La Sibilla del Reno
dottore della Chiesa
Ildegarda Bingen, mistica medievale famosa per le sue
profezie riceverà il titolo nell'ottobre del 2012 per volere di Papa Ratzinger
ANdrea tornielli
Ha
paragonato le sue visioni a quelle dei profeti dell’Antico Testamento,
la cita spesso e le ha dedicato due catechesi all’udienza del mercoledì.
L’ha additata come esempio di donna teologa, ne ha lodato i
componimenti musicali tutt’oggi eseguiti, come pure il coraggio che le
faceva tener testa a Federico Barbarossa al quale comunicava ammonimenti
divini. Benedetto XVI è molto legato alla figura di santa Ildegarda di
Bingen e intende proclamarla, nell’ottobre 2012, «dottore della Chiesa»:
un titolo raro e solenne, attribuito a santi che grazie alla loro vita e
ai loro scritti sono stati illuminanti per la dottrina cattolica.La Chiesa ha riconosciuto fino ad oggi 33 «dottori», trenta dei quali uomini. Le donne nell’elenco sono soltanto tre: Teresa d’Avila, Caterina da Siena e Teresina di Lisieux, le prime due proclamate da Paolo VI nel 1970, l’ultima da Giovanni Paolo II nel 1997. Ora Ratzinger vuole aggiungerne una quarta all’elenco, invitando così le donne a seguire l’esempio della mistica renana e a contribuire alla riflessione teologica.
Ildegarda, ultima di dieci fratelli della nobile famiglia dei Vermessheim, nacque nel 1098 a Bermersheim, in Renania, e morì ottantunenne nel 1179. L’etimologia del suo nome significa «colei che è audace in battaglia», una prima profezia che si sarebbe pienamente realizzata. Votata dai suoi genitori alla vita religiosa fin da quando aveva otto anni, si fece benedettina nel monastero di san Disibodo, quindi divenne priora (magistra) della comunità femminile e, visto il numero sempre crescente di aspiranti che bussavano al suo convento, decise di separarsi dal complesso monastico maschile trasferendo la sua comunità a Bingen, dove trascorse il resto della sua vita. Fin da giovane aveva ricevuto visioni mistiche, che faceva mettere per iscritto da una consorella. Temendo che fossero soltanto illusioni, chiese consiglio a san Bernardo di Chiaravalle, che la rassicurò. E nel 1147 ottenne l’approvazione di Papa Eugenio III, che mentre presiedeva un sinodo a Treviri, lesse un testo di Ildegarda. Il Pontefice la autorizzò a scrivere le sue visioni e a parlare in pubblico. La sua fama si diffuse presto: i suoi contemporanei le attribuirono il titolo di «profetessa teutonica» e «Sibilla del Reno».
La mistica, santa per il popolo ma mai ufficialmente canonizzata, alla cui figura è dedicato il film Vision di Margarethe von Trotta, nella sua opera più nota, Scivias («Conosci le vie»), riassume in trentacinque visioni gli eventi della storia della salvezza, dalla creazione del mondo fino alla fine dei tempi. «Con i tratti caratteristici della sensibilità femminile – ha detto di lei Benedetto XVI – Ildegarda sviluppa il tema del matrimonio mistico tra Dio e l’umanità realizzato nell’incarnazione. Sull’albero della croce si compiono le nozze del Figlio di Dio con la Chiesa, sua sposa, resa capace di donare a Dio nuovi figli». Per Papa Ratzinger, che nel ricordarla un anno fa aveva incoraggiato le teologhe, è evidente proprio da esempi come quello di Ildegarda che la teologia può «ricevere un contributo peculiare dalle donne, perché esse sono capaci di parlare di Dio e dei misteri della fede con la loro peculiare intelligenza e sensibilità».
Non mancano nelle sue visioni profezie a breve termine, come quella sull’affermazione dell’eresia catara, ma anche squarci apocalittici, come quella sull’Anticristo che seminerà morte tra le genti «quando sul trono di Pietro siederà un Papa che avrà preso i nomi di due apostoli». O quella in cui fa balenare la possibilità che un musulmano convertito al cristianesimo, divenuto cardinale, uccida il Papa legittimo perché vuole il suo trono e non riuscendo a ottenerlo, si proclami antipapa.
La storia di Ildegarda attesta la vivacità culturale dei monasteri femminili dell’epoca e contribuisce a sfatare certi pregiudizi sul Medioevo. Era una monaca, teologa, cosmologa, botanica, musicista: è considerata la prima donna compositrice della storia cristiana. Sapeva governare, condannava le immoralità dei sacerdoti che con i loro peccati facevano «restare aperte le ferite di Cristo», teneva testa agli stessi vescovi tedeschi. Come pure a Federico Barbarossa, al quale fece arrivare un messaggio da parte di Dio, dopo che l’imperatore aveva nominato per la seconda volta un antipapa: «Io posso abbattere la malizia degli uomini che mi offendono. O re, se ti preme vivere, ascoltami o la mia spada ti trafiggerà».
La monaca tedesca è anche patrona dei cultori dell’esperanto, in quanto autrice di una delle prime lingue artificiali, la Lingua ignota, un idioma segreto che utilizzava per scopi mistici e si componeva di 23 lettere. È lei stessa a descriverla in un codice che contiene anche un glossario di 1011 parole in «lingua ignota».
La Congregazione per le cause dei santi, guidata dal cardinale Angelo Amato, sta concludendo lo studio dei documenti su Ildegarda. Anche se i Papi avevano permesso il suo culto in Germania – l’ultimo a esprimersi in questo senso era stato Pio XII – la mistica renana non è mai stata veramente canonizzata, perché il processo apertosi mezzo secolo dopo la sua morte venne interrotto. Si prevede perciò che Papa Ratzinger, che l’ha già più volte definita «santa» nei suoi discorsi, la canonizzi ufficialmente prima di inscriverla nell’esclusivo albo dei dottori la cui vita e le cui opere sono state illuminanti per la dottrina cattolica.
Postato da: giacabi a 14:44 |
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santi
DON LUIGI GUANELLA
***
L’esiliato di Dio
di Paola Bergamini
21/10/2011 - Domenica 23 ottobre la canonizzazione del sacerdote lombardo. Dalla lotta al liberismo, ai progetti «falliti» e alla preferenza per gli infermi: una vita spesa nell’obbedienza, da cui sono fiorite grandi opere di carità (da Tracce, settembre 2009)
Don
Luigi con passo veloce percorre la via principale di Prosto, alla
periferia di Chiavenna (Sondrio). Deve raggiungere i bambini del
catechismo. E poi c’è da preparare la lezione per la scuola serale,
andare a trovare quel povero demente... Da pochi mesi è vicario della
parrocchia, dal giorno della sua ordinazione sacerdotale: 26 maggio
1886. Ha 25 anni. Tante le cose da fare. I rapporti con l’arciprete non
sono sempre solari. Vuole più tranquillità. E invece questo vicario non
sta fermo un minuto. La gente pende dalle sue labbra. La Parola di Dio
diventa carne. Opere. In un frangente storico in cui il rapporto tra
Stato e Chiesa è sempre più teso - proprio in quell’anno il Parlamento
con una legge sopprime le congregazioni religiose e dispone la
conversione del patrimonio immobiliare - il giovane don Luigi Guanella
non si accontenta del quieto vivere: il popolo non può essere ingannato.
Immerso nei suoi pensieri, quel giorno quasi non si accorge dell’uomo
che bruscamente lo ferma: «So che lei è destinato a Savogno: mi è nato
ieri un figlio e se venisse a battezzarlo domani l’avrei caro». Don
Luigi è esterrefatto. La notizia del suo spostamento è arrivata prima ai
nuovi parrocchiani che a lui. Pronto risponde: «Servo fedele, benché io
nulla sappia». L’anziano arciprete, a quanto pare, proprio non ne
poteva più di tutto quel trambusto. Non importa, bisogna obbedire.
Significa che il Signore ha in serbo un altro progetto.
Il giorno dopo, 17 giugno 1887, si inerpica su per i duemila gradini che lo portano a mille metri di altitudine alla nuova destinazione. La lunga camminata gli fa piacere: è nato in montagna, a Franciscio, vicino a Campodolcino nella valle di San Giacomo. Nono di 13 figli, fino al momento di entrare nel seminario per giovani poveri del Gallio a Como, era abituato a quel tipo di vita. E non si rattrista che ad attenderlo non c’è nessuno dei 400 abitanti. La gente di montagna è fatta così: bisogna vincere la loro naturale ritrosia. Subito si dà da fare: si improvvisa imbianchino, muratore, ingrandendo la chiesa e costruendo una tettoia per le donne che si recano al lavatoio. Apre la casa parrocchiale per la scuola diurna per i bambini e serale per gli adulti. Avvicina ogni persona, trasmette a tutti la certezza della fede. I savognesi ascoltano questo giovane prete che parla dell’Eucarestia con accenti che rendono trasparente il Mistero. Tutta la comunità gli si stringe attorno. Come a Prosto, ha una cura particolare per i malati nel corpo e nella mente, più volte all’anno ne porta alcuni a Torino, nella Piccola Casa della Divina Provvidenza. I suoi viaggi nel capoluogo torinese sono anche per accompagnare le giovani che desiderano approfondire la loro vocazione. Tante si fermano nelle Congregazioni di don Bosco e del Cottolengo, al punto che viene accusato sul giornale anticlericale Il libero alpigiano di voler popolare di preti e di suore la Valtellina. Nel 1872 pubblica il Saggio di ammonimenti familiari per tutti, ma specialmente per il popolo di campagna, stampato a Torino nella tipografia di San Francesco di Sales, in cui mette in guardia il popolo della campagna «a difendersi contro le maligne arti con cui i settari massonici, congiunti con i liberali del giorno agognano a rovinare nell’anima soprattutto, e poi anche nel corpo, ogni persona per bene. (…) In presente dobbiamo dimostrare gran coraggio in opporre scuole, libri e istituzioni cattoliche alle scuole, ai libri ed alle istituzioni dei massonici». Questo, oltre alla sua ferma opposizione a mantenere l’insegnamento contro le diposizioni ministeriali del 1862, lo fa entrare tra i sorvegliati speciali. Viene accusato di sovversione e intolleranza. Non può più rimanere a Savogno. Ma nel suo cuore c’è il desiderio di andare incontro ai bisogni della gente.
«Signore, fa che io veda». Nei suoi viaggi a Torino ha avuto modo di entrare in stretto contatto con don Bosco e di conoscere la sua opera. Forse è quella la sua strada. Chiede al Vescovo di trasferirsi a Torino, dove il fondatore dei Salesiani lo accoglie a braccia aperte. Gli viene affidata la direzione dell’Oratorio di San Luigi con 700 ragazzi e poi quella del collegio di Mondovì. Ma i giovani per lui non sono tutto, il suo pensiero è rivolto agli infermi, soli, trascurati. Più volte la sua preghiera è: «Signore, fa che io veda». Trascorsi tre anni, il Vescovo di Como lo richiama in diocesi. Don Luigi obbedisce. La nuova destinazione è Traona, nella bassa Valtellina, in aiuto all’arciprete colpito da paralisi. Monsignor Carsana lo aveva inviato con queste parole: «Lassù, come ben sapete, avete case e conventi disusati per fare quelle fondazioni che avete fisse nell’animo; ma guardate poi che non siano fantasie di cervello caldo e illusioni funeste. Provate per vostro conto. Io vi benedico». Le difficoltà che deve affrontare sono tante. Ma non si scoraggia. Fa catechismo, apre scuole diurne e serali. Le autorità civili lo marcano stretto: non vogliono che porti «i progetti oscurantisti appresi alla scuola di don Bosco». Imperterrito va avanti. Predica e ancora una volta ridà alla gente il gusto di sentirsi cristiana. Con i soldi avuti da una eredità, acquista il convento di San Francesco dove istituisce un piccolo collegio. Sembra la prima pietra dell’opera che lui ha in mente. Niente da fare. Viene intimata l’immediata chiusura perché «ritenuto sovversivo il fondatore». Non solo. Alla Curia indirettamente le autorità civili consigliano di «dare al Guanella una cura d’anime sopra un pizzo di montagna dove egli non possa esercitare pericolose influenze».
Il 26 agosto 1881 si trasferisce a Olmo, piccolo paese, lungo la via che porta allo Spluga. Ha il cuore colmo di amarezza. Non accetta questo accanimento nei suoi confronti solo per essersi mostrato «nemico acerrimo del liberismo», come lui stesso scrive. Nel suo “esilio” prega e chiede aiuto a Dio. La risposta arriva con la notizia che a Pianello Lario è morto il parroco, don Carlo Coppini, che aveva dato vita a un orfanotrofio affidandolo ad alcune pie donne. Quello è il germoglio da far fiorire. Don Luigi ritorna da monsignor Carsana affinché gli venga assegnata la parrocchia. Il Vescovo è titubante: come trattare questo «fondatore fallito», come in molti lo definiscono? Alla fine gli viene concesso il semplice incarico di amministratore della parrocchia di Pianello. Arriva alle 11 di sera, nessuno lo attende. Ancora una volta con pazienza si conquista le persone. Soprattutto le religiose dell’orfanotrofio, che hanno timore di questo prete che ha fama di matto. Si alza presto e celebra la messa per i filandieri che vanno al lavoro, visita le famiglie, catechismo, scuola serale, predicazione. Appena ha un momento libero scrive i suoi opuscoli. Quando il prevosto Mussi rinuncia alla direzione dell’orfanotrofio le suore chiedono che sia lui il direttore. Il germoglio comincia a fiorire: fare un’opera di assistenza e carità. L’ospizio acquista nuovo vigore, con le suore c’è subito sintonia. I confini di Pianello per don Luigi in breve tempo diventano stretti. La Provvidenza inizia a dispiegare i suoi disegni.
Il 25 febbraio 1886 si reca a Como dal prevosto di Sant’Anna, che gli indica la casa e il terreno di un certo signor Biffi. È l’ideale per aprire un istituto per “serve povere”. Il 6 aprile tre suore aprono la casa di via Santa Croce. Il numero degli assistiti aumenta di giorno in giorno. Il 26 maggio 1890 don Guanella può lasciare il suo impegno a Pianello per dedicarsi completamente alle due Case della Provvidenza. Solo a Como vengono assistite oltre 200 persone tra anziani, infermi, ciechi, sordomuti, malati cronici, studenti poveri e ragazzi tolti alla delinquenza. Per ognuno don Luigi ha una cura particolare. Un sacerdote che visita l’opera commenta: «Con quale riverenza don Guanella prestava gli uffici più umili di soccorso e di pulizia personale ai vecchi malati, quasi trattasse con le sue mani le carni sacrosante di Gesù Cristo». A chi gli chiede come fa a provvedere ai bisogni di tante persone, risponde: «Provvede la Provvidenza».
«Lasciatelo fare il bene». Il 25 ottobre 1891 monsignor Andrea Ferrari - beatificato nel 1987 da Giovanni Paolo II - fa il suo ingresso nella diocesi di Como. Gli basta poco per capire la portata dell’opera di don Luigi. Così che quando gli giungono voci poco benevole taglia corto: «Andate a visitare le case e vi convincerete che quello che fa non è secondo la prudenza umana, ma secondo la prudenza cristiana. Lasciatelo fare il bene alla gente». Con il suo appoggio, in un anno porta a termine il progetto della chiesa del Sacro Cuore.
I destini di questi due prelati rimangono legati. Nel 1894 monsignor Ferrari diventa arcivescovo di Milano e Guanella inizia la sua opera nel capoluogo. Prima con l’apertura di alcuni asili e poi, grazie all’aiuto del Cardinale, acquista un grande edificio attiguo alla chiesa di Sant’Ambrogio ad Nemus dove accogliere i suoi infelici. È instancabile. A Como acquista la vecchia filanda Binda. Soldi non ce ne sono, ma come sempre la Provvidenza viene in suo aiuto. Il nuovo Vescovo liquida con queste parole il nuovo progetto: «Faccia quello che vuole, perché con i santi non si può discutere». Vi troveranno ospitalità oltre 300 inferme.
Il 18 ottobre 1899 convoca i parroci e i cappellani della Piana di Spagna, zona paludosa tra Chiavenna e Colico. Il suo progetto? Prosciugare e bonificare. Sembra impossibile. Acquista una casa e i terreni attigui nel cuore della landa e con l’aiuto degli sterratori veneti e dei suoi “buoni figli” nel giro di pochi mesi paludi e stagni sono prosciugati. È la Nuova Olonio San Salvatore. Nascono altre opere e fioriscono le vocazioni, soprattutto quelle adulte, sia maschili che femminili: sono i Servi della Carità e le Figlie di Santa Maria della Provvidenza.
Il 27 settembre 1915 don Luigi è nella casa di Como a colloquio con un amico. A un certo punto si accascia. È la paralisi. Il suo fisico da montanaro è stremato. Muore il 24 ottobre. L’amico cardinale Ferrari, al momento di benedire la bara, dice: «Con quale nome preferiresti che io ti chiamassi? Tu mi risponderai sicuramente: servo della carità».
da: www.tracce.it
21/10/2011 - Domenica 23 ottobre la canonizzazione del sacerdote lombardo. Dalla lotta al liberismo, ai progetti «falliti» e alla preferenza per gli infermi: una vita spesa nell’obbedienza, da cui sono fiorite grandi opere di carità (da Tracce, settembre 2009)
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Don Luigi Guanella.
Il giorno dopo, 17 giugno 1887, si inerpica su per i duemila gradini che lo portano a mille metri di altitudine alla nuova destinazione. La lunga camminata gli fa piacere: è nato in montagna, a Franciscio, vicino a Campodolcino nella valle di San Giacomo. Nono di 13 figli, fino al momento di entrare nel seminario per giovani poveri del Gallio a Como, era abituato a quel tipo di vita. E non si rattrista che ad attenderlo non c’è nessuno dei 400 abitanti. La gente di montagna è fatta così: bisogna vincere la loro naturale ritrosia. Subito si dà da fare: si improvvisa imbianchino, muratore, ingrandendo la chiesa e costruendo una tettoia per le donne che si recano al lavatoio. Apre la casa parrocchiale per la scuola diurna per i bambini e serale per gli adulti. Avvicina ogni persona, trasmette a tutti la certezza della fede. I savognesi ascoltano questo giovane prete che parla dell’Eucarestia con accenti che rendono trasparente il Mistero. Tutta la comunità gli si stringe attorno. Come a Prosto, ha una cura particolare per i malati nel corpo e nella mente, più volte all’anno ne porta alcuni a Torino, nella Piccola Casa della Divina Provvidenza. I suoi viaggi nel capoluogo torinese sono anche per accompagnare le giovani che desiderano approfondire la loro vocazione. Tante si fermano nelle Congregazioni di don Bosco e del Cottolengo, al punto che viene accusato sul giornale anticlericale Il libero alpigiano di voler popolare di preti e di suore la Valtellina. Nel 1872 pubblica il Saggio di ammonimenti familiari per tutti, ma specialmente per il popolo di campagna, stampato a Torino nella tipografia di San Francesco di Sales, in cui mette in guardia il popolo della campagna «a difendersi contro le maligne arti con cui i settari massonici, congiunti con i liberali del giorno agognano a rovinare nell’anima soprattutto, e poi anche nel corpo, ogni persona per bene. (…) In presente dobbiamo dimostrare gran coraggio in opporre scuole, libri e istituzioni cattoliche alle scuole, ai libri ed alle istituzioni dei massonici». Questo, oltre alla sua ferma opposizione a mantenere l’insegnamento contro le diposizioni ministeriali del 1862, lo fa entrare tra i sorvegliati speciali. Viene accusato di sovversione e intolleranza. Non può più rimanere a Savogno. Ma nel suo cuore c’è il desiderio di andare incontro ai bisogni della gente.
«Signore, fa che io veda». Nei suoi viaggi a Torino ha avuto modo di entrare in stretto contatto con don Bosco e di conoscere la sua opera. Forse è quella la sua strada. Chiede al Vescovo di trasferirsi a Torino, dove il fondatore dei Salesiani lo accoglie a braccia aperte. Gli viene affidata la direzione dell’Oratorio di San Luigi con 700 ragazzi e poi quella del collegio di Mondovì. Ma i giovani per lui non sono tutto, il suo pensiero è rivolto agli infermi, soli, trascurati. Più volte la sua preghiera è: «Signore, fa che io veda». Trascorsi tre anni, il Vescovo di Como lo richiama in diocesi. Don Luigi obbedisce. La nuova destinazione è Traona, nella bassa Valtellina, in aiuto all’arciprete colpito da paralisi. Monsignor Carsana lo aveva inviato con queste parole: «Lassù, come ben sapete, avete case e conventi disusati per fare quelle fondazioni che avete fisse nell’animo; ma guardate poi che non siano fantasie di cervello caldo e illusioni funeste. Provate per vostro conto. Io vi benedico». Le difficoltà che deve affrontare sono tante. Ma non si scoraggia. Fa catechismo, apre scuole diurne e serali. Le autorità civili lo marcano stretto: non vogliono che porti «i progetti oscurantisti appresi alla scuola di don Bosco». Imperterrito va avanti. Predica e ancora una volta ridà alla gente il gusto di sentirsi cristiana. Con i soldi avuti da una eredità, acquista il convento di San Francesco dove istituisce un piccolo collegio. Sembra la prima pietra dell’opera che lui ha in mente. Niente da fare. Viene intimata l’immediata chiusura perché «ritenuto sovversivo il fondatore». Non solo. Alla Curia indirettamente le autorità civili consigliano di «dare al Guanella una cura d’anime sopra un pizzo di montagna dove egli non possa esercitare pericolose influenze».
Il 26 agosto 1881 si trasferisce a Olmo, piccolo paese, lungo la via che porta allo Spluga. Ha il cuore colmo di amarezza. Non accetta questo accanimento nei suoi confronti solo per essersi mostrato «nemico acerrimo del liberismo», come lui stesso scrive. Nel suo “esilio” prega e chiede aiuto a Dio. La risposta arriva con la notizia che a Pianello Lario è morto il parroco, don Carlo Coppini, che aveva dato vita a un orfanotrofio affidandolo ad alcune pie donne. Quello è il germoglio da far fiorire. Don Luigi ritorna da monsignor Carsana affinché gli venga assegnata la parrocchia. Il Vescovo è titubante: come trattare questo «fondatore fallito», come in molti lo definiscono? Alla fine gli viene concesso il semplice incarico di amministratore della parrocchia di Pianello. Arriva alle 11 di sera, nessuno lo attende. Ancora una volta con pazienza si conquista le persone. Soprattutto le religiose dell’orfanotrofio, che hanno timore di questo prete che ha fama di matto. Si alza presto e celebra la messa per i filandieri che vanno al lavoro, visita le famiglie, catechismo, scuola serale, predicazione. Appena ha un momento libero scrive i suoi opuscoli. Quando il prevosto Mussi rinuncia alla direzione dell’orfanotrofio le suore chiedono che sia lui il direttore. Il germoglio comincia a fiorire: fare un’opera di assistenza e carità. L’ospizio acquista nuovo vigore, con le suore c’è subito sintonia. I confini di Pianello per don Luigi in breve tempo diventano stretti. La Provvidenza inizia a dispiegare i suoi disegni.
Il 25 febbraio 1886 si reca a Como dal prevosto di Sant’Anna, che gli indica la casa e il terreno di un certo signor Biffi. È l’ideale per aprire un istituto per “serve povere”. Il 6 aprile tre suore aprono la casa di via Santa Croce. Il numero degli assistiti aumenta di giorno in giorno. Il 26 maggio 1890 don Guanella può lasciare il suo impegno a Pianello per dedicarsi completamente alle due Case della Provvidenza. Solo a Como vengono assistite oltre 200 persone tra anziani, infermi, ciechi, sordomuti, malati cronici, studenti poveri e ragazzi tolti alla delinquenza. Per ognuno don Luigi ha una cura particolare. Un sacerdote che visita l’opera commenta: «Con quale riverenza don Guanella prestava gli uffici più umili di soccorso e di pulizia personale ai vecchi malati, quasi trattasse con le sue mani le carni sacrosante di Gesù Cristo». A chi gli chiede come fa a provvedere ai bisogni di tante persone, risponde: «Provvede la Provvidenza».
«Lasciatelo fare il bene». Il 25 ottobre 1891 monsignor Andrea Ferrari - beatificato nel 1987 da Giovanni Paolo II - fa il suo ingresso nella diocesi di Como. Gli basta poco per capire la portata dell’opera di don Luigi. Così che quando gli giungono voci poco benevole taglia corto: «Andate a visitare le case e vi convincerete che quello che fa non è secondo la prudenza umana, ma secondo la prudenza cristiana. Lasciatelo fare il bene alla gente». Con il suo appoggio, in un anno porta a termine il progetto della chiesa del Sacro Cuore.
I destini di questi due prelati rimangono legati. Nel 1894 monsignor Ferrari diventa arcivescovo di Milano e Guanella inizia la sua opera nel capoluogo. Prima con l’apertura di alcuni asili e poi, grazie all’aiuto del Cardinale, acquista un grande edificio attiguo alla chiesa di Sant’Ambrogio ad Nemus dove accogliere i suoi infelici. È instancabile. A Como acquista la vecchia filanda Binda. Soldi non ce ne sono, ma come sempre la Provvidenza viene in suo aiuto. Il nuovo Vescovo liquida con queste parole il nuovo progetto: «Faccia quello che vuole, perché con i santi non si può discutere». Vi troveranno ospitalità oltre 300 inferme.
Il 18 ottobre 1899 convoca i parroci e i cappellani della Piana di Spagna, zona paludosa tra Chiavenna e Colico. Il suo progetto? Prosciugare e bonificare. Sembra impossibile. Acquista una casa e i terreni attigui nel cuore della landa e con l’aiuto degli sterratori veneti e dei suoi “buoni figli” nel giro di pochi mesi paludi e stagni sono prosciugati. È la Nuova Olonio San Salvatore. Nascono altre opere e fioriscono le vocazioni, soprattutto quelle adulte, sia maschili che femminili: sono i Servi della Carità e le Figlie di Santa Maria della Provvidenza.
Il 27 settembre 1915 don Luigi è nella casa di Como a colloquio con un amico. A un certo punto si accascia. È la paralisi. Il suo fisico da montanaro è stremato. Muore il 24 ottobre. L’amico cardinale Ferrari, al momento di benedire la bara, dice: «Con quale nome preferiresti che io ti chiamassi? Tu mi risponderai sicuramente: servo della carità».
da: www.tracce.it
Postato da: giacabi a 20:39 |
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santi
San Martino de Porres
(Quanto riferiamo di san Martin de Porres è desunto da un ciclostilato curato da un salesiano a Lima)
PREMESSA
Caro lettore,
I dati biografici che leggerete su San Martin de Porres non sono ben altro che una ricapitolazione studiata e meditata dei fatti più importanti scritti su di lui dai suoi fedeli.
Non vi è dubbio che molti stenteranno a credere ai fatti straordinari che sono stati abbozzati in queste pagine, però potrete esser certi che non si tratta di leggende. Sono fatti confermati da giuramenti, da numerosi testimoni che hanno fatto queste dichiarazioni nel processo di beatificazione del Santo.
Il fatto è che i Santi, come diceva un bambino che ricordava le vetrate della sua chiesa, sono “uomini attraverso i quali passa la luce”.
Non vi è nulla di più esatto di questa definizione; infatti coloro che hanno ottenuto l’onore degli altari, sono sempre stati fari luminosi e pongono Dio sulla strada della nostra vita.
Che il nostro Santo con la sua Croce e con la sua Scopa possa continuare a meravigliare il mondo con i suoi miracoli e attragga sui suoi devoti e su tutto il Perù le benedizioni del Cielo.
Chaclacayo, 19 Ottobre 1972
PREMESSA
Caro lettore,
I dati biografici che leggerete su San Martin de Porres non sono ben altro che una ricapitolazione studiata e meditata dei fatti più importanti scritti su di lui dai suoi fedeli.
Non vi è dubbio che molti stenteranno a credere ai fatti straordinari che sono stati abbozzati in queste pagine, però potrete esser certi che non si tratta di leggende. Sono fatti confermati da giuramenti, da numerosi testimoni che hanno fatto queste dichiarazioni nel processo di beatificazione del Santo.
Il fatto è che i Santi, come diceva un bambino che ricordava le vetrate della sua chiesa, sono “uomini attraverso i quali passa la luce”.
Non vi è nulla di più esatto di questa definizione; infatti coloro che hanno ottenuto l’onore degli altari, sono sempre stati fari luminosi e pongono Dio sulla strada della nostra vita.
Che il nostro Santo con la sua Croce e con la sua Scopa possa continuare a meravigliare il mondo con i suoi miracoli e attragga sui suoi devoti e su tutto il Perù le benedizioni del Cielo.
Chaclacayo, 19 Ottobre 1972
HARRY MC BRIDE
Come è bella l’esistenza dedicata a servire Dio e a fare del bene al nostro prossimo!
1. INFANZIA DI FRATE MARTINO
1.1 Alla metà del secolo XVI viveva nella città di Lima una famiglia, quella del Cavaliere Juan de Porres e di una graziosa giovane negra chiamata Ana Velasquez, oriunda del Panama che viveva onoratamente del suo lavoro in uno dei quartieri che oggi si chiamerebbe periferia della città.
Martino nacque il 9 dicembre 1569 nella città di Lima.
Era un mulatto simpatico e vivace la cui pelle, con il passare degli anni, divenne sempre più scura, fino ad acquistare il colore inconfondibile dell’origine africana che gli derivava dalla madre. D’altra parte, nei suoi lineamenti si andavano delineando i tratti dell’origine spagnola del padre, una fronte spaziosa, occhi scuri, narici piccole e labbra ben marcate.
Pieno di bontà fino dalla nascita non poteva veder soffrire nessuno e cercava subito di rimediare al male. Sua madre lo riprendeva spesso perché ritornava dagli acquisti con il cestino vuoto, per aver dato una cosa o un’altra, appena comprata, a quanti incontrava sul suo cammino.
La sorella di Martino, Juana era bianca come il padre, Juan de Porres, per cui questi qualche volta doveva rammaricarsi della pelle scura della moglie e del figlio Martino che l’aveva ereditata con il latte materno.
Infatti la società alla quale apparteneva non comprendeva che l’amore è al di sopra del colore e che dinnanzi all’onnipotente siamo tutti uguali, per cui Juan de Porres e Ana Velasquez non erano felici come avrebbero potuto essere. Vediamo dunque che l’argilla umana che Dio inventò per modellare questo gigante di virtù, non poteva essere più umile a giudicare dalle apparenze.
1.2 Martino fu battezzato nella Chiesa di San Sebastian de Lima, in quella stessa Chiesa dove venne battezzato qualche anno più tardi il fiore più bello della santità americana, Rosa de Santa Maria.
Alcuni anni più tardi, il padre rinunciando ai teneri affetti della famiglia, abbandonò per molto tempo i figli al triste destino dell’abbandono. Per questa ragione vennero a mancare alla madre gli aiuti necessari ed essa soffrì moltissimo per mantenere i suoi due figlioli.
A seguito delle osservazioni che vennero mosse al padre di Martino, allora governatore di Panama, questi provvide a mandarli a studiare a Guayaquil ove, per le doti naturali che avevano, fecero ben presto grandi progressi.
Purtroppo durò ben poco la sollecitudine paterna, perchè nominato dal Re di Spagna, governatore di Panama, Porres si vide obbligato ad affidare i figli alla cura materna in considerazione della sua situazione e per i suoi numerosi impegni.
La madre fu felice di vedersi restituire i due figli. Martino con la sua pelle nera in verità era diventato un ometto e Juana, dalla pelle bianca, si era trasformata in una graziosa damina.
1.3 Quando Martino seppe che la madre lo aveva designato a diventare aiutante ed apprendista dal Dott. Marcelo de Rivero, si spogliò dell’abito di gala che indossava e con tutta naturalezza lo diede a sua madre: “Non sono nato per coltivare del lusso, soprattutto sapendo a quale compito mi avete designato”.
Dopo pochi giorni si recò alla casa del Dott. de Rivero dove fu accolto come apprendista.
Sarà bene ricordare quale impegno egli mise nell’imparare il mestiere di infermiere, dentista e anche di barbiere.
Il medico era sempre più soddisfatto del suo dipendente. Lo difendeva a spada tratta contro quei clienti che dimostravano avversione verso i negri. Martino, da parte sua, dimostrò ben presto quanto aveva appreso dal suo dotto maestro.
1. INFANZIA DI FRATE MARTINO
1.1 Alla metà del secolo XVI viveva nella città di Lima una famiglia, quella del Cavaliere Juan de Porres e di una graziosa giovane negra chiamata Ana Velasquez, oriunda del Panama che viveva onoratamente del suo lavoro in uno dei quartieri che oggi si chiamerebbe periferia della città.
Martino nacque il 9 dicembre 1569 nella città di Lima.
Era un mulatto simpatico e vivace la cui pelle, con il passare degli anni, divenne sempre più scura, fino ad acquistare il colore inconfondibile dell’origine africana che gli derivava dalla madre. D’altra parte, nei suoi lineamenti si andavano delineando i tratti dell’origine spagnola del padre, una fronte spaziosa, occhi scuri, narici piccole e labbra ben marcate.
Pieno di bontà fino dalla nascita non poteva veder soffrire nessuno e cercava subito di rimediare al male. Sua madre lo riprendeva spesso perché ritornava dagli acquisti con il cestino vuoto, per aver dato una cosa o un’altra, appena comprata, a quanti incontrava sul suo cammino.
La sorella di Martino, Juana era bianca come il padre, Juan de Porres, per cui questi qualche volta doveva rammaricarsi della pelle scura della moglie e del figlio Martino che l’aveva ereditata con il latte materno.
Infatti la società alla quale apparteneva non comprendeva che l’amore è al di sopra del colore e che dinnanzi all’onnipotente siamo tutti uguali, per cui Juan de Porres e Ana Velasquez non erano felici come avrebbero potuto essere. Vediamo dunque che l’argilla umana che Dio inventò per modellare questo gigante di virtù, non poteva essere più umile a giudicare dalle apparenze.
1.2 Martino fu battezzato nella Chiesa di San Sebastian de Lima, in quella stessa Chiesa dove venne battezzato qualche anno più tardi il fiore più bello della santità americana, Rosa de Santa Maria.
Alcuni anni più tardi, il padre rinunciando ai teneri affetti della famiglia, abbandonò per molto tempo i figli al triste destino dell’abbandono. Per questa ragione vennero a mancare alla madre gli aiuti necessari ed essa soffrì moltissimo per mantenere i suoi due figlioli.
A seguito delle osservazioni che vennero mosse al padre di Martino, allora governatore di Panama, questi provvide a mandarli a studiare a Guayaquil ove, per le doti naturali che avevano, fecero ben presto grandi progressi.
Purtroppo durò ben poco la sollecitudine paterna, perchè nominato dal Re di Spagna, governatore di Panama, Porres si vide obbligato ad affidare i figli alla cura materna in considerazione della sua situazione e per i suoi numerosi impegni.
La madre fu felice di vedersi restituire i due figli. Martino con la sua pelle nera in verità era diventato un ometto e Juana, dalla pelle bianca, si era trasformata in una graziosa damina.
1.3 Quando Martino seppe che la madre lo aveva designato a diventare aiutante ed apprendista dal Dott. Marcelo de Rivero, si spogliò dell’abito di gala che indossava e con tutta naturalezza lo diede a sua madre: “Non sono nato per coltivare del lusso, soprattutto sapendo a quale compito mi avete designato”.
Dopo pochi giorni si recò alla casa del Dott. de Rivero dove fu accolto come apprendista.
Sarà bene ricordare quale impegno egli mise nell’imparare il mestiere di infermiere, dentista e anche di barbiere.
Il medico era sempre più soddisfatto del suo dipendente. Lo difendeva a spada tratta contro quei clienti che dimostravano avversione verso i negri. Martino, da parte sua, dimostrò ben presto quanto aveva appreso dal suo dotto maestro.
1. INFANZIA DI FRATE MARTINO
(continua)
1.4 Un giorno in cui il Dottore era assente si presentò un uomo, con il viso gonfio e l’aspetto di colui che non ha dormito per molte notti:
- Dov’è il Dottore?
- In che cosa posso servirla? rispose Martino inchinandosi al cliente.
- Che cosa? Un negro servire me? rispose il signore adombrato.
- Sono ai vostri servizi.
- Potreste per caso togliermi un dente del giudizio?
- Sarà un onore per me - e senza cessare di sorridere cominciò ad esaminare il cliente sofferente. Poi, dopo alcuni tocchi, gli porse un vaso di acqua e gli disse:
- Preso! si deve sciacquare la bocca.
- Stai scherzando?
- Non scherzo, Signore. Il fatto è che il dente è già estratto e gli mostrò le pinze con il dente che aveva appena tolto.
- Sei certo che il dente è il mio?
- Certo che sì - disse Martino, sorridente.
- Che hai, buon negro, in mano perché io non abbia sentito alcun dolore? E spinto da una forza strana gli prese la mano e la baciò con effetto.
Qualche minuto dopo, appena il cliente fu uscito, Martino si recò alla cappella dove vi era un Cristo che Martino chiamava essere il suo migliore amico e Gli disse:
- Perché hai permesso che quell’uomo non sentisse alcun dolore? Questa gente non comprende la Tua bontà e crede che io sia un ciarlatano.
(continua)
1.4 Un giorno in cui il Dottore era assente si presentò un uomo, con il viso gonfio e l’aspetto di colui che non ha dormito per molte notti:
- Dov’è il Dottore?
- In che cosa posso servirla? rispose Martino inchinandosi al cliente.
- Che cosa? Un negro servire me? rispose il signore adombrato.
- Sono ai vostri servizi.
- Potreste per caso togliermi un dente del giudizio?
- Sarà un onore per me - e senza cessare di sorridere cominciò ad esaminare il cliente sofferente. Poi, dopo alcuni tocchi, gli porse un vaso di acqua e gli disse:
- Preso! si deve sciacquare la bocca.
- Stai scherzando?
- Non scherzo, Signore. Il fatto è che il dente è già estratto e gli mostrò le pinze con il dente che aveva appena tolto.
- Sei certo che il dente è il mio?
- Certo che sì - disse Martino, sorridente.
- Che hai, buon negro, in mano perché io non abbia sentito alcun dolore? E spinto da una forza strana gli prese la mano e la baciò con effetto.
Qualche minuto dopo, appena il cliente fu uscito, Martino si recò alla cappella dove vi era un Cristo che Martino chiamava essere il suo migliore amico e Gli disse:
- Perché hai permesso che quell’uomo non sentisse alcun dolore? Questa gente non comprende la Tua bontà e crede che io sia un ciarlatano.
2. LA SUA VOCAZIONE
2.1. Pochi giorni dopo questo episodio, arrivò una lettera del Padre di Martino, nella quale egli comunicava di esser stato premiato dal Re e che quindi nulla sarebbe più mancato alla famiglia.
- Per cui non occorra che Voi lavoriate?
- Certo che no - rispose Juana - E non sarà nemmeno più necessario che tu vada ad aiutare il Dottor de Rivero.
- Allora andrò a servire il mio migliore Amico.
A partire da questo momento pensò di servire il Signore in un convento.
2.1. Pochi giorni dopo questo episodio, arrivò una lettera del Padre di Martino, nella quale egli comunicava di esser stato premiato dal Re e che quindi nulla sarebbe più mancato alla famiglia.
- Per cui non occorra che Voi lavoriate?
- Certo che no - rispose Juana - E non sarà nemmeno più necessario che tu vada ad aiutare il Dottor de Rivero.
- Allora andrò a servire il mio migliore Amico.
A partire da questo momento pensò di servire il Signore in un convento.
2. LA SUA VOCAZIONE
(continua)
2.2 La decisione di Martino di entrare in convento fu una sorpresa per tutti, in special modo per il suo maestro che ne fu estremamente contrariato.
- Come è possibile, Martino, che dopo 3 anni che sei con me tu pensi di abbandonarmi? Che farò ora da solo?
- Sono certo, Dottore, che incontrerà altre persone che l’aiuteranno molto meglio di me e, oltretutto, non vi sarà più motivo di rimproverarla perché tiene un aiutante negro. Da parte mia la ringrazio per tutto quello che ha fatto per me.
2.3 Si diresse rapidamente al convento di San Domenico, non lontano dalla sua casa.
Suonò il campanello e incontrò il Padre Barragan che era il portinaio del convento.
- Che desidera?
- Mi dica, che c’è qui dentro?
- La pace per chi la desidera, replicò il portinaio.
- E’ meraviglioso - rispose il mulatto
- Bene! Perché sei venuto?
- Perché desidero restare nel convento.
(continua)
2.2 La decisione di Martino di entrare in convento fu una sorpresa per tutti, in special modo per il suo maestro che ne fu estremamente contrariato.
- Come è possibile, Martino, che dopo 3 anni che sei con me tu pensi di abbandonarmi? Che farò ora da solo?
- Sono certo, Dottore, che incontrerà altre persone che l’aiuteranno molto meglio di me e, oltretutto, non vi sarà più motivo di rimproverarla perché tiene un aiutante negro. Da parte mia la ringrazio per tutto quello che ha fatto per me.
2.3 Si diresse rapidamente al convento di San Domenico, non lontano dalla sua casa.
Suonò il campanello e incontrò il Padre Barragan che era il portinaio del convento.
- Che desidera?
- Mi dica, che c’è qui dentro?
- La pace per chi la desidera, replicò il portinaio.
- E’ meraviglioso - rispose il mulatto
- Bene! Perché sei venuto?
- Perché desidero restare nel convento.
2. LA SUA VOCAZIONE
(continua)
2.4 A tale risposta il Padre Barragan non seppe rispondere.
Martino ruppe il silenzio:
- Non potreste fare qualcosa affinché io possa restare qui?
- Il portiere lo scrutò un poco e gli disse: Bene, ragazzo, andiamo a vedere: seguimi!
Lo portò dove si trovava il Padre Priore, al quale spiegò brevemente i desideri dei giovane mulatto.
2.5 - E’ tanto grande il tuo desiderio di entrare in convento? gli chiese il Superiore. Martino abbassò la testa e rispose con una voce appena percettibile.
- Si, questo è il mio desiderio.
- Accetterai di essere un semplice converso?
- Converso è ultimo nella gerarchia?
- Sì. E’ l’ultimo della Comunità.
- Allora, grazie, Signore: entro in convento.
Da quel momento la sua vita fu una donazione totale, un’offerta perfetta al servizio di Dio.
(continua)
2.4 A tale risposta il Padre Barragan non seppe rispondere.
Martino ruppe il silenzio:
- Non potreste fare qualcosa affinché io possa restare qui?
- Il portiere lo scrutò un poco e gli disse: Bene, ragazzo, andiamo a vedere: seguimi!
Lo portò dove si trovava il Padre Priore, al quale spiegò brevemente i desideri dei giovane mulatto.
2.5 - E’ tanto grande il tuo desiderio di entrare in convento? gli chiese il Superiore. Martino abbassò la testa e rispose con una voce appena percettibile.
- Si, questo è il mio desiderio.
- Accetterai di essere un semplice converso?
- Converso è ultimo nella gerarchia?
- Sì. E’ l’ultimo della Comunità.
- Allora, grazie, Signore: entro in convento.
Da quel momento la sua vita fu una donazione totale, un’offerta perfetta al servizio di Dio.
3. LA SUA UMILTÁ
Fin dal principio l’ex aiutante del Dott. de Rivero maneggiò subito stracci e scopa per pulire e riordinare tutti i locali del convento, dalla clausura fino alla cucina.
Quando il medico parlò con il Padre Priore, si prese cura dell’infermeria, alternando alla scopa gli strumenti medici e lo straccio della polvere con il bisturi, pulendo e riordinando al contempo tutti i locali dell’enorme convento.
Il lavoro del giovane mulatto, la sua entrata al convento, la carità che faceva erano già diventate oggetto di molti commenti in tutta Lima, arrivando fino alla città di Panama.
Fin dal principio l’ex aiutante del Dott. de Rivero maneggiò subito stracci e scopa per pulire e riordinare tutti i locali del convento, dalla clausura fino alla cucina.
Quando il medico parlò con il Padre Priore, si prese cura dell’infermeria, alternando alla scopa gli strumenti medici e lo straccio della polvere con il bisturi, pulendo e riordinando al contempo tutti i locali dell’enorme convento.
Il lavoro del giovane mulatto, la sua entrata al convento, la carità che faceva erano già diventate oggetto di molti commenti in tutta Lima, arrivando fino alla città di Panama.
4. IL PADRE DI FRATE MARTINO
4.1 Don Juan de Porres era un cavaliere orgoglioso, allora governatore di Panama e ascoltava con grande fastidio le informazioni che gli giungevano del figlio. Per questo un certo giorno decise di partire subito alla volta della capitale del Perù.
- Voglio far vedere a questi frati chi è Don Juan de Porres disse - Hanno forse creduto di convertire mio figlio in uno schiavo del convento?
Poche settimane dopo la carrozza del governatore di Panama si fermò rumorosamente dinnanzi al portale del convento più popoloso tra tutti quelli che i domenicani hanno in America. Si diresse immediatamente alla portineria.
- Dove si trova?
- Chi? - domandò Frate Barragan
- Mio figlio.
- Scusi, chi è vostro figlio?
- Don Martino de Porres.
- Vado a informare il Superiore.
Lasciò don Juan de Porres con il viso accigliato che stava studiando il modo per portar via il figlio. Pochi minuti dopo, si trovò di fronte al Padre Provinciale.
4.2 - Sono il padre di Don Martino de Porres.
- Benvenuto in questa casa, Eccellenza.
Considerando il tono impiegato del Superiore, Don Juan si mise a sbraitare:
- Perché tenete qui mio figlio come se fosse uno schiavo? Ho nobiltà a sufficienza per non mendicare e mio figlio ne tiene abbastanza perchè nessuna gli tolga il sangue dalle vene. Vengo a prenderlo.
- Non voglio trattenerlo, Eccellenza e se egli si dedica a umili lavori è perchè lo vuole e lo ha richiesto ripetute volte.
- E perchè non studia come gli altri?
- Perchè abbiamo, Eccellenza, dalle nostre leggi che dobbiamo rispettare. Queste leggi dicono che gli indios, i negri e i loro discendenti, non possono professare in alcun ordine religioso, per il motivo che si ritiene che queste razze siano poco preparate per la vita religiosa.
- Egli lo sa veramente?
- Sì, Eccellenza, lo sa, glielo abbiamo detto chiaramente al suo ingresso.
- Quindi chiedo di vederlo subito.
- Non vi è alcun problema.
4.1 Don Juan de Porres era un cavaliere orgoglioso, allora governatore di Panama e ascoltava con grande fastidio le informazioni che gli giungevano del figlio. Per questo un certo giorno decise di partire subito alla volta della capitale del Perù.
- Voglio far vedere a questi frati chi è Don Juan de Porres disse - Hanno forse creduto di convertire mio figlio in uno schiavo del convento?
Poche settimane dopo la carrozza del governatore di Panama si fermò rumorosamente dinnanzi al portale del convento più popoloso tra tutti quelli che i domenicani hanno in America. Si diresse immediatamente alla portineria.
- Dove si trova?
- Chi? - domandò Frate Barragan
- Mio figlio.
- Scusi, chi è vostro figlio?
- Don Martino de Porres.
- Vado a informare il Superiore.
Lasciò don Juan de Porres con il viso accigliato che stava studiando il modo per portar via il figlio. Pochi minuti dopo, si trovò di fronte al Padre Provinciale.
4.2 - Sono il padre di Don Martino de Porres.
- Benvenuto in questa casa, Eccellenza.
Considerando il tono impiegato del Superiore, Don Juan si mise a sbraitare:
- Perché tenete qui mio figlio come se fosse uno schiavo? Ho nobiltà a sufficienza per non mendicare e mio figlio ne tiene abbastanza perchè nessuna gli tolga il sangue dalle vene. Vengo a prenderlo.
- Non voglio trattenerlo, Eccellenza e se egli si dedica a umili lavori è perchè lo vuole e lo ha richiesto ripetute volte.
- E perchè non studia come gli altri?
- Perchè abbiamo, Eccellenza, dalle nostre leggi che dobbiamo rispettare. Queste leggi dicono che gli indios, i negri e i loro discendenti, non possono professare in alcun ordine religioso, per il motivo che si ritiene che queste razze siano poco preparate per la vita religiosa.
- Egli lo sa veramente?
- Sì, Eccellenza, lo sa, glielo abbiamo detto chiaramente al suo ingresso.
- Quindi chiedo di vederlo subito.
- Non vi è alcun problema.
4.3 Il padre stentò fatica a riconoscerlo. Quando era partito per il suo incarico, alcuni anni prima, Martino era un bambino. Ora era un uomo ben piantato, forte e nel pieno della sua giovinezza. Superata la prima impressione si lasciò vincere dall’affetto di padre e se lo strinse al petto.
Il Priore, che assisteva alla scena, disse a Martino:
Figlio mio, tuo padre mi ha chiesto se tu ti trovi bene nel convento.
- Sì, padre. Qui sono molto felice.
- Ma dimmi, Martino, ti basta essere un umile converso e restare così per tutta la vita?
- Sì, padre. La mia unica preoccupazione è di servire Dio in convento.
4.4 - La verità è che non riesco a capirti - esclamò il padre.
- Avrei ottenuto dal Re di farti nominare Gentiluomo, invece tu mi parli di cose che stento fatica a capire.
- Padre mio, ti supplico di non portarmi via, è l’ora di assistere i malati. Mi vuoi accompagnare?
Don Juan constatò la simpatia che il giovane mulatto aveva conquistato in ospedale. Appena lo vedevano, gli infermi non cessavano di chiamarlo, chiedendogli mille cose. Frate Martino aveva sempre una parola di consolazione per tutti. Andava e veniva felice di poter aiutare quei derelitti.
Suo padre restò attonito e in quel momento imparò moltissime cose.
- Figlio mio - esclamò - sono orgoglioso di te e non sarò io che renderò vana la tua vocazione all’umiltà. Lo strinse fra le braccia e gli disse: Addio, che il Signore ti illumini e guidi i tuoi passi.
4.5 Quando Juan de Porres salì in carrozza, gli rimase impresso nella mente il sorriso luminoso di suo figlio, che si diresse alla cappella e, prostratosi dinnanzi all’immagine dei crocifisso disse al Signore:
- Grazie per aver permesso che mio padre si senta orgoglioso di me.
Frate Martino sapeva quanto è difficile il cammino per il cielo, per questo si era imposto il proposito di fare tutto il possibile per arrivare il più possibile vicino al cielo.
5. IL LAVORO QUOTIDIANO
5.1 Martino de Porres è già Frate Martino.
Vestito con lo scapolare nero, che risalta sulla tunica bianca, i religiosi lo vedano tutto il giorno in movimento.
Al mattino di buon’ora saliva alla torre campanaria per suonare l’ora della Messa.
Poi scivolava lungo il corrimano delle scale per aprire le porte dalla Chiesa.
Recita le sue orazioni durante le varie Messe e nei giorni in cui gli era permesso si comunicava con estremo fervore.
Dopo la colazione, che gli portava via ben poco tempo, si dedicava a far la barba ai confratelli, poi agli infermi, ai quali dedicava moltissime ore.
A metà giornata andava a pranzo e subito dopo passava alla portineria, dove si curava di infinite incombenze per soddisfare tutti coloro che accorrevano al convento.
5.2 A tutti dava una parola di consolazione, medicine, abiti, cibo, preghiere e denaro e nessuno poteva sapere come poteva arrivare a capo di tutto, perché la cosa era semplicemente miracolosa.
Però restava ancora molto da fare alla sera. Spesso andava ancora al suo lavoro comune, e scopare, a tagliare capelli, a seguire malati, ad esercitare l’apostolato che teneva nelle strade. Qui vi sono poveri, sperduti nelle case, che si vergognano di chiedere l’elemosina e che è urgente aiutare, ragazzini che bisogna preparare per la prima Comunione.
Alla notte ritorna al convento e va in Sacrestia, all’infermeria, alle cucine a vedere se vi è ancora qualcosa da fare. Dopo la cena tutti si ritirano nelle celle per riposare. Lo stesso non è per Martino che si impegna ancora nelle attività spirituali, che non aveva potuto svolgere prima per non attirare l’attenzione dei suoi confratelli.
5.3 Ecco la sintesi della vita di Frate Martino: lavoro e umiltà, giustizia e carità, completo impegno in una sincera pietà cristiana.
La Provvidenza gli fu prodiga, perchè gli diede la compagnia di molte anime della stessa tempra, così vediamo come le ore libere di certi giorni della settimane erano dedicate alla piacevole compagnia di Juan Macias che si santificò e che anch’egli salì agli onori degli altari.
L’arcivescovo Toribio Mogrovejo mori quando egli aveva circa 30 anni, già inserito nella lista dei Santi. Stava per compire i 40 anni quando un altro Santo, Francisco Solano, chiudeva gli occhi a Lima, il prodigioso apostolo del nuovo mondo. La piccola Rosa chiudeva la sua breve esistenza nell’anno 1617.
Come si vede, la Provvidenza non poteva essere più prodiga nel dare esempi di santità, per questo si può affermare che ogni anima può salire dal grado più basso fino al gradino più elevato della gloria e che può redimere il mondo con gli strumenti più umili del lavoro, quelli del falegname, quelli dei lavori domestici, come avvenne un giorno nella Sacra Famiglia della casa di Nazareth.
5.1 Martino de Porres è già Frate Martino.
Vestito con lo scapolare nero, che risalta sulla tunica bianca, i religiosi lo vedano tutto il giorno in movimento.
Al mattino di buon’ora saliva alla torre campanaria per suonare l’ora della Messa.
Poi scivolava lungo il corrimano delle scale per aprire le porte dalla Chiesa.
Recita le sue orazioni durante le varie Messe e nei giorni in cui gli era permesso si comunicava con estremo fervore.
Dopo la colazione, che gli portava via ben poco tempo, si dedicava a far la barba ai confratelli, poi agli infermi, ai quali dedicava moltissime ore.
A metà giornata andava a pranzo e subito dopo passava alla portineria, dove si curava di infinite incombenze per soddisfare tutti coloro che accorrevano al convento.
5.2 A tutti dava una parola di consolazione, medicine, abiti, cibo, preghiere e denaro e nessuno poteva sapere come poteva arrivare a capo di tutto, perché la cosa era semplicemente miracolosa.
Però restava ancora molto da fare alla sera. Spesso andava ancora al suo lavoro comune, e scopare, a tagliare capelli, a seguire malati, ad esercitare l’apostolato che teneva nelle strade. Qui vi sono poveri, sperduti nelle case, che si vergognano di chiedere l’elemosina e che è urgente aiutare, ragazzini che bisogna preparare per la prima Comunione.
Alla notte ritorna al convento e va in Sacrestia, all’infermeria, alle cucine a vedere se vi è ancora qualcosa da fare. Dopo la cena tutti si ritirano nelle celle per riposare. Lo stesso non è per Martino che si impegna ancora nelle attività spirituali, che non aveva potuto svolgere prima per non attirare l’attenzione dei suoi confratelli.
5.3 Ecco la sintesi della vita di Frate Martino: lavoro e umiltà, giustizia e carità, completo impegno in una sincera pietà cristiana.
La Provvidenza gli fu prodiga, perchè gli diede la compagnia di molte anime della stessa tempra, così vediamo come le ore libere di certi giorni della settimane erano dedicate alla piacevole compagnia di Juan Macias che si santificò e che anch’egli salì agli onori degli altari.
L’arcivescovo Toribio Mogrovejo mori quando egli aveva circa 30 anni, già inserito nella lista dei Santi. Stava per compire i 40 anni quando un altro Santo, Francisco Solano, chiudeva gli occhi a Lima, il prodigioso apostolo del nuovo mondo. La piccola Rosa chiudeva la sua breve esistenza nell’anno 1617.
Come si vede, la Provvidenza non poteva essere più prodiga nel dare esempi di santità, per questo si può affermare che ogni anima può salire dal grado più basso fino al gradino più elevato della gloria e che può redimere il mondo con gli strumenti più umili del lavoro, quelli del falegname, quelli dei lavori domestici, come avvenne un giorno nella Sacra Famiglia della casa di Nazareth.
6. LA SUA CARITA’
6.1 Nel suo cuore dominavano tre passioni: la carità, particolarmente con i poveri e gli infermi; la penitenza, la più rigorosa e l’umiltà che alimentava tutte le sue altre virtù.
Quando una malattia stava per terminare, indipendentemente da quanto facesse prevedere il suo decorso, Martino distribuiva la sua attenzione a seconda delle necessità.
“State tranquillo” diceva agli infermi che si sentivano trascurati, “Quando non mi vedete venire è perché la malattia non è pericolosa”. Cominciò a circolare la frase tra i fratelli del convento: “Fratello tal dei tali morirà presto, perchè Martino va a vederlo molto spesso”.
6.2 Una volta si ammalò il Padre Cipriano de Medina e la sua malattia era tanto grave per cui era stato visitato già da 5 medici i quali avevano dichiarato che l’unica cosa da fare era di somministrargli i Sacramenti. L’infermo si rendeva conto della sua gravità però non si poteva dar pace di una cosa: che Martino lo avesse abbandonato e che non andasse a vederlo ormai da tanti giorni.
La notte era già iniziata quando l’infermo sentì un desiderio incontenibile di vedere Martino. Quando ormai aveva perso la speranza di incontrarlo, Martino entrò nella camera e l’infermo lo accolse con una serie di rimproveri. “Padre avreste dovuto comprendere di non essere in pericolo. Sapete già che quando vado spesso a visitare un malato è perché è molto grave. Non vi preoccupate se siete peggiorato. Per ora non morirete. Dio chiede che viviate e continuiate a darGli gloria nella religione”.
I fatti confermarono le parole di Martino, in quanto il Padre Cipriano migliorò e ben presto fu in grado di svolgere la sua attività di insegnante.
6.1 Nel suo cuore dominavano tre passioni: la carità, particolarmente con i poveri e gli infermi; la penitenza, la più rigorosa e l’umiltà che alimentava tutte le sue altre virtù.
Quando una malattia stava per terminare, indipendentemente da quanto facesse prevedere il suo decorso, Martino distribuiva la sua attenzione a seconda delle necessità.
“State tranquillo” diceva agli infermi che si sentivano trascurati, “Quando non mi vedete venire è perché la malattia non è pericolosa”. Cominciò a circolare la frase tra i fratelli del convento: “Fratello tal dei tali morirà presto, perchè Martino va a vederlo molto spesso”.
6.2 Una volta si ammalò il Padre Cipriano de Medina e la sua malattia era tanto grave per cui era stato visitato già da 5 medici i quali avevano dichiarato che l’unica cosa da fare era di somministrargli i Sacramenti. L’infermo si rendeva conto della sua gravità però non si poteva dar pace di una cosa: che Martino lo avesse abbandonato e che non andasse a vederlo ormai da tanti giorni.
La notte era già iniziata quando l’infermo sentì un desiderio incontenibile di vedere Martino. Quando ormai aveva perso la speranza di incontrarlo, Martino entrò nella camera e l’infermo lo accolse con una serie di rimproveri. “Padre avreste dovuto comprendere di non essere in pericolo. Sapete già che quando vado spesso a visitare un malato è perché è molto grave. Non vi preoccupate se siete peggiorato. Per ora non morirete. Dio chiede che viviate e continuiate a darGli gloria nella religione”.
I fatti confermarono le parole di Martino, in quanto il Padre Cipriano migliorò e ben presto fu in grado di svolgere la sua attività di insegnante.
6.3 Un giorno, mentre si dirigeva alla periferia di Lima, vide diverse persone che lottavano con dei soldati per avvicinarsi ad una capanna sulla quale era dipinta una croce bianca, il segno della peste: Vada via di qui - sentì dire da un soldato - perchè questa gente ha la peste.
“Però questa gente ha bisogno di aiuto” - protestò Martino.
Robusto com’era gli fu facile dare una spinta ed entrare nella capanna. Il quadro che gli si presentò non poteva essere più sconvolgente.
Sopra un povero giaciglio stava il corpo di una donna, immobile, gli occhi chiusi, mentre due bambini intorno a lei la scrutavano impauriti.
“La mamma non parla” disse uno di loro mentre si avvicinava al mulatto. “Si è addormentata, perchè è molto malata”.
Martino strinse contro di sé le due creature e disse: “Andiamo via di qui. Nulla ora risveglierà la vostra mamma, perchè la sua anima è salita al Cielo”. Senza comprendere quanto stava succedendo i bambini seguirono Martino e non gli fu difficile trovare un ricovero per i due orfanelli.
6.4 Un altro giorno, al mercato, comprò una quantità di cose che occorrevano alla dispensa.
In un momento di distrazione di Martino un povero ragazzo allungò la mano e tolse delle banane dal cesto che il mulatto portava.
Tuttavia un poliziotto aveva visto tutto e, preso il ragazzo per un braccio voleva arrestarlo e punirlo severamente.
Quando Martino vide il ragazzo preso dalla polizia provò compassione per lui e, sorridendo come sua consuetudine, disse all’incaricato della legge: “Non ha rubato nulla, perché tutto quello che ha preso è da regalare ai poveri” e, detto questo, distribuì le cose che erano nel cesto tra le persone intorno a lui.
“Prendi, ragazzo, a te buona donna, per i tuoi figli.., e questo è per te...” e, tutto preso dalla sua opera di carità, senza rendersi conto di nulla, diede fondo a tutto quello che aveva e che gli chiedevano: scarpe, medicinali, frutta e generi alimentari. La gente lo guardava quasi con timore, senza comprendere quello che stava succedendo. Martino preso dalla carità e nell’intento di aiutare il ladruncolo stava realizzando un miracolo, senza nemmeno rendersi conto di quanto stava facendo.
6.5 Entrò nel convento affaticato e terribilmente preoccupato. A vederlo così il portinaio gli chiese:
- Che ti è successo Frate Martino?
- Una cosa molto strana. Per salvare un ragazzo .... e così raccontò tutto quello che era successo al mercato.
- E il cestino? chiese il portinaio.
- Eccolo. Lo mostrò, posandolo sulla tavola.
- Però non capisco, Frate Martino: come dite che avete dato via tutto se la cesta è ancora piena?
- Cominciò a mostrargli la verdura, la frutta, le uova e persino la carne.
- Che cosa? disse Martino con il viso turbato constatando che quanto il portinaio aveva detto era vero. Infatti il cestino era completamente pieno.
- Signore, non raccontare a nessuno quello che hai visto. Io ho dato via tutto. Perché mi hanno dato queste cose?
Con la testa bassa e meditabondo, il povero mulatto con il suo cestino salì fino alla sala capitolare dove, prostratosi davanti al Cristo che dominava la grande sala, Gli disse tutto contento:
- Sei tu che mi hai riempito il cestino, vero? Perchè lo hai fatto? Adesso crederanno che faccio i miracoli. E scrollando la testa se ne ritornò in cucina.
6.6 Solitamente al convento si recava un ragazzino sui 9 anni che aveva diversi parenti tra i religiosi.
Un giorno, dopo una delle tante birichinate comuni al ragazzi della sua età, andò a rifugiarsi dove era certo che nessuno lo avrebbe trovato, cioè dietro il catafalco usato per le Messe dei defunti. Alzò la testa e quale fu la sua sorpresa nel vedere Frate Martino, il suo amico sollevato in aria proprio vicino al Cristo che si trovava colà. Si avvicinò per vedere meglio, e poi corse dai religiosi per raccontare quanto aveva visto dal suo nascondiglio.
6.7 Un’altra volta cercavano Frate Martino che stava assistendo il Padre Arce, gravemente malato. Non trovandolo da nessuna parte, mandarono un novizio a cercarlo. Questi si recò nella Sala Capitolare e, aperta la porta, lo vide sollevato in aria, abbracciato al Cristo e con le labbra sulla Divina piaga del costato di Gesù il converso corse dicendo: “Padre, guardate il mulatto che è in estasi”.
Entrarono tutti i Padri che videro la stessa scena. Pochi istanti dopo, come se nulla fosse accaduto, Martino discese e disse ai fratelli che erano presenti: “Dite a Padre Arce che predisponga le sue cose per seguire il cammino che tutti noi dobbiamo percorrere”.
Alle 4 Padre Arre passava da questo mondo all’eternità seguendo la previsione di Frate Martino.
E’ vero che la Santità non consiste in estasi: però è certo che questo dono è un segnale dell’unione intima dell’anima con Dio.
Questo fatto si manifestò quando il Signore apparve a Santa Caterina dicendole che l’avrebbe sollevata da terra e portata in cielo, perché l’unione dell’anima con il Signore è più perfetta che l’unione tra anima e corpo e così, Frate Martino de Porres, il mulatto di Lima, realizzò i più grandi miracoli con tanta naturalezza come se fossero un cammino obbligato della sua esistenza.
6.8 Un poeta peruviano ha riassunto così i fatti della sua vita con una poesia dedicata che dice:
Non vi fu guardiano del convento più modesto, né servo più mansueto che il fraticello Martino; i poveri lo trovarono sempre disposto. Chiedeva la grazia dell’ultimo posto, del letto più duro, del trattamento più pesante.
Benediceva la mano che lo spingeva verso le aspre strade dell’eternità e quando l’odio tormentava la sua esistenza, sulle sue labbra sbocciava l’amore, il più amabile sorriso della Santità.
6.9 Un giorno un uomo anziano, recatosi per una infermità al convento, mostrò le sue piaghe al Frate Martino e questi, con gli occhi rivolti a Cristo, lo sollevò sulle braccia e, lo portò fino alla propria cella, sulla sua branda.
Il giorno dopo, di buon mattino, il padre provinciale e tre religiosi lo videro dormire sulla porta della cella, con il capo appoggiato allo stipite.
“Perché non siete nella vostra cella?”
Frate Martino si mostrò sorpreso di trovarsi in quella posizione. Mezzo stordito ancora dal sonno rispose: “Padre, perdonate, però il povero aveva tanta febbre...”
- Ma, di che cosa stai parlando?
Uno dei monaci apri la porta della cella e vide sul giaciglio un vecchio dalla chioma e barba fluente e con il volto fasciato da Padre Martino.
- Ma, é proprio necessario mettere un sacco di immondizia nella propria cella?
- Vede, padre, con un poco di sapone si può lavare la coperta, ma neanche un torrente di lacrime potrebbe lavare la mia anima per essere stato duro di cuore.
- Martino replicò il Superiore, con questo non rispetti la clausura del convento.
- E’ vero Padre, però penso che per i poveri e gli infermi non valga questa regola, perché contro la carità non può valere alcuna legge.
Il Superiore lo guardò ammirato e dopo qualche momento di riflessione, gli disse: “Hai ragione Frate Martino, accogli quanti infermi vorrai però fuori dalla clausura, in modo che noi possiamo soddisfare questo precetto.”
7. GLI SCHIAVI
7.1 Con il Cristianesimo si manifestò dall’Europa il fenomeno della tratta dei negri che è la negazione del Cristianesimo.
A quei tempi, gli schiavi che lavorano in aziende simili a quelle della Villa en Chorrillos, con 1500 schiavi, erano permanentemente costretti dalla frusta.
Molti commettevano atrocità marcando la pelle dei negri, come si attua ora negli allevamenti di cavalli e buoi.
Quando venne dalla Spagna la proibizione di marcare i negri, Martino aveva circa 38 anni e ciò significa che egli ha conosciuto i negri schiavi nel peggior momento della loro storia.
Si racconta che, ancora bambino, piagnucolante e indispettito sia corso nelle braccia della madre e le abbia detto: “Mamma, dei bambini mi hanno scacciato dal gioco perchè dicono che sono negro”.
Ana Velascuez gli disse: “Non piangere, piccolo. Non ti deve importare il colore della pelle. A Dio interessa solo il colore della tua anima”.
E il negro Martino mantenne sempre pura e bianca la sua anima fino al momento supremo.
Invano Frate Martino, la notte fredda sfiora il tuo viso con la sua ombra oscura; più bianca della neve è la tua anima, più chiara del sole di mezzogiorno.
7.2 Martino si rassegnò alla sua sorte, ma comprese ben presto quale terribile disgrazia pesava sulla sua razza.
Essendo figlio di una negra provò una grande stima per la gente di colore, prestando loro particolari cure ed affetto e lavorando incessantemente per far comprendere a questa gente gli splendori del Cristianesimo.
Una volta incontrò un negro che, avendo una piaga infetta, era sul punto di svenire. Mise le labbra sopra la piaga, la pulì, la bendò e benedisse il malato, dicendogli: “Non piangere, fratello, per il nostro colore..., il mondo passa.., la vita è breve.., un poco di odio, un poco di amore.., e tutto è gloria del cielo”.
Dopo 4 giorni di questa cura, il negro era guarito e sereno e lavorava con i suoi compagni.
7.3 Verso sera andava per i campi alla ricerca dei suoi fratelli di sangue. Svolgeva il compito di infermiere e di padre.
Bendava le loro piaghe, distribuiva rimedi, curava le ferite di grandi e piccini.
Si piegava rispettoso sul dolore di quelle anime che cercavano conforto e compassione.
Tutti avevano confidenza in lui.
Bastava una parola o un’attenzione delle sue mani per diminuire le pene, asciugare le lacrime, rendere meno dure le ore amare della vita.
7.1 Con il Cristianesimo si manifestò dall’Europa il fenomeno della tratta dei negri che è la negazione del Cristianesimo.
A quei tempi, gli schiavi che lavorano in aziende simili a quelle della Villa en Chorrillos, con 1500 schiavi, erano permanentemente costretti dalla frusta.
Molti commettevano atrocità marcando la pelle dei negri, come si attua ora negli allevamenti di cavalli e buoi.
Quando venne dalla Spagna la proibizione di marcare i negri, Martino aveva circa 38 anni e ciò significa che egli ha conosciuto i negri schiavi nel peggior momento della loro storia.
Si racconta che, ancora bambino, piagnucolante e indispettito sia corso nelle braccia della madre e le abbia detto: “Mamma, dei bambini mi hanno scacciato dal gioco perchè dicono che sono negro”.
Ana Velascuez gli disse: “Non piangere, piccolo. Non ti deve importare il colore della pelle. A Dio interessa solo il colore della tua anima”.
E il negro Martino mantenne sempre pura e bianca la sua anima fino al momento supremo.
Invano Frate Martino, la notte fredda sfiora il tuo viso con la sua ombra oscura; più bianca della neve è la tua anima, più chiara del sole di mezzogiorno.
7.2 Martino si rassegnò alla sua sorte, ma comprese ben presto quale terribile disgrazia pesava sulla sua razza.
Essendo figlio di una negra provò una grande stima per la gente di colore, prestando loro particolari cure ed affetto e lavorando incessantemente per far comprendere a questa gente gli splendori del Cristianesimo.
Una volta incontrò un negro che, avendo una piaga infetta, era sul punto di svenire. Mise le labbra sopra la piaga, la pulì, la bendò e benedisse il malato, dicendogli: “Non piangere, fratello, per il nostro colore..., il mondo passa.., la vita è breve.., un poco di odio, un poco di amore.., e tutto è gloria del cielo”.
Dopo 4 giorni di questa cura, il negro era guarito e sereno e lavorava con i suoi compagni.
7.3 Verso sera andava per i campi alla ricerca dei suoi fratelli di sangue. Svolgeva il compito di infermiere e di padre.
Bendava le loro piaghe, distribuiva rimedi, curava le ferite di grandi e piccini.
Si piegava rispettoso sul dolore di quelle anime che cercavano conforto e compassione.
Tutti avevano confidenza in lui.
Bastava una parola o un’attenzione delle sue mani per diminuire le pene, asciugare le lacrime, rendere meno dure le ore amare della vita.
8. IL SUO EROISMO
8.1 Un giorno il Superiore lo chiamò e gli disse: “Dobbiamo rinunciare ad alcuni oggetti d’arte, però senza che nessuno ne sia informato. I problemi economici del convento non vanno bene. Vi sono 250 religiosi che mangiano tutti i giorni. I debiti sono grandi e i creditori hanno poche speranze”.
Martino ricevette un quadro e alcuni candelabri e si recò al negozio di un antiquario che gli diede 20 pesos. Di ritorno a San Domenico, sentì le grida di un mercante di schiavi che offriva la sua merce umana... Frate Martino ne fu impressionato. “Qui vi sono due uomini, padre e figlio - proseguì il mercante - voglio essere buono con voi, quasi li regalo.., andiamo fate delle offerte”.
Un uomo, armato di scudiscio esclamò: “Dò 15 pesos”.
Martino sentì un nodo salirgli alla gola dinnanzi a quella scena deplorevole. Nella mano stringeva le monete che aveva avuto dall’antiquario e il suo cuore nobile gli fece esclamare: “Dò 20 pesos”.
Tutti si stupirono guardando il mulatto. Il mercante sorrise e rispose: “Siano aggiudicati questi due uomini al Padre Domenicano”.
Martino formalizzò la transazione e si portò i due negri al convento. Con il capo basso si diresse dal priore per presentargli i due schiavi.
8.2 - Come, hai comprato due negri?
Martino fece segno di sì con vari cenni della testa.
- Martino, per tutti i Santi del cielo, ti mando per risolvere dei problemi economici e tu mi porti due bocche in più!.
- Ma credo, Padre, che tutto si possa risolvere.
- Come?
- Ci ho pensato bene. Ho chiesto al mercante di schiavi e mi ha detto che valgo molto. Vendetemi al mercato di schiavi e al mio posto questi due uomini possono lavorare per me.
Non era il momento di scherzare e lo aveva detto in tutta serietà. Il Priore chiuse gli occhi mentre con una mano asciugava una lacrima che gli scendeva sulle guance.
- Ritirati, Martino, e non insistere. Qui sei necessario per pregare più che per lavorare. Sono certo che le tue preghiere al Signore ci daranno la soluzione che stiamo cercando.
E fu così in effetti. Un cavaliere, padre di un ragazzo che Martino aveva salvato alcuni giorni prima, portò una borsa di monete e la consegnò il giorno stesso in cui avvenne la scena che abbiamo narrato, senza dire nulla. Martino, radiante di gioia, si ricordò delle 20 monete che aveva impegnato per comprare i due negri e si precipitò al convento per consegnarle al Superiore.
8.1 Un giorno il Superiore lo chiamò e gli disse: “Dobbiamo rinunciare ad alcuni oggetti d’arte, però senza che nessuno ne sia informato. I problemi economici del convento non vanno bene. Vi sono 250 religiosi che mangiano tutti i giorni. I debiti sono grandi e i creditori hanno poche speranze”.
Martino ricevette un quadro e alcuni candelabri e si recò al negozio di un antiquario che gli diede 20 pesos. Di ritorno a San Domenico, sentì le grida di un mercante di schiavi che offriva la sua merce umana... Frate Martino ne fu impressionato. “Qui vi sono due uomini, padre e figlio - proseguì il mercante - voglio essere buono con voi, quasi li regalo.., andiamo fate delle offerte”.
Un uomo, armato di scudiscio esclamò: “Dò 15 pesos”.
Martino sentì un nodo salirgli alla gola dinnanzi a quella scena deplorevole. Nella mano stringeva le monete che aveva avuto dall’antiquario e il suo cuore nobile gli fece esclamare: “Dò 20 pesos”.
Tutti si stupirono guardando il mulatto. Il mercante sorrise e rispose: “Siano aggiudicati questi due uomini al Padre Domenicano”.
Martino formalizzò la transazione e si portò i due negri al convento. Con il capo basso si diresse dal priore per presentargli i due schiavi.
8.2 - Come, hai comprato due negri?
Martino fece segno di sì con vari cenni della testa.
- Martino, per tutti i Santi del cielo, ti mando per risolvere dei problemi economici e tu mi porti due bocche in più!.
- Ma credo, Padre, che tutto si possa risolvere.
- Come?
- Ci ho pensato bene. Ho chiesto al mercante di schiavi e mi ha detto che valgo molto. Vendetemi al mercato di schiavi e al mio posto questi due uomini possono lavorare per me.
Non era il momento di scherzare e lo aveva detto in tutta serietà. Il Priore chiuse gli occhi mentre con una mano asciugava una lacrima che gli scendeva sulle guance.
- Ritirati, Martino, e non insistere. Qui sei necessario per pregare più che per lavorare. Sono certo che le tue preghiere al Signore ci daranno la soluzione che stiamo cercando.
E fu così in effetti. Un cavaliere, padre di un ragazzo che Martino aveva salvato alcuni giorni prima, portò una borsa di monete e la consegnò il giorno stesso in cui avvenne la scena che abbiamo narrato, senza dire nulla. Martino, radiante di gioia, si ricordò delle 20 monete che aveva impegnato per comprare i due negri e si precipitò al convento per consegnarle al Superiore.
9. IL SUO AMORE PER I POVERI
9.1 Dio, che tutto vede, aveva posto il suo sguardo colmo di grazia sul servo mulatto, che aveva trasformato ogni minuto della sua vita in un atto straordinario di amore a Dio.
Come per corrispondere a questo amore sincero, il Signore gli concesse di fare cose tanto meravigliose da trasformarlo in uno dei Santi più straordinari di tutta la geografia cristiana, come provano alcuni dei numerosi fatti che narreremo.
Lima era una città dove confluivano popoli dell’America, dell’Europa e dell’Africa.
Per le sue strade si incrociavano bianchi, creoli, indio e negri.
Martino era europeo per parte di padre, africano per parte di madre ed americano per nascita: nessuna delle tre razze sfuggiva alla sua carità.
Meticcio o spagnolo, negro o bianco, libero o schiavo, uomo o donna, bambino o anziano, tutti erano sempre intorno a questo prodigioso frate laico.
9.2 Non si accontentava di dimostrarsi affettuoso cose fanno taluni, con la sola parola.
Intercedeva per loro, attraendoli con la sua bontà ampia e generosa, per la sua incomparabile giustizia e carità.
Con queste armi otteneva dai ricchi, con insistenza, petizioni, facendoli riflettere, ciò che gli serviva per la sua continua e copiosa carità umana, quella carità che Dio ha nascosto nel più intimo di tutti i cuori perché la rivolgiamo nell’immenso mare delle miserie umane.
Precursore e praticante della giustizia sociale, diceva ai ricchi: “Fatevi degli amici con le vostre ricchezze, perché un giorno i poveri vi ricevano in Paradiso e ricordate che l’unico modo per pagare i debiti che avete contratto con Dio è fare elemosine, quelle elemosine che coprono l’enormità dei vostri peccati”.
9.1 Dio, che tutto vede, aveva posto il suo sguardo colmo di grazia sul servo mulatto, che aveva trasformato ogni minuto della sua vita in un atto straordinario di amore a Dio.
Come per corrispondere a questo amore sincero, il Signore gli concesse di fare cose tanto meravigliose da trasformarlo in uno dei Santi più straordinari di tutta la geografia cristiana, come provano alcuni dei numerosi fatti che narreremo.
Lima era una città dove confluivano popoli dell’America, dell’Europa e dell’Africa.
Per le sue strade si incrociavano bianchi, creoli, indio e negri.
Martino era europeo per parte di padre, africano per parte di madre ed americano per nascita: nessuna delle tre razze sfuggiva alla sua carità.
Meticcio o spagnolo, negro o bianco, libero o schiavo, uomo o donna, bambino o anziano, tutti erano sempre intorno a questo prodigioso frate laico.
9.2 Non si accontentava di dimostrarsi affettuoso cose fanno taluni, con la sola parola.
Intercedeva per loro, attraendoli con la sua bontà ampia e generosa, per la sua incomparabile giustizia e carità.
Con queste armi otteneva dai ricchi, con insistenza, petizioni, facendoli riflettere, ciò che gli serviva per la sua continua e copiosa carità umana, quella carità che Dio ha nascosto nel più intimo di tutti i cuori perché la rivolgiamo nell’immenso mare delle miserie umane.
Precursore e praticante della giustizia sociale, diceva ai ricchi: “Fatevi degli amici con le vostre ricchezze, perché un giorno i poveri vi ricevano in Paradiso e ricordate che l’unico modo per pagare i debiti che avete contratto con Dio è fare elemosine, quelle elemosine che coprono l’enormità dei vostri peccati”.
9.3 Ai proprietari di fattorie, che avevano accantonato delle fortune sulla base del lavoro forzato degli indio e degli schiavi, ripeteva: “Guai a Voi che siete sazi! Un giorno avrete fame!”.
Ai commercianti, i cui capitali erano stati creati con le lacrime e il sangue dei poveri, ammoniva: “Fate elemosine, fratelli, con i vostri beni. Cercate di guardare intorno a voi tutte le necessità: in questo modo otterrete che il Signore si volga a guardarvi in viso”.
Ricordava all’autorità: “Al popolo povero e bisognoso occorre dare lavoro, pane e casa prima di fare prediche minacciose che i cuori non possono comprendere”.
9.4 Agli stessi Sacerdoti diceva: “Il corpo è il cammino attraverso il quale l’anima si eleva e all’affamato bisogna dare prima il pane, poi i buoni consigli”.
Per dare un esempio non mancò mai di aiutare a dare cibo a chi ne aveva bisogno.
Molte volte appariva in luoghi imprevisti, per lasciare un soccorso insperato e il suo cuore ascoltava le chiamate dei poveri che si vergognavano della loro miseria.
In tal modo se per caso, in quei momenti gli veniva a mancare qualcosa, ricorreva al miracolo che otteneva per concessione Divina, secondo le esigenze e la sua volontà.
9.5 Nelle dichiarazioni che sono state fatte sulla sua vita da Juan Vasquez, amico e confidente di Frate Martino, si racconta la forma intelligente e ordinata con la quale distribuiva i benefici della sua generosità.
Infatti era ordinato sia nel chiedere che nel distribuire aiuti.
Il martedì e il mercoledì raccoglieva elemosine per le famiglie povere, le fanciulle, le vedove, ecc.
Il giovedì e venerdì raccoglieva elemosine per i sacerdoti e gli studenti poveri.
Il sabato e il lunedì per i suffragi alle anime del purgatorio.
Le elemosine della domenica servivano per comprare vestiti e coperte che distribuiva alle famiglie più povere del suburbio.
Si è calcolato che Frate Martino dava aiuto ogni giorno a circa 200 poveri e che settimanalmente distribuiva oggetti e denaro per più di 7000 soles (antica moneta spagnola).
9.6 Non si accontentava di amare i poveri.
Frate Martino parlava e intercedeva per loro.
Girando e questuando per loro, per le strade di Lima, si rese conto di quanto fosse grande la miseria e la miseria materiale e morale nella quale si trovavano tanti poveri bambini.
Pensò allora ad una fondazione a favore dei bambini, grande abbastanza per coprire le necessità di tutta la città. Grazie al suo prestigio ottenne ben presto l’approvazione del Viceré, dell’arcivescovo e di tutte le autorità civili e militari, ottenendo tra l’altro un contributo di 200.000 pesos che gli vennero date per fondare l’ospizio di Santa Cruz che ancora oggi esiste a Lima sotto altro nome.
10. IL DONO DELL’UBIQUITÀ
10.1 Ogni giorno cresceva la capacità caritativa di Martino e dato che i suoi compiti giorno per giorno raggiungevano posti sempre più lontani, Dio gli diede il dono dell’ubiquità e la facoltà di rendersi invisibile tanto da poter operare in luoghi diversi.
Del resto, il corpo di un Santo vivente e che è vicino a Dio può trovarsi in qualunque luogo e in vari luoghi nello stesso tempo; questa è una cosa strana per molti. Tuttavia si è potuto provare questo miracolo in non poche storie di persone santificate, però no, mai con la stessa frequenza con la quale si è riscontrato per Frate Martino de Porres y Velasquez.
Ricorderemo alcuni fatti che comprovano tale affermazione. In un ospedale un forestiero ormai vicino alla morte stava rantolando, quando furtivamente nella notte e, senza che nessuno lo avesse chiamato, entra Martino e si reca al capezzale dell’infermo per dirgli soavemente: “Come non sei stato battezzato amico? E pensi di morire?”.
Continuò poi a conversare cordialmente con lui, lo commosse e lo convinse a farsi battezzare.
10.2 Un commerciante, amico suo, era gravemente infermo in Messico.
Insperatamente riceve la visita del miracoloso mulatto. Lo rincuora, chiacchiera a lungo con lui e gli annuncia una pronta guarigione.
Al suo ritorno in Perù, il commerciante andò a visitare Frate Martino ed apprese con stupore che questi non aveva mai lasciato Lima.
Nel cuor della notte un postulante gemeva per la febbre che lo tormentava, quando vide aprirsi improvvisamente la porta del noviziato ed entrare Martin de Porres che gli portò refrigerio e conforto.
10.1 Ogni giorno cresceva la capacità caritativa di Martino e dato che i suoi compiti giorno per giorno raggiungevano posti sempre più lontani, Dio gli diede il dono dell’ubiquità e la facoltà di rendersi invisibile tanto da poter operare in luoghi diversi.
Del resto, il corpo di un Santo vivente e che è vicino a Dio può trovarsi in qualunque luogo e in vari luoghi nello stesso tempo; questa è una cosa strana per molti. Tuttavia si è potuto provare questo miracolo in non poche storie di persone santificate, però no, mai con la stessa frequenza con la quale si è riscontrato per Frate Martino de Porres y Velasquez.
Ricorderemo alcuni fatti che comprovano tale affermazione. In un ospedale un forestiero ormai vicino alla morte stava rantolando, quando furtivamente nella notte e, senza che nessuno lo avesse chiamato, entra Martino e si reca al capezzale dell’infermo per dirgli soavemente: “Come non sei stato battezzato amico? E pensi di morire?”.
Continuò poi a conversare cordialmente con lui, lo commosse e lo convinse a farsi battezzare.
10.2 Un commerciante, amico suo, era gravemente infermo in Messico.
Insperatamente riceve la visita del miracoloso mulatto. Lo rincuora, chiacchiera a lungo con lui e gli annuncia una pronta guarigione.
Al suo ritorno in Perù, il commerciante andò a visitare Frate Martino ed apprese con stupore che questi non aveva mai lasciato Lima.
Nel cuor della notte un postulante gemeva per la febbre che lo tormentava, quando vide aprirsi improvvisamente la porta del noviziato ed entrare Martin de Porres che gli portò refrigerio e conforto.
10.3 In una delle celle dell’infermeria si trovava un soldato ferito.
- Come va questo braccio? Gli chiese con tutta cordialità.
- Sembra che migliori, grazie a Voi, fratello.
- No, amico, in ogni caso grazie a Dio che ha voluto che voi guariste.
- Mi avete detto la stessa cosa in Africa, quando mi avete assi¬stito.
Frate Martino guardò perplesso il malato ed il malato continuò: “Non vi ricordate? E’ la seconda volta che ci vediamo.
Il viso di Martino si alterò, egli terminò di curare il malato e poi sparì con una certa precipitazione.
10.4 Alcune persone che erano a fianco del soldato ferito, lo guardarono perplesse e il soldato disse loro: “Non credete che sia stato là? Fu lo scorso anno quando Frate Martino venne in Africa”.
- Ma sei sicuro di quello che dici? Chiese uno dei religiosi che si trovava nella stanza.
- Sicurissimo. Lo riconoscerei tra un milione di persone. Dubitereste della mia parola?
Il religioso di fronte a queste affermazioni restò perplesso.
E’ certo che Frate Martino non ha mai lasciato Lima da che sta in convento.
- Se dubiti di me, chiedilo a lui - replicò l’infermo.
Il Domenicano scosse la testa e senza dir nulla sparì dalla sala.
10.5 Cominciò a veder chiaro nei prodigi del mulatto e dopo aver riflettuto per un po’ decise di cercare Frate Martino alla cella. - In che cosa posso servirla, padre? - chiese timoroso il fraticello, vedendo Frate Juan sul limitare della porta. Invece di rispondere, il sacerdote lo guardò con dolcezza e finalmente gli disse: - Ha mentito quell’uomo? Questo eccezionale mulatto, con gli occhi fissi a terra, rispose con un filo di voce: “Non ha mentito”. - Allora conosci questo soldato? - Sì lo conosco. Si fece un silenzio pesante. - È sicuro quello che ha detto? - Certo, Frate Juan. - Ma, Dio Santissimo, come è possibile?
10.6 Frate Martino sollevò la testa e rispose con un sorriso tutto innocente: - Il Signore ha molte strade per soccorrere chi ha bisogno e perché mai dovremmo penetrare nei suoi disegni? Che importanza ha lo strumento del quale si serve?
Frate Juan comprese allora tutte le cose straordinarie che aveva veduto senza intendere. Era un nuovo miracolo di Frate Martino poter essere a Lima e in altri luoghi nello stesso tempo.
- Perdonami per aver dubitato si scusò Frate Juan, e con la testa bassa usci dalla cella.
Martino fissò gli occhi nel crocifisso che teneva al capezzale dei suo giaciglio e gli disse: “Oh Signore! Tu sai che non desidero che si conoscano i doni che Tu mi concedi con tanta misericordia, però Tu che tutto puoi, dammi la forza necessaria per continuare restando umile al Tuo servizio”.
10.7 Una volta, dovendo restare in una fattoria di Limatambo per qualche giorno, affidò a un fratello laico il compito di suonare la campana all’alba, durante la sua assenza.
Il fratello lo sostituì per qualche giorno finché, sopraggiunto un impegno, questi chiamò un servo negro pregandolo che lo sostituisse, promettendo un reale, se avrebbe assolto il suo incarico.
Un giorno il negro si dimenticò di andare alla torre e quando vi arrivò trovò frate Martino che stava suonando le campane. Sorpreso gli chiese: come è salito alla torre?
Il Santo, per tutta risposta, gli disse: “Prendi il tuo reale e non dire nulla”, e sparì.
10.8 Un fatto più importante è il seguente: due persone che stavano sfuggendo alla polizia, conoscendo la carità di Martino si presentarono alla porta della sua cella, chiedendo il diritto di asilo.
Il Santo, preso da compassione, li fece entrare, raccomandò loro di affidarsi a Dio e li nascose tra dei materassi che si trovavano in quel luogo.
Entrarono poi le guardie e, perlustrato il locale, ispezionarono con ogni attenzione la cella, ma non trovarono traccia dei fuggitivi.
Lasciarono il convento e poco dopo lo lasciarono anche i due rifugiati, non senza aver ringraziato con molte effusioni Frate Martino.
10.9 Dimostrò anche il dono dell’ubiquità a 30 novizi che erano andati a passeggio.
Si stavano divertendo tanto che né i ragazzi, né lui si erano resi conto del tempo che trascorreva.
La notte li sorprese all’aperto e Martino per un momento fu sconcertato.
“Che dobbiamo fare?”
I novizi temevano di essere castigati.
Il mulatto si mise a pregare con grande fervore. Gli si illuminò il viso e disse ai novizi: “Andiamo, seguitemi”.
Nessuno seppe che cosa era successo.
Il fatto è che dopo alcuni passi si trovarono tutti all’ombra del convento e, senza disturbare nessuno attraversavano le porte che erano già chiuse a chiave e all’ora giusta cominciavano a recitare il rosario nel coro, come avevano sempre fatto.
Più tardi, considerando la distanza, nessuno di loro dubitò del fatto che il Signore avesse operato un prodigio per mezzo del suo servo Martino.
“Come incontrava le anime sofferenti? Nel segreto di Dio e nel segreto della sua anima! Questo è il prezzo della sua umiltà e un dono del cielo per la salvezza delle anime”.
da: Amici Domenicani
Postato da: giacabi a 09:08 |
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santi
Sant'Ireneo di Lione che nel suo Adversus Haereses, scritto nel II secolo,
Postato da: giacabi a 12:14 |
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santi, sireneo
***
Avete taciuto abbastanza. E´ ora di finirla di stare zitti! Gridate con centomila lingue. Io vedo che a forza di silenzio il mondo è marcito (S. Caterina da Siena)
Postato da: giacabi a 07:40 |
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santi
La santità
***
La santità non consiste nel fare cose ogni giorno più difficili, ma nel farle ogni volta con più amore. ***
Santa Teresa d'Avila.
Postato da: giacabi a 16:20 |
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santi
La santità
***
"La santità non consiste in tale o tal'altra pratica, bensì
consiste in una disposizione del cuore che ci rende umili e piccoli
nelle braccia di Dio, consci della nostra debolezza e fiduciosi fino
all'impudenza nella sua bontà di Padre… Quello che piace al buon Dio nella mia anima
è il vedermi amare la mia piccolezza e povertà, è la cieca speranza che
ho nella sua misericordia… Non temere: più sarai povero, e più sarai
amato da Gesù!".***
S. Teresina di Lisieux
Postato da: giacabi a 07:08 |
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santi, steresina
IL BEATO PADRE CLEMENTE VISMARA (1897-1988)
***
Appunti per Radio Maria di Piero Gheddo – 18-IV-2011
***
Appunti per Radio Maria di Piero Gheddo – 18-IV-2011
Cari amici di Radio Maria, debbo darvi una bella notizia: il 26 giugno prossimo padre Clemente Vismara sarà beatificato in Piazza Duomo a Milano. Con lui altri due Beati ambrosiani, don Serafino Morazzone, parroco di Chiuso (Lecco) e suor Enrichetta Alfieri, la mamma e l’angelo delle carceri di San Vittore a Milano.
Padre Clemente sarà il primo Beato della Birmania, un paese esteso più di due volte l’Italia con circa 50 milioni di abitanti, di cui meno di un milione sono cattolici. Non solo, ma è anche il primo missionario dei nostri tempi beatificato (morto nel 1988, 23 anni fa), che ha trascorso 65 anni in missione e rappresenta bene le virtù e i valori dei missionari nella storia del Pime e della Chiesa da tramandare alle generazioni future.
Nell’ultimo mezzo secolo la missione alle genti è cambiata radicalmente, sempre però continuando ad essere quello che Gesù vuole: “Andate in tutto il mondo, annunziate il Vangelo a tutte le creature”. Ma i metodi nuovi (responsabilità della Chiesa locale, inculturazione, dialogo interreligioso, promozione dell’uomo, ecc.) debbono essere vissuti nello spirito e nella continuità della Tradizione ecclesiale che risale addirittura agli Apostoli.
Clemente non è solo uno degli ultimi anelli di questa gloriosa Tradizione. In Italia è uno dei missionari più conosciuti, una figura simbolica della missione alle genti, un mito, una leggenda, perché racchiude nei suoi 65 anni di missione quanto vi è di evangelico, di poetico e di avventuroso nella vita missionaria.
La mia catechesi si svolge in tre punti:
1) Una sintesi della biografia di Clemente Vismara
2) 65 anni in Birmania: una vita spesa per il Vangelo
3) Il Beato Clemente, invocato “protettore dei bambini”
I) Ecco in sintesi i 91 anni di padre Clemente
Clemente Vismara nasce ad Agrate Brianza (Milano) il 6 settembre 1897 da Egidio e Stella Annunciata Porta, a cinque anni rimane orfano della mamma e a sette anche del padre. Dagli zii è messo al Collegio Villoresi di Monza per fare la V elementare, il ginnasio e la prima di liceo. Ma nel 1913 entra nel seminario diocesano di Milano per fare il liceo e il 21 settembre 1916 è chiamato alle armi.
Qui incomincia la prima grande avventura di Clemente Vismara. Entra nell’esercito italiano come semplice fante dell’80° reggimento di fanteria, terza compagnia, “Brigata Roma” e tre anni dopo è congedato (9 novembre 1919) come sergente maggiore. Tre anni di guerra sempre in prima linea. Non parlava volentieri di questa esperienza militare, ma quando sono andato a trovarlo in Birmania nel febbraio 1983, l’ho intervistato a lungo e mi raccontava un episodio che già dice tutto di lui. Ecco il suo ricordo:
“Ho combattuto sul Monte Maio e sull’Adamello e ho maturato la vocazione missionaria durante la vita militare. Siamo arrivati in treno a Verona, ci hanno dato 130 cartucce a testa e mandato subito in prima linea. Il primo giorno abbiamo fatto 40 km a piedi, carichi come somari. Alla sera siamo arrivati ad Altavilla vicentina, eravamo stanchi morti, abbiamo dormito per terra l’uno accanto all’altro. Poi ho visto tante di quella battaglie e tanti di quei morti, che è meglio dimenticarli. La guerra è la degradazione completa dell’uomo. Ho visto tante di quelle sofferenze e di quelle cose sbagliate, che la mia vita ha preso un indirizzo preciso. Ho capito che solo per Dio vale la pena di spendere la vita.
“Un esempio. Mi avevano messo capoposto al fronte. Dovevo mettere le sentinelle, controllare le presenze e cose del genere. La prima notte, faccio un giro per controllare le sentinelle e trovo quella più vicina al nemico. Dove c’era davvero il pericolo di prendersi una pallottola da un momento all’altro, che tremava come una foglia. Un povero ragazzo pieno di freddo, di paura, piangente. Gli ho detto: “Vai indietro e va a dormire. Sto qui io al tuo posto”. Lui non voleva, ma l’ho convinto e sono stato di sentinella tutta la notte. Al mattino ufficiale mi dice: “Non potevi sostituirti a lui” e mi fa una ramanzina coi fiocchi. Poi mi dimette da capo-posto e mi dice: “Chi in guerra prova pietà, non è un buon soldato”. Al diavolo il buon soldato!”.
In questo fatto c’è già tutto il padre Clemente che conosceremo in Birmania: generoso, pronto a sacrificarsi per gli altri, insofferente di ogni regola e di ogni formalismo. Durante i tre anni di guerra viene nominato sergente maggiore e si guadagna tre medaglie al valor militare e una “Croce di guerra”.
Finita la guerra, nel 1919 ritorna nel seminario diocesano di Milano, ma non si adatta più alla vita tranquilla e regolata del seminario. Ha un carattere forte, con 22 anni finisce assieme a ragazzi di 16-18, rispettosi dei regolamenti. Rischia diverse volte di farsi mandare a casa. Nell’intervista che gli ho fatto in Birmania nel 1983 mi diceva:
“Ero un alunno discolo, irrequieto, capobanda nelle monellerie. Ogni tanto volevano mandarmi a casa perchè ne combinavo qualcuna. Ero considerato un ragazzo difficile, troppo vivace e poco disciplinato. Manifestavo una tendenza alla vocazione missionaria e i superiori mi hanno detto: “Vai pure perché i missionari ti mandano tra i selvaggi. Qui sei poco adatto alla disciplina ecclesiastica e ai sacrifici necessari per diventare prete”. E Clemente aggiungeva: “E pensare che in missione di sacrifici ne ho fatti tanti quanti bastano per una decina di preti!”.
Così Clemente entra nel Pime per gli ultimi due anni di studi teologici e anche nel Pime rischia di essere mandato a casa, sempre per lo stesso motivo,ma il rettore del seminario lo salva, garantendo per lui. Terminata la preparazione teologica, è ordinato sacerdote il 26 maggio 1923 e il 2 agosto padre Vismara parte in nave da Venezia per la Birmania. Ci sarebbe rimasto ininterrottamente per 65 anni fino alla morte avvenuta il 15 giugno 1988, salvo un rientro in Italia dal 30 gennaio al 22 dicembre 1957.
Giunge a Toungoo alla fine del settembre 1923, si ferma cinque mesi in casa del vescovo per imparare un po’ di inglese e ambientarsi in quel paese così lontano (clima, cibo, malaria, viaggi a cavallo, ecc.). A metà marzo 1924 parte a cavallo con padre Luigi Sironi, che era giunto con lui dall’Italia, e in 14 giorni di viaggio, il 30 marzo 1924 arrivano a Kengtung, sede centrale della missione della Birmania orientale che stava nascendo, alla quale Clemente era destinato.
Com’è nata la missione di Monglin
Prima di continuare la sua storia personale, ecco una rapida sintesi di come è nata la missione di Kengtung, in un territorio montagnoso e forestale della Birmania orientale oltre il fiume Salween, chiamato “il triangolo d’oro” per la coltivazione dell’oppio, che si estende come tutta l’Italia settentrionale fra Cina, Laos e Thailandia. Ai tempi di Vismara era ancora un regno indigeno sottomesso alla Corona d’Inghilterra ma governato dal loro re (o Saboà) e abitato da varie tribù bellicose (fra le quali gli Wa, i “tagliatori di teste”), spesso in lotta fra di loro, da bande di briganti e di contrabbandieri. Una regione a quel tempo quasi inesplorata. Nel 1912 erano giunti i primi tre missionari del Pime, fondatori della diocesi di Kengtung, col primo vicario apostolico mons. Erminio Bonetta (dal 1927 alla morte nel 1949). Nel 1916 arrivano le prime cinque suore italiane di Maria Bambina, che, accanto ai padri e ai fratelli, danno un’impronta materna alla Chiesa nascente.
Quando Clemente arriva a Kengtung nel 1924, i battezzati erano 500 e i catecumeni circa mille. Padre Bonetta voleva “occupare il territorio” fondando missioni come segno di presenza cristiana nelle varie regioni e tribù.Padre Clemente è destinato a Monglin, circa 125 km da Kengtung e quasi ai confini col Laos. Bonetta e Vismara vi giungono il 27 ottobre 1924 dopo sei giorni a cavallo portando con loro tre bambini orfani e trovando sul posto un catechista mandato da Bonetta mesi prima, che aveva costruito un capannone di fango e paglia, diviso in quattro stanze, con davanti una veranda protetta da una tettoia di paglia.
Vismara scrive in una lettera al superiore generale il beato padre Paolo Manna:
“Entrando la prima volta in quel capannone, mi sentii mancare il fiato: buio, umido, col pavimento in terra battuta pieno di animaletti. Non c’era nessun mobile, nemmeno una sedia. Mi sedevo su una delle casse portate da Kengtung. In mezzo a quella capanna un fuoco, attorno al quale mangiavamo e pregavamo seduti per terra. Era quasi peggio che al tempo della grande guerra, ma questa guerra l’avevo voluta io! L’ambientazione fu durissima, ma il cuore contento. Mi dicevo sempre: tu che hai fatto la battaglia dell’Adamello, tu che sei marcito nel fango della trincea, vuoi dire che non sei capace di adattarti alla Birmania?”.
Bonetta lo lascia a Monglin e ritorna a Kengtung. Consegna a Clemente 119 rupie e una ventina di scatole di sardine, dicendogli che, siccome non ci sono soldi, di non fare nessuna spesa. Clemente gli chiede: “E mangiare? Cosa mangio se non ho niente?”. Bonetta gli risponde: “Chi non lavora non mangia”. Così Clemente si trova tutto solo, con sette orfani da mantenere e povero in canna. Scrive in altra lettera: “Sono l’unico cristiano nel raggio di 100 e più chilometri, se voglio incontrarne un altro debbo guardarmi allo specchio”. I primi mesi in quella solitudine Clemente s’impegna a imparare la lingua shan e quella ikò, ascoltando le parole dalla gente e scrivendole su due quadernetti che portava sempre con sé.
Vive con i tre orfani portati da Kengtung, più altri quattro più grandicelli raccolti dal catechista. Si adatta a mangiare come la gente del posto e i suoi orfanelli: un po’ di riso e poi topi di foresta, cani e scimmie facili da catturare, vermi ed erbe di foresta, radici e cortecce tritate e bollite, pesci deil fiumiciattolo che passa da Monglin. Andava a caccia e poi cambiava la selvaggina con riso. In una lettera dei primi tempi racconta che una volta ha ucciso una tigre. Si era appollaiato su una pianta e aveva messo sul sentiero, dal quale nella notte passava la tigre, una capretta sgozzata. L’odore del sangue attira la tigre e Clemente la impallina!
Nell’intervista che gli ho fatto in Birmania nel 1983 mi diceva:“Allora ero giovane, robusto e mi piaceva il lavoro manuale. Ho disboscato la foresta attorno alla nostra capanna, ho fatto un orto e l’ho cintato per impedire agli animali selvatici di distruggerlo”; e aggiungeva: “Pregavo molto perché capivo che solo con l’aiuto di Dio avrei potuto sopravvivere in quella desolazione e isolamento assoluto”.
Ecco come Clemente racconta il primo annunzio di Cristo[1]: “Fin dall’inizio, il mio apostolato è stato tutto un girare a cavallo o a piedi per i villaggi. Avevo sempre con me i tre orfani, li educavo e loro mi aiutavano in tante cose. Se c’era da mangiare, mangiavamo tutti, se ce n’era poco, prima mangiavano loro e poi io. Portavo con me un po’ di medicine e poi cercavo di aiutare la gente in tanti modi: agricoltura, falegnameria, igiene, medicina, toglievo i denti che facevano male. Più avanti fondai le prime scuole. Quando avevo finito le medicine, il denaro e il cibo, tornavo a casa e mi riposavo un po’, poi ricominciavo. Volevo farmi conoscere, villaggio per villaggio, dicevo a tutti che volevo aiutarli e facevo il possibile per aiutarli davvero. Quando hanno preso confidenza, mi chiedono qualcosa del buon Dio. Quante volte, alla sera, seduti per terra attorno al fuoco a gambe incrociate, ho raccontato le storie di Gesù Cristo! Allora, a poco a poco, i più poveri, poi gli altri, decidono che la religione del prete è quella buona e chiedono di essere istruiti nella fede. Così è nata la Chiesa a Monglin”.
“Obbedisco altrimenti sbaglio”
I suoi 65 anni di missione li spende tutti in due distretti missionari:
1) Prima a Monglin all’estremo est della missione, 32 anni dal 1924 al 1955.Fonda tre parrocchie: Monglin, Mongphyak e Kenglap con 8.000 cristiani e tutte le strutture necessarie.
Ho visitato Monglin nel 1983 e mi ha commosso vedere un grosso centro abitato quasi totalmente da cristiani, con tanti luoghi e costruzioni di cui Clemente aveva scritto nei suoi articoli: la chiesa, la casa del padre e quella delle suore, l’orfanotrofio maschile e quello femminile, l’ospedale, il centro pastorale, la casa dei catechisti, l’officina e la falegnameria, le scuole e le casette dei cristiani, i magazzini e le stalle. Commovente visitare la stanza da letto di Clemente, al secondo piano della casa parrocchiale, col suo letto e sul balcone l’ultima bara di legno tek che Clemente aveva costruito per se stesso. In diversi articoli scriveva che voleva essere sepolto in una bara di legno duro affinchè le termiti non lo mangiassero. L’ultima bara costruita a Monglin è rimasta sul balcone, tenuta come una preziosa reliquia. La mia vocazione missionaria (come di tanti altri) viene da padre Clemente Vismara: da giovane, quanto ho sognato i luoghi mitici di Monglin e dintorni! Adesso ci sono stato davvero e tutto mi sembra un sogno. Un bel sogno di cui ringrazio il Signore.
2) Nel 1955, quando a Monglin aveva fondato una vera cittadella cristiana, portando alla Chiesa numerosi villaggi con 8.000 battezzati,il vescovo, mons. Ferdinando Guercilena, lo sposta all’estremo ovest della missione per fondare, partendo quasi da zero, una nuova parrocchia: a Mongping, fra gente tutta diversa. Clemente non capiva il perché di quello spostamento, però obbedisce e scrive a suo fratello: “Il vescovo mi manda in un posto difficile e io ho obbedito perché sono convinto che se faccio di testa mia sicuramente sbaglio”. Rimane a Mongping 33 anni, dal 1955 alla morte il 15 giugno 1988. Anche fonda due parrocchie, Mongping e Tongtà.
La sua fu una intensa vita di missione, tutta dedita alla sua gente, all’accoglienza degli orfani, alla difesa dei più deboli, dei poveri. Una vita sostenuta da una profonda fede ancorata alla preghiera, soprattutto all’adorazione eucaristica, e vivificata da un incrollabile buon umore, segno di cristiana speranza, ma anche di notevole equilibrio umano. Sapeva trasfigurare la povera (e a volte miserabile) realtà in cui viveva con un forte senso poetico e di fede. Le sue lettere e i suoi articoli manifestavano in pieno la sua personalità e la passione missionaria da cui era animato. Soprattutto colpiscono ancor oggi il suo ottimismo, la sua gioia di vivere, la sua bontà e carità verso tutti, il suo giudizio mai negativo sulle persone. Per lui tutti erano buoni, vedeva in tutti, anche nei più discoli, una scintilla di divino.
Un cammino travolgente verso la beatificazione
Il Beato Clemente Vismara è morto nel suo letto alle 20.15 del 15 giugno 1988 a Mong Ping circondato dall’affetto della sua gente che riconosceva in lui il padre, l’apostolo, l’evangelizzatore, il maestro. E’ sepolto davanti alla Grotta della Madonna di Lourdes da lui costruita. Il 21 giugno 1988, ad Agrate Brianza (Milano), si celebrano i solenni funerali presieduti dal vescovo ed ex-superiore generale del PIME mons. Aristide Pirovano, che inizia cantando il “Te Deum”.
Meno di un mese dopo, alla fine del giugno 1988, il Gruppo missionario della parrocchia di Agrate scrive una lettera al PIME per chiedere l’inizio della sua Causa di Canonizzazione. Il 25 marzo 1990, meno di due anni dopo la sua morte, nella piazza della chiesa parrocchiale di Agrate viene inaugurata la statua del missionario, con un bambino in braccio, opera del nipote, lo scultore Alfredo Vismara.
Il cammino verso la beatificazione è stato rapido, travolgente. Nel febbraio 1991, la E.M.I. pubblica la biografia di Clemente ampiamente diffusa, “ Prima del sole” di p. Piero Gheddo. Molte le richieste di beatificazione del missionario.
Nel febbraio 1993 tre missionari del Pime, i due reduci dalla Birmania padri Gianni Zimbaldi e Angelo Campagnoli, con padre Piero Gheddo, vanno in auto dalla Thailandia a Kengtung, chiamati dal vescovo mons. Abramo Than. Abbiamo parlato con preti, suore e cristiani della diocesi, incontrando testimonianze toccanti sulla santità di Clemente. Il vescovo dice: “Mai a Kengtung avevamo visto una cosa simile. Abbiamo avuto in diocesi tanti altri santi missionari del Pime, che hanno fondato la diocesi, compreso il primo vescovo mons. Erminio Bonetta.Per nessuno di essi si sono verificati questa devozione e questo movimento di popolo per dichiararli santi, come per padre Vismara. In questo io ho visto un segno di Dio per iniziare la sua causa di beatificazione”.
Nel 1995 inizia la pubblicazione il bollettino “Padre Clemente racconta” fatto dagli “Amici di padre Vismara” di Agrate con i ricordi del missionari, le grazie ricevute, le sue lettere e i suoi articoli: oggi il bollettino è inviato a circa 8000 devoti.
Il 18 ottobre 1996 il card. Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, apre ad Agrate il processo diocesano per la Beatificazione di Clemente Vismara, presieduto da mons. Ennio Apeciti; e lo chiude due anni dopo, ancora ad Agrate, il 6 settembre 1998. Tutto il materiale e le testimonianze giurate raccolti sono inviati alla Congregazione dei Santi a Roma. Nel giugno 2001 si consegna alla Congregazione dei Santi la “Positio”, biografia documentata del servo di Dio, firmata dal postulatore padre Piero Gheddo e dalla collaboratrice dott.sa Francesca Consolini.
Il 15 marzo 2008 Benedetto XVI firma il decreto che riconosce Clemente “Venerabile”, cioè che ha praticato in modo eroico le virtù evangeliche.
Poi due anni di intenso lavoro per l’approvazione del “miracolo” attribuito all’intercessione di padre Clemente, da parte della severissima Commissione medica della Congregazione dei Santi. Protagonisti di questo lavoro sono stati il vescovo mons. Than, e, con due viaggi in Birmania alla ricerca di documenti, mons. Ennio Apeciti e il dott. Franco Mattavelli di Agrate. La firma del Papa è il sigillo finale del lavoro fatto. E finalmente la beatificazione di Clemente il 26 giugno 2011, a 23 anni dalla sua morte, a 15 dall’inizio della Causa di beatificazione.
II) 65 anni in Birmania: una vita spesa per il Vangelo
All’inizio degli anni novanta, quando si voleva iniziare il cammino di Vismara verso la beatificazione, alcuni padri della Birmania da me interrogati dicevano: “Sì, Vismara era un sant’uomo, ma farlo diventare Beato è un’esagerazione”. E padre Osvaldo Filippazzi (1910-1996), che era stato con lui fino alla morte di Clemente, diceva[2]: “Se la Chiesa dichiara beato e santo padre Vismara, allora siamo santi anche tutti noi, che abbiano fatto la sua stessa vita”. Aveva ragione. Non solo molti missionari, ma molti cristiani, uomini e donne, sposati e non sposati, meriterebbero questo riconoscimento pubblico di santità.I beati e i santi non sono solo quelli proclamati dal Papa al termine di due processi canonici molto severi (uno diocesano e uno romano). Sono molti di più, infinitamente di più.
Perché questo e non gli altri? Perché anche nelle sterminate schiere di coloro che vivono con eroismo l’imitazione di Cristo, pochi hanno il carisma di “toccare il cuore della gente”, di lasciare un segno visibile e durevole di santità. Madre Teresa era già invocata “santa” durante la sua vita ed è stata rapidamente beatificata da Giovanni Paolo II. Morta nel 1997, beatificata nel 2003. Di suore sante ne ho incontrate tante nei miei viaggi missionari, più di quante si possa immaginare. Ma quando sono morte lo stesso bollettino della loro congregazione si è limitato ad un rapido necrologio: poche righe per 40, 50, 60 anni di vita spesso eroica.
Clemente Vismara meritava davvero questo rapido inizio e altrettanto rapida conclusione della sua Causa di Beatificazione, per lo spirito di fede e di preghiera, l’esercizio eroico delle sue virtù e l’amore appassionato e totalitario al suo popolo, uno dei più miseri della terra, nel quale lui vedeva la scintilla del divino e sapeva valorizzare al massimo la loro commovente umanità.
Vorrei raccontare come Clemente ha vissuto la missione e delineare il suo “spirito missionario”, la sua “santità missionaria”, esemplare per tutti i cristiani e specialmente per i missionari e le missionarie
Giudicava tutto alla luce della fede
Il fondamento del missionario Clemente Vismara era la fede nutrita di molta preghiera. Clemente non ha fatto miracoli né avuto visioni, però, come ha testimoniato un suo confratello, era “straordinario nell’ordinario”, cioè aveva una vita di fede, di speranza e di carità fuori del normale, eccezionale. Non emergeva per particolari doti di predicatore, costruttore, studioso o qualsiasi altra qualità che può creare ad un uomo una vasta fama. Anzi, la sua vita è stata quanto mai comune a quella di tanti altri missionari del Pime nella Birmania dei suoi tempi.
Dove sta la singolarità, la santità di padre Clemente? Non in quello che ha fatto, ma nel come l’ha fatto. Eccezionale è il suo spirito di fede, amore al prossimo specie ai più piccoli e poveri, dedizione e costanza nei suoi doveri, capacità di sacrificarsi, serenità, ottimismo, umiltà, pazienza, distacco dal denaro, fiducia assoluta nella Provvidenza; e anche profonda umanità, buon senso, equilibrio, saggezza in tutto, come ha dimostrato nei suoi 65 anni di vita birmana.
La fede illumina e spiega tutta la vita e la missione di Clemente Vismara: non una fede come fatto intellettuale, ma incarnata nel quotidiano, un sentimento appassionato che si manifestava nell’assoluta fiducia nella Provvidenza e nell’amore al prossimo più povero e abbandonato che incontrava.
Bella la testimonianza data dal suo vescovo mons. Abramo Than ([3]): “Padre Clemente Vismara fu un uomo di fede: vedeva le cose e gli eventi quotidiani con gli occhi della fede. La fede lo metteva in grado di vedere Dio in ogni creatura, specialmente nelle persone povere e abbandonate”.
Il padre Angelo Campagnoli, suo compagno di missione, ha testimoniato di lui ([4]): “Clemente era un uomo di fede pratica, aveva una visione soprannaturale della vita, un profondo abbandono in Dio. Tutto in lui era guidato dalla fede, che era alla base della sua forza e delle sue certezze. Era la fiducia che, nonostante tutto, sarebbe riuscito qualcosa di buono. La fede gli dava la forza di perseverare, anzi di cominciare sempre da capo, anche quando le delusioni si ripetevano. Di qui dunque la perseveranza…Era un uomo entusiasta della sua vocazione e, proprio perché ci credeva con passione eccezionale, riusciva a comunicarla. E credo che la gioia sia un’altra caratteristica, una virtù singolare di padre Vismara. Certo essa era probabilmente una dote naturale e su questa si riposava la sua vita spirituale, in lui non c’era distinzione fra le due sfere”.
Roberto Jeekham, teste che ha vissuto con padre Vismara a Mong Ping, ha testimoniato ([5]): “Ho trent’anni, sono nato nel 1967, sono un laico coniugato della parrocchia di Mong Ping. Sono venuto a Kengtung in quattro giorni di cammino, perché desidero contribuire alla canonizzazione di padre Clemente Vismara. L’ho conosciuto quando era a Mong Ping e io devo a lui la mia conversione. Infatti io ero animista ed egli mi ha condotto alla fede ed ora sono contento di essere cristiano cattolico. Per quanto io ricordo, padre Vismara era un vero maestro di fede. Ciò che mi convinse a credere in Gesù Cristo fu proprio la grande fede di padre Vismara e la sua grande carità. Egli pregava sempre e insegnava a pregare e ad avere fiducia in Dio, ricordandosi di Lui ogni giorno. Padre Vismara aveva una grande fiducia nella Provvidenza di Dio, nelle sue prediche non mancava l’invito a non perdere mai la speranza; a ricordarsi che Dio ci è vicino ogni giorno e non manca mai di darci ciò di cui abbiamo bisogno, soprattutto se cerchiamo di fare del bene agli altri, ai bisognosi e alle nostre famiglie.
“Egli era bruciato dal desiderio di salvare le anime e non era mai a riposo; era sempre in viaggio nei villaggi per sostenere la fede nei cristiani e andava nei villaggi degli animisti per annuziare il Vangelo. Lo faceva senza paura, con il sorriso sulle labbra, con il suo stile simpatico e disponibile e dare un aiuto a chiunque ne avesse bisogno, soprattutto se erano i piccoli. Io non ho mai sentito nessuno lamentarsi per aver avuto dei suggerimenti sbagliati da padre Vismara. Egli ascoltava e dava il consiglio giusto per ognuno. Era certamente ispirato da Dio, dalla fede e dalla sua preghiera”.
Molti fra quelli che hanno conosciuto padre Clemente testimoniano di questa sua gioia che veniva dalla fede e dalla visione soprannaturale delle cose.
Padre Rizieri Badiali, con lui a Monglin dal 1952 al 1954, ha testimoniato al processo diocesano ([6]): “Padre Vismara sopportava tutte le prove con gioia, perché diceva che se eravamo perseguitati voleva dire che tutto andava bene. Era la sua fede, una fede entusiasta, gioiosa, piena del desiderio di salvare le anime, una fede biblica, giacché la vita cristiana per lui era basata sui fatti, sul nostro essere conformi alla volontà del Signore… Questa fu la fede di padre Clemente, che lo sostenne per tutta la vita fino alla morte, con una grande allegria, una grande voglia di vivere che sentiva per sé e per i ragazzi che accoglieva appena poteva”.
Suor Battistina Sironi delle suore di Maria Bambina, per trent’anni con con Clemente a Mongping dal 1958 fino alla sua morte nel 1988, nella lunga intervista a padre Piero Gheddo il 17 febbraio 1993 a Kengtung ha detto ([7]):“Era sempre allegro. Quando aveva dei fastidi cantava, nella sua casa. Allora noi suore chiamavamo i bambini e li portavamo in chiesa a pregare per il padre Clemente, che aveva grane grosse”.
Una fede “semplice ed entusiasta”
Com’era la fede di padre Clemente? Semplice ed entusiasta. Semplice, nel senso che non era profondo nella conoscenza dei misteri di Cristo e della Parola Dio, non faceva discorsi e ragionamenti. Dice suor Battistina: “Per lui tutto era semplice, facile, bello. Basta amare il Signore e la gente, non ci sono problemi”. Suor Battistina aggiunge: “Leggeva molto, tanti libri e riviste. I problemi li conosceva, ma poi era superficiale nel risolverli. Per lui non c’erano difficoltà, tutto era chiaro e semplice. Era fedelissimo alle cose importanti e basta”
Al processo diocesano a Kengtung suor Battistina ha testimoniato ([8]): “Non ho mai conosciuto un uomo con una fede così grande come padre Clemente. Fu veramente un uomo di preghiera, pieno di pietà e di carità verso tutti, specialmente i poveri e ancor più verso i piccoli. Quando non c’era niente da mangiare, lui mi diceva: ‘Lei stia qui con bambini che io vado in chiesa’. Andava in chiesa a pregare e certamente poco dopo arrivava il riso necessario. Tenete conto che c’erano già allora cento orfani a cui dare da mangiare ogni giorno! Pregava tanto. La sera soprattutto diceva il Rosario: non l’ha mai tralasciato neppure un giorno. Anche la Messa la celebrava ogni giorno con grande devozione e raccoglimento”.
Ciò che più mi ha colpito, nei cinque giorni che siamo stati assieme nel 1983 è stata la sua gioia di vivere e la sua inalterabile fiducia nella Provvidenza. Eppure, a 86 anni viveva in situazioni disastrose, fra guerriglia, briganti e contrabbando dell'oppio, circondato da tribali primitivi che morivano di morte violenta, di fame, denutrizione e malattie a 40-45 anni, col medico più vicino a 86 chilometri (con quelle strade!). Molti testimoni parlano della sua fedeltà alla preghiera, la Messa e l’adorazione eucaristica, il Rosario quotidiano, la meditazione e le buone letture lo mantenevano in contatto con Dio. La sua gente lo riteneva “un vero uomo di Dio”, di eccezionale fedeltà a Dio e alla Chiesa.
Padre Mario Meda, missionario a Kengtung dal 1958 al 1966, mi diceva[9]: “Padre Vismara diceva molti Rosari, secondo il consiglio di mons. Bonetta. “Seminiamo molti Rosari nei nostri viaggi e nelle nostre giornate, porteranno frutti di conversione”. So che padre Clemente diceva tuti i giorni il Rosario intero, 150 Ave Maria e compiva tutti i giorni le pratiche di pietà dell’antica tradizione sacerdotale. Viveva con fedeltà la sua vocazione, senza complicazioni, non sognava cose diverse, era libero da qualsiasi genere di complessi, credo non abbia mai avuto problemi di fede o di difficoltà ad essere un buon cristiano, prima che un buon sacerdote e missionario”.
Un catechista di padre Clemente, Anselmo U, ha dichiarato al tribunale del processo per la beatificazione: “Padre Vismara aveva sempre in mano la corona e molte volte mi chiedeva di recitare il Rosario con lui. Abbiamo sopportato assieme molte fatiche: andavamo a visitare i villaggi lontani e spesso dovevamo dormire sotto gli alberi e sotto le stelle, perché non eravamo ancora arrivati. Eppure padre Vismara era sempre sereno e sorridente. Non l’ho mai visto arrabbiato. Qualche volta si ammalava ed era molto debole: allora mi diceva di pregare e far pregare la gente del villaggio in cui ci trovavamo”.
Padre Clemente Hla Shwe, un suo orfano, diceva al tribunale diocesano per la beatificazione: “Era certamente un uomo di preghiera, un uomo di grande fede, direi di una fede sorridente, perché sorrideva sempre. Comunicava tanta gioia ed entusiasmo a chiunque lo accostasse. Anche a me, quando ci incontravamo, mi esortava sempre ad essere un prete zelante nel lavoro apostolico, anche pieno di gioia e di sorriso". Quando uno dei suoi ragazzi gli taglia i capelli dice a Clemente: “Sì, sei bello!”, lui pensa un po’, sorride e dice: “Ma noi la bellezza l’abbiamo dentro!”[10].
Clemente è l’autentico missionario a servizio dei più poveri, impegnato in campo educativo e sociale, capace di donare la vita per gli altri, ma anche, e prima ancora, testimone e annunciatore di Gesù Cristo con la sua stessa vita.Nessuno ha mai pensato che fosse un operatore sociale, un organizzatore di consenso politico, un propagandista di qualsiasi ideologia. Per tutti era un prete, un uomo di Dio.
Nella preghiera per la beatificazione di padre Clemente diciamo: “Fa, o Signore, che abbiamo anche noi quella fede semplice ed entusiasta che è stata l’anima di padre Clemente e dei suoi 65 anni di missione”. Suor Mary Paul di Maria Bambina, interrogata nel 1997 a Kengtung quando aveva 32 anni, testimonia[11]: “Padre Vismara pregava moltissimo e quando gli chiesi perché ogni giorno pregasse tanto, mi rispose che doveva pregare tanto perché c’erano tanti bisogni, perché noi bambini eravamo tanti, perché i benefattori erano tanti, perché i cristiani della missione erano tanti e tutti avevano tanti problemi. E allora lui pregava. Noi eravamo sicuri che, se non era in casa a leggere o a scrivere o al lavoro come tutti noi, lo avremmo trovato in chiesa a pregare. Questo lo sapevano tutti…”.
Che bel ricordo di Clemente! Non solo perché pregava molto, ma perché ha saputo trasmettere col suo esempio quella “fede semplice ed entusiasta” che era l’anima della sua vita. Questa giovane suora che ricorda le parole precise del missionario, dimostra anche lei di aver ricevuto una fede semplice, non complicata. Clemente la convinceva fin da bambina: è cresciuta avendo ben chiaro nell’animo e nel cuore il rapporto fra le necessità dell’uomo e il bisogno di ricorrere a Dio.
Che vuol dire “la fede semplice ed entusiasta di padre Clemente”? Una fede non complicata, ma quasi elementare, che capiscono anche i bambini; e vivere la fede con entusiasmo, cioè in uno spirito di ringraziamento e di donazione a Dio per averci fatto questo grandissimo dono. Noi chiediamo a Dio non solo una fede semplice, ma anche entusiasta: cioè capace di commuoverci, di impegnarci a fondo, anche con sacrificio, a servizio di Dio e della Chiesa. Non una fede seduta, in pantofole, che non disturba il nostro tran-tran quotidiano, ma che ci rende disponibili a rinunzie e sofferenze per fare il bene e fuggire il male. Se non c’è entusiasmo nelle cose che facciamo o in cui crediamo, non c’è nemmeno soddisfazione, non c’è il premio della gioia e della serenità di spirito.
Fiducia assoluta nella Provvidenza
La forte fede di padre Clemente è provata dal suo distacco dal denaro e dalla sua vita povera. Suor Battistina raccontava che non aveva mai tenuto conto dei soldi che aveva: spendeva tutto per gli altri e la Provvidenza gli mandava sempre il necessario. Questo il suo sistema economico: aveva un cassetto chiuso a chiave, in cui metteva una borsa coi soldi che riceveva (la banca più vicina a 120 km) e quando ne aveva bisogno per comperare riso o medicine tirava fuori il necessario e ce n'era sempre. Suor Battistina era convinta che il buon Dio aggiungesse sempre qualcosa al momento giusto, perchè non erano mai rimasti a secco del tutto. “Non ho tempo per fare i conti”, diceva. Semplicemente, si fidava della Provvidenza e aiutava anche i confratelli e i sacerdoti locali che erano in difficoltà per le loro missioni.
"Per sè non comperava mai nulla, diceva la suora. Aveva un paio di scarponi da montagna che gli è durato tutta la vita. Quando è morto abbiamo fatto fatica a rivestirlo perchè nella sua stanza non aveva nulla al di fuori del normale cambio di biancheria, di pantaloni e di veste da prete. Per sé non comperava mai nulla. Aveva un vecchio paio di scarponi da montagna portati dall’Italia, l’unica volta che tornò in patria nel 1957. Guai a dirgli che doveva comperarsi un paio di scarpe nuove!Aveva maneggiato tanti milioni, ma erano finiti tutti in riso, medicine e vestiti per i suoi bambini e i poveri. Padre Clemente non rifiutava mai nessuno. Venivano da lui i rifiuti della società: lebbrosi, oppiomani, ladri scacciati dai villaggi, vecchie senza famiglia, pazzi, sciancati, deformi, anche famiglie che fuggivano dalle zone di guerra. Il suo vanto era di dar da mangiare e di ospitare tutti”. Nella miseria di quella regione, mangiare ogni giorno era la prima urgenza per tutti.
A Dio si affidava con semplicità e speranza e ripeteva il detto manzoniano: “La sempre provveduto a tutto. Significativo quanto afferma il testimone Moses Lee Jin nel processo diocesano a Kengtung[12]: “Quando i suoi amici chiesero a padre Clemente come potesse procurarsi il denaro per nutrire i suoi orfani, egli disse: E’ Dio che li nutre, non io. E’ Dio che manda il denaro per loro”.
Diversi altri testimoni sostengono che nemmeno nei momenti più difficili egli non perse mai la speranza e la fiducia in Dio. Alcune vicende descritte nella “Biografia documentata” (nella “Positio”) presentano infatti Clemente in situazioni altamente drammatiche: durante la seconda guerra mondiale e dopo: durante la guerriglia, egli si trovò solo a proteggere il villaggio, la sua gente, le suore e non gli era ignota la morte di altri suoi confratelli uccisi in analoghe situazioni. Ma lui era sicurissimo che Dio vegliava sulla sua gente, sui suoi orfani e sui suoi poveri.
Un confratello mi ha detto: “Vismara non è mai invecchiato”. E’ vero. Quando sono stato con lui in Birmania cinque o sei giorni (nel 1983), aveva 86 anni e mi stupiva la sua gioia di vivere, il sorriso, la facilità di fare battute. Non voleva parlare della sua vita passata, che io già conoscevo dai suoi articoli, voleva parlarmi del suo futuro e del futuro della sua missione di Mongping. Non si era mai lasciato indurire dalle difficoltà, dalle sofferenze e dalle disillusioni della sua lunga vita.
Lui stesso ha scritto[13]: “Io non sono mai invecchiato; credo di essere passato attraverso tre successive giovinezze. L’aurora: giovinezza di sogni, spensieratezza, irrequieta ed anche incosciente. Il meriggio: giovinezza di sacerdote, fattiva, laboriosa, faticosa, ma soddisfacente. Il tramonto: giovinezza pacata e lenta, meno rumorosa, ma più efficace, forse più umana e comoda… La vita non può fiorire se rimane rinchiusa nei suoi angusti limiti; essa si rinnova e si moltiplica offrendola. Ho creduto nell’amore ed ho amato senza pretesa di essere riamato. Disillusioni e malinconie non so cosa siano”.
III) Il Beato Clemente, invocato “Protettore dei bambini”
Clemente Vismara è invocato “Protettore dei bambini” e diverse grazie, attribuite alla sua intercessione, riguardano i minori. Anche il miracolo approvato per la sua beatificazione. Lo racconto brevemente.
Joseph Tayasoe di 10 anni, dell’orfanotrofio di Mong Yang, il 12 febbraio 1998 è caduto a testa in giù da un albero maestoso, sul quale era salito con altri ragazzi per raccogliere dei frutti, da 4-5 metri di altezza. Batte la testa su un pietrone che esce dal terreno inondandolo di sangue e rimane in coma per tre giorni, con trauma cranico, ferita lacero-contusa al cuoio capelluto e frattura della scatola cranica.
Il bambino è portato nell’ospedaletto di Mong-Yang da un uomo con una motoretta e una ragazza dietro che teneva Joseph con la testa sfondata. I segni del coma profondo erano visibili anche all’esterno: midriasi (dilatazione abnorme) della pupilla dell’occhio sinistro, incontinenza sfinterica vescicale, sangue che usciva dal naso e dalle orecchie, coma senza nessuna variazione per tre giorni completi. E’ stato curato cucendogli il cuoio capelluto con 12 punti, col cortisone, una terapia contro l’edema e nutrito con fleboclisi. Il ragazzo è stato adagiato in letto. Il medico ha avvisato i parenti che la situazione di Joseph era “hopeless”, cioè senza speranza.
Dopo preghiere a padre Vismara, il mattino del quarto giorno Joseph si sveglia improvvisamente e dice alla mamma che lo assisteva: “Mamma, cosa faccio qui? Dammi da mangiare, ho fame!”. La mamma, poverina, gli dà da mangiare, contenta che il figlio si è risvegliato. E’ stata una guarigione improvvisa, totale e permanente.
“I ragazzi sono il tesoro del missionario”
Sono stato postulatore della Causa di Clemente fino al 2009 (a 80 anni bisogna dare le dimissioni), ho conoscenza di molte grazie ricevute per sua intercessione, quasi tutte per i figli, i fidanzati, gli sposi che attendono un figlio e lo ottengono, che vorrebbero separarsi e poi si ricongiungono, ecc. L’amore di Clemente per i bambini e le bambine orfani o abbandonati si manifestava soprattutto nel fatto che ne voleva prendeva tutti quelli che gli erano offerti e quando alcuni orfani andavano nei loro villaggi in vacanza diceva di non di portare qualcun altro con sé.
Suor Battistina mi ha detto che a volte diceva a Clemente[14]: “Padre, non prenda più ragazzi e ragazze, ne abbiamo già troppi, come facciamo a mantenerli tutti?”. Lui le chiedeva: “Suora, oggi ha mangiato?” e lei rispondeva di sì. “Allora stia tranquilla che mangerà anche domani”. Quando tornava da qualche visita ai villaggi sui monti, Clemente andava da Battistina e le diceva: “Superiora, ho qui un bel regalo per lei”. “Non voglio i suoi regali”, diceva la suora, che così continua: “Ma lui me li faceva lo stesso ed erano sempre orfani, emarginati, bambini deformi, vecchie sdentate, mendicanti, oppiomani, ladri scacciati dai villaggi (a volte gli tagliavano un dito per punizione), anche famiglie che fuggivano dalle regioni di guerra o occupate dai comunisti, senza nulla. Insomma, tutti i rifiuti della società… Anche poco prima di morire, mi raccomandò di non rifiutare nessun bambino e io ho mantenuto questa promessa. Fino ad oggi egli dal Cielo ha provveduto ai suoi piccoli”.
Ho pubblicato il volumetto “Clemente Vismara, il santo di bambini”[15], una raccolta, incompleta ma significativa, dei suoi articoli sui bambini e ragazzi con i quali è vissuto nei suoi 65 anni di Birmania (1923-1988). Su Vismara ci sono altri libri ([16]), ma questo mette in risalto come educava gli orfani e i bambini abbandonati e può insegnare qualcosa anche a noi, che viviamo in un ambiente così diverso dal suo, come educare i minori è uno dei problemi più ardui e difficoltosi del nostro tempo.
Questi testi su bambini e orfani rivelano più d’ogni altro lo spirito con cui padre Vismara evangelizzava, rispettando l’uomo, e anche il bambino, nelle sue libere scelte, nella sua maturazione psicologica e nel cammino di fede. Questo era il “metodo missionario” usato in passato (in parte anche oggi) per fondare la Chiesa in Birmania: raccogliere orfani e bambini abbandonati, rifiutati dai villaggi per mille motivi, educarli, istruirli, farne dei buoni cittadini e possibilmente buoni cristiani.
“Data la durezza dei vecchi e la docilità dei giovani, ho raccolto più ragazzi che ho potuto. Sono tutti monelli, figli di pagani, con loro me la intendo così bene che mi son divenuti necessari. Essi sono la mia famiglia, i miei genitori, tutti i miei parenti, tutta l'Italia intera; con loro non ho bisogno di cercare altro affetto, con loro sono felice e di tutto risarcito. Altrettanto poi io sono per loro, credo”. Così scriveva Clemente ([17]). Dai giovani nasce la Chiesa. “Queste birbe, scriveva, divorano me, ormai grigio, mangian del mio. Tutta la mia vita è spesa per loro. Mi mangeranno vivo fino a che morrò: ma da questi teneri, cari, amati e spennacchiati virgulti, sorgerà (non ne dubito) la nostra Chiesa!” ([18]).
Nelle lettere e negli articoli di Clemente ci sono espressioni di gioia, di tenerezza verso i suoi bambini e ragazzini. “Questi orfanelli sono la mia calamita, non saprei separarmi da loro benché sia un uomo vicino al tramonto. Loro vivono perché io sono vivo e io vivo per donare loro da vivere. Siamo indispensabili: io sono utile a loro, loro necessari a me e ci vogliamo bene… Non duecento, ma duemila ne vorrei con
me. Voi siete il mio futuro!” ([19]). “Poveri ragazzi, quanto sono poco curati e maltrattati!.... Perdendo i genitori ricevono per cibo percosse e busse” ([20]).
Il suo metodo educativo era basato sull’amore gratuito. Si mette sullo stesso piano dei suoi piccoli, nonostante l’abisso culturale, religioso, economico che c’era fra lui e loro; è anche lui un poveretto, un nullatenente, un orfano che non ha più nessuno. Se un bambino gli dice che ha perso papà e mamma, non ha più famiglia, lui replica: “Anch’io sono come te, non ho più nessuno. Vieni, ci vorremo bene”.
La vera testimonianza evangelica di padre Vismara nel mondo pagano è stata di amare senza pretendere di essere amato, donare senza aspettarsi riconoscenza. U Sai Lane, testimone buddhista al suo processo di canonizzazione e per trent’anni suo grande amico a Mongping, ha dichiarato: “Quando io gli dicevo: ‘Padre Vismara, tu dai da mangiare a tanti bambini, ma quando diventeranno grandi, loro non ti daranno niente’; lui rispondeva: ‘Io faccio queste cose non per me, ma solo per Dio. Io lavoro per Dio. A me basta amarli come li ama Dio. Basta che siano brave persone, che credono in Dio, che pregano e cercano di essere buoni’” ([21]).
Non si può educare se non si ama
Padre Vismara amava tutti, non escludeva nessuno: l’uomo era al centro della sua attenzione; l’uomo senza “se” e senza “ma”, in modo che parrebbe persin esagerato. Come quando la sua carovana incontra per strada i briganti che portano via tutto, anche il cibo che avevano con sè per il viaggio. Lui poi commenta: “Poveretti, anche loro avevano fame!” ([22]).
Quand’è con i suoi piccoli, anche i più piccolini e ammalati, diventa il nonno affettuoso, ragiona con loro, parla loro come se fossero adulti. Gli portano un bambino di pochi mesi gravemente denutrito; lui lo accoglie e racconta: “Gli misi in bocca un cucchiaino di zucchero, non sorrideva. Gli scendevano le palpebre a metà occhi, pareva un vecchio senatore del Campidoglio. Di bello aveva i dentini bianchi come l'avorio… Sicuro, bimbo mio – gli dico - la vita è seria, ma questo non lo sapeva tua madre, come lo puoi sapere tu? A ogni modo la carestia per te è passata, soffrirai di meno. Qui ci sono tre suore, ti faranno da mamma. E per incominciare a farti star bene, domani, che è S. Marco, ti battezzerò e ti chiamerò Marco… Marco fu figlio di Dio per 4 mesi e mezzo, fu soldato di Cristo per un sol giorno, giacché gli amministrai la S. Cresima; ora da tre giorni vive in Paradiso. Riposa in pace, Marco,tu hai sofferto tanto. Mai né baci, né carezze sfioravano la tua pallida guancia. Una suora ti cullava e tu non lo sapevi. Maternamente una bianca mano di vergine ti non lo sapevi. Prega per noi, Marco, prega per noi che ci par di sapere!” ([23]).
Clemente aveva un bel carattere: sempre sereno, fiducioso, ottimista. Dava fiducia a tutti i suoi ragazzi, compresi i più discoli. Era sicuro che anche dagli elementi che a volte sembrano irrecuperabili, Dio può trarre germi di Vangelo. Ci sono dei racconti bellissimi, che mettono in risalto la sua fiducia nella capacità di redenzione dei suoi orfani, che venivano da famiglie e da situazioni spesso disumane, di degradazione a causa dell’oppio e della miseria estrema. Clemente vedeva in tutti l’uomo, la donna, creati da Dio “a sua immagine e somiglianza”. Era un vero educatore perché partiva da questa visione di fede e di amore. I suoi racconti dimostrano quanto diceva San Giovanni Bosco: “Non si può educare senza amare”. Dava la vita per i suoi “orfanelli” e quindi era nella situazione migliore per amarli, per condividere i loro pensieri e sentimenti, per capirli fino in fondo.
Quando nella sua truppa c’è un ragazzo (“Ciau”) che lui stesso definisce “proprio cattivo”, tutti dicono di non lasciarlo perdere, è tempo perso tentare di educarlo. Clemente ha pazienza e confida nell’aiuto di Dio ma anche nei sentimenti buoni che albergano in ogni uomo. Lo tratta bene, se lo fa amico, rispetta la sua dignità e libertà e ha poi la consolazione di vedere che anche Ciau è capace di un grande gesto di amore verso il missionario. Quando è ammalato e sospira di avere un po’ di limoni, ma a Mongping non si trovano, Ciau scappa e va di corsa a sei chilometri di distanza dove c’è una coltivazione di limoni, per portargliene un tascapane pieno. Il maestro lo prende a scapaccioni perché è scappato e gli dice che il missionario gli darà il resto. Ma Ciau dice a Vismara: “Battimi pure, ma io i limoni li ho qui, e sono andato a prenderli per te”. Dove li hai presi? “Sulla pianta” ([24]).
“Il prete che sorride sempre”
Il Beato Clemente Vismara trasmetteva i tratti caratteristici della sua personalità: l’amore alla vita e la gioia di vivere, prorompente e straripante pur nelle situazioni più drammatiche. La gente e i suoi ragazzi lo chiamavano “il prete che sorride sempre”. Scrivendo la biografia di Clemente e pubblicando i suoi articoli e le sue lettere, spesso mi sono commosso e mi son chiesto come si potrebbe caratterizzare, con una sola parola, tutta la sua vita: “Il santo dei bambini” o “Il santo della carità” o “Il santo della gioia” o “Il santo della Provvidenza”?
Un lettore della sua biografia, che soffriva di depressioni, testimonia: “Dopo la lettura di ‘Prima del sole’, il sole rinasceva anche in me. La gioia era in ogni pagina: il sacrificio, l’isolamento, le difficoltà assumevano un aspetto positivo perché visti e vissuti con una carica vitale sorprendente. Si scopre che vivere il cristianesimo non significa essere tristi. La gioia è forse il carisma più avvincente di padre Clemente, gioia che scaturisce dal saper scoprire il lato positivo di ogni cosa, dal dimenticare se stessi per vivere generosamente per gli altri, dal vivere la fede che capovolge i valori effimeri della nostra società materialista ed egocentrica”.
Suor Battistina Sironi, con Clemente a Mongping dal 1958 fino alla sua morte nel 1988, il 17 febbraio 1983 mi ha detto a Kengtung ([25]): “Era sempre allegro. Quando aveva dei fastidi cantava nella sua casa. Allora noi suore chiamavamo i bambini e li portavamo in chiesa a pregare per il padre Clemente, che aveva grane grosse”.
Suor Carmelina Teruzzi delle suore di Maria Bambina, missionaria in Birmania dal 1951 al 1966, ha testimoniato al tribunale diocesano: “Non ho mai sentito nessuna suora lamentarsi di padre Vismara. Si lamentavano di qualche altro missionario ogni tanto, mai di padre Vismara. Tutti ne dicevano bene. Nulla fu mai detto di lui né per la morale, né per il comportamento, né per il linguaggio. Padre Vismara era molto sensibile… Tutti lo vedevano bene e ne avevano stima perché aveva un modo di fare gioioso e ilare, senza scadere in recriminazioni e tristezze. La sua gioia era sempre colma di estrema finezza e delicatezza. So che la gente lo amava perché era un uomo che cercava di fare del bene a tutti e aiutava tutti” ([26]).
Un’altra suora di Maria Bambina, Patrizia Zucchini, missionaria in Birmania dal 1948 al 1966, testimonia: “Non offendeva mai nessuno e cercava di portare la pace. Era un pacificatore, sempre pronto a perdonare… Colpiva il suo atteggiamento sempre gioioso, della gioia del fanciullo, capace di umorismo e barzellette. Il tempo passava veloce quando si stava con lui. Era una persona forte di amore di Dio, carico di fede e di amore, una bella personalità. Certo, anche gli altri missionari erano bravi, zelanti, pieni di fede, ma padre Vismara lo era in modo diverso dagli altri: era eccezionale” ([27]).
Evangelizzare vuol dire insegnare a lavorare
Cosa insegnava anzitutto Clemente ai suoi ragazzi? A leggere e scrivere? No! L’igiene e le buone maniere? No. L’obbedienza e la disciplina? No! Il catechismo? No!…. Insegnava anzitutto a lavorare! L’ambiente pagano (lo dice nelle sue lettere) rifiuta il lavoro fisico: l’ideale è vivere senza lavorare (non siamo un po’ pagani anche noi, nella nostra società, come si dice, “post-cristiana”?).
Nel 1924 a Monglin, si trova in un ambiente umano ancora vergine, non toccato dal mondo moderno, con popolazioni che vivevano in modo miserabile, analfabeti, soffrivano la fame, erano vittime di guerriglie e brigantaggi, di tante malattie, di sistemi sociali oppressivi, ecc. La media della vita umana non era superiore ai 35 anni! Eppure pensavano di vivere nel miglior mondo possibile. Si chiede cosa può fare per annunziare Gesù Cristo in modo concreto: come annunziare la “vita nuova in Cristo” in modo che tutti capiscano e che i suoi orfani siano educati a seguire il suo esempio? Si rende conto che insegnando una “dottrina nuova” non basta.
Nel racconto “Evangelizzare, cioè insegnare a lavorare” ([28]), Clemente scrive spesso:il cristianesimo ha nobilitato il lavoro dell’uomo; quindi, prima di insegnare il segno della Croce, bisogna insegnare a lavorare. Clemente scrive: “Seguendo la mentalità pagana questa gente montanara non si svilupperà mai. E’ necessario suonar la sveglia… Sono venuto nella persuasione che la cosa principale, che racchiude tutte le altre, anche quelle spirituali, è che debbo insegnare ai miei ragazzi a lavorare. Tutto il resto verrà da sé…. Io voglio il lavoro non per ricavarne profitto…. Facciano quindi stecchini o zappino la terra, per me è tutt’uno: basta che siano occupati e lo siano tutto il giorno. Ottenere questo da gente in cui è innata la libertà selvaggia delle foreste, ove, se non si reca tanto danno a terze persone, si fa o non si fa tutto quello che si vuole, è affare di un gigante di... pazienza. Anche Giobbe la perderebbe!” ([29]).
Non servono parole, esortazioni o minacce. Bisogna dare buon esempio e tirarli dietro: c’è “da rifare tutto l’uomo”. Ecco il Clemente spaccalegna, coltivatore diretto, ortolano, falegname, muratore, infermiere, direttore di scuole e di pensionati per orfani, facchino, ecc. Si lamentava della naturale indolenza e del fatalismo caratteristici della sua gente, portata al disimpegno. Con i suoi ragazzi cercava di stimolarli, di “dare la sveglia” come ripete spesso. Il lavoro è il primo indispensabile passo per diventare cristiani.
Uno dei suoi impegni, proprio come missionario di Cristo è stato di lavorare materialmente, anche quando non ne aveva più le forze e soffriva di mal di schiena e di sciatica: spaccava la legna, coltivava l’orto, si impegnava nella falegnameria, ecc.
Voleva insegnare a tutti la dignità del lavoro e l’impegno che ciascuno ha di lavorare. Nella società pagana, scrive più volte, il lavoro manuale è disprezzato, lavorano le donne, i bambini, gli schiavi e i prigionieri. L’uomo adulto, nell’ambiente conosciuto da Clemente, è in genere fiacco, ozioso, non ha voglia di lavorare. Venivano da lui poveracci a chiedere da mangiare o un po’ di soldi. Clemente dava a tutti, ma chiedeva in cambio un po’ di lavoro. Ad uno che veniva a chiedere l’elemosina dice: "Se lavori, invece di una rupia te ne do quattro. Fa pure quel lavoro che vuoi, a me basta poter dire di non darti i soldi per niente". "Di lavorare non ne ho mai avuto voglia", risponde l’altro. Allora il geniale Clemente inventa una trappola che mette in crisi l’ozioso. Non la rivelo per non togliere il gusto di apprenderla dalle sue stesse parole nel corso del volume “Clemente, il santo dei bambini”.
In una lettera ai ragazzi e ai giovani per il “Congressino missionario” del Pime a Milano nel settembre di ogni anno, li invita a seguirlo e scrive: “Io vi attendo, ragazzi, a braccia aperte; andremo pel mondo a rendere felici gli infelici. Raccoglieremo tutti senza chiedere il nome, senza chiedere la fede, nulla chiederemo: a noi basta lenire il dolore, fugare la miseria, donare la speranza, la vita” ([30]) .
Stando con lui in Birmania nel 1983, mi venivano in mente le parole di Gesù: “Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli”. Aveva 86 anni e non voleva parlare del suo passato, ma del suo futuro, mi diceva di quel che aveva ancora da fare. I suoi confratelli dicevano: “E’ morto a 91 anni senza mai essere invecchiato”. Aveva ancora l’entusiasmo dei suoi primi anni di missione.
6)
P. Gheddo, “Prima del Sole – L’avventura missionaria di padre Clemente
Vismara”, EMI 1998 (terza edizione, pagg. 222); C. Vismara, “Il
bosco delle perle”, EMI 1997 (terza edizione, pagg. 156); C. Vismara,
“Lettere dalla Birmania”, San Paolo 1995 (pagg. 239). Oltre ad altre
minori, vanno ricordate le due pubblicazioni edite dalla Congregazione
dei Santi per la causa di canonizzazione: la “Copia pubblica” del
processo diocesano in nove volumi (formato A4) per 3.480 pagine
complessive con tutti i documenti relativi alla causa (testimonianze,
lettere e articoli di Vismara, ecc.); e la “Positio super vita,
virtutibus et fama sanctitatis” (Roma 2001, pagg. 552, formato A4),
biografia documentata, con la riproduzione di varie testimonianze e suoi
testi, preparata dalla collaboratrice del postulatore, dott.sa
Francesca Consolini; quest’ultima opera ancora acquistabile presso il
postulatore padre Piero Gheddo o presso gli “Amici di padre Clemente
Vismara” ad Agrate Brianza, al prezzo di Euro 50 la copia cartonata;
Euro, 65,00 la copia rilegata in rosso.
[19])Lettera di Vismara a padre Fedele Giannini, Mongping 8 dicembre 1981 (Copia pubblica, vol. V, pagg. 2029-2030).
[22]
) Però ci sono anche altre testimonianze come quella di suor Natalia
Nale, suora della Divina Provvidenza che accompagnava il vescovo mons.
Than in visita a Mongping e a volte p. Clemente e li riaccompagnava a
Kengtung: “Una volta fummo assaliti dai briganti, che ci portarono via
tutto quello che avevamo. Padre Vismara intervenne con energia, dicendo
loro che, se ci rubavano per avere cibo e vestiti, non dovevano fare
questo a danno della povera gente e che egli stesso avrebbe provveduto a
dare loro cibo. Disse queste cose con coraggio, dando una leggera
sberla sul volto del capo dei briganti. Essi rimasero così impressionati
dal tono autorevole di padre Vismara e dalle sue parole convinte, che,
tutti confusi, restituirono ogni cosa a padre Vismara, il quale pretese
gli promettessero di non fare più cose del genere” (“Positio”, pag.
185).
Postato da: giacabi a 12:11 |
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santi, padre vismara
San Rocco Gonzalez de Santa Cruz Martire
15 novembre
Paraguay, 1576 - Caaro, Brasile, 1628
Emblema: Palma
Martirologio Romano: In località Caaró in Paraguay, santi Rocco González e Alfonso Rodríguez, sacerdoti della Compagnia di Gesù e martiri, che avvicinarono a Cristo le diseredate popolazioni indigene fondando i villaggi chiamati reducciones, nei quali il lavoro e la vita sociale si coniugavano liberamente con i valori del cristianesimo, e furono per questo uccisi in un agguato dal sicario di uno stregone.
Anche
se figlio di coloni spagnoli, si può considerare il primo santo del
Paraguay, perché nato e vissuto nello Stato sudamericano. Nacque nel
1576 ad Asunción, capitale del Paraguay e già a 14 anni convinse alcuni
compagni a ritirarsi in luoghi solitari per fare penitenza.15 novembre
Paraguay, 1576 - Caaro, Brasile, 1628
Emblema: Palma
Martirologio Romano: In località Caaró in Paraguay, santi Rocco González e Alfonso Rodríguez, sacerdoti della Compagnia di Gesù e martiri, che avvicinarono a Cristo le diseredate popolazioni indigene fondando i villaggi chiamati reducciones, nei quali il lavoro e la vita sociale si coniugavano liberamente con i valori del cristianesimo, e furono per questo uccisi in un agguato dal sicario di uno stregone.
Intraprese la via del sacerdozio cattolico, venendo ordinato il 25 marzo 1599 e i suoi primi atti furono rivolti agli Indios, dispersi lungo il fiume Paraguay, di cui si sforzava di apprendere la strana lingua: il guarani.
Fu destinato come curato della cattedrale ad Asunción, operò in questo compito per dieci anni; a 32 anni fatto eccezionale, fu nominato vicario generale dell’ampia diocesi; ma padre Rocco González, per la sua grande umiltà, rifiutò la carica ed entrò nella Compagnia di Gesù nel 1609.
Fu subito inviato presso la forte tribù dei Guaycurúes, che indusse a lasciare il nomadismo e insegnando loro l’agricoltura, egli stesso lavorò con l’aratro. In tutta la vasta zona del Rio de La Plata, era in atto l’istituzione delle “riduzioni”, ossia villaggi indigeni nei quali i Gesuiti riunirono gli Indios che vivevano sparsi, per insegnare loro a lavorare stabilmente, convertirli al cristianesimo, avviarli alla vita civile; la prima “riduzione” fu quella di S. Ignazio Guassù (S. Ignazio il Grande).
Nel 1611 padre Rocco González prese a dirigere e perfezionare le “riduzioni” iniziate dal gesuita M. di Lorenzana. Dal 1614 spinse le sue missioni apostoliche attraverso le regioni selvagge del Paranà e dell’Uruguay ancora inesplorate; continuando a fondare altre “riduzioni” dedicandosi ‘tutto a tutti’; di lui si diceva che era presente in tutti i compiti, non pensava altro che alla sua chiesa, faceva il carpentiere, aggiogava i buoi all’aratro, faceva il falegname, l’architetto e muratore delle costruzioni.
Prese a difendere gli Indios contro l’avidità dei ‘commendatori’, che requisivano le loro terre; istruiva nella fede e battezzava grandi e piccoli, amministrava i sacramenti. Ma gli stregoni delle tribù, ovviamente non gradivano la presenza dei missionari e uno di questi di nome Niezú, fingendo di accondiscendere alle ragioni del missionario, preparò invece una congiura per sterminare le “riduzioni” che per lui erano come fumo negli occhi.
Padre Rocco González de Santa Cruz, aveva progettato una nuova “riduzione” nel Caaró, allora all’estremo confine dell’Uruguay oggi nel Brasile, e il mattino del 15 novembre 1628 celebrò la Messa su un altare improvvisato, dopo aver fatto il ringraziamento, si mise a dirigere i lavori in atto; mentre stava chinato ad attaccare il batacchio alla campana dell'erigenda chiesa, uno dei congiurati lo colpì sulla testa con una mazza facendolo stramazzare a terra morto; insieme a lui morì anche il confratello padre Alonso Rodriguez.
I gesuiti Rocco González, Alonso Rodriguez e Juan del Castillo, ucciso due giorni dopo il 17 novembre 1628, furono beatificati da papa Pio XI il 28 gennaio 1934 e a seguito del riconoscimento di miracoli avvenuti per loro intercessione, sono stati canonizzati da papa Giovanni Paolo II ad Asunción in Paraguay, il 16 maggio 1988. Degni figli di s. Ignazio, impegnati con animo veramente missionario, non solo per il bene delle anime di questi popoli, ma anche per il loro sollievo economico e per il loro inserimento nella vita sociale; le “riduzioni” e gli sforzi dei gesuiti, furono magistralmente rappresentati nel famoso film ‘Mission’.
Autore: Antonio Borrelli
A stare dalla parte degli ultimi già 400 anni fa si rischiava grosso. Lo potrebbe testimoniare San Rocco Gonzalez de Santa Cruz, il primo santo del Paraguay, che ha pagato con la vita il suo servizio a favore degli Indios. Nato ad Asuncion, capitale del Paraguay, nel 1576, figlio di coloni spagnoli, a 23 anni è ordinato prete e da subito si sente attratto dagli Indios, a cominciare da quelli che vivono sparpagliati lungo le sponde del fiume Paraguay. Tutti devono avere una gran stima di questo prete cocciuto, generoso e infaticabile, se ad appena 32 anni viene nominato vicario generale della diocesi. Davanti all’inattesa “promozione” la risposta di Rocco è tra le più drastiche ed imprevedibili: non solo rifiuta l’incarico per il quale non si sente degno, ma abbandona anche ogni cosa per entrare nella Compagnia di Gesù. La quale ovviamente lo accoglie a braccia aperte, affidandogli subito un vasto campo di apostolato in mezzo ad alcune tribù di indios. Il Padre Rocco si rimbocca le maniche, mette mano all’aratro e insegna l’agricoltura alla tribù dei Guayecùrues, aiutandola ad abbandonare il nomadismo. I Gesuiti da alcuni anni si sono impegnati nell’istituzione delle “riduzioni”, cioè villaggi nei quali riuniscono gli Indios per insegnare loro a lavorare stabilmente la terra, convertirli al cristianesimo e avviarli alla vita civile. Questi sforzi missionari sono stati recentemente rappresentati con efficacia dal film “Mission”. Il Padre Rocco eredita le prime “riduzioni” realizzate dai confratelli che lo hanno preceduto, spingendosi ad istituirne altre nelle regioni ancora inesplorate del Paranà e dell’Uruguay. Il lavoro non gli fa paura, per cui eccolo trasformarsi ora in carpentiere, ora in falegname, ora in architetto piuttosto che in muratore a seconda delle circostanze e delle specifiche necessità, senza dimenticare comunque mai i suoi impegni pastorali. La sua è un’azione di promozione umana e di emancipazione degli Indios dall’avidità degli “encomenderos”, i “commendatori” o per così dire i “padrini” dell’epoca, che requisiscono le terre degli Indios e che hanno tutto l’interesse a mantenerli in uno stato di soggiogazione e schiavitù. Il Padre Rocco si scaglia con coraggio contro questa gente senza scrupoli, che si arricchisce sulle spalle altrui, arrivando anche a negare loro i sacramenti. Ovvio che così facendo si crea dei nemici, che si vanno ad aggiungere ai nemici “storici”, cioè gli stregoni, che con l’arrivo dei missionari si sono visti portare via i “clienti”. E’ proprio uno di questi stregoni a studiare un complotto contro il Padre Rocco, sperando con ciò di fermare la sua opera di evangelizzazione e di promozione sociale. Il 15 novembre 1628 lo colpiscono a tradimento proprio mentre sta lavorando con gli Indios, al termine della messa. Insieme a lui vengono massacrati anche due giovani confratelli, Alonso Rodriguez e Juan del Castillo. La Chiesa li ha riconosciuti martiri della fede, beatificandoli tutti e tre nel 1934 sotto il pontificato di Pio XI, mentre Giovanni Paolo II° li ha canonizzati il 16 maggio 1988 durante il suo viaggio in Paraguay.
Autore: Gianpiero Pettiti
Spunti bibliograficia cura di LibreriadelSanto.it
- Roberto Olivato, Sacrari, santi patroni e preghiere militari, Edizioni Messaggero, 2009 - 312 pagine
- F. Agnoli, M. Luscia, A. Pertosa, Santi & rivoluzionari, SugarCo, 2008 - 184 pagine
- Benedetto XVI, I santi di Benedetto XVI. Selezione di testi di Papa Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana, 2008 - 151 pagine
- Lanzi Fernando, Lanzi Gioia, Come riconoscere i santi e i patroni nell'arte e nelle immagini popolari, Jaca Book, 2007 - 237 pagine
- Maria Vago, Piccole storie di grandi santi, Edizioni Messaggero, 2007 - 64 pagine
- Piero Lazzarin, Il libro dei Santi. Piccola enciclopedia, Edizioni Messaggero, 2007 - 720 pagine
- Ratzinger J., Santi. Gli autentici apologeti della Chiesa, Lindau Edizioni, 2007 - 160 pagine
- KLEINBERG A., Storie di santi. Martiri, asceti, beati nella formazione dell'Occidente, Il Mulino, 2007 - 360 pagine
- Mario Benatti, I santi dei malati, Edizioni Messaggero, 2007 - 224 pagine
- Sicari Antonio M., Atlante storico dei grandi santi e dei fondatori, Jaca Book, 2006 - 259 pagine
- Dardanello Tosi Lorenza, Storie di santi e beati e di valori vissuti, Paoline Edizioni, 2006 - 208 pagine
- Butler Alban, Il primo grande dizionario dei santi secondo il calendario, Piemme, 2001 - 1344 pagine
- Giusti Mario, Trenta santi più uno. C'è posto anche per te, San Paolo Edizioni, 1990 - 220 paginevvv
Postato da: giacabi a 14:52 |
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santi, reduciones
I santi semplici.. la più sicura apologia del cristianesimo
***
"In
realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non
tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia. E vorrei aggiungere
che per me non
solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono “indicatori di
strada”, ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che
vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone
normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di
ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato
nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del
cristianesimo e il segno di dove sia la verità"
(Benedetto XVI, Catechesi, mercoledì 13 aprile 2011)
(Benedetto XVI, Catechesi, mercoledì 13 aprile 2011)
Postato da: giacabi a 13:31 |
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santi
Conferenza di G. Bernanos sulla santità
pubblicata da San Giuseppe da Copertino
Tutto questo mi ricorda un celebre verso di Eluard nel suo poema Guernica: « La morte così difficile... e così facile ». Si può dire altrettanto della santità.
Essa ci sembra terribilmente difficile forse perché non sappiamo, perché non ci chiediamo mai seriamente che cosa essa sia. Avviene lo stesso per i ragazzi che parlano delle persone adulte. Non sanno che cosa ne pensano, non osano sapere che cosa ne pensano; si contentano di giocare agli adulti. Poi, a poco a poco, a furia di giocare alle persone adulte, diventano adulti a loro volta.
È buona questa ricetta? Potrebbe darsi che a furia di giocare ai Santi si finisca col diventarlo? In ogni caso, pare che la piccola suor Teresa non si sia comportata diversamente; si potrebbe dire che è diventata santa giocando ai Santi con il bambino Gesù, come un ragazzino che a furia di far girare un treno meccanico diventa, quasi senza pensarci, ingegnere delle ferrovie o anche, più semplicemente, capostazione.
Permettetemi per un momento che mi fermi su questo paragone delle ferrovie. In fondo, non lo trovo così sciocco... Possiamo senz'altro immaginare la Chiesa come una vasta impresa di trasporto, di trasporto in paradiso; perché no? Ebbene, mi chiedo: che cosa diventeremmo noi senza i Santi che organizzano il traffico? Certo, da duemila anni questa compagnia di trasporto ha avuto non poche catastrofi: l'arianesimo, il nestorianesimo, il pelagianesimo, il grande scisma d'Oriente, Lutero..., per ricordare solo i deragliamenti e gli scontri più noti.
Ma senza i Santi, ve lo dico io, la cristianità sarebbe un gigantesco ammasso di locomotive capovolte, di carrozze incendiate, di rotaie contorte e di ferraglia che finisce di arrugginirsi sotto la pioggia. Nessun treno circolerebbe più sulla strada ferrata invasa dall'erba. So bene che tra voi alcuni dicono che assegno una parte troppo bella ai Santi, che do troppa importanza a gente che senz'altro sta ai margini, e che ho torto a paragonarli a tranquilli funzionari, tanto più che, a dispetto di ogni tradizione amministrativa, essi beneficiano dell'avanzamento per merito e non già per anzianità, e che li vediamo passare bruscamente dal modesto impiego di operaio qualunque a quello di ispettore generale o di direttore della compagnia, proprio quando sono stati sbattuti fuori della porta, come santa Giovanna d'Arco, per esempio.
Credo però che sia meglio fermar qui i miei paragoni ferroviari, almeno per non offendere l'amor proprio, sempre un po' scrupoloso, degli ecclesiastici, e in modo particolare di quelli, è naturale, che mi hanno fatto l'onore di venire ad ascoltarmi e che forse si chiedono preoccupati di che cosa propriamente sono incaricati in quella immaginaria compagnia di trasporto: della distribuzione dei biglietti oppure dell'ordine delle stazioni?...
Vorrei che di tutto il mio discorso riportaste soltanto quest'idea: la Chiesa è effettivamente un movimento, una forza in cammino, mentre tanti devoti e tante devote hanno l'aria di credere o fingono di credere che essa sia solo un riparo, un rifugio, una specie di albergo spirituale donde si può stare comodamente a guardare da dietro i vetri i passanti la gente di fuori, quelli che non stanno a pensione nell'albergo camminare nel fango.
Ci sono certamente tra voi alcuni di quegli uomini che stanno al di fuori, i quali si scandalizzano profondamente della sicurezza dei cristiani mediocri: sicurezza che somiglia alla leggendaria sicurezza degli imbecilli, probabilmente perché è la stessa...
O Dio, credetemi, non mi faccio tante illusioni sulla sincerità di certi increduli, non condivido tutte le loro lagnanze; so che molti di loro cercano di giustificare la propria mediocrità con la nostra, e nient'altro. Ma non posso fare a meno di amarli; mi sento terribilmente solidale con questa gente che non ha ancora trovato ciò che io ho ricevuto senza averlo meritato, senza averlo neanche chiesto e di cui godo per così dire fin dalla culla e per una specie di privilegio, la cui gratuità mi spaventa.
Postato da: giacabi a 21:41 |
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santi, bernanos
20/2/2011 |
Dalla ghigliottina agli altari
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Dopo il processo diocesano celebrato a Parigi, stanno per arrivare a Roma gli atti della causa di beatificazione di Jacques
Fesch, un giovane francese ghigliottinato 53 anni fa per aver ucciso un
poliziotto e ferito un cambiavalute durante una rapina. Nella Chiesa
Cattolica c'è un solo precedente di condannato a morte per delitti
comuni salito all'onore degli altari, ed è quello del Buon Ladrone
crocifisso sul Calvario accanto a Gesù. Questo
spiega l'estrema prudenza con la quale è stata affrontata la causa
introdotta a circa 40 anni dalla morte di Fesch, cioè dopo una
lunghissima riflessione, dall'allora arcivescovo di Parigi, e
autorizzata dalla Congregazione delle Cause dei Santi alla quale compete
ora la seconda fase del processo. All'atto di aprire la causa, il card.
Lustigier fece precisare dal suo portavoce che «dichiarare qualcuno
santo non significa per la Chiesa far ammirare i meriti di questa
persona ma dare l'esempio della conversione di qualcuno che, quale che
sia il suo percorso umano, ha saputo ascoltare la voce di Dio e
convertirsi. Non esistono peccati tanto gravi da impedire che Dio
raggiunga l'uomo e gli proponga la salvezza». Parole analoghe il
porporato le aveva pronunciate il 23 novembre '86, in un discorso ai
detenuti della Santè, evocando per la prima volta in pubblico la
possibile beatificazione dell'omicida. «Beatificare Jacques Fesch non
significa riabilitarlo sul piano morale, nè dargli un certificato di
buona condotta o un'onorificenza tipo la Legion d'Onore. La sua
conversione è d'ordine spirituale. Beatificare Jacques Fesch sarebbe
riconoscere che la comunità cristiana può pregare qualcuno che sta al
lato di Gesù», ha scritto il teologo Andrè Manaranche in risposta alle
polemiche sollevate in Francia all'inizio della causa e che da in questi
anni ciclicamente sono state riproposte dai media. Il 2 dicembre 2009
il card. Angelo Comastri ha accompagnato in Vaticano da Benedetto XVI la
sorella di Feschi, Monique, che confida al Papa: «con mio fratello ci
intendevano alla grande. Di otto anni più grande, sono stata sua madrina
di battesimo e andandolo a trovare in prigione ho seguito da vicino la
sua straordinaria conversione». Il card. Comastri ha poi raccontato
all'Osservatore Romano: «è stato un detenuto, quando ero cappellano a
Regina Coeli, a farmi conoscere la storia affascinante di Fesch, una
testimonianza unica: giovane sbandato di ricca famiglia, diventa
assassino e viene condannato a morte. Aveva ventisette anni. In carcere
vive una conversione radicale, folgorante, raggiungendo alte vette di
spiritualità». In Italia, nei giorni scorsi, è stata Radio Maria a
raccontare la storia di questo sfortunato giovane di origine belga,
rampollo di una famiglia dell'alta borghesia.
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Postato da: giacabi a 21:43 |
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santi
JACQUES FESCH :
LA DRAMMATICA STORIA DI UN GIOVANE MODERNO
di Mons. Angelo Comastri
LA DRAMMATICA STORIA DI UN GIOVANE MODERNO
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Chi è Jacques Fesch?Jacques Fesch è un giovane che, a 24 anni, commette un terribile delitto: e il suo delitto è la conclusione drammatica di una vita vuota e senza ideali, ma inevitabilmente piena di egoismo e di capricci. Ecco una veloce cronaca del delitto. Il 24 febbraio 1954 Jacques entra al mattino nel negozio di un cambiavalute, un certo Alessandro Silberstein, in Rue Vivienne 39 a Parigi, e ordina un quantitativo di oro. L’uomo si fida perché sa che alle spalle del giovane c’è un padre facoltoso, che può tranquillamente pagare. Nel pomeriggio dello stesso giorno Jacques torna per prelevare l’oro arrivato soltanto in parte, ma invece di pagare, approfitta di un momento di disattenzione del cambiavalute e lo colpisce alla testa con il calcio della rivoltella prelevata in casa di suo padre. Il vecchio Silberstein reagisce e invoca aiuto con tutta la voce che ha. Allora Jacques fugge, raggiunge Rue Saint Marc, arriva al Boulevard des Italiens, dove scorge un caseggiato con la porta carraia aperta che immette in un cortile. Intanto alcune persone lo stanno inseguendo capeggiate da un agente di polizia chiamato in aiuto. Jacques sale al quinto piano e lassù attende che torni un po’ di calma. Passati alcuni minuti, dopo essersi riordinato nell’abbigliamento, ridiscende fingendo meraviglia e tranquillità e si accinge ad uscire con passo normale dalla porta carraia. Ma uno lo riconosce e grida “É lui!”. L’agente Georges Vergnes ordina: “Mani in alto!”. Jacques si gira sui tacchi e, tenendo la mano e la rivoltella nella tasca dell’impermeabile, spara un colpo. Jacques era alto e l’agente di polizia era piuttosto basso: il colpo lo raggiunge al cuore e muore immediatamente. Jacques scappa ancora, spara successivamente un altro colpo e viene finalmente arrestato nella stazione Richelieu-Drouot della metropolitana: la giornata del suo folle sogno termina nel tetro silenzio del carcere di Parigi.
Perché questo delitto assurdo?I genitori di Jacques erano di origine belga e si erano trasferiti in Francia. Erano benestanti e, apparentemente, sembrava che nulla mancasse loro per essere felici. Il padre, Georges, già direttore d’un importante istituto di credito a Bruxelles, dirigeva a Saint-Germain-en-Laye (presso Parigi) una banca belga per stranieri. Egli era ateo e di temperamento autoritario: non si preoccupava mai del figlio se non per spegnergli ogni entusiasmo e, soprattutto, la fede. Come fa pensare tutto questo! Certi comportamenti hanno radici lontane e, molto spesso, affondano nel tessuto di esperienze fallimentari vissute all’interno della propria famiglia. Jacques, nato a Saint-Germain il 6 aprile 1930, era un fanciullo simpatico e traboccante di affetto soprattutto verso la madre. Per nove anni ricevette una buona educazione in un istituto religioso della sua città, ma a 17 anni, per influsso del padre, si allontanò definitivamente dalla fede. Il 5 giugno 1951 (a ventuno anni) sposa civilmente Pierrette Polack e nasce loro una bambina: Veronique. Assai presto però abbandona la moglie e la figlioletta (il dramma accadrà qualche mese dopo questo abbandono, anche se egli resterà sempre in contatto con la moglie). Jacques intanto voleva mettere in proprio una ditta concorrente con quella del suocero: una ditta di trasporto del carbone. La mamma mette a disposizione del denaro, ma egli non lo sa usare. É scoraggiato e decide di evadere acquistando un battello e partendo per la Polinesia: Jacques non è abituato a lottare e, pertanto, fugge dal problema. Ma per acquistare il battello occorrono duemilioni e duecentomila vecchi franchi: Jacques li chiede al padre, ma il padre li rifiuta. Allora Jacques decide la rapina con l’esito che conosciamo. Questa è la scheda scarna della vita di un giovane che, privo di ogni ideale, approda quasi inconsapevolmente alla tragedia del delitto. Fin da ora vale la pena di ricordare l’importanza degli esempi della famiglia nei confronti dei figli; e vale la pena di sottolineare anche l’importanza d’una buona impostazione degli anni dell’adolescenza e della giovinezza per la buona riuscita di tutta la vita: oggi il modo di vivere la giovinezza molto spesso conduce ad una vita adulta incapace di impegni seri e di responsabilità durature. Da che mondo è mondo, infatti, si raccoglie quel che si semina!
Che cosa accade in carcere.Ora ripercorriamo un cammino nel quale la Grazia di Dio ribalta una situazione tragica e fa nascere una creatura completamente nuova: sono i grandi miracoli di Dio quando Lo si lascia operare! Jacques viene rinchiuso nel Carcere de la Santè, a Parigi, in una cella di isolamento. Il Cappellano gli si avvicina amorevolmente, ma Jacques reagisce dicendogli: “Io non ho la fede e non ho bisogno di lei!”. E lo accompagna alla porta. Ma, intanto, tutto è crollato nella sua vita e lentamente egli cerca di capire come abbia fatto a cadere nel precipizio del delitto. Ecco il suo racconto: “Spesso mi hanno detto: ‘Avevi tutto per essere felice. Non si capisce come un ragazzo come te, di così buona famiglia, sia potuto giungere a tanto…!’. Quante sono false queste spiegazioni! Come se la risoluzione di commettere un atto criminoso non avesse radici più profonde!…Ciò che soprattutto mi ha incatenato a un certo modo di vedere le cose, è l’educazione che ho ricevuto. Non penso di dare prova di indiscrezione svelando quanto ormai è stato gridato ai quattro venti, e cioè che i miei genitori non andavano d’accordo. Ne risultava un ambiente familiare detestabile, fatto di urli nei momenti cruciali, e di disagio e di durezza dopo le crisi. Niente rispetto, niente amore! Mio padre, un uomo a suo modo incantevole per gli estranei, aveva di fatto uno spirito sarcastico, orgoglioso e cinico. Ateo all’estremo, nonostante il suo successo professionale, provava disgusto per una vita che non gli aveva procurato che disinganni e delusioni… Fin dalla giovane età mi sono nutrito delle sue massime, né potevo di certo fare altrimenti”. Jacques cerca di capire quali sono le radici dalle quali è sbocciato il suo gesto folle. Egli scopre l’importanza decisiva della famiglia e, improvvisamente, si rende conto del vuoto affettivo e del vuoto spirituale in cui è cresciuto. Qualcuno gli dice: “Perché non sei tornato indietro quando hai visto che la strada andava verso un precipizio?”. Egli con sofferenza risponde: “Dove avrei potuto trovare la forza per una risoluzione così penosa per me? Nel cinismo, nel nichilismo che mi erano stati insegnati? E a quale scopo dovevo sacrificarmi, se pensavo che il caos finale tutto avrebbe inghiottito e che nulla è buono o cattivo in un mondo in cui soltanto le sensazioni hanno valore?”.Come fanno riflettere queste osservazioni! Quanti sbandamenti di oggi hanno la stessa spiegazione: il vuoto interiore può condurre a qualsiasi tragica conclusione! Ricordatelo! Osserva ancora Jacques: “Non in quel giorno sono divenuto criminale: è stato molto tempo prima. Non ho fatto altro che mettere in pratica quello che era in me allo stato latente, e perché se ne presentava l’occasione. Era inevitabile che, un anno o l’altro, avrei finito con lo sviarmi, a meno che nel frattempo non avessi trovato un ideale! Un niente avrebbe potuto salvarmi…”.Un ideale! Vengono in mente le accorate parole lasciate scritte da una ragazza romana suicida alcuni anni fa: “Mi avete voluto bene, ma nonsiete stati capaci di farmi del bene; mi avete dato tutto, anche il superfluo, ma non mi avete dato l’indispensabile: non mi avete dato un ideale per cui valesse la pena di vivere la vita! Per questo me la tolgo!”. Apriamo gli occhi e il cuore sulla situazione di vuoto disperato dentro il quale si muove tanta gioventù. Voler bene ai giovani significa far loro del bene, cioè aiutarli ad uscire dall’egoismo per nascere alla vita dell’amore autentico e, pertanto, appagante.
Dio non abbandona mai!Seguiamo la storia di Jacques Fesch: ora egli è chiuso tra quattro pareti; solo con la sua disperazione. Ma nel carcere, circa otto mesi dopo l’arresto, accadde un fatto straordinario: qualcosa che rassomiglia all’esperienza di San Paolo sulla via di Damasco o all’esperienza di Sant’Agostino a Milano o all’esperienza del giovane Francesco d’Assisi nella chiesetta di San Damiano. Ascoltiamo il racconto toccante dello stesso Jacques: “Era una sera,nella mia cella… Nonostante tutte le catastrofi che da alcuni mesi si erano abbattute sulla mia testa, io restavo ateo convinto… Ora, quella sera, ero a letto con gli occhi aperti e soffrivo realmente per la prima volta nella mia vita con una intensità rara, per ciò che mi era stato rivelato riguardo a certe cose di famiglia (si stava sfasciando tutto!) ed è allora che un gridomi scaturì dal petto, un appello al soccorso: ‘Mon Dieu! Mon Dieu!’.E istantaneamente, come un vento violento, che passa senza che si sappia donde viene, lo Spirito del Signore mi prese alla gola”. E, in una lettera all’amico sacerdote Padre Thomas, precisa: “Ho creduto e noncapivo più come facevo prima a non credere. La grazia mi ha visitato e una grande gioia s’è impossessata di me e soprattutto una grande pace. Tutto è diventato chiaro in pochi istanti. Era una gioia sensibile fortissima…”. È il tipico racconto delle conversioni: sembra il racconto della “conversione” di Teresa di Lisieux nel Natale del 1886; sembra il racconto della conversione di André Frossard nel 1936: identico linguaggio! Cosa è accaduto? Jacques, nell’abisso delle umiliazioni… diventa umile, lascia cadere il muro dell’orgoglio e immediatamente viene invaso dalla luce e dall’amore di Dio. Da questo momento quasi dimentica se stesso e si preoccupa della conversione del padre, della moglie, di tutti…! Scrive alla moglie che resta non-credente: “Il rifiuto che tu opponi(alla fede) non deriva che da mancanza di umiltà! Comunque ti comprendo assai bene: non molto tempo fa avrei avuto le tue stesse reazioni; tutto questo perché non vogliamo vedere. Non c’è che un piccolissimo gradino da salire, ma occorre lasciare sul precedente le nostre acredini e il nostro orgoglio e abbandonarsi a Colui che tutto può”.Nella notte della conversione Jacques ode anche una voce che distintamente gli dice: “Jacques, tu ricevi le grazie della tua morte!”.Jacques non capì il senso di queste parole, perché egli in quel momento sperava nelle attenuanti per il delitto e quindi scartava ogni ipotesi di condanna a morte. In seguito il senso delle parole diventerà chiaro.
Inizia una vita nuova in Cristo. Il cambiamento di questo giovane è qualcosa di straordinario: è una testimonianza di quanto Dio può operare, quando un’anima apre le porte del cuore al Suo Amore Infinito. Le lettere che Jacques scrive dal carcere aprono spiragli sul cammino incantevole (anche se duro!) della sua conversione. Scrive: “Ora ho veramente la certezza di cominciare a vivere per la prima volta. Ho la pace e ho dato un senso alla mia vita, mentre prima non ero che un morto vivente”.Ma inizia anche una lotta tra ciò che era prima e ciò che Dio sta operando nella sua anima. Sembra di sentire le stesse parole usate da Sant’Agostino nel libro delle sue “Confessioni”.Jacques confida: “È venuta la lotta, silenziosamente tragica, tra ciò che sono stato e ciò che sono divenuto, perché la creatura nuova che è stata innestata in me implora da me una risposta alla quale sono libero di rifiutarmi. Non posso essere in pace che accettando questa guerra!”. Scrive all’amico sacerdote Thomas: “Spesso io ricado ancora in una specie di apatia e di rassegnazione e sono infelice perché sento che ogni gioia mi ha abbandonato e non mi resta altro che la disperazione. E prego Iddio di vivere sempre in me, di aiutarmi e di illuminarmi e di darmi la forza di accettare le sofferenze che la Sua misericordia ha voluto mandarmi per la mia nascita nella luce, a me che ho contribuito ad affondare i chiodi nelle Sue mani!”.
