatti rifugiata dalla genitrice) le disse di essere lesbica. A 21 anni, nel 1969, restò incinta per la terza volta e i suoi amici di Dallas, dove si era stabilita, le consigliarono d’inventarsi uno stupro. Lo fece, ma mancavano le prove e gl’inquirenti le bloccarono l’accesso all’aborto permesso in Texas solo in casi di violenza e incesto. Cercò l’aborto clandestino, ma le cliniche utili erano state chiuse dalle autorità. Ricorse allora a due avvocatesse, Linda N. Cofee e Sarah R. Weddington, la seconda delle quali ha fatto carriera nella Camera dei deputati del Texas con i Democratici, dentro la Casa Bianca di Jimmy Carter come consigliera speciale del presidente e infine con l’insegnamento alla Texas Woman’s University di Denton. Fecero causa al tribunale distrettuale del Texas e dopo tre anni il caso approdò alla Corte Suprema. Nel frattempo il bimbo di “Jane” era nato, era finito pure lui in adozione e da stupro la scusa era divenuta povertà & depressione. L’aborto americano venne insomma legalizzato in ragione di una grande balla detta da una lesbica incinta per giustificare un aborto che non avvenne mai.
Tutto venne fuori nel 1994, quando la McCorvey pubblicò l’autobiografia (con Andy Meisler) I Am Roe: My Life, “Roe v. Wade”, and Freedom of Choice (“Io sono Roe. La mia vita, il ‘Roe v. Wade’ e la libertà di scelta”, HarperCollins, New York). L’outing era però una conversione. L’8 agosto 1995 Norma si fece protestante evangelical e divenne testimonial antiabortista per una delle organizzazioni pro-life più battagliere, Operation Rescue. Mica finita. Nel 1998 fece il bis: pubblicò un nuovo libro (con Gary Thomas), Won by Love: Norma McCorvey, Jane Roe of Roe v. Wade, Speaks Out for the Unborn As She Shares Her New Conviction for Life (“Vinta dall’amore: Norma McCorvey, la Jane Roe del Roe v. Wade, parla apertamente dei non nati rivelando il suo nuovo convincimento a favore della vita”, Thomas Nelson Inc., Nashville) e il 17 agosto si fece cattolica grazie al grande don Frank A. Pavone, allora direttore internazionale di Priests for Life, il fiore all’occhiello della nuova generazione degli antiabortisti americani. Dice Norma che adesso ha chiuso pure con il lesbismo e gira il mondo a gridare che la vita è sacra.

L’URLO SILENZIOSO
Le storie di Norma McCorvey e di Bernard Nathanson corrono parallele, dall’abisso al cielo, ma soprattutto “il caso Roe” non avrebbe stravolto un Paese intero se non fosse stato per il medico abortista di New York.
Al tempo Bernard fu un grande ballista proprio come Norma, un portento nel gonfiare quei numeri dell’aborto clandestino che furono utilissimi alla vigilia della sentenza del 1973. «La cifra vera stava attorno alle 100mila unità, ma noi dicemmo ripetutamente ai media che si trattava di un milione. […] Le donne che morivano ogni anno per gli aborti illegali erano circa 200-250. La cifra che costantemente davamo in pasto ai media era 10mila». E poi «irridevamo sistematicamente la Chiesa Cattolica per le sue “idee socialmente antiquate” […]. Il fatto che altre religioni cristiane e non-cristiane fossero graniticamente contro l’aborto veniva costantemente silenziato assieme alle opinioni degli atei pro-life».
Tutto procedeva insomma a gonfie vele. Ma venne quel giorno degli anni 1970 in cui si scoprirono gli ultrasuoni e allora Nathason poté vedere le fotografie ecografiche dei feti nei ventri delle madri proprio come li vedeva ogni madre. Ebbe un sussulto. Usò la ragione, solo quella, e cominciò a comprendere la tragedia. Stava davanti ai suoi occhi. Nathanson praticava ancora aborti terapeutici, ma il suo mondo scricchiolava sempre di più. Alla fine, come l’Innominato, come l’innominata “Jane Roe” che finalmente scoprì di essere l’io Norma McCorvey, Bernard Nathanson crollò.
L’anno scorso, appena prima che Nathanson rendesse lo spirito, è uscito finalmente anche in Italia un suo contributo enorme alla ragione umana e alla verità delle cose. Era in programma che venisse a presentarlo nella Penisola, declinò l’invito per gravi ragioni di salute e poco dopo spirò. Autore di due documentari e di tre libri, le 400 pagine originariamente uscite nel 1979 del suo Aborting America (“Gli Stati Uniti che abortiscono”, ma lasciato uguale anche in traduzione) sono un calvario che tutti debbono salire. Ci sono pagine grevi, altre che aprono alla speranza (e molte delle citazioni qui utilizzate). In questo libro Nathanson ricorda pure come riuscì a tenere le autorità fuori dal suo famigerato CRASH, in modo che non ne chiudessero i battenti per motivi d’igiene. Scritto con Richard N. Ostling, in edizione italiana curato da Piero Pirovano, con prefazioni di Carlo Casini e Nicola Natale, Aborting America non bucherà mai le vetrine dei rivenditori e quindi bisogna chiederlo direttamente agli editori, gli Amici per la Vita di Milano. È un gran libro, perché lo strumento lì usato per ricusare l’olocausto dell’aborto è puro: la ragione sopra citata.

