Prima di tutto,
Signore,
tu mi devi rendere ciò che ti ho dato
la mia dimensione di donna,
la mia diffidenza.
Ho ricominciato a lavorare il mio terreno
con la mano di un contadino
che ara silenziosamente e con pace
i colli della disperazione,
e finalmente sono sorti mille giardini,
è esplosa la primavera.
La primavera del canto è uguale alla poesia
ma dentro c’è il seme d’amore
che è il tuo compiacimento.
Non si può dire che la poesia è un corpo astratto
se si fa astrazione da quella carne divina
che entra nella nostra carne.
In fondo io sono una donna casta
perché ogni uomo che ho incontrato
non era che un’ombra
in confronto alla tua luce
e oscurava il tuo volto.
E come si fa a conoscere il tuo volto
te lo spiego io:
basta vedere qualcosa
che reca la tua impronta.
E noi siamo pieni delle tue impronte,
come se tu fossi passato in ogni casa
a lasciare i segni visibili
del tuo potere.
Siamo stanchi,
siamo nati stanchi e senza speranza,
poi un giorno qualcuno ci bacia,
ma non è l’uomo:
è l’essenza divina del tuo potere.
Ma non sono i figli,
anche se i figli sono uguali a te,
che sei Figlio di Dio.
Non è la terra e non è il mare,
non è la pazienza e non è la morte,
è soltanto il tuo vagito interiore
di un bimbo,
di un uomo che vuole nascere
per farti morire e poi risorgere.
Io che sono madre posso dirti
che ogni volta che si partorisce un figlio
si muore
e poi si rinasce
e non si capisce come in questa soglia
di vita e di morte
sia chiaro il mistero del perché la prima parola,
la parola tua
non abbia mai offuscato i nostri pensieri.
E se tu vieni alle mie porte
lo fai con una veste candida
come se fossi il precursore di un grande evento.
E ti dirò che per anni
io ti ho scambiato per il demonio
perché eri così perentorio,
così avido,
così insinuante,
come il peggiore degli amanti,
e difatti mi hai fatta soffrire,
talmente soffrire
che non potevo fare a meno di te.
Alda Merini
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