Jacques, intanto, organizza la vita in prigione come la vita in un monastero: si dà un orario per la preghiera, legge libri religiosi e nutre la sua anima con l’acqua viva della Parola di Dio e delle vite dei santi; scrive lettere per cercare conforto e dare conforto! Racconta lui stesso: “Noi restiamo sempre soli nella nostra cella, salvo una mezz’ora di passeggiata al giorno ugualmente soli; una mezz’ora di parlatorio alla settimana, un pacco al mese: ed è tutto!”. Cosa fa, allora, durante il giorno? “Ogni mattina alle otto leggo la mia Messa (nel Messalino!)…; e una volta alla settimana, il martedì o il mercoledì, il Cappellano celebra la Messa in una cella a parte. Vi sono io tutto solo, essendo sotto strettasorveglianza. Durante la giornata leggo e scrivo. Il Cappellano mi impresta spesso dei libri. Ho appena terminato quello della vita di Santa Teresa d’Avila, che ho trovato luminoso”.Passano gli anni 1955 e 1956: Jacques sente in modo particolare la nostalgia della casa e degli affetti ogni volta che si avvicina il Santo Natale. Scrive alla suocera, signora Polack: “Mamma cara, … penso spesso alla mia bambina e vorrei molto averla con me! Penso molto, molto spesso a lei e sempre mi domando che guasti questa storia provocherà nella sua anima. Non un papà per aiutarla e proteggerla, ma, al contrario, un papà che certamente verrà criticato davanti a lei, e che altrettanto certamente sarà accusato di averle lasciato una eredità pesante di cui la gente diffiderà”. Jacques soffre perché pensa che sua figlia sarà inesorabilmente considerata “la figlia dell’assassino”!E all’amico Thomas confida: “Ahimè, qui il Natale è un giorno come gli altri: niente Messa di mezzanotte, niente Messa all’indomani. Alle sette di sera siamo immersi nell’oscurità (viene tolta la corrente nelle celle)”. La notte di Natale dell’anno 1956 la passa in carcere: sente il suono delle campane, immagina la gioia della famiglia, sogna e piange! Intanto egli aspetta il processo e spera: “Se tutto va bene, piglierò vent’anni, o altrimenti l’ergastolo!”. In ogni modo egli spera di poter uscire vivo dal carcere e di riparare il male fatto con una vita consacrata al bene.
Arriva il giorno del processo.Il mercoledì 3 aprile 1957 si apre il processo. L’Avv. Baudet, uomo di grande fede, pronuncia una appassionata arringa di difesa e chiama anche il padre di Jacques a testimoniare sulle tristi condizioni della adolescenza e della giovinezza del figlio. (La mamma, nel frattempo, era morta lasciando un grande vuoto nel cuore di Jacques). Il padre si presenta ubriaco e vestito in un modo stravagante. L’Avv. Baudet inorridisce, ma spera che questa circostanza possa aprire gli occhi ai giudici per formulare un giudizio, che tenga conto delle reali attenuanti: Jacques, invece, che era presente in aula, si sente profondamente umiliato dal comportamento del padre e abbassa la testa per la vergogna. Il 6 aprile 1957 (giorno del compleanno di Jacques: compiva 27 anni!) viene annunciata la sentenza: Jacques spera che la circostanza del compleanno sia di buon auspicio per una benevola sentenza. Viene invece condannato a morte: condannato alla ghigliottina! É un fulmine che lo lascia sbigottito e quasi impietrito. La prima reazione di Jacques fu un totale smarrimento della sua anima: ed è più che comprensibile! Intanto Jacques viene accompagnato in carcere e lasciato solo nella sua cella e nel suo dolore. Cade in ginocchio ed esclama “Signore, aiutami!Ti offro la mia sofferenza!”. Gli sembra già di vedere la terribile ghigliottina e avverte dei brividi di paura che gli attraversano tutto il corpo. Ma poi egli ricorda la voce sentita nella notte della sua conversione: “Jacques, tu ricevi le grazie della tua morte!”. E trova un attimo di pace.Dopo due mesi di lotta interiore, arriva a scrivere: “Non resta che una cosa da fare: ignorare tutto questo odio, per cercare in sé e intorno a sé Colui che instancabilmente attende l’anima percossa e disperata per darle un tesoro che rifiuta di dare al mondo. È necessario amare coloro che ci percuotono e un giorno si udrà, come il buon ladrone crocifisso: ‘In verità ti dico: oggi stesso tu sarai in Paradiso!’”.L’Avv. Baudet prepara il ricorso in cassazione e lascia come ultima carta la richiesta di grazia al Presidente della Repubblica, Coty. Jacques lascia fare, ma ormai è convinto che tutto sia inutile: egli sarà ghigliottinato! Scrive all’Avv. Baudet: “Fate tutto ciò che il vostro dovere vi impone, affinché la vostra coscienza sia in pace. Ma io non sarò graziato. D’altra parte, se lo fossi, sarei profondamente turbato, perché a due riprese Dio mi ha detto: ‘Tu ricevi le grazie della tua morte’. Dio si è impadronito della mia piccola anima. Un velo si è squarciato e se continuassi a vivere non potrei mai rimanere sulla vetta che ho raggiunto. È meglio che io muoia”.Jacques vive la condanna a morte come una autentica occasione di martirio: come una vocazione ad amare fino al segno estremo, in comunione con Gesù, il condannato del Golgota. La sua anima è talmente aperta all’Amore da arrivare a scrivere parole toccanti alla suocera che si lamentava per certi atteggiamenti di ingratitudine manifestati da alcuni nei confronti di Jacques: “Non scrivere la parola “ingratitudine”. Colui che trova ingrato il proprio fratello, non vuole la felicità di lui ma la propria. Ed è in questo ostacolo che molti inciampano. Bisogna donare se stessi; bisogna che tu comprenda che il giorno in cui ti dimenticherai completamente di te, un torrente di grazie scenderà nel tuo cuore e la gioia e la pace ti saranno date con una profusione che non puoi nemmeno supporre. Non c’è salvezza fuori della croce! Lo comprendi?”. Sono parole di una bellezza incomparabile, che profumano del prodigio del perdono cristiano.
Gli ultimi due mesi: miracolo nel miracolo!Il 5 agosto 1957, convinto che ormai la condanna è decisa inesorabilmente, Jacques scrive all’amico Padre Thomas: “Amatissimo fratello,…Gesù attende che io creda nel suo amore e che io mi salvi con un atto di volontà, partecipando all’evento (della decapitazione) che Egli permette per un fine di misericordia, affinché possa donarmi la vita eterna. Non sono io che sono andato verso di Lui, ma è Lui che una volta di più mi ha preso sulle sue spalle. Ora io so che tutto è grazia e che non è verso la morte che io vado, ma verso la vita”.Queste parole rivelano un’anima abitata da un fuoco d’amore che desidera trasformare la condanna a morte in un autentica offerta di vita. Jacques vuole morire d’amore, vuol morire per amore: questo è il desiderio ardente della sua anima. Il 3 settembre scrive ancora all’amico sacerdote: “Sì, fratello mio, io non voglio guardare né avanti né indietro: solo conta l’istante presente. Voglio tenere la Santa Vergine per mano e non voglio più lasciarla fino a quando Ella mi condurrà al Figlio Suo. Io vivo delle ore meravigliose e ho l’impressione di non aver mai vissuto altra vita se non quella che trascorro da un mese”.E nel diario-testamento per la figlia, in data 10 settembre 1957, annota: “Ho il cuore tutto traboccante di amore, specialmente quando penso alla Santa Vergine. Con Lei io non temo nulla, dovessi soffrire mille morti. Ella mi protegge senza sosta, e non passo un quarto d’ora senza rivolgerLe preghiere e parole d’amore. Mi raffiguro il Suo Cuore Immacolato tutto coronato di spine come l’ha mostrato ai piccoli pastorelli di Fatima, e mi sogno di toglierle tutte quelle brutte spine e di rimarginare le ferite col posarvi sopra dei baci. Mi ripeto spesso la frase che la Madonna ha pronunciato rivolgendosi a Lucia: ‘Tu sforzati almeno di consolarmi!’. Sogno spesso di consolarLa anch’io”.Intanto i giorni passano velocemente: Jacques capisce che ormai la condanna si avvicina, anche se non conosce ancora il giorno esatto dell’esecuzione. Egli desidera prepararsi spiritualmente e desidera salutare da gran cristiano tutti coloro che lo hanno amato e accompagnato nel viaggio della fede. Riceve in carcere una ciocca di capelli della figlia Veronique, che ha appena sei anni. Si commuove e scrive così alla famiglia: “Ho ricevuto la piccola ciocca di capelli di Veronique! Che bei capelli ha! Ho realmente l’impressione di avere la mia figlioletta nella cella!”Ma il suo pensiero va costantemente al “giorno fatale” che lo attende e lo commenta così: “Nonostante tutto quello che sta per succedermi, io non sarò salvato che dalla grazia e unicamente dalla grazia di Dio”. Egli sente lucidamente che l’Amore di Dio è un puro regalo, perché nessuno è degno dell’Amore di Dio: davanti a Dio, Jacques si presenta con molta umiltà. Intanto Veronique manda alcune cartoline al suo papà. Jacques si commuove profondamente, perché ora sta scoprendo la bellezza della paternità e vorrebbe viverla fino in fondo, ma non gli è permesso. Scrive alla sua bambina nascondendo l’emozione per l’ora che si avvicina: “Figliolina mia, sono tanto contento di ricevere le tue care paroline e spero che me ne scriverai delle altre. Ho ricevuto delle belle foto di te in vacanza e ho potuto vedere che bella bambina sei, e che ti diverti molto. So anche che hai ricevuto un bell’astuccio con l’occorrente per scrivere al tuo papà (Jacques sa bene che potrà scrivere ancora pochissime volte!) e che dici bene le tue preghiere al Bambino Gesù e alla Santa Vergine. Papà ti abbraccia con tutto il cuore e prega per te affinché il Bambino Gesù ti protegga”. Quanto gli dovettero costare queste parole! Quanto gli doveva sanguinare il cuore mentre cercava di nascondere alla figlia la passione della sua anima! Ma l’Amore ormai dominava su ogni altro sentimento: anche sulla paura! Nell’ultimo scritto del Diario-Testamento lascerà questo appunto luminoso: “Non mi accadrà alcun male e sarò portato diritto in Paradiso con tutta la dolcezza che si conviene a un neonato”. Queste sono parole degne di un santo: sono parole che sbocciano nella terra della totale umiltà che rende la persona come un bambino tra le braccia di Dio. Jacques intanto, consapevole dell’imminenza della partenza per il Cielo, si congeda delicatamente da tutti gli amici. Scrive al Cappellano del carcere: “Porto il vostro nome in cielo,scolpito nel mio cuore, e quando il Signore mi permetterà di gettare uno sguardo sulla terra, volgerò i miei occhi verso una piccola cella oscuradove un sacerdote celebra il più grande sacrificio che esista, associandosi egli stesso ogni giorno all’Amore crocifisso, e domanderò allora a Nostro Signore che si degni di volgere uno sguardo benigno al suo fedele ministro e lo colmi di benefici”.
Ultimi giorni: l’attesa dell’incontro con Gesù.23 settembre. Giacomo ancora non conosce il giorno esatto dell’esecuzione, anche se sa che è vicina. L’avvocato va a trovarlo e gli comunica che il Presidente della Repubblica ha lasciato l’ultima decisione al Consiglio Superiore della Magistratura che verrà convocato il 26 settembre. L’attesa avrebbe snervato anche il più forte degli uomini! Ecco i sentimenti di Jacques Fesch: “Ho ancora pochi giorni da vivere. Signore Gesù, arrivo!”.24 settembre. L’avvocato, ricevuto dal Presidente della Repubblica, racconta la meravigliosa conversione del giovane condannato. Il Presidente è sorpreso, si commuove ed esclama: “Dite a Jacques Fesch che gli stringola mano per ciò che è diventato”. Ma la condanna a morte resta confermata.25 settembre. Il babbo e Pierrette sono ammessi in carcere: salutano Jacques per l’ultima volta. L’emozione è fortissima, gli sguardi intensi, le lacrime si affacciano sugli occhi stanchi. Però una notizia riempie di gioia il cuore del condannato: Pierrette gli annuncia che, finalmente, il giorno dopo riceverà la Santa Comunione! Jacques l’aveva tanto desiderato e, tornato in cella, scrive nel suo diario: “Io parto con la speranza che Gesù sarà presto in lei e che finalmente crederà. Ne sono tanto felice! Possa il mio sangue essere accettato da Dio come sacrificio completo...”. Domenica 29 settembre: Jacques sa che il giorno è alle porte. “Stamattina - scrive nel suo diario - mi sono comunicato e il cappellano mi ha avvertito che domani verrà a celebrare la Messa nella mia cella, perché è molto probabile che l’esecuzione sia per martedì mattina... Supplizio ben amato, che mi farà guadagnare il Cielo! Perché non posso donare la vita come i martiri...?”.Scrive le ultime lettere di addio: in esse c’è tutto il suo cuore e ci sono i segni di una lotta a sangue per restare sereno nelle braccia della Misericordia di Dio. Scrive all’amico sacerdote: “Ancora soltanto qualcheora di lotta, prima di conoscere Colui che è l’Amore! Ha tanto sofferto Lui per me... Attendo l’Amore, attendo di essere inebriato da torrenti di gaudio e di cantare eterne lodi alla gloria del Risorto... Dio è Amore! Non temere fratello mio! Io porto il tuo nome lassù, inciso nel mio cuore... A rivederci in Dio. Io ti lascio, fratello mio. Ti abbraccio in Cristo Gesù e in Maria”. Scrive all’avvocato Baudet: “Caro Avvocato, non posso scrivere questa lettera senza commozione, al pensiero che, quando la leggerete, io sarò in Cielo! Un grande ringraziamento per quanto avete fatto per me. Grazie alle vostre fatiche di avvocato, ma soprattutto all’uomo di Dio che non ha cessato di guidarmi e ricondurre questa pecora ribelle verso l’ovile del Padre. Caro Avvocato, in questi ultimi momenti non posso augurarvi altro che di divenire sempre più simile a Gesù Crocifisso. Il Signore vi protegga fino all’ultimo mattino, in cui una nuova aurora splenderà anche e finalmente per voi. Vostro fratello in Dio, Jacques”.30 settembre 1957. Jacques nel silenzio della cella vive la drammatica attesa. Nel testamento per la sua bambina riesce a scrivere: “Ultimo giorno di lotta! Domani a quest’ora sarò in Cielo!”. Tramite Padre Thomas, che riceve separatamente i consensi, Jacques si unisce in matrimonio religioso con Pierrette: un matrimonio che durerà soltanto poche ore! Eppure il cuore del giovane è felice, perché ora la sua famiglia è benedetta da Dio. Esclama: “Mi sento unito con tutto l’amore a Pierrette, che ora è mia moglie in Dio”. Intanto da diverse settimane egli ha rinunciato al fumo e si nutre a pane ed acqua per prepararsi bene alla morte e per ringraziare, con questi sacrifici, il Signore per la Sua Misericordia. L’avvocato, un uomo religiosissimo al quale Jacques si era tanto affezionato, va a trovarlo e gli dice: “Jacques, è stata fissata l’ora: domani,all’alba!”. Mancano poche ore: l’emozione è fortissima. Giacomo scorge il mucchietto di lettere ricevute dalla suocera negli ultimi mesi e su un foglio ferma i suoi ultimi pensieri: “Cara mamma, innanzi tutto ti devo un grosso grazie per tutto l’amore di cui mi hai circondato in questi ultimi mesi.. Tu sai ciò che Gesù ha detto nel Suo Vangelo: ‘Ero in carcere e mi avete visitato...’ Con queste righe io ti affido la mia figlioletta... Proteggila assiduamente... Amala in Dio e sii certa che di lassù io la proteggerò e veglierò su di lei ...”. Ma non riesce più a scrivere: gli occhi sono pieni di lacrime. L’ultima notte è una vera agonia: si alternano sentimenti di fiducia e di paura, di gioia e di tremore. In certi momenti già sente la festa dell’eternità e confida: “Gesù mi è vicinissimo. Egli mi attira a Sé sempre di più; e io non posso che adorarlo in silenzio desiderando morire d’amore”. E aggiunge: “Attendo nella notte e nella pace. Ho gli occhi fissi al Crocifisso e i miei sguardi non si distolgono dalle piaghe del mio Salvatore. Mi ripeto instancabilmente: ‘É per te’. Voglio serbare quest’immagine sino alla fine, io che soffrirò così poco. Attendo l’Amore! Fra cinque ore vedrò Gesù!”.“Reciterò il Rosario e le preghiere per i moribondi, poi rimetterò la mia anima a Dio. Buon Gesù, aiutami!”.Ma poi sembra che una tempesta gli entri nel cuore: “La pace èsvanita per far posto all’angoscia. É orribile! Ho il cuore che salta nel petto. Santa Vergine, aiutami!”.E la Madonna, che è vera Madre, accompagna Gesù accanto al condannato, che così può dire: “Sono più tranquillo di un momento fa,perché Gesù mi ha promesso di portarmi subito in Paradiso. Io credo che andrò diritto in Cielo!”.Alle tre del mattino chiede la luce alla guardia carceraria, dicendogli: “É fra poco, bisogna che mi prepari!”.Appunta un ultimo pensiero che rivela la lotta che si consuma nella sua anima: “Poco fa mi sembrava che, qualunque cosa io faccia, mai il Paradiso sarebbe per me! É Satana che m’ispira questo. Vuole scoraggiarmi. Mi sono gettato ai piedi di Maria e ora va meglio… Santa Vergine, aiutami! Sono felice… Addio!”.Alle 5,30 del mattino lo trovano in preghiera, accanto al letto rifatto: un’ultima delicatezza di un uomo visitato dalla Bontà di Dio. Si confessa per l’ultima volta e fa la Comunione in ginocchio, accanto all’avvocato Baudet. Poi va incontro alla ghigliottina; gli legano le mani; c’è attorno un clima di intensissima emozione. Jacques improvvisamente si rivolge al cappellano e lo supplica: “Il Crocifisso, padre mio, il Crocifisso!” e lo bacia lungamente, bagnandolo con le sue lacrime. Tutti sono commossi: il Condannato del Golgota è l’unico che possa consolare il condannato Jacques Fesch! Appoggia la testa sul patibolo... si sentono le sue ultime parole: “Signore, non abbandonarmi..!”. La ghigliottina affonda veloce la sua lama: cade la testa, ma non è più un assassino che muore, è un martire che muore pieno di amore. Il 27 agosto 1957 aveva scritto nel suo diario: “Verranno gli angeli a felicitarsi con me per essere diventato un eletto. Sarà proprio la prima cosa in cui riuscirò nella vita!”Jacques Fesch, non è la prima cosa in cui sei riuscito nella vita: la tua morte ci ha insegnato a vivere! Grazie! Grazie! Jacques Fesch la tua giovinezza “bruciata” ci ricorda che è tanto facile rovinare un giovane, è tanto facile ingannarlo, è tanto facile depistarlo nella ricerca della gioia vera: la lezione drammatica e meravigliosa della tua vita sia monito per tutti gli educatori e sia motivo di riflessione per tutti i giovani. Jacques Fesch prega per noi! Amen!
Postato da: giacabi a 21:38 |
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santi
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Scalabrini,
lo scienziato
dell'immigrazione
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dell'immigrazione
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di Liana Marabini
29-01-2011
Un bambino guarda l’uomo dalla figura alta che sta appoggiato al parapetto della nave salpata da Genova due settimane prima. L’uomo tiene gli occhi chiusi e sgrana un rosario tra le dita affusolate. Le labbra si muovono in una preghiera muta. Il vento salmastro gli fa svolazzare la mantella. Veste una sottana, porta il colletto romano e un capello dalle falde larghe.
Il bambino, affascinato dalla maestosità della figura, chiede alla madre per chi lavora l’uomo. La madre gli risponde che lavora per Gesù. Il bambino pensa che deve essere un bel lavoro e decide che da grande farà lo stesso. È un caldo mese di giugno del 1901.
L’uomo misterioso è un prelato importante, vescovo di Piacenza e fondatore di un ordine religioso. Si chiama Giovanni Battista Scalabrini ed è nato a Fino Mornasco l’8 luglio 1839. La sua vita si è svolta al servizio degli altri. Si è dedicato totalmente alla loro felicità. Scalabrini ha capito prima degli altri l’importanza dell’immigrazione e la ricchezza che questa poteva portare. È un uomo dalla mente talmente acuta da indovinare quasi il pensiero dell’interlocutore. Capisce le tendenze del suo tempo, intuisce le mode, se così possiamo dire.
È attento alle masse d’italiani che si spostano verso l’America, svuotando i tristi paesini del Sud. Si domanda quale sia la loro vita religiosa. Non rimane indifferente alla povertà e, da uomo pratico qual è, capisce che una persona la cui prima preoccupazione è procurarsi il cibo giornaliero, ha forse meno tempo per andare in chiesa. Lui pensa a quanto sarebbe utile loro il catechismo e decide di fare questo dono a quelli che hanno lasciato indietro tutto, ma che devono sentire sempre Dio presente.
Guarda con attenzione i ricchi e pensa che anche loro hanno il diritto di avere Dio nell’anima. Da vescovo, va a trovare i potenti del suo tempo, sollecitando loro aiuti finanziari per le sue opere. I ricchi, abituati a realizzare progetti, amano le creazioni di quest’uomo ascetico, il cui carisma li soggioga. E lo aiutano. Lui, con la sua sola presenza, li avvicina a Dio.
Giovanni Battista Scalabrini è un vescovo molto attivo e molto presente nella diocesi. Tra il 1876 ed il 1905 (l’anno della sua morte), compie ben cinque visite pastorali nelle 365 parrocchie che compongono la sua diocesi. Capisce l’importanza di costruire scuole e centri di ricerca, e non lesina sforzi per realizzarle. Nello stesso periodo, celebra tre sinodi: 1879, 1893, 1899.
Il 28 novembre 1887 fonda la Congregazione dei Missionari di S. Carlo e due anni dopo crea le Scuole della Dottrina Cristiana e la rivista Il Catechista Cattolico. Nello stesso anno istituisce l'Associazione laicale "S. Raffaele" per l'assistenza ai migranti. Intuisce che l’immigrazione va gestita con serietà e che richiede l’esistenza di strutture solide e ben organizzate. Il 25 ottobre 1895 fonda le Suore Missionarie di S. Carlo.
Questi ordini missionari si sviluppano in pochi anni, attirando vocazioni e persone disposte a lavorare e ad aiutare le comunità di immigrati italiani in tutto il mondo. Vengono chiamati, semplicemente, “scalabriniani“. Infatti, Scalabrini fa due viaggi importanti: nel 1901 (che è l'anno dell’inizio del nostro racconto) si reca negli Stati Uniti, poi, nel 1904, va in Brasile.
Parallelamente a tutte queste attività, Scalabrini scrive opere di carattere vario: Conferenze sul Concilio Vaticano I (1873), diversi testi sul catechismo, documenti sulla questione che divideva transigenti e intransigenti in seno alla Chiesa (1885) e, ovviamente, opere sull'emigrazione, fra le quali spicca Pro Emigratis Catholicis del 1905.
La sua sensibilità per il mondo che lo circonda e l’attenzione che presta ai suoi contemporanei hanno come risultato l’opera Il socialismo e l'azione del clero che ebbe ben due edizioni nel corso del 1899.
Dopo la sua morte, vennero curati e pubblicati altri suoi scritti: Il citato memoriale sulla Congregazione o Commissione "Pro Emigratis Catholicis", il carteggio con il vescovo di Cremona Geremia Bonomelli (1868-1905) e la raccolta delle Lettere Pastorali (1876-1905).
Da questi scritti emerge l'anima pastorale di Scalabrini: era definito «Vescovo al cui cuore non bastò una Diocesi», essendosi fatto carico di questioni che interessavano la Chiesa, in primo luogo delle migrazioni.
Mons. Bonomelli scrive sul suo amico Giovanni Battista Scalabrini: «Dio l'aveva fornito d'una intelligenza pronta, versatile, acuta, limpida, vasta; a qualunque scienza si fosse dedicato, riusciva senz'ombra di difficoltà e le questioni più ardue di filosofia, di teologia, di storia, di politica, erano da lui trattate e svolte con una sicurezza e chiarezza che mi colmavano di stupore; pareva che solo di quelle avesse fatto studio speciale».
Queste parole descrivono alla perfezione Scalabrini, che, pur vivendo nel XIX secolo, ha la versatilità e l’universalità dell’uomo del Rinascimento. Affascina anche oggi questa sua capacità di riunire i talenti e mettere insieme le capacità degli uni, per aiutare gli altri, di vedere nelle masse migratorie il sale della terra. In effetti, lui ha dato un senso all’immigrazione e dignità agli immigrati, ha facilitato il loro rapporto con Dio, che ha creato tutto, il mondo dal quale sono partiti e quello in cui sono approdati.
Giovanni Battista Scalabrini è stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 9 novembre 1997. Il suo lascito morale e la sua eredità spirituale si vedono oggi, attraverso i tanti missionari scalabriniani (religiosi e laici) sparsi per il mondo.
Il loro Istituto SIMI (Scalabrini International Migration Institute) di Roma è un Istituto Accademico Internazionale che promuove principalmente la ricerca e lo studio della mobilità umana. Fornisce inoltre ai sacerdoti diocesani una formazione specifica che li aiuta nella creazione della pastorale per l'immigrazione. Ma il programma di studio ha anche tante altre materie, che contribuiscono a dare una formazione complessa agli studenti. Il SIMI è una bella realtà, da conosce e da appoggiare attraverso le donazioni (www.simiroma.org).
Oggi i figli spirituali del Beato Giovanni Battista Scalabrini non si occupano più soltanto degli immigrati italiani, ma di tutti gli immigrati. Fornisce loro appoggio spirituale, materiale e giuridico, ma anche la formazione. Porta loro la parola e la testimonianza di Cristo ed anche la sua carità.
Possiamo considerare Scalabrini insomma uno scienziato dell'immigrazione perché ha saputo codificare con rigore scientifico le necessità di questo fenomeno, anticipandone l'ampiezza. Dare una mano, una buona parola e il calore di una buona accoglienza a chi non ha più niente di suo, è forse la forma suprema di carità. Per questa ragione, Scalabrini è stato soprannominato "il principe della carità".
Disse di lui Giovanni Paolo II: «Profondamente innamorato di Dio e straordinariamente devoto dell'Eucaristia, egli seppe tradurre la contemplazione di Dio e del suo mistero in una intensa azione apostolica e missionaria, facendosi tutto a tutti per annunciare il Vangelo»
Postato da: giacabi a 09:29 |
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santi
Le sette armi nella lotta contro il male,
contro il diavolo
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2. credere che da soli non potremo mai fare qualcosa di veramente buono;
3. confidare in Dio e, per amore suo, non temere mai la battaglia contro il male, sia nel mondo, sia in noi stessi;
4. meditare spesso gli eventi e le parole della vita di Gesù, soprattutto la sua passione e morte;
5. ricordarsi che dobbiamo morire;
6. avere fissa nella mente la memoria dei beni del Paradiso;
7. avere familiarità con la Santa Scrittura, portandola sempre nel cuore perché orienti tutti i pensieri e tutte le azioni.
Un bel programma di vita spirituale, anche oggi, per ognuno di noi!»."
da:
Postato da: giacabi a 09:01 |
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santi, benedettoxvi
Chiara Badano,
quando il dolore è via della fede
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sabato 9 ottobre 2010
Chiara
Badano, beatificata a Roma il 25 settembre scorso, nasce a Sassello,
nell’entroterra ligure, il 29 ottobre 1971 da Ruggero e Teresa Caviglia.
I genitori per undici anni non riescono ad avere figli; dopo un
pellegrinaggio alla Madonna di Ovada, Teresa rimane incinta: Chiara
nasce dopo una gravidanza difficile e un parto complicato. Dal padre
impara l’amore per la verità, il senso della giustizia e l’attenzione ai
poveri; dalla mamma la dolcezza, la tenacia e la fede.
Nulla di speciale si segnala nella prima infanzia, se non l’attitudine che il Vangelo nota quando racconta dei due figli invitati dal padre ad andare alla vigna: come il secondo di essi, anche Chiara risponde di no, si tratti di dire le preghiere, di donare i giocattoli che non usa più ai bambini poveri o di apparecchiare la tavola. Ma poi ci ripensa, soppesa i termini della richiesta e decide in modo sicuro per il sì. La sua prima maestra delle elementari ricorda di aver avuto negli occhi di Chiara il suo punto di riferimento in classe. Il giorno della sua prima Comunione il parroco le regala un piccolo Vangelo, che per lei diventa una compagnia inseparabile.
Risale alla quarta elementare l’incontro di Chiara e dei suoi genitori con il Movimento dei Focolari. Le amicizie più significative d’ora in poi sono con gli aderenti al movimento. Le scuole medie la vedono impegnata e socievole, attenta soprattutto ai compagni più timidi. Decide di iscriversi al liceo classico di Savona, ma la quarta ginnasio è molto dura. Non la supera. E’ il primo dolore, che diventa l’occasione per vivere uno dei cardini della spiritualità di Chiara Lubich, l’amore a Gesù Abbandonato. Chiara ne fa il perno della sua esistenza: comincia cioè a privilegiare quel dolore patito da Gesù al termine della sua vita e riverberato in ogni pena che avverte in sé e in coloro che la circondano. Già nel 1983, quando la malattia che l’assalirà è ancora lontana, scrive alla fondatrice: “Ho scoperto che Gesù Abbandonato è la chiave per l’unità con Dio e voglio sceglierlo come mio sposo e prepararmi per quando viene”. Nella semplice giovinezza di Chiara tutto è serenità e vigore, anche il breve flirt con Luca, un ragazzo di Sassello.
L’autunno del 1988 è decisivo: Chiara avverte i primi insistenti dolori a una spalla. Gli esami rivelano la presenza di un tumore alle ossa. Viene ricoverata a Torino, ma la gravità della sua malattia non le viene rivelata, anche in occasione dell’intervento che rimuove il tumore. Lei è serena e convinta di potercela fare. L’intervento riesce, ma aggiunge nuovi dolori fisici.
Nulla di speciale si segnala nella prima infanzia, se non l’attitudine che il Vangelo nota quando racconta dei due figli invitati dal padre ad andare alla vigna: come il secondo di essi, anche Chiara risponde di no, si tratti di dire le preghiere, di donare i giocattoli che non usa più ai bambini poveri o di apparecchiare la tavola. Ma poi ci ripensa, soppesa i termini della richiesta e decide in modo sicuro per il sì. La sua prima maestra delle elementari ricorda di aver avuto negli occhi di Chiara il suo punto di riferimento in classe. Il giorno della sua prima Comunione il parroco le regala un piccolo Vangelo, che per lei diventa una compagnia inseparabile.
Risale alla quarta elementare l’incontro di Chiara e dei suoi genitori con il Movimento dei Focolari. Le amicizie più significative d’ora in poi sono con gli aderenti al movimento. Le scuole medie la vedono impegnata e socievole, attenta soprattutto ai compagni più timidi. Decide di iscriversi al liceo classico di Savona, ma la quarta ginnasio è molto dura. Non la supera. E’ il primo dolore, che diventa l’occasione per vivere uno dei cardini della spiritualità di Chiara Lubich, l’amore a Gesù Abbandonato. Chiara ne fa il perno della sua esistenza: comincia cioè a privilegiare quel dolore patito da Gesù al termine della sua vita e riverberato in ogni pena che avverte in sé e in coloro che la circondano. Già nel 1983, quando la malattia che l’assalirà è ancora lontana, scrive alla fondatrice: “Ho scoperto che Gesù Abbandonato è la chiave per l’unità con Dio e voglio sceglierlo come mio sposo e prepararmi per quando viene”. Nella semplice giovinezza di Chiara tutto è serenità e vigore, anche il breve flirt con Luca, un ragazzo di Sassello.
L’autunno del 1988 è decisivo: Chiara avverte i primi insistenti dolori a una spalla. Gli esami rivelano la presenza di un tumore alle ossa. Viene ricoverata a Torino, ma la gravità della sua malattia non le viene rivelata, anche in occasione dell’intervento che rimuove il tumore. Lei è serena e convinta di potercela fare. L’intervento riesce, ma aggiunge nuovi dolori fisici.
Comincia
la chemioterapia a Torino, in un piccolo appartamento che il movimento
dei Focolari ha messo a disposizione per evitare i lunghi viaggi da
Sassello. Entrando in ospedale, Chiara legge la scritta “Reparto
oncologico” e capisce.
Per accettare la volontà di Dio ha bisogno di un po’ di tempo, come
quando era bambina. Sono venticinque minuti di solitudine: il suo orto
degli ulivi? Sua madre Teresa, testimone della lotta nel cuore della
figlia, coglie nello sguardo il segno del sì. Poi anche altri, i medici,
gli infermieri, gli amici, soprattutto l’amica del cuore Chicca vedono
la tranquillità e la fortezza con cui porta dolori spesso lancinanti.
Quando può continua a studiare, a incontrare i suoi amici. A maggio un nuovo progresso della malattia le toglie l’uso delle gambe. Dona a un amico impegnato in Benin tutti i soldi ricevuti in dono per i suoi diciott’anni: così si compie il suo sogno di dedizione all’Africa.
In uno dei tanti ricoveri incontra il cardinal Saldarini, in visita agli ammalati. “Come fai a essere così serena?”, le chiede notando lo sguardo luminoso. “Cerco di amare Gesù”.
La malattia precipita nell’estate e Chiara rivela all’amica Chicca e alla mamma il desiderio che il suo funerale sia una festa. Chiede di essere vestita di bianco, indica le canzoni da eseguire. Pochi giorni prima della morte Chiara sente la misteriosa presenza del Maligno che vuole sprofondarla. L’aiuto della mamma la rincuora. La notte del 7 ottobre 1990, festa della Madonna del Rosario, muore. Le sue ultime parole sono per Teresa: “Mamma, ciao. Sii felice perché io lo sono”.
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2010/10/9/LA-STORIA-Chiara-Badano-quando-il-dolore-e-via-della-fede/2/118188/
Quando può continua a studiare, a incontrare i suoi amici. A maggio un nuovo progresso della malattia le toglie l’uso delle gambe. Dona a un amico impegnato in Benin tutti i soldi ricevuti in dono per i suoi diciott’anni: così si compie il suo sogno di dedizione all’Africa.
In uno dei tanti ricoveri incontra il cardinal Saldarini, in visita agli ammalati. “Come fai a essere così serena?”, le chiede notando lo sguardo luminoso. “Cerco di amare Gesù”.
La malattia precipita nell’estate e Chiara rivela all’amica Chicca e alla mamma il desiderio che il suo funerale sia una festa. Chiede di essere vestita di bianco, indica le canzoni da eseguire. Pochi giorni prima della morte Chiara sente la misteriosa presenza del Maligno che vuole sprofondarla. L’aiuto della mamma la rincuora. La notte del 7 ottobre 1990, festa della Madonna del Rosario, muore. Le sue ultime parole sono per Teresa: “Mamma, ciao. Sii felice perché io lo sono”.
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2010/10/9/LA-STORIA-Chiara-Badano-quando-il-dolore-e-via-della-fede/2/118188/
Postato da: giacabi a 10:03 |
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santi
Considerazioni sull' ateismo
***
Si
lagna il signor Dorrel inglese (ma cattolico), che anticamente gli
ateisti andavano sconosciuti per non esser trattati da empj, e da
sciocchi; e che almeno, se erano infetti d'ateismo, non ardivano di
comparir tali: ma che gli increduli odierni si dichiarano tali alla
svelata; e si vantano, affin di acquistarsi il nome di spiriti forti, e
spregiudicati, di giudicare della divinità e della religione. Col che, a
ben dire, pretendono in somma di togliere ogni legge, ed ogni buon
ordine di vivere; poiché tolta
l'esistenza d'un Dio rimuneratore del bene e punitore del male, ed
abolite le verità della religion cristiana ecco rimosso ogni freno al
peccato e distrutta ogni legge ed ogni regola di morale. Sicché l'uomo
diventerebbe simile e peggiore delle bestie: il senso padron della ragione: il diritto sarebbe deciso dalla forza, l'onesto dal piacere, il giusto dall'interesse, l'onore dalla vendetta. Onde tutti diverrebbero schiavi delle loro passioni, abbracciando ogni vizio, purché si affacciasse colla sembianza d'utile o dilettevole".Sant' Alfonso Maria de Liguori |
Postato da: giacabi a 09:50 |
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santi, ateismo, istintività
|
Postato da: giacabi a 21:37 |
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preghiere, santi
ANTONIO DA PADOVA/
Il frate portoghese che combatté l’eresia conciliando ragione e miracolo
***
Rino Cammilleri martedì 16 febbraio 2010
In occasione della riesumazione e dell’ostensione
delle spoglie di sant’Antonio da Padova, che verranno esibite al
pubblico fino a sabato 20 febbraio 2010, Rino Cammilleri traccia un
breve profilo agiografico del santo portoghese
Fernando
de Bulhões, canonico agostiniano portoghese e discendente di Goffredo
di Buglione, si fece francescano e divenne Antonio (poi) di Padova.