METÀNOIA
Come quando, nel 1984, Nathason scosse il mondo documentando con la cinepresa l’atto terribile dell’aborto in The Silent Scream, realizzato assieme al Right to Life Committee, che anche da noi è famosissimo come L’urlo silenzioso e che – sia benedetto YouTube – lo si trova dappertutto. Il bimbo nella pancia si muove, reagisce, gesticola. Avverte che qualcosa là fuori sta accadendo. Si schermisce, soffre, alla fine grida e poi muore. Nathanson ha cercato di uscire dall’incubo dei suoi 75mila aborti così. Il documentario fu a suo tempo proiettato persino alla Casa Bianca, alla Casa Bianca di quel Ronald W. Reagan (1911-2004) che un anno prima, nel 1983, aveva inviato un saggio non richiesto alla bellissima The Human Life Review di New York domandando umilmente se interessasse per la pubblicazione, avvenuta, ovvio, subito. S’intitolava Abortion and the Conscience of a Nation (“L’aborto e la coscienza di un Paese”) e in italiano lo abbiamo letto solo quando Reagan morì, nel 2004, sul mensile Studi Cattolici diretto a Milano da Cesare Cavalleri. E che dire di quell’altro documentario, la religione non c’entra, Eclipse of Reason (“Eclisse della ragione”), del 1987, sull’aborto tardivo? L’introduzione è del “mitico” Charlton Heston, che era pro-life.
La ragione, sempre la ragione, il chiodo fisso del Nathanson rinato. Che però un dì ha trovato pure le ragioni di Dio. In The Hand of God: A Journey from Death to Life by the Abortion Doctor Who Changed His Mind, del 1996 (“La mano di Dio: il viaggio dalla morte alla vita del medico abortista che ha cambiato idea”, riedito a Washington da Regnery nel 2001), narra tutto di sé. Di come, alla fine, e proprio in quell’anno, venne ricevuto nella Chiesa Cattolica per merito di don C. John McCloskey III, uno dei sacerdoti più noti dell’Opus Dei negli Stati Uniti, che sembra aver fatto della conversione al cattolicesimo dei conservatori atei o protestanti la propria missione: il senatore Repubblicano Sam Brownbeck, l’economista “liberista” Lawrence Kudlow, il giudice Robert H. Bork e il decano dei giornalisti Robert D. Novak (1931-2009). Ricorda Nathanson in Aborting America che «avendo percorso questo lungo cammino, attraverso la crociata dell’aborto sul finire degli Anni Sessanta e la mia riconsiderazione sul finire degli anni Settanta, sono costretto a riferire che la rivoluzione, che abbiamo sostenuto, era un sogno seducente e fondamentalmente velenoso».
                          
(La Bussola Quotidiana)

Nessun commento: