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sabato 3 marzo 2012

santi2


Da San Nicola, a Santa Claus, a Babbo Natale, passando per la Coca Cola
 ***
La Chiesa antica ha generato la tradizione di fare doni ai bambini nel giorno di S.Nicola, il 6 dicembre. Nicola, fu vescovo di Myra, in Licia, oggi Demre in Turchia, nella prima metà del IV secolo.

E’ storicamente certa la presenza di Nicola al Concilio di Nicea, perché lo troviamo firmatario degli Atti del Concilio nel 325 d.C. A Nicea i Padri conciliari di allora, i vescovi della prima metà del IV secolo, confermarono la fede della Chiesa che cioè Gesù era veramente Dio, “della stessa sostanza del Padre”, e non una semplice “creatura” per quanto nobilissima, come il prete Ario aveva allora voluto sostenere contro la tradizione della Chiesa che aveva sempre creduto alla divinità del Figlio di Dio fin dall’annunzio del Cristo stesso ed, in seguito, dei suoi apostoli e della Sacra Scrittura da Dio ispirata. Proprio questa professione di fede di S.Nicola nell’Incarnazione, nel Dio che si fa uomo, possiamo recuperare oggi nel dare nuovo significato ai doni che, nei secoli, si sono scambiati in sua memoria e che, oggi, vengono portati non più il 6 dicembre, ma il 25, giorno tradizionale della nascita del Dio che si fa uomo.

Per comprendere come Nicola sia divenuto l’uomo dei “doni”, l’uomo della carità cristiana, capace di rinunciare ai suoi averi per il bene di ogni altro uomo, dobbiamo tornare alla sua storia. La tradizione[1] lo vuole, infatti, protagonista di un episodio che è appunto all’origine del gesto annuale dei doni ai bambini. Eccolo descritto nella versione che ne fornisce la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine[2]:

Un suo vicino, che aveva tre figlie ancora giovani, aveva deciso, a causa dell’estrema povertà e nonostante la nobiltà del casato, di spingerle alla prostituzione, per ricavare di che vivere da quello sconcio commercio. Il santo seppe la cosa, ne ebbe orrore e, avvolto dell’oro in un panno, di notte, attraverso una finestra lo gettò in casa del vicino e fuggì. La mattina, svegliandosi, il vicino trovò l’oro, rese grazie a Dio e con quella cifra maritò la primogenita. Non molto tempo dopo il servo di Dio rifece la stessa cosa. L’uomo trovò di nuovo l’oro e scoppiando di gioia e di gratitudine decise di far di tutto per riuscire a sapere chi era che rimediava in quel modo alla sua povertà. Dopo pochi giorni, raddoppiata la somma, Nicola gettò di nuovo il sacchetto dentro la casa; l’uomo, svegliatosi dal rumore, si mise a inseguire Nicola che fuggiva, gridandogli: “Fermati, fatti riconoscere!”. E, riuscito a raggiungerlo, riconobbe Nicola; subito si gettò a terra e cercò di baciargli i piedi, ma Nicola non volle e anzi gli fece promettere che non avrebbe mai rivelato la cosa a nessuno, per tutta la vita.

Numerosi altri fatti della vita di Nicola ce lo mostrano ancor più come vescovo, come persona sempre preoccupata del bene del suo popolo e capace di far del bene a tutti con la sua carità sostenuta da fatti miracolosi, richiesti nella preghiera all’Altissimo, per poter giungere in soccorso di marinai, di accusati ingiustamente, ecc. ecc.

La morte di Nicola di Myra è fissata nei calendari liturgici al 6 dicembre 343. Il suo corpo fu traslato a Bari, sul finire dell’XI secolo, precisamente nel 1087[3]. L’arrivo delle reliquie in Occidente segnò ulteriormente la fortuna della tradizione del Santo[4]. Egli che già era noto, oltre che per l’episodio delle tre fanciulle salvate dalla prostituzione, anche per il racconto di due miracoli con i quali aveva salvato da sicura morte tre innocenti destinati alla decapitazione e tre ufficiali bizantini salvati dalla prigione, ricevette anche l’attribuzione del miracolo con il quale aveva riportato dai genitori Basilio, un fanciullo rapito dai pirati saraceni e del prodigio della resurrezione di altri tre bambini[5] che erano stati uccisi da un oste. Questi episodi se lo resero, da un lato, il protettore invocato per il pericolo delle incursioni dei saraceni via mare, confermarono ancor più il suo legame di carità, nella tradizione popolare, con i bambini ed i fanciulli.

Se nell’Europa meridionale ed orientale[6] la tradizione della festa del Santo al 6 dicembre e dei doni in suo nome non si interruppe mai, se non in tempi recenti, ben diversamente andarono le cose nell’Europa del Nord. La predicazione protestante, infatti, volle l’abolizione delle feste dei santi, per incentrarsi esclusivamente sui giorni liturgici legati direttamente alle storie bibliche ed, in particolare, neotestamentarie.

Duri furono Lutero e i protestanti olandesi (che promulgarono leggi severe contro chi faceva festa il 6 dicembre). Più tolleranti i protestanti svizzeri. Ma, nessuno riuscì a sradicare S.Nicola dall’animo dei bambini, anche se in alcuni paesi l’alterazione del vestito fece perdere il ricordo della sua origine[7].

La decostruzione della figura di S.Nicola operata dal mondo protestante del Nord Europa non riuscì ad allontanare dal folklore popolare la memoria dell’uomo dei doni, ma la separò pian piano definitivamente dalla figura del Santo.

Credo che l’ostacolo della Riforma sia stato superato proprio perché egli era diventato una figura che andava al di là della Chiesa, era diventato parte integrante di ogni famiglia.
Sin dal XIV secolo, ogni 6 dicembre, Nicola veniva a portare i doni ai bambini del Nord Europa, passando attraverso il camino. Era una figura molto popolare e molto amata e questo sembra avergli dato la forza di resistere durante un periodo in cui le immagini e le statue dei santi venivano rase al suolo, bruciate e distrutte[8].

S.Nicola è così rimasto nella memoria popolare, in una forma che J.Seal definisce “dormiente”[9], fino agli inizi del XIX secolo. Gli olandesi, nella cui lingua porta il nome di Sinterklaas, lo portarono nel Nuovo Mondo, in particolare nella Nuova Amsterdam, l’odierna Manhattan, e la pronuncia americana dell’olandese portò all’evoluzione linguistica da Sinterklaas all’odierna pronuncia anglosassone di Santa Claus. Nel frattempo, a cavallo fra l’Olanda e gli States, acquistò slitta, renne e campanellini, tipici del Nord Europa, nel periodo invernale.

E’ nei primi decenni del 1800 che, per opera di un gruppo di scrittori americani – prima Washington Irving, poi Georg Pintard, poi ancora Clement Clark Moore, insieme ad un fiorire di poesie anonime[10] – Santa Claus, oramai resosi completamente indipendente da San Nicola, pur conservandone la realtà del dono ed il nome, divenne popolare nella sua nuova forma. Il nome che Babbo Natale conserva tuttora nella tradizione anglosassone, Santa Claus, non viene più percepito come nome di un santo, pur essendone la chiara derivazione.
Santa Claus-Babbo Natale non è più, così, legato al 6 dicembre, e la tradizione dei suoi doni si è trasferita definitivamente al giorno di Natale.

Fu la necessità di trovare, nel 1931, un veicolo pubblicitario per il lancio della Coca Cola ai fanciulli ed agli adolescenti, che spinse, infine, la Compagnia della famosa bevanda americana a vestire Santa Claus di rosso e di bianco, con la tonalità dei due colori rigorosamente identica a quelli della bibita che dovevano ricordare.

Gli imbottigliatori della Coca-Cola avevano sempre saputo che dovevano cercare di attrarre presto la prossima generazione di consumatori, nonostante le remore riguardo alla pubblicità diretta ai giovani di età inferiore ai dodici anni. Ora che i bambini potevano trovare la Coca-Cola nei loro frigoriferi, la Compagnia cominciò a corteggiare anche il mercato dei giovani in età scolare, facendo però attenzione a non mostrare mai esplicitamente nelle pubblicità un bambino nell'atto di bere la Coca-Cola. Questo approccio al mondo infantile finì per rimodellare la cultura popolare americana, attraverso l'arte di Haddon Sundblom.
Sunny”, un forte bevitore svedese professionalmente brillante, ma sempre in ritardo, si rese indispensabile, malgrado le sue abitudini, inventando il classico Babbo Natale della Coca-Cola nel 1931. Il Babbo Natale di Sundblom era il perfetto uomo della Coca-Cola: più grosso del normale, di un rosso brillante, sempre allegro e colto in stravaganti situazioni che si concludevano con una famosa bibita come ricompensa per una dura notte di lavoro passata a consegnare giocattoli. Ogni Natale, Sundblom partoriva un'altra pubblicità, avidamente attesa, raffigurante il Babbo Natale della Coca-Cola. Quando morì il suo primo modello, un ex-venditore della Coca-Cola, Sundblom lo sostituì personalmente. Se si può dire che la Coca-Cola abbia esercitato una sottile, penetrante influenza nella cultura americana, occorre ammettere che essa ha forgiato direttamente il concetto americano di Babbo Natale. Prima delle illustrazioni di Sundblom, Babbo Natale (alias Santa Claus) era stato variamente dipinto con abiti blu, gialli, verdi o rossi; nell'arte europea era generalmente alto e macilento, mentre Clement Moore l'aveva dipinto come un elfo in “Una visita da St. Nicholas”. Dopo le pubblicità della bibita, invece, Babbo Natale sarebbe sempre stato un uomo enorme, grasso, sempre contento, con un ampio giro-vita e stivali neri fino all'anca, sempre rigorosamente vestito di rosso Coca-Cola[11].

A partire dalla fine della II guerra mondiale Santa Claus-Babbo Natale si impose anche nell’Europa meridionale, soppiantando tutte le ricorrenze regionali dei doni ai bambini legate ai santi, che avevano resistito nei secoli dopo la Riforma. Scomparve, così, in particolare l’usanza di fare doni ai bambini il 6 dicembre, giorno di S.Nicola, così come di farli il 13 dicembre, nella ricorrenza di S.Lucia.

Oggi la tradizione dei doni è saldamente ancorata al Natale. Noi non la rifiutiamo. Ne cogliamo, però, il senso profondo nella testimonianza di carità di S.Nicola e dei santi che si fanno eco della carità del Dio che si è fatto Bambino. La via che ci è dato, così, di percorrere è quella di una comprensione del Natale del Bambino Gesù come dono supremo, come dono personale di Dio al quale, avendo dato tutto, non resta che l’offerta suprema, quella di se stesso. Questo è l’annuncio che ci giunge attraverso la Tradizione della Chiesa, anch’essa dono ripetuto di tutte le generazioni alle successive e, quindi, anche di Nicola, vescovo di Myra, che riconobbe a Nicea la natura divina del Figlio di Dio, fattosi carne in Gesù, e che la testimoniò nella carità, in una vita responsabile nella quale si fece carico del bene richiestogli da tutti i suoi fedeli.



Postato da: giacabi a 21:39 | link | commenti
santi

sabato, 29 novembre 2008

La caratteristica particolare dei grandi santi
***
“L'ascetismo non produce tanto una personalità buona, quanto una personalità bella; la caratteristica particolare dei grandi santi non è tanto la bontà di cuore, che hanno anche gli uomini carnali e persino i grandi peccatori, ma la bellezza dello spirito, la bellezza abbagliante di una personalità radiosa e luminosa, che non riescono a ottenere gli uomini carnali appesantiti dal mondo."
Pavel  Florensky  

Postato da: giacabi a 19:02 | link | commenti
santi, florenskij

giovedì, 20 novembre 2008

I santi
***
" sono appesi in croce tra l'aldiqua e l'aldilà; esiliati dalla terra e non ancora accolti in cielo; da questa loro posizione, come da un pulpito, predicano con tutta la propria vita il cielo sulla terra

Hans Urs von Balthasar

Postato da: giacabi a 20:33 | link | commenti
santi, von balthasar

domenica, 16 novembre 2008

I santi sono gli esseri più umani
 ***
La casa di Dio è una casa di uomini e non di superuomini. I cristiani non sono superuomini. E nemmeno i santi. Anzi, i santi meno di tutti, perché sono gli esseri umani più umani.
Bernanos ." In I predestinati, Ed.Gribaudi,Milano 1995,pp.73-93).

Postato da: giacabi a 21:19 | link | commenti
santi, bernanos


La santità
 ***
La santità ci sembra terribilmente difficile, forse perché non sappiamo cosa sia, e nemmeno ce lo domandiamo seriamente. Succede lo stesso ai bambini che parlano degli adulti. Non sanno che cosa ne pensano. Non osano sapere che cosa ne pensano e si accontentano di giocare a fare i grandi. Poi, poco alla volta, a forza di giocare a fare le persone adulte diventano adulti a loro volta. Non è forse una buona ricetta? "
Bernanos I Predestinati, Ed.Gribaudi, Milano,1995,p.75).



Postato da: giacabi a 17:25 | link | commenti
santi, bernanos

venerdì, 19 settembre 2008

L’affezione in Cristo
***
San Francesco e Santa Chiara


«Dopo Dio e il firmamento, Chiara  »
San Francesco


Postato da: giacabi a 18:53 | link | commenti
amicizia, santi

venerdì, 22 agosto 2008


La grandezza di San Pietro dopo il tradimento
***
«Albeggiava ormai, quando Gesù comparve sulla riva, ma i discepoli non capirono che era lui. Allora Gesù dice loro:"Figlioli, non avete niente da mangiare?".
Risposero: "No". "Gettate la rete a destra della barca,e troverete". Gettarono dunque la rete e non riuscivano ad issarla a bordo, per la quantità di pesci che la riempiva..Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro"Ma è il Signore!". Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse forte il camiciotto,poiché sotto era nudo, e si gettò in mare.Gli altri discepoli vennero invece con la barca ! trascinando la rete piena di pesci: non erano lontani che un centinaio di metri». (Gv 21, 4-8)
***
«Allontanati da me, che sono un peccatore!» aveva gridato Simone la prima volta, gettandosi in ginocchio, atterrito da quel primo portento. Ne è passato di tempo, ma alla fine, di nuovo, lo stesso miracolo: quasi per riportarlo all'inizio, per fargli ripercorrere in un istante tutto quanto era accaduto da allora.
Ma di quella distanza che Simone aveva cocciutamente cercato di mantenere, di preservare tra sé e il Signore, non c'è più traccia.
Proprio ora che è stata messa a nudo la vigliaccheria del suo cuore; ora che la vergogna dovrebbe trattenerlo e portarlo a nascondersi tra gli altri, ad evitare il faccia a faccia; proprio ora Simone si tuffa, solo, all'istante. Non c'è nessuna esitazione: solo quella violenza d'amore che il suo male non aveva potuto che accrescere smisuratamente.
«...allontanati da me... allontanati da me...»: adesso è lui che si getta incontro a quello sguardo che non era  mai stato capace di reggere.
dalla mostra"La figura di di S. Pietro nel nuovo testamento" tenuta al Meeting di Rimini a cura della  Fraterntità Sacerdotale San Carlo Borromeo


Postato da: giacabi a 18:24 | link | commenti
santi

giovedì, 21 agosto 2008

Canzone delle Vanità
***
testo di san Filippo Neri
Vanità di vanita.
Ogni cosa è vanità.
Tutto il Mondo, e ciò che ha
Ogni cosa è vanità.
Se del mondo i favor suoi
T'alzeran fin dove vuoi.
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se regnassi ben mill'anni
Sano, lieto, senz'affanni.
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se tu avessi d'ogn'intorno
Mille servi, notte e giorno,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se tu avessi più soldati
Che non ebbe Serse armati,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se tu avessi ogni linguaggio,
E tenuto fossi saggio,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se starai con tutti gli agi,
Nelle Ville, e ne' Palagi,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
E se in feste, giuochi e canti
Passi i giorni tutti quanti,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Sazia pur tutte tue voglie
Sano, allegro e senza doglie,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Dunque a Dio rivolgi il cuore,
Dona a lui tutto il tuo amore,
Questo mai non mancherà,
Tutto il resto è vanità. 
Se godessi a tuo volere
Ogni brama, ogni piacere,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità. 
Se tu avessi ogni tesoro
Di ricchezze, argento ed oro.
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se vivessi in questo mondo
Sempre lieto, ognor giocondo,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se lontan da pene e doglie
Sfogherai tutte tue voglie,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Se qua giù starà il tuo cuore
Giubilando a tutte l'ore,
Alla morte, che sarà?
Ogni cosa è vanità.
Dunque frena le tue voglie,
Corri a Dio, che ognor t'accoglie,
Questo mai non mancherà.
Tutto il resto è vanità.
 Il testo di questo canzone è stato musicato da Angelo Branduardi.


Postato da: giacabi a 14:05 | link | commenti
preghiere, santi

venerdì, 11 luglio 2008

La grandezza di Pietro
***
«Pietro è ammirevole perché, non temendo di essere considerato un po' tardo, cerca di sapere ciò che non sa e, con ardore, fa di tutto per saperlo, anteponendo al pudore inopportuno il desiderio di conoscere la verità».
Cirillo di Alessandria

Postato da: giacabi a 14:09 | link | commenti
santi

lunedì, 16 giugno 2008

La santità
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“Una pietra occorre per la base, una diversa per il sommo […] Non alla pietra tocca fissare il suo posto, ma al Maestro d’opera che l’ha scelta. […] Santità non è farsi lapidare in terra di Paganìa o baciare un lebbroso sulla bocca, ma fare la volontà di Dio, con prontezza, si tratti di restare al nostro posto o di salire più in alto
 Paul  Claudel: L’Annuncio a Maria


Postato da: giacabi a 20:04 | link | commenti
santi, claudel

domenica, 01 giugno 2008

Il santo di giugno
***
Il santo bambino
Padre Aldo ha trovato questo piccolo abbandonato di due mesi, ammalato di Aids, e lo ha subito adottato dandogli il nome "Gesù" e diventando padre per la tredicesima volta... grazie al suo voto di Verginità. Perché la Verginità è feconda, dono di un Dio che è Padre!
Cari amici,
questa mattina il Signore mi ha fatto una sorpresa. Mi alzo e
trovo questo bambino nella casetta di Betlemme, abbandonato dalla giovane madre ammalata di AIDS. Lo chiamo Gesù e scopriamo che ha l’AIDS anche lui. Me lo prendo in braccio, lo guardo e sento un dolore immenso mescolato ad una grande tenerezza. Ringrazio Dio di avermi chiamato alla Verginità che sempre più vivo come l'unica pienezza di fraternità, perché è sinonimo di pura gratuità.
Quando a mezzogiorno tornano da scuola gli altri dieci figli dico loro: “ E' arrivato un nuovo fratellino, questa sera per festeggiarlo andremo tutti alla pizzeria con mamma Cristina”.
L’allegria è tanta, solamente i tre più piccolini, per gelosia fanno il musetto. Però quando alle 19.30 siamo tutti attorno alla tavola della Pizzeria “O sole mio”, con mamma Cristina alla testa, è una grande festa. Gesù ha due mesi ed è bello come il sole. Adesso la casetta è piena: sono 13: da Gesù che ha due mesi, Abigail 7 mesi, Giorgetto, anche lui con AIDS di 1 anno, attualmente ricoverato nella nostra clinica, Carlito 1 anno e su su fino a Natalia 11 anni. Sono tutti miei figli. Alla mattina alle 7 vado a prenderli per portarli a scuola. Mi aspettano già in fila, un bacio ed una benedizione ad ognuno, attraversiamo la strada, ci fermiamo davanti alla grotta della Madonna e subito raggiungiamo il cortile della scuola. L’ultimo abbraccio è poi... prima di dormire alle 20.30 con il bacino della buona notte, le preghiere, il pigiama, la benedizione e ... hasta mañana. Lascio i miei piccoli e passo alla clinica per salutare i miei figli terminali.
L’ultimo saluto forte è per Eucarestia.... e finalmente vado a riposare.
Davvero sono commosso per il dono della vocazione alla Verginità perché questi bambini non gusterebbero tanto amore se Gesù non mi avesse fatto questo dono
.
Con affetto, P. Aldo Trento

Postato da: giacabi a 17:28 | link | commenti (1)
santi, padre trento

mercoledì, 07 maggio 2008

Il santo di maggio
***
Cari amici,
il 1° maggio, festa di S. Riccardo Pampuri abbiamo festeggiato il 4º Anniversario della Clinica, con la S. Messa alla quale hanno assistito ammalati, moribondi e la cosa più commovente i bambini della Casetta di Belemme (vedi foto), orfani dei genitori morti nella clinica e affidati a me. Mi chiamano "papà"! Guardateli, che belli. La mamma adottiva è Cristina, quella sulla destra. Quanto è bella la paternità che non è frutto della carne nè del sangue, ma dono puro di Dio.
Vi mando anche il Santo del mese. La testiminianza è di Crispino, un musulmano ateo che grazie al cancro ha chiesto il Battesimo e tutti i sacramenti. L'altro giorno ha compiuto 48 anni e ha voluto festeggiare con tutti il suo ultimo compleanno in questa terra. Ha pagato tutto: le pizze e le bevande.
Con affetto, P. Aldo Trento
Testimonianza di Crispin Morinigo
Asunciòn 23/04/08
Una coppia giunse in Brasile dalla Palestina e dal Libano per iniziare una nuova vita, con molti sforzi realizzarono i loro sogni e uno dei loro figli è mio padre, che ha avuto 54 figli.
Io sono nato nel 1960 da una relazione casuale tra mio padre e una paraguagia, allora adolescente, che al principio mi rifiutò e mi lasciò con mio padre con il quale ho passato una buona infanzia con molto affetto e molte attenzioni.
Quando ho compii i 14 anni volli conoscere mia mamma, allora andai in Paraguay, dove sono nato, e incontrai mia madre che al inizio mi rifiutò dicendomi che non aveva nessun figlio però con il passare del tempo si convinse che anch’io ero suo figlio e mi trattò con amore e affetto insieme agli fratelli miei.
Ho studiato nel CNC (Collegio Nazionale della Capitale) e più tardi lasciai gli studi per andare a lavorare per mantenermi. Ho sempre lavorato come venditore di confezioni e grazie a questo ho sempre mantenuto una buona posizione economica e tornai in Brasile e lavorai con imprese Brasiliane e girai tutta l’America, raggiunsi degli esiti, cose materiali e tutto quello che offriva il mondo sempre cercando qualcosa senza sapere mai cos’era, perché niente mi completava, niente mi riempiva, sentivo un vuoto terribile senza sapere perché.
Conobbi varie donne dalle quali ho avuto 35 figli in tutto ma la vita, per me, non era mai completa, addirittura mi innamorai di mia cugina con la quale ho convissuto 3 anni. Lei è stata il mio grande amore fino a quando, nel 1996
, vivendo con me si sposa con un americano e va a vivere negli USA. Persi totalmente il senso della vita, pensavo solamente alla vendetta per il suo tradimento perfino sua madre mi accusava che per colpa mia aveva perso una figlia.
Poco dopo iniziai a infermarmi, sentivo dolori allo stomaco, andai dal medico che mi diagnosticò gastrite acuta. Seguì un trattamento però il dolore non mi passava. Segui in questo modo fino al 2005 quando gia non sopportavo più il dolore e andai all’ospedale di Clinica e mi dissero che avevo il cancro. Mi operarono il 22/10/07 però appena aprirono tornarono a chiudere senza togliere niente perché era avanzato gia troppo e non c’era più niente da fare.
Li conobbi al Dr. Mazzotti, un buon medico e una buona persona che mi parlò di un luogo dove potevo stare meglio. E compì la sua parola, grazie a lui sono qui da febbraio del 2008
.
La mia prima impressione al entrare qui fu meravigliosa, sentì che c’era qualcosa di più grande, conobbi al Padre Aldo che rispettò il mio ateismo, senza smettere di accompagnarmi.
Col passare del tempo qualcosa mi attraeva, chiamava la mia attenzione, la forma che mi trattavano il personale della clinica, lo sguardo differente che avevano, l’amore con il quale mi trattavano, l’ambiente che si sente e non potei più sopportare finché un giorno mi inginocchiai davanti al Santissimo e piansi come un bambino che si aveva comportato male con la mamma e chiesi perdono a Dio per tutti i miei peccati e in quel preciso momento il mio cuore s’inondò di pace e serenità e dissi il Signore sta con me e non sarò mai più solo
.
Raccontai la mia esperienza al Padre Aldo e mi disse che il miracolo erra avvenuto e mi chiese se volevo ricevere il battesimo e gli dissi di si e tutto fu allegria e gioia.
Finalmente il vagabondo incontrò la sua casa che tanto aveva cercato senza sapere qual era. Da poco ho festeggiato il mio quarantottesimo compleanno ed è stato il migliore che ho avuto nella mia vita con Dio nel mio cuore e circondato da persone che mi vogliono bene.
Ho venduto tutto quello che avevo e resterò qui nella mia casa fino a quando Dio mi chiamerà per stare con Lui nel Paradiso.
Per me morire è bello, perchè finalmente vedrò il volto di Gesù che da un mese, solamente, ho potuto intravedere
.
Crispin Morinigo

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santi, padre trento

domenica, 27 aprile 2008

Nennolina
***
La Serva di Dio Antonietta Meo,
familiarmente chiamata Nennolina, ha portato
a compimento la sua vita in appena sei anni
mezzo. Ha accolto il Mistero in tutto,
sacrificandosi per gli altri nella semplice
offerta della sua malattia e della sua vita. Il 17
dicembre scorso Benedetto XVI ha
riconosciuto ufficialmente le virtù eroiche di
questa bambina, consentendo un passaggio
importante nel processo per la sua
canonizzazione.
“Ti benedico o Padre perché hai tenuto
nascoste queste cose ai sapienti e agli
intelligenti e la hai rivelate ai piccoli” (Mt
11,25). Queste parole del Vangelo sono più
che mai descrittive di quanto è accaduto nella
vita della Serva di Dio Antonietta Meo. Al XIII
Convegno del nostro Movimento abbiamo
conosciuto questa santa bambina. Come allora
ci riaccostiamo a lei ricordandoci che ciò che
conta di più non è restare sentimentalmente
colpiti e commossi per la tenerezza che
Nennolina suscita, ma lasciarci davvero
provocare e cambiare dalla sua testimonianza.
Caro Gesù. Oggi vado a spasso e vado dalle mie
suore e gli dico che voglio fare la prima
Comunione a Natale…Gesù vieni presto nel mio
cuore, che io ti stringerò forte forte e ti bacerò!...
Oh Gesù! Voglio che Tu resti sempre nel mio cuore
un saluto e un bacio dalla tua Antonietta”.
Questa letterina è datata 15 settembre 1936 ed
è la prima di una serie di centosessantadue
letterine, o poesie come le chiamava lei, che
sono state poi raccolte e pubblicate fedelmente
(lasciando anche gli errori) insieme ai pensieri
del suo diario. Antonietta Meo nasce a Roma il
15 dicembre del 1930, aveva circa 6 anni e
mezzo quando il Signore la chiama a Sé il 3
luglio del ‘37. A poco più di quattro anni le
viene diagnosticato un ostiosarcoma che
l’avrebbe portata da lì a poco all’amputazione
della gamba sinistra. Per questa malattia
Nennolina affronterà un vero e proprio calvario
che saprà accogliere con quella normalità della
fede che rende eroici agli occhi del mondo e
speciali agli occhi di Dio. I dolori che deve
subire sono indescrivibili, sia per le cure che
deve affrontare che per le metastasi, le quali le
procurano nell’ultimo periodo di vita anche lo
spostamento del cuore. Tutti coloro che l’hanno
conosciuta ricordano la sua serenità, il sorriso,
la vivacità e il non lamentarsi mai nonostante la
malattia, offrendo continuamente tutto a Gesù,
a Dio Padre e alla “cara Madonnina”. Riporta
Maria Ravaglioli, mamma di Nennolina, nel
suo bellissimo diario: “… E se Gesù ti chiedesse
la gamba che ti fa male, gliela daresti? Sì,
mamma! E non ti dispiacerebbe di rimanere senza
una gamba? Mi guardò; poi, chinando la testina,
rispose: un pochino; poi rialzandola subito, con
energia: no, mamma: non mi dispiace; Gesù ha
sofferto tanto sulla Croce e io l’offro a Gesù per i
nostri soldati che sono in Abissina (Maria Meo,
Nennolina: una mistica di sei anni, p. 108).
Nel ripercorrere la breve ma compiuta esistenza
di Nennolina, si scorge la vita di una bambina
normale, fatta dell’andare a scuola, che amava
tanto e dove voleva andare anche la domenica
per “imparare tante cose”, del rapporto con i
genitori, la sorella maggiore Margherita, gli
amici… una vita di una bambina vivace con i
suoi “capriccetti”, di cui chiedeva sempre
perdono.
Antonietta scrive nel novembre del ‘36, quando
le era già stata amputata la gamba: “… Caro
papà io sono molto contenta che Gesù mi ha
mandato questo guaio sai!... Almeno sono la più
prediletta di Gesù”. Lei scriverà queste letterine
per lo più dettandole alla madre, firmando
semplicemente con una croce, poi con il suo
nome, aggiungendo “Antonietta e Gesù” e infine
Antonietta di Gesù”. Lasciava i suoi scritti sotto
una statuina di un Gesù Bambino che dorme
sulla croce, perché Lui venisse a leggerle
durante la notte. “Caro Gesù bambino ti voglio
tanto bene Gesù bambino aiutami proteggimi. O
Gesù bambino dammi delle anime vieni dentro al
mio cuore ch’è t’aspetto presto. O Gesù bambino
salva la mia anima O Gesù bambino amoroso O
Gesù bambino ti bacio…”, 9 ottobre 1936. Tra i
pensieri autografi si scorgono queste dolci
parole “Caro Spirito santo, dì a Gesù che vogli
essere la sua lampada e vogli essere il suo giglio”. E
ancora, in attesa di ricevere la Prima
Comunione nella notte di Natale: “Caro Spirito
Santo, riempimi della tua grazia e fa che possa
fare tanti piccoli sacrifici per prepararmi a
riceverti degnamente”. Del settembre 1936 sono
questi fioretti: “Questa mattina sono stata buona.
Per far piacere a te Gesù…Ho obbedito per amore
di Gesù. Gesù ti mando un bacio…Non ho
mangiato la caramella finchè non ho recitato le
preghiere Gesù mio ti mando un saluto”. A noi
che, come dice San Paolo, non sappiamo
nemmeno cosa sia conveniente chiedere a Dio
(cfr. Rm 8,26), questa bambina insegna ciò che
è necessario, ciò senza cui non si può vivere:
Ma tu aiutami, che senza il tuo aiuto non posso
fare niente… aiutami con la tua grazia, aiutami
tu, che senza la tua grazia nulla posso fare… ti
prego, Gesù buono, conservami sempre la grazia
dell’anima”. Tutta la semplicità e la verità del
suo insegnamento per noi può essere
sintetizzato dall’ultima sua lettera datata 2
giugno del 1937: Caro Gesù crocifisso, io ti
voglio tanto bene e ti amo tanto. Io voglio stare
con te sul Calvario. Caro Gesù, dì a Dio Padre
che amo tanto anche Lui. Caro Gesù, dammi tu
la forza necessaria per sopportare questi dolori che
ti offro per i peccatori - qui, annota la mamma,
fu presa da un attacco di vomito - Caro Gesù, dì
allo Spirito Santo che mi illumini d’amore e mi
riempia dei suoi sette doni. Caro Gesù, dì alla
Madonna che l’amo tanto e voglio starle vicina.
Caro Gesù, ti voglio ripetere che ti amo tanto. Mio
buon Gesù, ti raccomando il mio confessore e fagli
le grazie necessarie. Ti raccomando i miei genitori
e Margherita. La tua bambina ti manda tanti
baci Antonietta di Gesù”.
Nennolina ci testimonia e rimette davanti che
la fede è semplice, non è una questione di età o
di capacità, ma che si tratta di una posizione di
cuore, attraverso cui si rende possibile quella
profonda conoscenza di Lui che san Paolo ci
rivela nella sua lettera agli Efesini e che
Nicolino stesso approfondisce nel suo ultimo
intervento: “…per una più profonda conoscenza
di Lui non è questione di erudizione o di «studio»
ma l’affermazione di una più totalizzante
esperienza di Lui dentro la vita, di un più reale e
radicale attaccamento di tutto noi stessi alla
Presenza viva di Cristo che ci porti e ci faccia
ritrovare nella profondità del suo Essere in cui vi è
la consistenza di tutto e tutti” (Nicolino Pompei,
Atti del Convegno Fides Vita 2006, p. 18).
Simona Cursale

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santi

sabato, 15 marzo 2008

Noi abbiamo bisogno di uno che abbia..
***
«...passione per il nostro niente, perche ci guarda senza ridurci, avendo a cuore tutta l'esigenza di felicità che ci costituisce. Uno, sentendosi guardato così, sperimenta subito il contraccolpo che gli fa cogliere la corrispondenza. «E questo che io aspettavo: uno che mi guardasse così, che  avesse veramente a cuore il mio io,che mi affermasse così, in modo da farmi sperimentare il vivere come mai prima! »
don Carron Esercizi di Fraternità  2007
1°esempio:"Cristo era l'unico nelle cui parole tutta la loro esperienza umana si sentiva compresa e i loro bisogni presi sul serio, e portati alla luce là dove erano inconsapevoli e confusi; così, ad esempio, proprio coloro che credevano di avere solo il bisogno del pane incominciavano a capire che «non di solo pane vive l'uomo».
Cristo si presenta a loro proprio così, come un Altro che viene loro sorprendentemente incontro, li aiuta, spiega i loro guai, li guarisce perfino se sono storpi o ciechi, fa bene all'anima, risponde alle loro esigenze, è dentro la loro esperienza... Ma cosa sono le loro esperienze? Le loro esperienze, i loro bisogni, le loro esigenze sono loro stessi, quegli uomini lì, la loro umanità stessa.
"
don giussani da: Tracce di esperienza cristiana
2°esempio: "un ragazzo disadattato dopo averla incontrata (Delbrel),  illustrava così la sua splendida formula: «Lei ha indovinato il mio vero io, sfigurato per tutti, sconosciuto perfino a me stesso, un io che io stesso odiavo perché mi sentivo incatenato... Grazie a lei io sono esistito, prima di esistere" delbrel
3°esempio: «25 marzo 1988, padre Aldo Trento non dimentica questa data, incontra don Giussani e gli dice piangendo che vuole farla finita. «Lui mi ha risposto: bene, io ora ti tengo con me. Mio fratello voleva farmi ricoverare in ospedale, ma Giussani mi ha portato con sé per mesi. Diceva che era certo che quella malattia era per un progetto che Dio aveva su di me. Io stavo come un cane, ma mi sono fidato. Un giorno mi ha annunciato: "Ora è tempo che parti per la tua missione". E io sbalordito: ma dove vado, cosa annuncio, io che ho solo voglia di essere morto? "Io mi fido di te", mi ha risposto. E sono partito».
 ptrento                                                                                                     a P.


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santi, gesù, carron

domenica, 09 marzo 2008

San Bernardo
     
                                       ***

Per alcuni decenni l'Europa guardò a lui. Un vero ciclone toccato dalla grazia: salvò il suo Ordine, combattè le eresie, evitò uno scisma, predicò una crociata, disputò con Abelardo. La storia del monaco cistercense nato 900 anni fa


È un mattino fresco e luminoso di primavera dell'anno 1112. Al portale della grande abbazia di Citeaux si affaccia il monaco portinaio, con scontata rassegnazione. La stessa del suo abate Stefano Harding, ormai impotente ed amareggiato di fronte alla decadenza di Citeaux, fondata appena dodici anni prima con il grande sogno di rinnovare il monachesimo benedettino: era stato l'inizio dell'avventura cistercense (da Cistercium, o Citeaux). Ebbene, quella mattina il monaco portinaio si trova di fronte uno strano spettacolo: un giovanotto, sui vent'anni e, dietro di lui, una trentina di suoi amici e coetanei.

Quel giovane all'apparenza timido è un autentico conquistatore. Alcuni di quei giovanotti se li è trascinati con sé mentre erano impegnati nell'assedio al castello di Grancey: armi e cavalli costituivano il passatempo della gioventù aristocratica dell'epoca. Bernardo era nato da una famiglia aristocratica a Fontaine nel 1090; con gli anni anche il padre Tescelino, cavaliere, sei fratelli, zii e cugini, si faranno monaci con lui. Egli diverrà «la colonna della Chiesa», secondo le parole del suo biografo Goffredo d'Auxerre. Tutta la cristianità, papi, re, poveracci, cavalieri, monaci, per decenni, da tutta Europa, guarderanno a lui. La pattuglia che lo segue a Citeaux è fatta da uomini affascinati da lui. Li raccoglie così: ha un amico a Mâcon: «Bisogna che diventi anche lui dei nostri» dice ai fratelli. E quelli, sbigottiti, si guardano: «Ma Bemardo, tu lo conosci, ha una posizione, è un uomo importante. E poi, alla sua età!». Bernardo però non si ferma.

L'abbazia di Citeaux, che era ornai semivuota, si riempie di questa sorprendente compagnia. E col passare delle settimane e dei mesi continuano ad arrivare altri amici (molti sono sposati e per le mogli che vogliono prendere l'abito viene allora fondato un monastero a Juilly). L'abate Stefano, che prima di quel fresco mattino di primavera stava pensando addirittura di chiudere l'abbazia e andarsene, è stupefatto. Adesso le mura di Citeaux non bastano più. Bisogna costruire nuove abbazie. Stefano spedisce due gruppi di monaci nel 1113 e nel 1114. Poi l'anno dopo, per una nuova fondazione sceglie Bernardo: il giovane è in monastero da appena due anni, non ha nemmeno 25 anni, non ha ricevuto neanche l'ordinazione e poi -vien fatto notare all'abate- è pure cagionevole di salute, oltre a non aver alcuna esperienza amministrativa (per guidare un'abbazia erano necessarie certe doti "manageriali"). Ma Stefano ha già deciso. Bernardo, dunque, parte da Citeaux con un gruppetto di monaci. Si stabiliscono in una vallata solitaria e luminosa, Clara Vallis, Clairvaux, vicino al fiume Aube, a sud-est di Parigi. Vi costruiscono delle capanne. Alla durezza della regola si aggiunge il freddo e la fame. Il cibo, perlopiù, è fatto di zuppa di foglie di frassino. Qualche monaco ha momenti di sconforto, anche perché il lavoro qui è ancor più duro che a Citeaux. Bernardo non si occupa molto della organizzazione: ha a cuore innanzitutto quelle persone che gli sono state affidate. Da allora farà così per tutta la vita, nonostante la gigantesca fioritura, in tutta Europa, delle sue abbazie. Ormai avanti con gli anni, costretto dalle necessità della Chiesa universale a vivere per mesi in giro per l'Europa fuori dalle sue amate mura, scriverà ai suoi: «La mia anima è triste finché non ritornerò e non vuol essere consolata se non lì, fra voi». La dolcezza e il vigore della sua amicizia sostengono fin dall'inizio la fondazione di Clairvaux: «Vi scongiuro, fratelli, vi scongiuro per il bene comune (la vita della nostra comunità): afferrate con zelo l'occasione a voi data di operare la vostra salvezza» dice in un sermone. I monaci costruiscono pietra su pietra l'abbazia, bonificano, seminano piantano un frutteto, creano un grande orto diviso geometricamente e irrigato da piccoli rivoli. Grazie a una splendida opera di ingegneria idraulica, infatti, i monaci sono riusciti a incanalare metà delle acque dell'Aube, deviandole verso l'abbazia. Le acque sono utilizzate per il sistema di irrigazione e per tutti i laboratori dell'abbazia; fanno funzionare il mulino, servono ai monaci per la fabbricazione della birra, per la follatura e la conceria (e quando la portata d'acqua è eccessiva l'abbazia è difesa da un sistema di dighe). Bernardo, nonostante la cattiva salute e la debolezza, non si sottrae alla fatica, anzi vi sono dei racconti dove appare felice di essere il più bravo nella mietitura del grano che i fratelli volevano risparmiargli.

Un giorno, mentre i monaci stanno pregando, Bernardo vede arrivare dalle colline una quantità di persone: gente di ogni condizione, di ogni età, di ogni dove. Comincia così, quasi inattesa, non preordinata, la grande fioritura cistercense: al momento della morte di Bernardo, nel 1153, saranno ormai 350 i monasteri nati in tutte le valli, le foreste, le montagne d'Europa, dalla Scandinavia all'Italia. «Nei monasteri noi ammettiamo tutti, nella speranza che diventino migliori» dice Bernardo in un passo del «De consideratione». E aggiunge con ironia, rivolgendosi al Papa, che invece per la Curia romana è bene che trovi uomini già buoni, benché ciò sia raro, perché lì «è più facile ricevere uomini buoni che farli diventare tali
». Bernardo chiede innanzitutto a chi vuol entrare in monastero di «conoscere se stesso"», di riconoscere qual è la comune condizione dei mortali: «ogni uomo è mentitore, vacillante, misero, impotente, fragile, mutevole». Questa è la miseria quotidiana che nessuno slancio di entusiasmo può cancellare. Ma da questo «lago della miseria e dal fango melmoso», annuncia Bernardo, Gesù il Verbo incarnato ci salva. Bernardo lo dice con «un'amicizia tenera, premurosa, devota», che «eccelle nella capacità di penetrare gli stati d'animo altrui, per consolare e confortare» (Leclercq). Bernardo sa chi sono, di che pasta sono fatti, coloro che bussano ai suoi monasteri. Dice dunque in un sermone: «Dio ha offerto la carne a degli esseri che godono della carne affinché imparino, attraverso di essa, a godere in egual modo dello Spirito». Cioè della presenza di Gesù, Dio fatto uomo. Il motivo dominante dei suoi sermoni è appunto questo: historia Verbi, «la storia del Verbo» e, all'interno di quel mirabile mistero dell'Incarnazione, la grandezza di Maria e la sua maternità universale.
«Chi siamo noi sulla terra se non piccole formiche indaffarate in lavori inutili e vani? Che vantaggio avrà l'uomo da tutte le opere per le quali si affatica sotto il sole?». Bernardo non ha dubbi: solo per gustare la presenza di Cristo vale la pena vivere. Lo dice magnificamente in un suo inno: Jesu, dulcis memoria / dans vera cordis gaudia: / sed super mel et omnia, / Ejus dulcis praesentia. / Nil canitur suavius; / nil auditur jucundius / nil cogitatur dulcius / guam Jesu Dei Filius. / Jesu, spes paenitentibus / quam pius es petentibus! / Quam bonus Te quaerentibus! / Sed quid invenientibus? / Nec lingua valet dicere, / nec littera esprimere: / expertus potest credere, / quid sit Jesum diligere. / Sis, Jesu, nostrum gaudium, / Qui es futurum praemium: / sii nostra in Te gloria, / per cuncta semper saecula. Amen
(
O Gesù, dolce memoria / sorgente di vera gioia al cuore: / ma sopra ogni dolcezza / dolce è la Sua presenza. / Nulla si canta di più soave, / nulla si sente di più lieto, / nulla di più dolce si pensa, / che Gesù, Figlio di Dio. / Gesù, speranza per chi ritorna al bene / quanto sei pietoso verso chi Ti desidera! / Quanto sei buono verso chi Ti cerca! / Ma che sarai per chi Ti trova? / Nessuna bocca può dire, / nessuna parola può esprimere; / solo chi ne ha fatto esperienza può comprendere / cosa sia amare Gesù. / Sii Tu, o Gesù, la nostra gioia, / Tu che sei il futuro premio eterno: / sia in Te la nostra gloria, / sempre, in ogni tempo. Amen
).

Se c'è una parola chiave per comprendere Bernardo e la sua intuizione del cristianesimo, questa è: esperienza. Lo scrive e lo ripete instancabilmente: «
Solo chi ne fa esperienza può comprendere cosa sia amare Gesù». E nel «De diligendo Deo» insiste senza tregua: «Amiamo Dio perché abbiamo provato e sappiamo quanto sia dolce il Signore
». Tutto ciò che fa o che dice, tutto ciò che di lui è rimasto di grande nella storia della Chiesa, non può essere compreso se non come difesa, incitamento, aiuto, nella esperienza della amicizia di Cristo.

Bernardo s'intromette nelle nomine dei vescovi, chiedendo la deposizione di alcuni, percorre l'Europa predicando contro l'eresia catara e contro quella di Arnaldo da Brescia, è veemente, appassionato, infuocato contro ecclesiastici, teologi, contro i suoi stessi cistercensi ed altri Ordini (ad esempio, nella polemica con l'abbazia di Cluny, dove l'osservanza della Regola è ormai molto rilassata, Bernardo, ripete, seppur dolorosamente, con san Gregorio: «E' meglio far sorgere uno scandalo che trascurare la verità»). Ma su tutto prevale l'appassionato invito a far proprio il tesoro: la esperienza della dolcezza di Gesù, quell'«amor cordis» che è «quodammodo carnalis» verso il Corpo di Cristo. Bernardo odia il vaniloquio intellettuale, non sopporta le inutili dispute dialettiche che già allora cominciavano ad insinuarsi nelle università. La sottigliezza accademica lo nausea. È quasi provocatorio: «Haec mea subtilior, interior philosophia, scire Jesum, et hunc crucifixum». Nel «De gradibus» attacca proprio la «curiositas», con la sua apparente innocenza, come la «radice di ogni peccato», addirittura di quello di Lucifero e di quello di Eva
. La «curiositas» è perdersi dietro alle cose che non valgono dimenticando Colui che è il Sommo Bene.