Francesco d’Assisi non voleva che i suoi uomini studiassero perché
temeva perdessero l’umiltà. Poi seppe di frate Antonio e a lui permise
di istruire i francescani.
Francesco
aveva due crucci: l’islam e i catari, i nemici esterno e interno
della Chiesa (la Chiesa ha sempre un doppio nemico). Per giunta, il
catarismo infestava la Provenza, luogo di origine di sua madre (a onor
di lei Bernardone aveva chiamato il figlio “Francesco”). All’islam
pensò personalmente, andando a cercar di convertire il sultano. Contro
i catari mandò il suo uomo migliore, Antonio. Il quale fu prima
provinciale del Limosino e poi di Lombardia (a quel tempo tutta
l’Italia settentrionale), le zone dei catari. Il «Cantico delle
creature» è un inno anti-cataro, teso a elogiare la creazione, che i
catari odiavano. I più strepitosi miracoli di Antonio furono in
funzione anti-catara, entrambi nella roccaforte catara di Rimini.
Il primo fu quello dei pesci.
Saputo che arrivava in città Antonio a predicare - e conoscendone
l’incredibile eloquenza - i catari intimidirono la popolazione e
Antonio trovò le piazze deserte. Allora
si recò sul lido, e i pesci uscirono dall’acqua per ascoltarlo. I
catari erano vegetariani ma mangiavano i pesci, gli unici animali
scampati al Diluvio. Ebbene, Antonio volle mostrare che i pesci
stavano a sentire lui, non loro.
Il secondo miracolo (la mula che si inginocchia davanti al Santissimo) fu un’ordalia contro un capo cataro (i catari non credevano nell’Eucarestia).
Sempre
contro i catari Domenico di Guzman aveva fondato i Predicatori (prima
potevano predicare solo i vescovi), cui venne affidata la neonata
Inquisizione. Ma non bastavano. Grazie all’opera di Antonio si
affiancarono loro i francescani. Ambedue ordini mendicanti, potevano
opporre l’austerità cattolica a quella catara. E disputare con i
catari alla pari (i catari erano preparatissimi, un po’ come gli
odierni Testimoni di Geova).
Antonio
di Padova è un “unicum” nella storia del cristianesimo: un po’ san
Tommaso per l’erudizione, un po’ Padre Pio per i miracoli spettacolari
e le lotte, anche fisiche, col demonio. Per questo gli ho dedicato un intero libro: “Io e il diavolo”.
da: ilsussidiario.net
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Postato da: giacabi a 15:39 |
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santi
Annalena Tonelli.
***
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Postato da: giacabi a 10:01 |
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santi
L'UMILTA' CHE ELEVA
***
Se ti pieghi ti conservi,
se ti curvi ti raddrizzi,
se t'incavi ti riempi,
se ti logori ti rinnovi,
se miri al poco ottieni
se miri al molto resti deluso.
Per questo il santo preserva l'Uno
e diviene modello al mondo.
Non da sé vede perciò è illuminato,
non da sé s'approva perciò splende,
non da sé si gloria perciò ha merito,
non da sé s'esalta perciò a lungo dura.
Proprio perché non contende
nessuno al mondo può muovergli contesa.
Quel che dicevano gli antichi:
se ti pieghi ti conservi,
erano forse parole vuote?
In verità, integri tornavano.
(da: "Tao Te Ching" di Lao Tzu - Ed. La Vita Felice)
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Postato da: giacabi a 21:32 |
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santi
***
Vi
è una accezione della parola santità la quale si rifà ad una immagine
di eccezionalità che una aureola esprime. Eppure il santo non è né un
mestiere di pochi né un pezzo da museo. La santità va vista in ogni tempo come la stoffa della vita cristiana. pur dentro la parzialità di certe immagini, rimane la traccia di una idea fondamentalmente esatta: il santo non è un superuomo, il santo è un uomo vero. Il
santo è un uomo vero perchè aderisce a Dio e quindi all'ideale per
cui è stato costruito il suo cuore, e di cui è costruito il suo
destino. Eticamente tutto ciò significa "fare la volontà di Dio" dentro una umanità che rimane e pur diventa diversa. San Paolo testimoniava ai Galati: "Pur vivendo nella carne io vivo nella fede del Figlio di Dio". Infatti
la santità è il riflesso della figura dell'unico in cui l'umanità si è
compiuta secondo tutta la sua potenzialità: Gesù Cristo.
Luigi Giussani (Presentazione del libro "Santi" di Cyril Martindale)
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Postato da: giacabi a 11:10 |
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santi, giussani
***
“Nella semplicità del cuore, ti offro tutto lietamente, Signore”
***
“La volontà di Dio, qualunque essa sia: questa è la mia gioia, la mia felicità, la mia pace.”
BEATA M.GABRIELLA SAGHEDDU
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Postato da: giacabi a 06:39 |
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perle, desiderio, santi, cristianesimo
***
Renato
Farina
da: ilsussidiario.net
venerdì 23 ottobre 2009
Sarà
bello poter pregare il Beato Carlo Gnocchi, come tanti hanno già fatto
per tutti questi anni, dal 1956 in poi, sapendolo santo. Consola sapere
che la Chiesa, esperta in umanità, ha visto e approva, dopo che Dio
concedendo il miracolo ha detto di sì. Interessante anche il tipo di
miracolo. Un elettricista brianzolo che lavorava da volontario a un
centro per disabili a Inverigo ed è rimasto folgorato, impossibile
sopravvivere. Ma la folgore non lo ha ucciso avendo egli invocato
istantaneamente don Gnocchi.Prima dell’incarnazione di Dio in Gesù non
si poteva vedere Dio senza morire, ora invece lo si può guardare,
contemplare nel volto dei santi. Il cristianesimo di don Gnocchi è
questo: una folgore che invece di uccidere dona la vita, dentro la vita,
dentro il dolore, il marcio della condizione umana, dentro le cose
normali. La folgore di una umanità diversa.Per chi non abbia tempo di
leggere le biografie a lui dedicate, ecco un riassunto. Carlo nasce nel
1902 a San Colombano al Lambro, nella Bassa. Il padre muore quando ha
cinque anni di silicosi, era operaio marmista. La mamma si trasferisce a
Milano, i suoi fratelli sono uccisi dalla tbc. A questo punto Carlo si
fa brianzolo, a Montesiro incontra un sacerdote che lo affascina, va in
seminario, è prete a 23 anni. Quindi l’oratorio, l’educazione dei
ragazzi. Infine è alpino. Se i suoi studenti, amici e fratelli vanno in
guerra lui è lì con loro, non obietta, parte, odiando la guerra, ma lì.
Va nei Balcani, poi in Russia. Tra i soldati, uno di loro, però
testimone di una Presenza straordinaria. La purezza della castità,
contento di essere prete, senza astrarsi, senza fuggire dalla sporcizia e
dal sangue. Anche in battaglia. La famosa battaglia di Nikolaevka.Nel suo libro “Cristo con gli alpini” scrisse: «In
quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l'uomo. L'uomo
nudo; completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più
grandi di lui, da ogni ritegno e convenzione, in totale balìa degli
istinti più elementari emersi dalle profondità dell'essere». Amare
questi uomini come Cristo, amico senza giudicarli, senza escluderli
perché preda degli “istinti più elementari”, nessuno scandalo, perché
l’uomo nel dolore e nella malattia è salvato. Ritorna. Ha ricevuto le
confidenze dei morti, le lettere. Gira
per l’Italia a portare alle famiglie notizie tragiche di persone che ha
visto morire. Si prende cura degli orfani. Poi si dà da fare per i
bambini mutilati dalla guerra e ancora falcidiati dalle bombe
abbandonate. Mette su istituti (la “Pro Juventute”), si fa tutto a
tutti, specie con i bambini perché consegnino le loro sofferenze a Gesù.
Prende
sul serio i bambini, non li considera bambole di pezza parlanti. Sa che
anch’essi cercano il senso della vita, e persino il loro dolore assurdo
trova senso sul costato del Crocifisso (e Risorto). Le opere si
moltiplicano.
Il riconoscimento dei politici non manca; ancor oggi Giulio Andreotti,
che ebbe da De Gasperi l’incarico di sostenerlo nelle varie iniziative,
dice di lui: «Non gli si dirà mai grazie abbastanza». Don Carlo si
consuma. Ha il volto bianco come la neve.A proposito di neve. A me resta
impressa questa frase: «Com'è bello giocare con la neve quando è pulita
e bianca. Anche Gesù gioca volentieri con le anime dei bimbi quando
sono bianche e pulite; ma se diventano sporche a Gesù non piacciono
più…». Cosa colpisce? Egli sa che esiste la libertà, gli uomini possono
dire sì o no, anche quando sono bambini. La drammaticità dell’esistenza
umana inizia presto. E per questo c’è bisogno di adulti che rischino
tutto per i loro ragazzi, i quali si affidino a loro volta al maestro,
dentro un’affezione che corrisponde al bisogno del cuore.Egli, magro,
consumato, felice, morì a 54 anni dicendo: «Grazie di tutto». Lo diceva a
Dio, lo diceva agli amici, ai bambini, agli alpini, a noi. Nelle varie
polemiche che si sono susseguite in questi anni (ma durano da secoli) a
proposito della risposta cristiana al mistero del dolore innocente, la
risposta di don Gnocchi all’enigma è bianca come la neve e rossa come il
sangue di Cristo. E si scusi l’immagine un po’ ardita, ma in fondo
Gnocchi era ardito e ardente. Egli sapeva che quel dolore dei bambini,
perché non fosse buttato via, andava versato nella mano del Signore, ma
nel far questo ha fatto di tutto per lenirlo, per combatterlo. Se uno
vuol bene dice: “donna non piangere!”, come Gesù alla vedova di Naim.
Negli
ospedali di don Gnocchi, nelle sue case, non si lesinavano denari per
acquistare le migliori tecnologie per estirpare il dolore, per
consentire di camminare meglio ai mutilati. È
stato il primo a donare le sue cornee per consentire a due ciechi di
vedere, anticipando la legge con il suo gesto profetico. Altro che
oscurantismo cattolico o dolorismo sadico. Tutto
per Cristo e per gli uomini. Perché i bambini si immedesimino in Lui, e
anche gli adulti siano pienamente uomini come Lui. Disse: «Cristo
vero Dio e vero uomo, è l'esemplare e la forma perfetta cui deve mirare
e tendere ogni uomo che voglia possedere una personalità veramente
umana».
Aveva
visto l’orrore in guerra, l’istinto belluino, quello di vivere
anteposto a tutto, nel gelo russo. Eppure don Carlo anche lì riuscì a
essere - e la sua testimonianza vale tuttora - “seminatore di speranza”,
secondo la definizione per lui coniata da Giovanni Paolo II. Il destino
è buono. L’uomo è capace di male, ma è più forte la grazia.
Diceva: «L’ultima parola spetta sempre al bene».
E si rivolgeva sempre, nel buio e nella melma, alla «Madre tenerissima,
mediatrice di Grazia». Per questo è bello che sia stato fatto Beato, e
la sua faccia lunga e lieta appaia sul grande stendardo domenica in
Piazza Duomo a Milano, sotto la Madonnina d’oro.
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Postato da: giacabi a 21:13 |
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santi, don gnocchi
***
Di Patrizia Solari
La lebbra e l'esclusione
Nell'arcipelago
delle Hawaii la lebbra cominciò a diffondersi in maniera rapida e
terrificante dal 1850. Di questa malattia il cui bacillo fu identificato
nel 1873, non si conoscevano le vie di trasmissione. Inoltre non c'era
ancora la possibilità di predisporre un vaccino efficace: la lebbra era
un male terribile, che non si poteva curare. Il principio per arginare
l'epidemia era dunque la segregazione dei malati, anche riprendendo alla
lettera gli insegnamenti dell'Antico Testamento: la lebbra era una
maledizione divina e come tale andava trattata.
"In base a tali persuasioni era stato dunque realizzato l'insediamento di Kalawao, nell'isola di Molokai: un promontorio basso, roccioso e spoglio, tra la scogliera e il mare, scelto proprio perché inaccessibile. A partire dal 1866, ogni mese, da Honolulu, la capitale, partiva una nave carica di lebbrosi, requisiti a forza." Se per i bianchi il problema 'lebbra' automaticamente voleva dire 'assenza di ogni contatto', anche se si trattava dei propri congiunti, per gli hawaiani invece il contatto umano, anche fisico, restava un valore irrinunciabile, più importante di ogni pericolo. I malati sospetti venivano requisiti per una diagnosi. "Ma tutto avveniva tra la ribellione dei parenti: i malati venivano occultati; i nuclei familiari si trasferivano per questo anche nei villaggi più sperduti, (...) alla polizia ci si opponeva anche con le armi. E non era infrequente il caso di amici e parenti che si fingevano malati per accompagnare i loro cari".
La missione e l'inferno di Molokai
Nel
1863 il vicario apostolico delle isole Hawaii, mons. Maigret, chiese
alla congregazione dei Sacri Cuori a Lovanio, che aveva iniziato
l'evangelizzazione dell'arcipelago, l'invio di altri missionari.
Damiano (al secolo Giuseppe), un ragazzotto robusto, figlio di contadini, dal temperamento forte e vivace, a 18 anni voleva diventare monaco trappista, ma era entrato nella congregazione dei Sacri Cuori, dietro insistenza di suo fratello Panfilo, che già ne faceva parte. Altre due sorelle erano Orsoline. Mentre il fratello, tra i prescelti per andare in missione, si preparava per partire, a Lovanio scoppiò un 'epidemia di tifo. Panfilo, prodigandosi nell'assistenza, ne rimase contagiato e così Damiano chiese ai suoi superiori di partire al suo posto. Il 19 marzo 1864, non ancora sacerdote, dopo oltre quattro mesi di navigazione, sbarcava sulle isole dove sarebbe rimasto per sempre. Dopo due mesi fu ordinato sacerdote e svolse la sua attività missionaria in diverse regioni per quasi dieci anni. Poi, nel 1873, in un incontro dei missionari con mons. Maigret, diventato Vescovo, si parlò dell'isola di Molokai e dello stato di abbandono dei lebbrosi. Padre Damiano si offrì allora di andarci e il 10 maggio era nel villaggio di Kalawao. "Nessun bianco vi aveva mai soggiornato. Era passato in fretta qualche medico (che visitava i malati sollevando le vesti con la punta del suo bastone e lasciava le medicine fuori dalla porta dell'ambulatorio) e qualche Pastore protestante che predicava da lontano, sulla veranda. Ma non volevano essere toccati e gli hawaiani non se ne curavano. (...) Non potevano essere veramente interessati a loro quei bianchi che fuggivano via pieni di orrore al solo vederli! Ma tra i lebbrosi stessi l'interesse e la solidarietà erano ferocemente limitati ai propri congiunti; tutto il resto era nemico. Così la colonia dei lebbrosi era un inferno, non solo per quello che accadeva ai corpi, soggetti a un orribile disfacimento, ma ancor più per quello che accadeva alle loro anime e alla loro tragica società." Rovina fisica e psicologica, dunque: "(...) un'incredibile sporcizia (mancava perfino l'acqua!), una violenza pronta ad esplodere ad ogni provocazione, l'esasperazione degli istinti più bassi, l'abolizione di ogni limite sessuale, la schiavizzazione dei bambini e delle donne, alcolismo e droghe, il latrocinio generalizzato, il risorgere di pratiche idolatriche e superstiziose. Il tutto peggiorato da un disinteresse generalizzato. (...) All'inizio nulla era stato predisposto per loro: né abitazioni, né ospedali, né dispensari, né uffici amministrativi, né chiese, né cimiteri." La colonia si reggeva sulla massima suprema, che gli anziani si affrettavano ad inculcare nei nuovi arrivati: "A'ole kanawai ma keia wahi: qui non c'è nessuna legge".
La condivisione: il corpo di Cristo
Padre Damiano giunse sull'isola "con il breviario e un piccolo crocifisso. Le
prime settimane visse all'aperto, dormendo sotto un albero e mangiando
su una roccia piatta. E scelse subito di immergersi volontariamente in
quel mondo in putrefazione. Ciò che più lo sconvolgeva era il fetore
persistente che, quando i malati gli si stringevano attorno, lo prendeva
alla gola (...). Per aiutarsi, cominciò a fumare la pipa, che gli
divenne abituale. (...) Capì subito, quasi per istinto di carità, che i
malati non lo avrebbero mai accettato, se egli avesse cominciato a
preservarsi, a usare precauzioni, a evitare i contatti, a mostrare
ripugnanza. (...) Di
poter essere contagiato non si preoccupava. Diceva 'd'aver affidato la
questione a Nostro Signore, alla Vergine e a san Giuseppe'.
I superiori gli scrivevano sempre di badare al contagio, ma egli sapeva
che era assolutamente inutile essersi recato a Molokai se restava un
'haole', 'un bianco': di quelli che per definizione 'rifiutavano di
toccare'. Era difficile per un prete 'rifiutarsi di toccare', quando
bisognava deporre l'ostia consacrata su lingue rose dal male, o ungere
con l'olio santo mani e piedi cancrenosi, o bendare con tenerezza quelle
orribili piaghe; o anche solo prendere in mano la corda della campana
su cui s'erano arrampicati per gioco i bambini!
(...) Ma egli non agiva così solo per rispettare la sensibilità degli hawaiani, e quella ancora più acuta dei malati. Egli voleva rispettare, per così dire, 'la sensibilità della Chiesa'. Essa è, per definizione, 'corpo di Cristo'; tutti i suoi sacramenti e le sue opere sono segni di un 'contatto fisico', salvifico, tra l'Umanità di Cristo e la nostra sofferente umanità. Se quel desiderato 'contatto' era per gli hawaiani una questione culturale, per padre Damiano era anche una questione di fede. Perciò a tavola mangiava il 'poi' (carne mescolata con farina di taro) intingendo le mani, assieme ai lebbrosi, nel piatto comune; beveva nelle tazze che gli offrivano; passava la sua pipa se gliela chiedevano; giocava coi bambini che si gettavano a grappoli addosso a quel gigante buono."
Imparare a morire bene, perchè la vita acquisti dignità
Il
senso della missione di padre Damiano era la preparazione alla morte.
"Non c'era altro da fare. Impossibili e inutili le cure, certa la morte.
(...) Quell'iter pedagogico che altrove -in ogni altra comunità
cristiana- era così ovvio ('insegnare a ben vivere per insegnare a ben
morire'), a Molokai non era più possibile. Bisognava capovolgere
l'itinerario: insegnare a morire bene, perché potessero acquistare senso
e dignità (e perfino 'gioia'), quella parvenza di vita che ancora
restava, quei brandelli di esistenza che assomigliavano così tanto ai
brandelli del loro stesso corpo. (...)
La morte era addirittura 'il prologo', da cui tutto il resto dipendeva. E padre Damiano sapeva che quella morte lo riguardava. Egli non era e non voleva essere uno spettatore. Cominciò dunque a 'celebrare la morte', nel senso di darle dignità umana. Se si pensa che, al suo arrivo, i cadaveri venivano abbandonati all'aperto e dati in pasto ai maiali, si può comprendere la dignità di chi si mette a costruire un cimitero. (...) Oltre al cimitero, padre Damiano fondò la Confraternita dei funerali, che si preoccupava di preparare le bare di legno e di accompagnare, pregando, il defunto al cimitero, al suono della musica e dei tamburi. E le vesti dei membri della confraternita erano particolarmente dignitose." E "dopo la liturgia della morte, veniva quella dei Sacramenti che ancoravano alla vita." Primo fra tutti era il sacramento dell'Eucarestia: la festa più grande nell'isola di Molokai era il Corpus Domini, celebrato con solenni processioni. "Padre Damiano aveva perfino introdotto la pratica dell'Adorazione perpetua: i turni e gli orari, di giorno e di notte, non era facile osservarli; ma quando un 'adoratore' non poteva occupare il suo posto in chiesa, si inginocchiava a pregare sul suo giaciglio."
Costruire: con le persone e con i mattoni
"C'era
poi la Confraternita della sant'Infanzia, per i bambini abbandonati;
quella di san Giuseppe, per le visite dei malati a domicilio; quella
della Madonna, per l'educazione delle ragazze. Questi nomi così
'spirituali' non devono farci dimenticare che si trattava di
un'organizzazione sociale, tanto più forte, quanto più ancorata nella
fede.
La particolare cura dei morti e i funerali fu anche un realistico intervento igienico e pedagogico: il più realistico in quelle condizioni; le varie 'confraternite' furono anche delle strutture di convivenza civile e di assistenza sociale che nessun altro aveva saputo neanche immaginare. Il tempo che gli restava dopo le visite ai malati e la cura spirituale era impiegato nella costruzione di opere necessarie alla vita dell'isola: un porticciolo, una strada di collegamento con il villaggio, due acquedotti, serbatoi d'acqua, una serie di magazzini, uno spaccio, un edificio di raccolta per i nuovi arrivati, due dispensari, un centro di formazione per ragazze, un ospedale...
Gli aiuti, le lodi, le ostilità: oro, incenso e mirra
Per
le sue opere, gli aiuti economici a padre Damiano non erano mai
mancati. Era stato evidentemente aiutato dalla fama internazionale che
lo aveva accompagnato fin dagli inizi, anche grazie alle notizie diffuse
dai giornali. Appena tre giorni dopo il suo arrivo sull'isola, il
giornale delle Hawaii, l'Advertiser, lo definiva 'un eroe cristiano' e
alla sua morte il Times scrisse: "Questo prete cattolico è divenuto per
tutta l'umanità un amico".
La Commissione Ministeriale d'Igiene dapprima lo avversò, ma poi finì
per offrirgli la carica di Sovrintendente di Molokai, con una paga annua
di diecimila dollari. E padre Damiano disse che lì non ci sarebbe stato cinque minuti con una paga di centomila dollari: ma ci stava per amor di Dio.
Ma "i superiori non stimavano padre Damiano e non erano contenti di lui. S'erano già infastiditi all'inizio, per il troppo clamore suscitato attorno alla sua impresa. Avevano continuato a guardarlo con sospetto. Si diceva che gli passasse per mano un fiume di denaro, che fosse troppo indipendente nelle sue decisioni, che nella soluzione dei problemi pastorali non guardasse troppo per il sottile, che aspirasse a diventare una specie di vescovo indipendente di quella colonia di lebbrosi. In più, alcune proteste pubbliche che padre Damiano aveva rivolte al Ministero della sanità circa il trattamento riservato ai lebbrosi, avevano messo l'intera missione in difficoltà con il Governo. Il Provinciale -noto per la sua durezza verso gli altri e per l'estrema condiscendenza verso se stesso- fece pressione sul vescovo e questi scrisse a padre Damiano di smetterla di 'fare tanta poesia sui lebbrosi... Il mondo ha l'impressione che voi siate alla testa dei vostri lebbrosi e fungiate da procuratore di beni, medico, infermiere, becchino e così via, come se il governo non esistesse...'. Padre Damiano gli rispose: 'Dagli stranieri oro e incenso, dai superiori la mirra'." Bisogna poi aggiungere l'ostilità che regnava tra i protestanti, i quali non perdevano occasione per attaccare le opere di padre Damiano, come quando fu costruito il cimitero e il giornale dei protestanti Hawaiani scrisse che il recinto del 'predicatore papista' non era che una trappola per catturare la selvaggina che sbagliava strada... Pochi mesi prima che morisse, tentarono anche di infangare la sua immagine e la sua missione, approfittando di quella teoria che attribuiva il contagio alla promiscuità sessuale. Ma la testimonianza di padre Damiano riuscì a modificare anche questi atteggiamenti. Durante il Corpus Domini, che, come già detto, era la festa più importante sull'isola, perfino i protestanti, allora abituati ad osteggiare e a disprezzare le processioni come idolatria, si commuovevano, colpiti dall'imponenza della solenne processione che attraversava le vie del lebbrosario. "A Molokai anch'essi si scoprivano il capo e nel 1874 -dopo una processione- una ventina di essi chiesero il battesimo."
Lebbroso tra i lebbrosi
Il
Provinciale scrisse a Roma "che padre Damiano s'era montato la testa,
si era 'intossicato di lodi' e stava diventando 'pericoloso'. Padre
Damiano invece, da qualche anno, era diventato soltanto 'lebbroso'.
Se ne era accorto per caso una sera che, tornando stanco dal suo solito giro apostolico, soprappensiero, aveva immerso i piedi in una bacinella d'acqua calda. Aveva visto immediatamente arrossarsi la pelle e formarsi delle vesciche. Stupito aveva toccato l'acqua con la mano: era bollente e non se n'era accorto! Aveva perso la sensibilità agli arti inferiori e seppe così inequivocabilmente d'aver contratto la lebbra. (...) Scrisse umilmente ai suoi superiori: '...Sono diventato lebbroso. Penso che non tarderò ad essere sfigurato. Non avendo alcun dubbio sul vero carattere della mia malattia, io resto calmo, rassegnato e felicissimo in mezzo al mio popolo. Il Buon Dio sa bene ciò che vi è di meglio per la mia santificazione, e ogni volta ripeto con tutto il cuore: Sia fatta la tua volontà!' (...) I rapporti con i superiori non migliorarono per questo: la notizia che l'eroe di Molokai era divenuto lebbroso fece il giro del mondo e suscitò una nuova ondata di solidarietà. (...) In più il Provinciale era preoccupato delle conseguenze che quella malattia poteva avere per la missione, e gli consigliò di non metter più piede fuori dall'isola." "In un quaderno personale che aveva preso a scrivere in quel tempo si leggono questi consigli che egli dava a se stesso: 'Prega di ottenere lo spirito di umiltà, in modo da desiderare il disprezzo. Se vieni schernito, devi gioirne. Non lasciamoci incantare dalle lodi degli uomini, non siamo soddisfatti di noi stessi, siamo grati a chi ci causa dolore o ci tratta con disprezzo e preghiamo Dio per loro. Per fare questo c'è bisogno, oltre che della grazia, di una grande abnegazione e di una costante mortificazione, grazie alla quale veniamo trasformati in Cristo Crocifisso.'" "Quando, al termine della Quaresima del 1889, padre Damiano s'accorse che le piaghe si chiudevano e la crosta si anneriva, capì che stava per morire. Ne aveva assistiti tanti che aveva imparato a riconoscere bene quei segni infallibili di una fine prossima. Era contento di andare a celebrare la Pasqua in cielo. Quando morì, il lunedì santo, aveva quarantanove anni e ne aveva passati sedici tra i suoi lebbrosi."
Segno di contraddizione
Ancora
una volta esplose il rancore di un certo mondo protestante e sulla
stampa internazionale finì una lettera di un pastore americano, Charles
Hyde, che definiva padre Damiano 'uomo rozzo, sporco, testardo,
intollerante...'
In difesa di padre Damiano pubblicò un'appassionata 'lettera aperta' lo scrittore Robert Louis Stevenson, autore del romanzo L'isola del tesoro e divenuto famoso per il racconto intitolato Il Dottor Jekill e Mister Hyde. "Quando Stevenson -che lottava disperatamente contro la tubercolosi- lesse l'articolo in cui un Hyde in carne ed ossa pretendeva tramutare in mostro l'eroico e santo padre Damiano, gli sembrò di trovarsi davanti ai suoi personaggi divenuti reali." "Strano destino quello di padre Damiano, costretto a finire spessissimo sulle pagine dei giornali, sulla corrispondenza ufficiale della sua Congregazione religiosa, e perfino in mano ad artisti, letterati, pittori e fotografi (nel Natale del 1887, Edward Clifford pittore e scrittore, venne per conoscerlo e per fargli un ritratto, ormai già sfigurato dalla lebbra, e le fotografie scattategli sul letto di morte furono diffuse a migliaia di copie): proprio lui che viveva nel luogo più sperduto dell'universo. E stranamente si trovava a dover restare sempre sulla pubblica scena, ciò che costringeva gli spettatori a schierarsi! Così padre Damiano ricevette -quasi in parti uguali- fama e disprezzo, stima e rifiuto, venerazione e sospetto, amore e rancore, per tutti gli anni di quella sua straordinaria avventura. Il tutto si rischiara e diventa comprensibile solo se intravediamo il segreto disegno del Padre celeste che aveva scelto quel suo figlio generoso e impetuoso perché diventasse un segno di contraddizione." |
Postato da: giacabi a 19:46 |
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santi
SANTI E CARITÀ –
IL BEATO LUIGI GUANELLA
***
L’esiliato di Dio
Paola Bergamini
Gli
inizi in una parrocchia di montagna, dove ad accoglierlo non c’è
nessuno. I muri da imbiancare, la lotta al liberismo, i progetti
«falliti». E quella preferenza incondizionata per gli infermi. Storia di
una vita spesa nell’obbedienza, da cui sono fiorite grandi opere di
carità. E non solo
Don Luigi con passo veloce percorre la via principale di Prosto, alla periferia di Chiavenna (Sondrio). Deve raggiungere i bambini del catechismo. E poi c’è da preparare la lezione per la scuola serale, andare a trovare quel povero demente... Da pochi mesi è vicario della parrocchia, dal giorno della sua ordinazione sacerdotale: 26 maggio 1886. Ha 25 anni. Tante le cose da fare. I rapporti con l’arciprete non sono sempre solari. Vuole più tranquillità. E invece questo vicario non sta fermo un minuto. La gente pende dalle sue labbra. La Parola di Dio diventa carne. Opere. In un frangente storico in cui il rapporto tra Stato e Chiesa è sempre più teso - proprio in quell’anno il Parlamento con una legge sopprime le congregazioni religiose e dispone la conversione del patrimonio immobiliare - il giovane don Luigi Guanella non si accontenta del quieto vivere: il popolo non può essere ingannato. Immerso nei suoi pensieri, quel giorno quasi non si accorge dell’uomo che bruscamente lo ferma: «So che lei è destinato a Savogno: mi è nato ieri un figlio e se venisse a battezzarlo domani l’avrei caro». Don Luigi è esterrefatto. La notizia del suo spostamento è arrivata prima ai nuovi parrocchiani che a lui. Pronto risponde: «Servo fedele, benché io nulla sappia». L’anziano arciprete, a quanto pare, proprio non ne poteva più di tutto quel trambusto. Non importa, bisogna obbedire. Significa che il Signore ha in serbo un altro progetto. Il giorno dopo, 17 giugno 1887, si inerpica su per i duemila gradini che lo portano a mille metri di altitudine alla nuova destinazione. La lunga camminata gli fa piacere: è nato in montagna, a Franciscio, vicino a Campodolcino nella valle di San Giacomo. Nono di 13 figli, fino al momento di entrare nel seminario per giovani poveri del Gallio a Como, era abituato a quel tipo di vita. E non si rattrista che ad attenderlo non c’è nessuno dei 400 abitanti. La gente di montagna è fatta così: bisogna vincere la loro naturale ritrosia. Subito si dà da fare: si improvvisa imbianchino, muratore, ingrandendo la chiesa e costruendo una tettoia per le donne che si recano al lavatoio. Apre la casa parrocchiale per la scuola diurna per i bambini e serale per gli adulti. Avvicina ogni persona, trasmette a tutti la certezza della fede. I savognesi ascoltano questo giovane prete che parla dell’Eucarestia con accenti che rendono trasparente il Mistero. Tutta la comunità gli si stringe attorno. Come a Prosto, ha una cura particolare per i malati nel corpo e nella mente, più volte all’anno ne porta alcuni a Torino, nella Piccola Casa della Divina Provvidenza. I suoi viaggi nel capoluogo torinese sono anche per accompagnare le giovani che desiderano approfondire la loro vocazione. Tante si fermano nelle Congregazioni di don Bosco e del Cottolengo, al punto che viene accusato sul giornale anticlericale Il libero alpigiano di voler popolare di preti e di suore la Valtellina. Nel 1872 pubblica il Saggio di ammonimenti familiari per tutti, ma specialmente per il popolo di campagna, stampato a Torino nella tipografia di San Francesco di Sales, in cui mette in guardia il popolo della campagna «a difendersi contro le maligne arti con cui i settari massonici, congiunti con i liberali del giorno agognano a rovinare nell’anima soprattutto, e poi anche nel corpo, ogni persona per bene. (…) In presente dobbiamo dimostrare gran coraggio in opporre scuole, libri e istituzioni cattoliche alle scuole, ai libri ed alle istituzioni dei massonici». Questo, oltre alla sua ferma opposizione a mantenere l’insegnamento contro le diposizioni ministeriali del 1862, lo fa entrare tra i sorvegliati speciali. Viene accusato di sovversione e intolleranza. Non può più rimanere a Savogno. Ma nel suo cuore c’è il desiderio di andare incontro ai bisogni della gente. «Signore, fa che io veda». Nei suoi viaggi a Torino ha avuto modo di entrare in stretto contatto con don Bosco e di conoscere la sua opera. Forse è quella la sua strada. Chiede al Vescovo di trasferirsi a Torino, dove il fondatore dei Salesiani lo accoglie a braccia aperte. Gli viene affidata la direzione dell’Oratorio di San Luigi con 700 ragazzi e poi quella del collegio di Mondovì. Ma i giovani per lui non sono tutto, il suo pensiero è rivolto agli infermi, soli, trascurati. Più volte la sua preghiera è: «Signore, fa che io veda». Trascorsi tre anni, il Vescovo di Como lo richiama in diocesi. Don Luigi obbedisce. La nuova destinazione è Traona, nella bassa Valtellina, in aiuto all’arciprete colpito da paralisi. Monsignor Carsana lo aveva inviato con queste parole: «Lassù, come ben sapete, avete case e conventi disusati per fare quelle fondazioni che avete fisse nell’animo; ma guardate poi che non siano fantasie di cervello caldo e illusioni funeste. Provate per vostro conto. Io vi benedico». Le difficoltà che deve affrontare sono tante. Ma non si scoraggia. Fa catechismo, apre scuole diurne e serali. Le autorità civili lo marcano stretto: non vogliono che porti «i progetti oscurantisti appresi alla scuola di don Bosco». Imperterrito va avanti. Predica e ancora una volta ridà alla gente il gusto di sentirsi cristiana. Con i soldi avuti da una eredità, acquista il convento di San Francesco dove istituisce un piccolo collegio. Sembra la prima pietra dell’opera che lui ha in mente. Niente da fare. Viene intimata l’immediata chiusura perché «ritenuto sovversivo il fondatore». Non solo. Alla Curia indirettamente le autorità civili consigliano di «dare al Guanella una cura d’anime sopra un pizzo di montagna dove egli non possa esercitare pericolose influenze». Il 26 agosto 1881 si trasferisce a Olmo, piccolo paese, lungo la via che porta allo Spluga. Ha il cuore colmo di amarezza. Non accetta questo accanimento nei suoi confronti solo per essersi mostrato «nemico acerrimo del liberismo», come lui stesso scrive. Nel suo “esilio” prega e chiede aiuto a Dio. La risposta arriva con la notizia che a Pianello Lario è morto il parroco, don Carlo Coppini, che aveva dato vita a un orfanotrofio affidandolo ad alcune pie donne. Quello è il germoglio da far fiorire. Don Luigi ritorna da monsignor Carsana affinché gli venga assegnata la parrocchia. Il Vescovo è titubante: come trattare questo «fondatore fallito», come in molti lo definiscono? Alla fine gli viene concesso il semplice incarico di amministratore della parrocchia di Pianello. Arriva alle 11 di sera, nessuno lo attende. Ancora una volta con pazienza si conquista le persone. Soprattutto le religiose dell’orfanotrofio, che hanno timore di questo prete che ha fama di matto. Si alza presto e celebra la messa per i filandieri che vanno al lavoro, visita le famiglie, catechismo, scuola serale, predicazione. Appena ha un momento libero scrive i suoi opuscoli. Quando il prevosto Mussi rinuncia alla direzione dell’orfanotrofio le suore chiedono che sia lui il direttore. Il germoglio comincia a fiorire: fare un’opera di assistenza e carità. L’ospizio acquista nuovo vigore, con le suore c’è subito sintonia. I confini di Pianello per don Luigi in breve tempo diventano stretti. La Provvidenza inizia a dispiegare i suoi disegni. Il 25 febbraio 1886 si reca a Como dal prevosto di Sant’Anna, che gli indica la casa e il terreno di un certo signor Biffi. È l’ideale per aprire un istituto per “serve povere”. Il 6 aprile tre suore aprono la casa di via Santa Croce. Il numero degli assistiti aumenta di giorno in giorno. Il 26 maggio 1890 don Guanella può lasciare il suo impegno a Pianello per dedicarsi completamente alle due Case della Provvidenza. Solo a Como vengono assistite oltre 200 persone tra anziani, infermi, ciechi, sordomuti, malati cronici, studenti poveri e ragazzi tolti alla delinquenza. Per ognuno don Luigi ha una cura particolare. Un sacerdote che visita l’opera commenta: «Con quale riverenza don Guanella prestava gli uffici più umili di soccorso e di pulizia personale ai vecchi malati, quasi trattasse con le sue mani le carni sacrosante di Gesù Cristo». A chi gli chiede come fa a provvedere ai bisogni di tante persone, risponde: «Provvede la Provvidenza». «Lasciatelo fare il bene». Il 25 ottobre 1891 monsignor Andrea Ferrari - beatificato nel 1987 da Giovanni Paolo II - fa il suo ingresso nella diocesi di Como. Gli basta poco per capire la portata dell’opera di don Luigi. Così che quando gli giungono voci poco benevole taglia corto: «Andate a visitare le case e vi convincerete che quello che fa non è secondo la prudenza umana, ma secondo la prudenza cristiana. Lasciatelo fare il bene alla gente». Con il suo appoggio, in un anno porta a termine il progetto della chiesa del Sacro Cuore. I destini di questi due prelati rimangono legati. Nel 1894 monsignor Ferrari diventa arcivescovo di Milano e Guanella inizia la sua opera nel capoluogo. Prima con l’apertura di alcuni asili e poi, grazie all’aiuto del Cardinale, acquista un grande edificio attiguo alla chiesa di Sant’Ambrogio ad Nemus dove accogliere i suoi infelici. È instancabile. A Como acquista la vecchia filanda Binda. Soldi non ce ne sono, ma come sempre la Provvidenza viene in suo aiuto. Il nuovo Vescovo liquida con queste parole il nuovo progetto: «Faccia quello che vuole, perché con i santi non si può discutere». Vi troveranno ospitalità oltre 300 inferme. Il 18 ottobre 1899 convoca i parroci e i cappellani della Piana di Spagna, zona paludosa tra Chiavenna e Colico. Il suo progetto? Prosciugare e bonificare. Sembra impossibile. Acquista una casa e i terreni attigui nel cuore della landa e con l’aiuto degli sterratori veneti e dei suoi “buoni figli” nel giro di pochi mesi paludi e stagni sono prosciugati. È la Nuova Olonio San Salvatore. Nascono altre opere e fioriscono le vocazioni, soprattutto quelle adulte, sia maschili che femminili: sono i Servi della Carità e le Figlie di Santa Maria della Provvidenza. Il 27 settembre 1915 don Luigi è nella casa di Como a colloquio con un amico. A un certo punto si accascia. È la paralisi. Il suo fisico da montanaro è stremato. Muore il 24 ottobre. L’amico cardinale Ferrari, al momento di benedire la bara, dice: «Con quale nome preferiresti che io ti chiamassi? Tu mi risponderai sicuramente: servo della carità». |
Postato da: giacabi a 10:15 |
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santi
Giovanni Maria Vianney
***
Il
Curato d'Ars dirà di sé che non riusciva a capire la tentazione
dell'orgoglio, ma di sentire invece molto quella della disperazione,
quella dell'abissale sconfortante inadeguatezza che si placa solo
nell'abbandonarsi totalmente a Dio. E’ importante che noi comprendiamo
bene tutte le radici del dramma, proprio partendo da alcune nostre
esperienze. Tante volte i cristiani si sentono quasi ostacolati dalla
umana limitatezza del loro prete. Dicono; "non sa predicare", oppure
"non è capace di rapporti umani", oppure "non è un santo", "è anche lui
peccatore come tutti...", "perché mi devo confessare da lui che peggio
di me...?" e simili lamenti. Mettete insieme per un istante tutte le
obiezioni più o meno istintive che nella vostra esperienza avete provato
o udito nei riguardi dei sacerdoti. Ebbene: l'aspetto più serio di
queste obiezioni consiste nel fatto che rimandano alla nuda oggettività
del ministero: quello che importa è soltanto l'azione sacra di Dio, che
attraverso quest’uomo-prete si compie. Il Santo Curato d'Ars incarna
personalmente, lui di fronte a se stesso e di fronte a Dio, questo
indicibile dramma. "Il prete, diceva, da un lato, si capirà soltanto in
Cielo. Se lo comprendessimo sulla terra ne moriremmo, non di paura ma
d'amore… Dopo Dio il prete è tutto. Lasciate per vent’anni una parrocchia senza prete e vi si adoreranno le bestie!".