Non per sua volontà, ma solo per obbedienza, Bernardo viene trascinato nella disputa con Abelardo, il gran dottore la cui dialettica andava per la maggiore a Parigi, pur avendo già avuto una censura nel 1121 dal Concilio di Soissons. Bernardo, per anni, usa con Abelardo ogni dolcezza, ogni discrezione. Inoltre ha particolarmente a cuore la libertà di giudizio di ciascuno su ciò che non è essenziale alla fede. Ma verso la primavera del 1140 le cose precipitano. Bernardo si persuade che adesso non si tratta più solo di ricerca dialettica di un professore: «Christus est in causa». Con questo nuovo magistero intellettuale «si deride la fede dei cuori semplici, si frugano i misteri di Dio». E questo Bernardo non può sopportarlo: la fede nel Salvatore siglata dal Suo sangue è minacciata e allora Bernardo non può più tacere. Egli freme pensando a quanti ingenui possono esserne travolti (e persino nella Curia romana c'è chi si lascia solleticare da questa novità che, per Bernardo, assembla gli antichi errori di Ario, di Pelagio e di Nestorio). Inconcepibile è per Bernardo anche il fatto che Abelardo, che si dice monaco -e che dunque dovrebbe aver provato la delizia del cenobio- possa trovare in quei sofismi intellettuali e nel successo dei salotti parigini il proprio appagamento. Abelardo tenta il grande coup de théâtre: una disputa pubblica con Bernardo, un'arte in cui lui eccelle, tanto quanto Bernardo ne è nauseato. Dunque a Sens, il 2 giugno del 1140, per l'ottava di Pentecoste, Abelardo arriva con lo stuolo dei suoi ammiratori. Bernardo invece solo con un appunto che gli è stato preparato da Guglielmo di Saint Thierry, un amico di entrambi i contendenti. Ed ecco il colpo di scena. Tutto sembra pronto per il grande spettacolo, ma Bernardo prende la parola per primo e legge le proposizioni eretiche o assurde, che chiede ad Abelardo di rinnegare, di correggere o di dimostrare. La verità non è da inseguire con una disputa, ma da riconoscere e sperimentare. E basta. Abelardo s'indigna e s'infuria. Già pregustava il sapore della disputa (e magari del successo) e invece Bernardo non fa proprio nessuna disputa. Abelardo con i suoi fans se ne va scandalizzato, appellandosi al Papa. Ma a Roma le sue tesi vengono egualmente condannate. Come ha mostrato dom Knowles, «a distanza, san Bernardo ci appare come l'aggressore, munito di una potente armatura. Ma quando queste cose accadevano egli assomigliava piuttosto al giovane Davide... Quando attaccò Abelardo, uscì dalle file come colui che viene a sfidare, sul suo proprio terreno, il maestro più adorato, più brillante del suo tempo».

D'altronde sempre più la Chiesa universale sembra aver bisogno di Bernardo. Appena pochi anni prima proprio lui aveva dovuto addirittura salvare la Chiesa da un grave scisma. Morto Onorio II, nel febbraio 1130, due fazioni romane opponevano i cardinali pretendenti al soglio pontificio. Così, nel giro di poche ore, viene eletto Papa il cardinale Guido di Saint Ange, col nome di Innocenzo II e poi il cardinale Pietro di Leon, che sarà chiamato Anacleto II. Quest'ultimo da anni tramava per ottenere l'elezione, comprando il consenso del popolo e dei sovrani a suon di mance e bustarelle. La Chiesa si trova in una situazione penosa, con un Papa ed un antipapa. Un dramma che si trascinerà per anni. Bernardo percorrerà l'Europa in lungo e in largo per aiutare Innocenzo II. Sarà una lotta durissima e spesso cruenta; Bernardo dovrà difendere la Chiesa dalle pesanti intromissioni del potere mondano. Un anno dopo l'altro, papi, cardinali e re continueranno a chiamare Bernardo «per porre rimedio alle difficoltà della Chiesa». Non c'è causa giudiziaria, disputa ecclesiastica, che non si sottoponga a Bernardo. «Statum ecclesiae miseramur», esclama con amarezza il monaco.

Eppure questo stesso uomo a cui si aggrappa tutta la Chiesa, che tratta con tutti i potenti del mondo, che riempirà della sua presenza la storia del suo secolo, è lo stesso che si preoccupa di parlare con i genitori di uno dei tanti giovani che vogliono entrare nel suo monastero e accoratamente dice loro: «Non piangete! Il vostro Goffredo corre verso la gioia, non verso le lacrime, e io sarò per lui un padre, una madre, un fratello e una sorella». Bernardo è commosso di fronte a ciascun ragazzo che decide di seguirlo e, in fondo, sa che questo solo vale. E solo di Dio vorrebbe occuparsi. Ma Dio vuole che egli sia abate del mondo intero e così, quando nel 1145 viene eletto Papa un suo monaco, col nome di Eugenio III, scriverà una autentica guida di vita per il Papa stesso. Con grande venerazione, ma anche con grande libertà («Venerabundus, sed libere») lo chiama alle sue responsabilità. Il «De consideratione» è un'opera straordinaria. Bernardo mette in guardia il nuovo Papa da quella schiera di profittatori famelici che si troverà attorno («sono lupi, altro che agnelli»), dall'abuso di potere, dalla superbia. E poi ancora: «
Come mai i tuoi predecessori hanno ritenuto di stabilire dei limiti al Vangelo, di sospendere la predicazione della fede, mentre persiste ancora il paganesimo? Per quale ragione, mi domando, s'è arrestato quell'annuncio che rapido corre? Chi per primo ha bloccato questa corsa della salvezza? Quale scusa abbiamo noi di nascondere la verità?». Ma Bernardo, grande conoscitore dell'animo umano e delle cose del mondo, dedica la stessa attenzione alle cose apparentemente più trascurabili e invece più insidiose nella missione di un Papa: «Non è inutile riflettere sui mezzi e sui modi per riordinare la tua casa, e su come provvedere a quelli che vivono nella tua intimità e fanno vita comune con te. Direi persino che è necessario. Ascolta Paolo: "Se qualcuno non riesce a dirigere la propria casa, come potrà prendersi cura della Casa di Dio?"». L'uomo libero che così scrive al Papa è lo stesso che a lui obbedirà con rigore monastico. Come nel 1146, quando il Papa ordina a Bernardo che predichi e organizzi una nuova crociata. Il Papa pensa soprattutto ad una spedizione militare sotto la corona di Francia. Ma Bernardo immagina un immenso santo pellegrinaggio di tutti i peccatori della cristianità europea per riscattare non solo quelle terre dove è trascorsa la «storia del Verbo», ma anche la loro vita.

Bernardo vede in questo santo viaggio proprio un giubileo straordinario voluto da Dio: «
Considerate, o peccatori, di quale grande artificio Egli si serva per salvarvi e stupite; contemplate l'abisso della sua tenerezza senza fine e confidate... Non è infatti un mezzo di salvezza straordinario, che solo Dio poteva trovare, il fatto che l'Onnipotente si degni di chiamare al suo servizio rapinatori, adulteri, spergiuri, uomini macchiati di ogni sorta di crimine, come persone che abbiano coltivato la giustizia? Non disperate, peccatori, Dio è buono».

Dal punto di vista militare quella crociata fu un fallimento, per le lotte intestine fra re e principi, per le tante meschinità umane. E per Bernardo fu un dolore indelebile. Fino alla fine dei suoi giorni Bernardo servirà per obbedienza la Chiesa difendendo la fede dei semplici, nonostante il peso sempre più gravoso delle malattie e della vecchiaia. Tante storie affascinanti che non è possibile ricordare. D'altronde queste brevi note non fanno cenno né alla gran quantità di miracoli che attraverso di lui furono compiuti, né all'intimità mistica con il Signore e la Vergine che egli ebbe la grazia di vivere in modo speciale, come ricorda Dante nel Paradiso. Un vero miracolo, visibile a tutti, fu lui stesso e la sua Clairvaux, che era come l'anticamera del Paradiso. Dopo aver desiderato inutilmente di poterci vivere, poté perlomeno morirci, il 20 agosto 1153. Aveva appena pronunciato, per i suoi fratelli, il suo ultimo sermone commentando le parole di san Paolo: «Per me vivere è Cristo e morire un guadagno».
tratto da: Antonio SOCCI, Cristiani. L’avventura umana di 14 santi, suppl. a 30 Giorni, anno IX, dicembre 1991, p. 28s
da: www.storialibera.it



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santi, sbernardo

giovedì, 06 marzo 2008

I SANTI - PICCOLE STORIE DAL PARAGUAY n° 08 - marzo 2008
Il santo di marzo
Fatima
***
il santo di marzo

Cari amici, solo con chi ti è vero amico, puoi condividere le grandi gioie e i grandi dolori.
Per questo mi permetto mandarvi le foto delle mia ultima bambina ammalata di un orribile cancro.
E' qui con me da un mese questa bellissima ostia bianca. Ha 18 mesi, viene dalla miseria piú terribile. La giovane mamma da un anno vive stesa al suo fianco, muovendosi solo per le necessità basiche, perché solo il calore del suo corpo ottiene quelle che ormai la morfina non ottiene piú. La sua faccia è stata sostituita dal cancro che le ha mangiato tutto, perde pus, sangue e la mamma la bacia con tenerezza, la bacia su quello che era prima la bocca, gli occhi, il naso, che ormai il cancro ha distrutto. La guarda e vede Gesú.
Aggiungo il commento di una suora che ci aiuta a non aver paura nel guardare le foto.
Sono drammaticamente belle, come quelli di Gesú nel film di Mel Gibson. Non avere paura: è la realtá e questa bambina è il mio tesoro. Non posso vivere con gioia ogni istante se non fosse qui con me.
Anche e sopratutto per lei vale “anche i capelli che lei non ha piú, sono contento per il Padre Celeste”

Che bello, che grazia, che dono.
La nuova martire di Quaresima: Fatima un volto trasfigurato
Fatima è una piccola bambina di 18 mesi che è giunta nella nostra clinica con il volto totalmente “mangiato” da un cancro. Questa terribile malattia che le ha distrutto il volto ha reso Fatima un Cristo morente nella croce. Lei possiede un anima piú forte di tutti noi cristiani; per questo motivo Dio l´ha scelta per condividere la passione del suo figlio. Quando l´ho conosciuta non potevo comprendere come quel piccolo corpo potesse sopportare tanta sofferenza; ma prima dei vesperi del mercoledì delle ceneri, mentre con Padre Aldo facevamo la processione con il Santissimo mi sono inginocchiata con lui davanti a quel corpicino. La sensazione che mi prese fu quella di essere in adorazione davanti a Gesú in spirito e verità. Non saprei dire dove lo vedevo piú presente, se nella Eucarestia o in quel piccolo corpo sotto una apparenza misteriosa ma non meno reale.
Guardandola risuonavano nel mio cuore le parole che il profeta Isaia riferite al Servo sofferente:
“Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?

É cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza nè bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto.
Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenza, si è addosato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, precorso da Dio e umiliato
.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbatuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”

Fatima come Gesú porta la nostra croce. Lei, così piccola “completa nella sua carne ciò che manca alle sofferenze di Cristo” come ci ricorda San Paolo.
Essendo completamente innocente porta sopra di se tutto il peso dei nostri peccati, come Gesú, senza che per questo la sua anima rimanga minimamente macchiata. Al contrario, lei, così piccola e con pochi mesi di vita appare piena di grazia davanti agli occhi del Padre Eterno; adulta a causa delle sofferenze sopportate, bella e raggiante dopo di essere stata purificata come l'oro con il fuoco del dolore.
Alla mamma di Fatima guardo con ammirazione. Lei come la Vergine Maria è stata scelta da Dio per accompagnare la sua piccola figlia fino al calvario.
E lì, in piedi, guarda il corpo crocifisso del figlio senza comprendere misteriosi disegni di Dio.
Lì ai piedi come la Madonna, carica di amore consegna giorno e notte la sua vita per la piccola Fatima.

A Fatima la mia gratitudine e riconoscenza per la sua innocenza e grandezza davanti al dolore perché grazie alle sue ferite io sono stata sanata.
Non per casualità, oh Signore, hai mandato questo angelo davanti ai miei occhi nei vesperi de mercoledi delle ceneri. Ora ti contemplo faccia a faccia.
Suor Carmen
Carissimi, la piccola Fatima di 18 mesi è morta. Il suo corpo martoriato e il suo volto completamente distrutto dal cancro, adesso finalmente è trasfigurato, come ci ricordava il vangelo di domenica. La mamma è distrutta, solo Gesú, che per la prima volta ha ricevuto domenica (vedi foto) la consola... e il mio povero amor di padre.
C'è un'ultima amarezza: Fatima è una delle tante vittime innocenti dei proprietari terrieri della soia che sistematicamente spargono potenti prodotti chimici come insetticidi, con l’aereo, sulle immense distese di soia. Le denunce non servono a nulla, nonostante la documentazione medica con la grande lista dei bambini nati malformati, o come le piccole Fatima con il volto distrutto dal cancro, dopo un anno di atroci deliri.
 L’uomo non conta piú niente, meno i bambini. Solo Gesù e chi è innamorato di Gesù può capire il nostro immenso dolore. Vi chiedo di pregare. Fatima vittima innocente perdonaci.
Con affetto, P. Aldo Trento