Ma, d'altra parte, aggiungeva: "Come è spaventoso essere prete! Come è da compiangere un prete quando dice Messa come una cosa ordinaria! Come è sventurato un prete senza interiorità!". Questo, a dire il vero, non è il suo problema. Anzi, quando dice Messa sembra che veda Dio, tanto la sua celebrazione è intensa commovente. Egli però vive il tormento di essere parroco, d'avere la responsabilità di una parrocchia e di non sentirsene degno. Continuerà a sperare fino agli ultimi anni di vita, di poter essere liberato da questa responsabilità, per non dovere passare direttamente, come diceva, "dalla parrocchia al tribunale di Dio". E avrà il costante timore, fino a pochi giorni prima della morte, di poter morire soccombendo alla tentazione di disperarsi. Per tre volte cercherà di fuggire, notte tempo, per andare dal Vescovo a chiedere il permesso di ritirarsi in solitudine "a piangere i suoi peccati". L'ultima volta lo farà addirittura quando ormai è celebre in tutta la Francia, tre anni prima di morire. Fuggirà di notte mentre i parrocchiani, che sospettano, sono desti, pronti a fermarlo. I più vivi collaboratori lo ostacoleranno in tutti i modi chiedendogli di recitare assieme prima le preghiere del mattino, nascondendogli il breviario, fin quando la folla dei parrocchiani gli sbarrerà la strada e piangendo gli chiederà di restare: "Signor Curato, se Vi abbiamo dato qualche dispiacere, ditelo, faremo tutto quello che vorrete per farVi piacere". Si lasciò ricondurre in chiesa, "condannato", nel senso più spirituale del termine, al suo confessionale, dicendosi: "che ne sarebbe, se no, di tanti poveri peccatori?". L'indomani, a chi gli ricordava gli avvenimenti della notte, diceva umilmente: "ho fatto il bambino!". Ma non fuggiva per la fatica, fuggiva per il timore di non essere degno. "Io, diceva, non mi rammarico di essere prete per dire la Messa, ma non vorrei essere parroco". Pensava che la nomina dipendesse dal fatto che il Vescovo si sbagliasse nel valutare le sue capacità, e che dunque egli era un ipocrita, perché riusciva a nascondere la sua miseria. "Come sono sfortunato! Non c'è nessuno fino a Monsignore che non si inganni sul mio conto! Bisogna che io sia ben ipocrita!". A dire il vero, c'era più d'uno che lo disprezzava. Un parroco vicino, che vedeva i suoi penitenti incamminarsi verso Ars, gli scriveva: "Signor Curato, quando si possiede così poca teologia, non si dovrebbe mai entrare in un confessionale". E qualcun altro addirittura predicava contro di lui. Ed il Curato d'Ars rispondeva: "Mio carissimo ed amatissimo confratello, quanti motivi ho d'amarVi! Voi siete il solo che mi abbia conosciuto bene!" e gli chiedeva con insistenza d'aiutarlo ad ottenere dal vescovo d'essere liberato da quell'incarico in modo che "essendo sostituito in un posto che non sono degno di occupare a motivo della mia ignoranza, possa ritirarmi in un angolo a piangere sulla mia povera vita". Ma questa così umile e sofferta concezione di sé, notatelo bene, non dipende da un carattere triste, malinconico o angosciato. Al contrario, egli è un uomo vivace, capace anzi di umorismo. Piuttosto, concorrono a formarla due fattori di diversa entità. C'entra indubbiamente un fatto storico-culturale: l'educazione che egli aveva ricevuta era stata molto severa, improntata a un rigorismo giansenista, molto preoccupata del mistero della predestinazione e della dannazione. Un rigore che all'inizio egli userà anche verso i suoi penitenti e nelle prediche, ma che poi cederà sempre più il posto ad una esaltazione vibrante e dilagante dell'amore di Dio. Ma c'entra ancor più un fatto mistico. Sarà lui stesso a rivelarlo ad una sua penitente: "Figlia mia, non chiedete a Dio la conoscenza completa della vostra miseria. Io l'ho domandata una volta e l'ho ottenuta. Se Dio non mi avesse sostenuto, sarei allora immediatamente caduto nella disperazione!". E ad una sua collaboratrice pastorale:"Ho domandato a Dio di conoscere la mia miseria. L'ho conosciuta e sono stato così sopraffatto che l'ho pregato di diminuire la pena che provavo. Mi sembrava di non farcela a sopportarla". E un'altra volta ancora confidò: "Sono stato così spaventato nel conoscere la mia miseria che ho implorato immediatamente la grazia di dimenticarla. Dio mi ha ascoltato, ma mi ha lasciato abbastanza lucidità della mia miseria da farmi comprendere che io non sono buono a nulla". Dobbiamo stare molto attenti. Nella vita a molti mistici si ritrova questa esperienza, una specie di "notte oscura" necessaria per partecipare al mistero della passione di Cristo ed essere così totalmente abbandonati nelle mani del Padre e impregnati dal suo amore. "Dio tutto, io nulla" è l'espressione anche di S. Agostino, di S. Francesco, di S. Caterina da Siena e anche di alcuni giovani Santi dei nostri giorni. […] Nella vita dei Santi, ogni particolare, per non apparire ambiguo, deve essere guardato tenendo conto di tutto il disegno che Dio ha su di loro. In secondo luogo, il Curato d'Ars vive con la preoccupazione di dover essere, per i suoi fedeli, il buon pastore. Anzitutto istruirli. Il parroco che lo ha preceduto, in una sua relazione, ha lasciato scritto che la gente del posto era così ignorante, così priva di istruzione religiosa, che la maggioranza dei bambini "da null'altro si differenzia dagli animali, se non per il Battesimo". E, lo stesso vale anche per gli adulti maschi, ormai lontani dalla Chiesa o comunque passivi frequentatori, e di rado. Li incontra dovunque, li conosce uno per uno, li trattiene in Chiesa con prediche che durano anche un'ora. A volte si confonde. A volte si commuove. A volte si interrompe e, indicando il Tabernacolo dice, con un tono che dà struggimento: "Egli è là". Parla con loro a tu per tu, usando il loro linguaggio, i loro paragoni. Bisogna andare piano a dire che il Curato d'Ars non fosse intelligente. Le sue prediche rivelano una vivacità di linguaggio e di impostazione da destare stupore. Ecco come parla ai suoi fedeli della loro svogliata preghiera, descrivendo una famiglia-tipo : "In casa, non pensano minimamente a recitare il 'benedicite' prima di mangiare, né la preghiera di ringraziamento dopo, e neppure l'Angelus. E ammesso che le dicano per una vecchia abitudine, a vederli vi sentireste male: le donne le recitano mentre spicciano e chiamano a voce alta i figli ed i domestici, gli uomini mentre girano tra le mani il berretto o il cappello quasi per accertarsi se c'è qualche buco Pensano al Signore come se abbiano la certezza che Egli non esiste affatto e sia una cosa da ridere". E ancora sull'amore di Dio: "Nostro Signore è sulla terra come una madre che porta il sua bambino in braccio. Questo bambino è cattivo, dà calci alla madre, la morde, la graffia, ma la madre non ci fa nessun caso; ella sa che se lo molla, il bambino cade, non può camminare da solo. Ecco come è nostro Signore; Egli sopporta tutti i nostri maltrattamenti, sopporta tutte le nostre arroganze, ci perdona tutte le nostre sciocchezze, ha pietà di noi malgrado noi". E ancora sull'orgoglio: "ecco dunque un tale che si tormenta, che si agita, che fa chiasso, che vuole dominare su tutti, che si crede qualche cosa, che sembra voler dire al sole: 'togliti di lì, lasciami illuminare il mondo al tuo posto!...'. Un giorno quest'uomo orgoglioso sarà ridotto tutt'al più ad un pizzico di cenere che sarà portata via di fiume in fiume... fino al mare". Questa è la cultura pastorale del Curato d'Ars. Altre volte dice loro: "Non vediamo l'ora di sbarazzarci del Signore come di un sassolino nella scarpa". oppure: "Il povero peccatore è come una zucca che la massaia spacca in quattro e la trova piena di vermi". oppure: "I peccatori sono neri come i tubi della stufa". Ma un conto è fare un elenco di frasi, un conto è vedere e sentire come queste frasi gli nascono dal cuore, come gli scavano l'anima. Il fatto è che tutti uscivano di chiesa dicendo: "Nessun sacerdote ha mai parlato di Dio come il nostro Curato". Il suo stesso Vescovo diceva: "Si dice che il Curato d'Ars non sia istruito, io non so se sia vero, però so di sicuro che lo Spirito Santo si incarica di illuminarlo". La sua attività pastorale (oltre alla costruzione di un orfanotrofio per bambine e poi di un Istituto per l'istruzione dei ragazzi) riguarda tre aspetti della vita parrocchiale che egli identificò subito come segni della profonda scristianizzazione a cui la Francia di allora veniva assoggettata. Da un lato: il lavoro nei giorni di festa e l'abitudine di bestemmiare, come segni emergenti di un ateismo pratico con cui si nega di fatto quel Dio a cui pur si dice di credere. Il Curato sa che, per i suoi contadini, lavorare di festa vuol dire attaccamento al denaro, vuoi dire disumanizzazione del tempo e della vita. Non per nulla i signori di Parigi stanno nel frattempo tentando di abolire le feste e le domeniche per sostituirle col decadì, un giorno di laico riposo ogni dieci, purché ci si dimentichi del giorno del Signore e dei Santi. Giovanni Maria Vianney non ha pace finché nel questionario della sua parrocchia non potrà scrivere che nei giorni di festa si lavora "raramente" e fin quando degli stranieri di passaggio non resteranno meravigliati a vedere tre carrettieri, alle prese con un cavallo imbizzarrito che rovescia il carico, e che, tuttavia, non si spazientiscono né bestemmiano. Ne sono così impressionati che lo annotano come una notizia da raccontare in giro. […] Verso il 1827 comincia a diffondersi la sua fama a santità All'inizio sono quindici o venti pellegrini al giorno. Nell'anno 1834 se ne contano trentamila all'anno che diventeranno, negli ultimi anni della sua vita, da ottantamila a centomila. Fu necessario stabilire un servizio regolare giornaliero di trasporti da Lione ad Ars. Anzi, si dovette aprire alla stazione di Lione uno sportello speciale che vendeva biglietti di andata e ritorno per Ars, della durata di Otto giorni (biglietti che allora erano un'eccezione), dato che ci voleva in media una settimana per riuscire a confessarsi. E cominciò così la vera missione del Curato d'Ars: il suo "martirio del confessionale". Negli ultimi vent'anni vi restò in media 17 ore al giorno, cominciando verso l'una o le due di notte nella bella stagione, o verso le quattro nella stagione cattiva, finendo a tarda sera. Le uniche interruzioni erano per la celebrazione della Messa, la recita del breviario, il catechismo e qualche minuto per un po' di cibo. Nell'estate l'atmosfera era così soffocante che i pellegrini dovevano, a turno, andar fuori a respirare per poter resistere; d'inverno il gelo tormentoso: "Gli ho domandato come potesse restar tante ore così, con un tempo così rigido, senza avere nulla per scaldarsi i piedi". "Amico mio, mi disse, il fatto è che da Ognissanti a Pasqua, io i piedi non li sento affatto". Ma questo sacrificio di essere lì, quasi trascinato e inchiodato dalla folla, con qualunque tempo e in qualunque ora, non era ancora la sofferenza maggiore. La sofferenza era l'ondata di peccati di male, che si riversava su di lui come un mare di fango opprimente. Tutto quello che io so del peccato diceva l'ho imparato da loro . Li ascoltava, leggeva in loro come in un libro aperto, ma soprattutto li convertiva. Spesso aveva tempo solo per pochissime parole e negli ultimi anni aveva una voce così flebile che sì faticava a sentirlo. Eppure i penitenti uscivano sconvolti dal suo confessionale. "Se il Signore non fosse così buono diceva ma invece lo è tanto ! Che male vi ha fatto nostro Signore perché dobbiate trattarlo in questo modo!" oppure: "Perché mi hai offeso tanto? Ti dirà un giorno nostro Signore, e non saprai cosa rispondergli"; Spessissimo, soprattutto quando si trovava davanti peccatori scarsamente consapevoli del proprio peccato e dunque scarsamente pentitevi Santo Curato cominciava lui a piangere. Ed era un'esperienza indicibile quella di vedere, con i propri occhi, un vero dolore, una vera sofferenza, una vera passione come oggettivati, resi "esperienza": come se per un istante tu potessi intravedere la pena di Dio per il tuo male, incarnata nel volto del sacerdote che ti confessa.
Antonio M. Sicari, Ritratti di Santi, Ed. Jaca Book
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Postato da: giacabi a 14:34 |
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santi, curato dars
PAOLO
UN VIOLENTO A CUI È STATA USATA MISERICORDIA
***
Massimo Camisasca 28/01/2009
[La personalità di Paolo di Tarso e la nostra vita di oggi] Se volessi questa sera esporre a voi la dottrina di Paolo, il suo pensiero, occorrerebbero molte ore. Voglio fare qui una cosa più modesta, ma per me ancora più importante: mettere in voi il desiderio di incontrare san Paolo, almeno quello che compare tante volte nella liturgia della domenica. Voglio presentarvi, cioè, gli aspetti per me più impressionanti della sua personalità. Non troverete perciò nelle mie parole tanti temi fondamentali della sua teologia. Chiedo scusa sin da ora. Desidero piuttosto, come un pittore, raffigurare ai vostri occhi il volto di quest'uomo … Il persecutore Paolo di Tarso è senza alcun dubbio una delle figure più grandi di tutta la storia dell'umanità. È come se in lui convivessero molte personalità, fuse da una considerazione assolutamente unitaria degli scopi della propria esistenza, che a mano a mano andavano mutando ed insieme approfondendosi. Parleremo innanzitutto della sua forza e poi della sua dolcezza. Possiamo essere impressionati dalla violenza e dalla forza con cui egli, divenuto discepolo fin dalla più tenera età di uno dei massimi maestri del giudaismo, Gamaliele, si dedicasse alla ricerca e alla denuncia dei cristiani, intuiti giustamente da lui come una pericolosa eresia giudaica, che nascondeva all'interno una forza misteriosa tale da esigere una altrettanto vigorosa reazione. È lui che descrive se stesso e questa sua energia: Io ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia (1Tm 1,13). Anch'io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, […] molti dei fedeli li rinchiusi in prigione […] cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all'eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere (Atti 26, 9-11). Infine, con estrema sintesi, in una sua lettera scrive: Ho perseguitato la Chiesa di Dio (1Cor 15,9). La rivelazione Dopo la lapidazione di Stefano, a cui Paolo assistette e a cui diede il suo voto (cfr. At 7,57-8,1), inizia in lui un sommovimento interiore, opera certamente dello Spirito. L'Holzner scrive: «Nei suoi ricordi la scena della lapidazione di Stefano ritorna a più riprese (At 22,20 e 26,10; Gal 1,23; 1Cor 15,9). Saulo non dimenticò mai più quel giorno. Lo struggerà il ricordo per tutti i giorni della sua vita». Sant'Agostino annota: «Se non ci fosse stata la preghiera di Stefano, la Chiesa non avrebbe avuto Paolo». Inizia così un lungo cammino che lo porterà lentamente ad aprirsi ad un giudizio profondamente nuovo sulla sua vita passata. Scoprirà che il fanatismo con cui serviva la legge non era altro che una volontà titanica di chiudere gli occhi di fronte all'impossibilità di salvarsi con le proprie forze. Fu la scoperta che egli non riusciva a servire come avrebbe voluto la legge, quella legge a cui egli voleva dedicare tutta la vita e che era Dio stesso. La scoperta che il peccato dominava la sua esistenza. Non si trattava, dunque, di negare la legge, ma di trovare la strada per viverla, quella strada che non poteva essere individuata nella sola volontà dell'uomo. Il dissidio nella sua personalità «L'intimo dissidio tra la volontà e l'attuazione lo torturava». Paolo da solo non sarebbe riuscito a dare una risposta, sarebbe probabilmente caduto in una terribile depressione tipica di quegli spiriti totalitari qual era lui. Viveva una irrequietezza interiore che aveva bisogno di amori estremi e definitivi. Da questo angosciante dissidio tra il senso acutissimo del proprio male e il senso altissimo della propria personalità, essendo impossibile per lui ogni ipocrita conciliazione, lo salvò Gesù. L'esperienza della grazia Nell'impotenza radicale dell'uomo l'esperienza della grazia fu il pilastro decisivo su cui si costruì tutta la personalità e l'esperienza di Paolo. Questa parola, "grazia", è stata talmente usata ed abusata da aver perso ormai agli occhi di tutti la potenza del suo valore originario. La grazia infatti per Paolo indica innanzitutto e soprattutto, e potremmo dire in un certo senso esclusivamente, la persona di Gesù … Tocchiamo qui, fra l'altro, uno dei punti più significativi dell'insegnamento di don Giussani. Non è un caso che egli abbia lungo tutta la sua vita così potentemente privilegiato, assieme al vangelo di Giovanni, le lettere di san Paolo. Per Giussani la grazia, che è la vita stessa di Dio, si comunica a noi attraverso la forma di un incontro: «L'avvenimento cristiano ha la forma di un incontro: un incontro umano nella realtà banale di tutti i giorni. Un incontro umano per cui Colui che si chiama Gesù, quell'uomo nato a Betlemme in un preciso momento del tempo, si rivela significativo per il cuore della nostra vita». Per Paolo questo incontro accadde sulla strada che collegava Gerusalemme a Damasco. Impregnati come siamo, e giustamente, dalle pitture di Michelangelo e Caravaggio, immaginiamo Paolo che corre a cavallo e cade, abbagliato da una luce. Niente di tutto ciò troviamo nelle lettere e neppure negli Atti degli apostoli. Paolo non usa mai la parola conversione. Parla invece di rivelazione e più ancora di vocazione. Egli vive l'esperienza precisa e concreta di sentirsi chiamato per nome da uno che rimproverandolo esprime, proprio in quell'atto, di avere a cuore la sua persona come nessun altro. Si sente sconvolto. Proprio lui che Lo perseguita è oggetto di questa attenzione misericordiosa che lo risolleva da una vita disperata e gli apre la strada di una nuova esistenza piena di scoperte, di avventure! Nella rivelazione che Gesù fa a Paolo di cose nascoste da secoli e preparate per lui, egli vede la testimonianza tangibile di un amore sconfinato e incomprensibile di cui non riesce e non riuscirà mai a capacitarsi. Lapidariamente in una sua lettera scriverà: ha amato me e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). E in quel me c'è tutto lo sconvolgimento di fronte all'infinitudine di Dio che si curva sulla nostra nullità per farci partecipi della sua grandezza. Perché ha scelto Paolo? Questo amore di Cristo, come ogni altro amore vero, non ha ultimamente spiegazioni. Noi però non possiamo fermarci qui. In punta di piedi desideriamo penetrare nel mistero di questo amore. Perché Gesù ha scelto Paolo? Non gli bastavano gli altri apostoli? Soprattutto: non gli bastavano Pietro e Giovanni, quello che più amava e quello da cui era più amato? Cosa cercava in Paolo, cosa voleva da lui? Non possiamo sottrarci a queste domande, come non possiamo sottrarci al fatto che Gesù abbia voluto attorno a sé, già nella sua vita terrena, persone diverse. Di alcune di loro conosciamo abbastanza dettagliatamente il temperamento, lo stile, le reazioni, persino un certo itinerario esistenziale. Pensiamo, per esempio, a Giovanni che da "figlio del tuono", irruente e indisciplinato, diventerà addirittura il simbolo della tenerezza e dell'amore ripiegato sul seno dell'amico. Gesù vuole intorno a sé la diversità. Sceglie chi vuole, sceglie per pura grazia, perché nessuno si senta escluso. Sa che nessun uomo, per quanto grande, potrà mai esprimere i variegati colori della sua divina umanità. Non a caso ci saranno molti vangeli, che suppliscono al fatto che Gesù non ha voluto scrivere nulla, e la Chiesa ne sceglierà quattro. Gesù è tutto nella storia che nasce da Lui, negli uomini che Egli sceglie e che diventano, nella misura della loro adesione a Lui, una rifrazione di Lui. I santi sono tutto ciò che di Cristo non è esplicitamente raccontato nei Vangeli. Così è stato Paolo che amo considerare, assieme a Matteo, Marco, Luca e Giovanni, l'autore del "pentateuco del Nuovo Testamento", come vi è un pentateuco nell'Antico. In secondo luogo la pluralità delle scelte dice che ciò che Cristo vuole portare è la comunione. Gesù sceglie persone diverse e affida a ciascuna un compito che non può essere svolto dall'altra. Questo deve far riflettere ognuno di noi sulla importanza decisiva e assoluta che ha la singola persona per Gesù e sul fatto che ciascuno di noi ha un compito che non può essere svolto da nessun altro. Se non lo compiamo noi rimarrà incompiuto. Gesù ci sceglie proprio per la nostra particolare personalità. Egli non la stravolge intervenendo in essa, non interviene magicamente. Tutto ciò lo vediamo magnificamente in Paolo. Gesù ha scelto Paolo non nonostante la sua violenza, ma proprio perché violento. Egli infatti voleva usare di questa energia totale di Paolo cambiandole di segno, come ha usato dell'irruenza infantile di Pietro, della giocosità drammatica di Francesco d'Assisi o della semplicità essenziale di Teresa di Lisieux. Simone diventa Pietro, Saulo diventa Paolo, ma le pieghe della loro personalità, i loro limiti, i loro peccati rimangono, finalizzati ad una storia nuova. La Chiesa non ha paura delle tensioni: le tensioni tra Paolo e Pietro sono state molto forti. Se non ci fosse stato lo Spirito Santo si sarebbe arrivati ad una rottura. Paolo ha una sconfinata cultura che Pietro non ha, una complessità temperamentale che Pietro non ha. Pietro è tutto d'un pezzo, è scolpito nella roccia (rifiuta e piange). Paolo invece racchiude una complessità psicologica: Pietro pecca per eccesso di semplicità, Paolo per eccesso di complessità. Personalità problematica? Giustamente Romano Guardini nel suo libro Gesù Cristo annota che tutta la personalità altamente problematica di Paolo continua ad esistere anche dopo l'incontro con Gesù … La tenerezza di Paolo Non è un caso perciò che assieme all'«impegno totalitario, trascinatore, troviamo in Paolo gli accenti di una commovente dolcezza» - scrive ancora l'Holzner. «Sotto lo sguardo sfolgorante del Risorto enormi riserve di energie appetitive si liberarono in Paolo, il fanatismo si mutò in potenza d'amore, che saprà manifestarsi più tardi con la tenerezza e la dolcezza di una madre». L'itinerario è chiaro. Paolo vede nelle persone che si stringono attorno a lui, nelle piccolissime comunità poste nell'immenso oceano dell'Impero romano, il volto stesso, la realtà stessa di Colui che lo ama. Non c'è in lui distinzione tra amare Cristo e amare i suoi. Glielo aveva insegnato Gesù in quel Perché mi perseguiti? (At 9,4; 22,7; 26,14). In tutta la letteratura d'amore dei secoli, in Ovidio, in Orazio, in Dante, in Petrarca, su fino agli spasimi d'amore degli scrittori dei nostri giorni, non riusciamo a trovare una tenerezza eguagliabile a quella di Paolo, così virile e così forte nello stesso tempo, sia verso singole persone, che verso comunità intere. Risentiamo alcune di queste espressioni … Crocifisso con Cristo Dopo l'incontro sulla strada verso Damasco, Paolo concepisce se stesso come un uomo abitato interamente da Gesù. Si fa fatica a rendere la potenza delle sue parole. Servo di Cristo Gesù, scrive ai Romani (1,1) e in questo "servo" c'è tutto il desiderio di vivere in relazione con Lui, di servire con tutto se stesso a Lui. Questa sarà la potente esperienza di Paolo, la sua libertà nel servire Gesù. La libertà non consiste nel non servire a nessuno. Si è liberi quando si trova Colui che realizza la nostra umanità … È chiamato e mandato da un altro. Tutto egli vede ormai attraverso Gesù e tutto gli interessa soltanto in quanto ogni cosa lo porta a Gesù: tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (Fil 3,8). Questa conoscenza non è l'apprendimento di una teoria, è una esperienza … in cui si fa fatica ad entrare e in cui si avverte l'abisso di una immedesimazione da cui ci sentiamo nello stesso tempo attratti e respinti. L'espressione della lettera ai Galati è veramente da imparare a memoria ed è stata una delle più commentate, ricordate e ripetute da don Giussani con le sue traduzioni originali e significative. Pare ancora di sentirlo dire, anzi gridare: Vivo, non io, è Cristo che vive in me. E poi: Pur vivendo nella carne (ha voluto che fosse anche il [titolo di un suo libro] ) io vivo nella fede del Figlio di Dio … é stato proprio merito di Paolo avere aperto il cristianesimo a questa assoluta coscienza, che il cristiano è realmente un nuovo Cristo, una sola cosa con Lui. È Cristo che vive in questo tempo, in queste condizioni di vita. Nella precarietà della nostra carne è Lui che si fa contemporaneo agli uomini di ogni epoca. Fatevi miei imitatori Vorrei che tutti fossero come me (1Cor 7,7). È talmente forte per Paolo l'esperienza che vive del suo rapporto con Cristo da desiderare che ciascuno sia come lui. Vorrebbe che tutti vivessero come lui, che tutti avessero il suo dono, che tutti entrassero nelle sfumature di rapporto che lui vive con la realtà. Ma poi si rende conto che non può essere così, che ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro … La decisione radicale con cui egli conduceva la propria vita e la propria vocazione rendeva capace di tenere assieme le realtà più diverse, di rispondere alle problematiche più disparate, di non aver paura delle crisi più drammatiche. La forza d'animo di Paolo Paolo fu un uomo dall'incredibile forza fisica, lo dimostra il numero dei suoi viaggi, i chilometri percorsi a piedi o in nave, attraverso il deserto, le città e le grandi metropoli di allora. I suoi stessi compagni di viaggio facevano fatica a stargli dietro. Certamente il dono di una forza così grande fu lo strumento prezioso di cui Cristo si servì per portare il Vangelo alle genti, ma la cosa più sorprendente per noi, e che in fondo ci interessa di più, è la forza d'animo di Paolo … Sempre lì sta l'origine di tutto per Paolo: la voce di Gesù, la persona di Gesù, la sua presenza che gli è continuamente al fianco e continuamente gli parla. Tutto posso in colui che mi dà la forza (Fil 4,13). Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza (2Tm 1,7). Uno strano dissidio. Tra forza e debolezza Eppure ancora una volta Paolo sperimenta in sé uno strano dissidio. Questa forza, che pure lo conduce ad imprese che stupiranno milioni di cristiani convive in lui con l'esperienza continua della debolezza … Ma l'espressione forse più impressionante di questo paradosso è quella in cui Paolo dice: sovrabbondo di gioia nelle mie tribolazioni (cfr. 2Cor 7,4). La legge e la salvezza Quando leggiamo le lettere di san Paolo, soprattutto quelle ai Romani e ai Galati, troviamo continuamente ripresa e contraddetta l'esperienza della salvezza attraverso la legge. Abbiamo visto come Paolo sia stato educato all'osservanza assoluta della legge … All'obbedienza esteriore e ossessiva già i profeti avevano aperto la porta all'osservanza interiore. Là dove Dio parla all'uomo e lo rende capace di ciò che senza di Lui non potrebbe mai fare. È l'inizio della rivoluzione. Non l'abolizione della legge, ma la scoperta che essa sarebbe soltanto una tavola che dichiara i nostri peccati e la nostra morte se non fossimo resi capaci da un altro di amare Dio e il prossimo … Libertà è una delle parole più importanti del vocabolario greco del tempo: liberi erano coloro che costituivano il cuore della nazione, delle città, ma Paolo ribalta completamente il senso di quella parola. Mostra quale schiavitù vi fosse in realtà dietro quella libertà e quale libertà invece è resa possibile dietro questa nuova obbedienza. Cattolicità di Paolo Con Paolo il nuovo popolo si apre per accogliere tutti i popoli del mondo. In continuità e discontinuità con il popolo ebraico, la Chiesa nasce da Abramo, ma non è più rapporto esclusivo con una sola etnia. Paolo non rinnegherà mai la sua appartenenza al popolo ebraico. Mentre rinnegherà il suo passato di persecutore, sentirà gli ebrei come i fratelli più cari, quelli a cui Dio si è legato con promesse eterne, che non sono revocabili: i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29). Arriva a dire che vorrebbe essere lui stesso scomunicato a loro favore, buttato fuori lui perché essi possano entrare. E comunque prevede il loro ritorno nell'unica Chiesa di cui rimangono la radice fondamentale. Noi siamo fratelli minori come dirà Giovanni Paolo II, Paolo dice dei rami innestati (cfr. Rm 11,23-24). Ma la sua attenzione si rivolge al mondo, ai pagani: sono loro che deve conquistare a Cristo … Paolo vuole risvegliare in tutti gli uomini il lume della ragione che Dio ha messo in ciascuno in quanto immagine di Dio. Sa di poter parlare con chiunque, in nome proprio di questa comune umanità. Non esita a parlare di una legge scritta nel cuore di ogni uomo (cfr. Rm 2,15) di cui la coscienza rende testimonianza e che emerge nei ragionamenti. Il suo dialogo nell'Areopago di Atene rimane l'espressione più alta di questo suo tentativo. Apparentemente sconfitto, egli in realtà ne esce vincitore perché traccia quella che sarà d'ora in poi la strada che vuol far percorrere ad ogni uomo. Dare un nome al Dio nascosto (At 17,23), rivelare quanto l'uomo attende senza saperlo. I collaboratori Un ultimo tema, quello dei collaboratori. Paolo, benché avesse una personalità così singolare come ho cercato di descrivere, ha sempre voluto non solo viaggiare con dei collaboratori, ma prima ancora ha sentito la necessità di avere accanto a sé degli amici, di farli partecipi del suo ministero, di educarli. Non erano semplicemente degli esecutori. Lo testimoniano anche le frizioni che sono nate con alcuni di loro e alcuni abbandoni. D'altra parte le prime missioni cristiane, già al tempo di Gesù, sono state sempre composte da due inviati … |
Postato da: giacabi a 20:50 |
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San Giuseppe
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«San Giuseppe è la più bella figura d’uomo concepibile e che il cristianesimo ha realizzato. San Giuseppe era un uomo come tutti gli altri, aveva il peccato originale come me. […] San Giuseppe ha vissuto come tutti: non c’è una parola sua, non c’è niente, niente: più povera di così una figura non può essere».
Giussani:L’attrattiva Gesù, Rizzoli, Milano 1999, pp. 95-96
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Postato da: giacabi a 14:42 |
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santi, giussani
LA CANDELA
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Davanti ar Crocifisso d’una chiesa,
una candela accesa
se strugge da l’amore e da la fede.
Te dà tutta la luce,
tutto quanto er calore che possiede,
senza abbadà se er foco
la logora e la riduce a poco a poco.
Chi nun arde nun vive.
Com’è bella
la fiamma d’un amore che consuma,
perché la fede resti sempre quella!
Io guardo e penso. Trema la fiammella,
la cera cola e lo stoppino fuma.
(Trilussa).
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