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santi, padre trento

sabato, 01 marzo 2008

Madeleine Delbrêl 1904-1964

                                    ***
Tratto da Antonio Maria Sicari, Il sesto libro dei ritratti di santi, Jaca Book, Milano, 2000,
Il secolo XX, appena trascorso, si aprì con uno slogan molto triste: «Dio è morto», aveva lasciato detto Nietzsche, credendo di annunciare la nascita di un uomo finalmente «superiore».
Ma, già nei primi vent'anni, due terribili sventure (la prima guerra mondiale che provocò nove milioni di morti e un'epidemia che ne uccise altri ventidue milioni) mostravano che era l'uomo che continuava a morire, e spesso in maniera assurda.
Nel 1921 Madeleine Delbrêl ha diciassette anni, e scrive un tema di un impressionante radicalismo che inizia così: «Dio è morto. Ma, se ciò è vero, bisogna avere la lucidità di non vivere più come se Dio esistesse ancora». La ragazza è spietata: se Dio è morto, allora a dominare è la morte e bisogna prenderne atto coraggiosamente. Scrive: «Io sono stupita dalla generale mancanza di buon senso». Secondo lei, i rivoluzionari «sono interessanti, ma hanno capito male il problema», perché vogliono un mondo nuovo senza pensare che, poi, bisogna comunque abbandonarlo. Gli scienziati «sono un po' bambini», perché sperano, con le loro ricerche e i loro ritrovati, di riuscire a debellare la morte, e invece riescono ad uccidere soltanto alcuni modi di morire: «la morte, per quanto la riguarda, sta benissimo». I pacifisti «sono simpatici, ma sono deboli nel calcolo» perché, se anche fossero riusciti ad impedire la prima guerra mondiale del 1915-1918, tutti i morti allora risparmiati sarebbero poi deceduti infallibilmente entro il 1998. La gente perbene «manca di modestia», perché vuol migliorare la vita senza accorgersi che «più la vita è buona, più diventa duro morire». Gli innamorati «sono radicalmente illogici e restii a ragionare»: si promettono amore eterno, ma diventano «sempre più infedeli» perché, ad ogni giorno che passa, si avvicinano sempre di più all'estremo abbandono. E annota: «Io non vorrei restare vicino, da vecchia, all'uomo che dovessi amare: vedrebbe cadere i miei denti, raggrinzirsi la mia pelle, e il mio corpo mutarsi in un'otre o in un fico secco». Le mamme poi «sarebbero pronte ad inventare la felicità», pur di assicurarla ai loro figli, i quali, però, se anche non diventeranno «carne da cannone», diventeranno pur sempre «carne da morte». Perciò conclude: «
Io non voglio avere bambini. È già abbastanza che segua tutti i giorni in anticipo i funerali dei miei genitori».
Per Madeleine insomma le uniche persone serie sono gli artigiani e gli artisti, che fanno cose che durano come le sedie, i quadri, le poesie... Poi ci sono quelli «che ammazzano il tempo, aspettando che il tempo ammazzi loro...». «Io sono una di queste...», conclude. Così si presenta dunque Madeleine a diciassette anni: il componimento, che abbiamo dovuto sintetizzare, è scritto magnificamente: meriterebbe una lettura integrale, tanto è ricco di annotazioni geniali, di sorrisi addolorati, di lucida disperazione.
S'intuisce una sconfinata voglia di vivere e una inesauribile voglia di amare, ma in un cuore che ha imparato di non dover attendere nulla, di non aver nemmeno il diritto di dire «addio!», dato che la parola contiene già quel Nome di un morto («Dio!») che ha trascinato via tutto con sé.
«Anche le parole Dio si è portato via», dice proclamando l'ultima evidenza, come se scoppiasse a piangere. E conclude il suo tema: «Si può dire a un morente, senza mancare di tatto, “buongiorno” o “buonasera”? Allora gli si dice: arrivederci” o “addio”, ... finché non si sarà imparato a dire: “a non vederci più in alcun luogo...”, “al nulla assoluto”». Che ne sarà di una ragazza così? Madeleine ha una vitalità prorompente e non pensa certo a lasciarsi andare.
Con le amiche più care, in un bel giorno di primavera, sceglie «la sua vocazione»: «restare sempre giovani, qualunque cosa accada, per quanti anni passino!...». A diciott'anni s'innamora: lui, Jean, è alto, sportivo, serio, pieno di interessi, intellettualmente e politicamente impegnato ed evidentemente dotato di una profonda vita spirituale. Fanno coppia fissa e tutti dicono che sembrano nati l'uno per l'altra... Improvvisamente il ragazzo scompare: sconvolta, Madeleine viene a sapere che Jean è entrato nel noviziato dei domenicani, ed è una separazione assoluta. Non capisce. Il suo anticlericalismo si riaccende violento, e per di più anche in famiglia la sofferenza dilaga: il papà di Madeleine — ferroviere e poeta mancato — diventa cieco e va gridando la sua angoscia perfino per le strade, per le quali si trascina disperato come un barbone. «In quel momento», confessa, «avrei dato tutto l'universo, pur di sapere che cosa ci facevo dentro!». Il problema della fede si pone, ma non perché ella sia in cerca di conforto. Scrive: «Cento mondi, ancora più disperati di quello in cui vivevo, non mi avrebbero fatto vacillare, se mi avessero proposto la fede come consolazione». A perseguitarla è, invece, il ricordo della bella umanità di Jean e di altri amici conosciuti in quel periodo felice: «Mi era accaduto l'incontro con parecchi cristiani né più vecchi, né più stupidi, né più idealisti di me, che vivevano la mia stessa vita, discutevano quanto me, danzavano quanto me. Anzi, avevano al loro attivo alcune superiorità: lavoravano più di me, avevano una formazione scientifica e tecnica che io non avevo, convinzioni politiche che io non avevo... Parlavano di tutto, ma anche di Dio che pareva essere a loro indispensabile come l'aria. Erano a loro agio con tutti, ma – con una impertinenza che arrivava fino a scusarsene – mescolavano in tutte le discussioni, nei progetti e nei ricordi, parole, idee, messe a punto di Gesù Cristo. Cristo avrebbero potuto invitarlo a sedersi, non sarebbe sembrato più vivo...».
E tra tutti quei cristiani che l'hanno costretta a pensare, un posto di rilievo l'ha certamente quel Jean che ha considerato Dio talmente reale da lasciare lei. La ragazza diciassettenne che aveva formulato in maniera durissima e consequenziale il suo ateismo è ora una ventenne costretta a compiere un percorso inaspettato. Prima guardava il mondo convinta che tutto dimostrasse la non esistenza di Dio e, se si faceva qualche domanda, essa suonava così: «Come si conferma l'inesistenza di Dio?»; ora la domanda diventa: «Dio potrebbe forse esistere?». Ma capisce di conseguenza che, se cambia la domanda, deve cambiare anche il suo atteggiamento interiore. Ricorda allora che «in occasione di un baccano qualsiasi, era stata ricordata Teresa d'Avila che consigliava di pensare in silenzio a Dio cinque minuti ogni giorno». Ed ecco la conclusione: «Scelsi quel che mi sembrava tradurre meglio il mio cambiamento di prospettiva: decisi di pregare!». Un simile racconto di conversione tocca delle notevoli profondità pedagogiche. Madeleine non prega perché si è convertita, prega perché quello è l'unico atteggiamento possibile ed onesto, una volta accettata l'ipotesi che Dio potrebbe esistere. Il suo non è il risultato di una convinzione acquisita (e quindi, in qualche modo, necessitato), ma il regalo anticipato a un Dio che, se esiste, è Tutto. Il Tutto merita tutto, anche se si ha soltanto il presentimento del suo esistere. E Madeleine non prega solo cinque minuti, ma affonda nella preghiera. E lo fa in ginocchio perché vuole essere sicura di farlo realmente, anche col corpo e non soltanto con le idee. Ecco la sua conversione: si è gettata di colpo nel centro della fede; ha abbracciato impetuosamente Dio e si è lasciata abbracciare, senza nemmeno esser certa che le braccia di Lui, nel buio, fossero protese. Si è gettata e si è trovata immersa nella luce, nel fuoco. Più tardi userà volentieri il termine: «abbagliamento», e dirà: «poi, leggendo e riflettendo, ho trovato Dio; ma pregando “ho creduto” che Dio mi trovasse, e che Egli è la verità vivente che si può amare come si ama una persona». Quasi echeggiando sant'Agostino, dialogherà con l'Altissimo, colma di stupore: «Tu vivevi e io non ne sapevo niente. Avevi fatto il mio cuore a tua misura, la mia vita per durare quanto Te e, poiché non eri presente, il mondo intero mi appariva piccolo e stupido e il destino degli uomini insulso e cattivo. Ma, quando ho saputo che vivevi, t'ho ringraziato d'avermi fatto vivere, t'ho ringraziato per la vita del mondo intero». Dopo una simile esperienza, sembra esserci una sola vocazione possibile: vivere in modo che la preghiera diventi tutta la vita. E infatti Madeleine pensa subito di entrare al Carmelo. Ma si accorge che è lo stesso Dio a tenerla legata a una situazione familiare irrisolvibile, dato che il papà sprofonda sempre più nelle sue angosce e la mamma è al limite della resistenza. Ma se il Carmelo non è possibile, allora ne segue inevitabilmente che il mondo dovrà diventare il suo Carmelo, il suo monastero. Comincia imbevendosi degli scritti di santa Teresa e di san Giovanni della Croce, poi frequenta la sua parrocchia come una cristiana qualsiasi, e qui le viene incontro, come un dono, un prete straordinario: Padre Lorenzo, «un prete che voleva essere soltanto prete» e che «insegnava a vivere il Vangelo dappertutto» facendolo diventare «una chiamata attuale, una chiamata personale» per ogni ascoltatore. Madeleine lo definiva: «il Buon Samaritano della Parola», perché la donava come guarigione e salvezza a tutti coloro che incontrava per strada. Si faceva compagno a tutti, ma poi li educava, uno per uno, a saper «restare soli col Signore Gesù» per lasciare Dio libero di agire a suo piacimento. In quei primi anni di “vita cristiana” ella è appassionata di letteratura: pubblica saggi e libri di poesie (ottenendo anche un prestigioso premio letterario), che hanno a tema ciò che è “umilmente doloroso”, ciò che si muove a fatica nelle strade desolate della città. Ma ecco che padre Lorenzo le propone di impegnarsi nel movimento scout, quanto di più lontano ella poteva immaginare dalle sue passate preoccupazioni intellettuali e artistiche.
Deve imparare giochi, canti, esercizi fisici per guidare la sua squadriglia e dimostra una vivacità instancabile e un'intelligenza pedagogica così sicura che ben presto le affidano l'educazione delle ragazze più grandi, destinate ad essere responsabili, e la sua parola d'ordine è «gioia».
Dallo scoutismo, con una ventina di ragazze, passa poi a formare un gruppo detto «Carità», nel ricordo dell'impresa di san Vincenzo de' Paoli che aveva dato questo nome alle comunità di donne che si prendevano cura dei malati e degli emarginati.
Ha un solo progetto chiaro: «Essere volontariamente di Dio, quanto una creatura umana può volere appartenere a colui che ama. Essere volontariamente proprietà di Dio, nella stessa maniera totale, esclusiva, definitiva, pubblica con cui lo diviene una religiosa che si consacra a Dio». In altre parole: ciò che di più profondo c'è nel sacramento del matrimonio e ciò che di più totale c'è nella vocazione religiosa, ella vuole viverlo nel mondo.
A tale scopo, la scelta della verginità è indiscutibile (e ciò rende necessario anche un orientamento contemplativo), ma ella vivrà tutto ciò senza allontanarsi dal mondo. Il suo progetto è di «far calare i consigli evangelici nella vita laica». Siamo in un tempo in cui l'accostamento di questi termini sembra ancora strano; non esistono ancora i moderni «istituti secolari» e non si immagina nemmeno la possibilità di una vita comune tra cristiani laici. Madeleine sceglie perciò un lavoro che la possa tenere a stretto contatto con i poveri, assoggettandosi agli studi necessari per divenire assistente sociale. Nel 1930 ciò significa essere destinate ai bassifondi delle città dove si ammassano poveri e operai, il vero proletariato, soggetto a sfruttamento, che pone nel marxismo le proprie speranze di riscatto. Così una decina di ragazze - senza voti religiosi, senza abito particolare e senza difese istituzionali - decidono di partire per la periferia di Parigi con l'intento di vivere assieme, lavorando in mezzo alla gente più povera, mettendo tutto in comune, senza avere alcuna proprietà (né personalmente né assieme). Formano una comunità «casta, povera e obbediente» che ha come unica regola l'approfondimento comunitario del Vangelo, e come unica struttura stabile il riferimento ad una responsabile. Secondo Madeleine, il gruppo deve essere così semplice e umile, nel normale tessuto della Chiesa, che quasi non bisognerebbe nemmeno vederlo.
Con un paragone dolcissimo, scrive: «Il mio sogno è che il nostro gruppo sia nella Chiesa come il filo di un vestito. Il filo tiene assieme i pezzi e nessuno lo vede, se non il sarto che ce l'ha messo. Se il filo si vede, allora il vestito è riuscito male». Prima che si riesca a realizzare l'impresa, il gruppetto si assottiglia molto: di dieci ragazze, ne restano tre. A Ivry (una cittadina vicino Parigi) offrono loro un «Centro di azione sociale» e le tre coraggiose fissano la loro partenza per il 15 ottobre 1933. La festa di santa Teresa d'Avila è stata scelta appositamente, perché è un monastero «nuovo» quello che vanno a fondare: è una vita contemplativa «nuova» quella che le attende. Partono con poche suppellettili e una statua della Madonna tra le braccia. Certi resoconti sulla situazione a Ivry, risalenti a quegli anni, ci fanno capire bene a cosa vanno incontro. Gli operai lavorano circa dodici ore al giorno, privi di ogni sicurezza sociale e sanitaria, oltreché di ogni previdenza; sono mal pagati, ammassati in alloggi fatiscenti. Le donne sono costrette anch'esse ad andare in fabbrica perché la famiglia possa sopravvivere. La salute è un lusso. Negli anni '40, nel quartiere più industrializzato della città, su quindicimila abitanti, se ne conteranno ancora 2000 ammalati di tubercolosi. L'alcoolismo diffuso è assieme una piaga e un rifugio. La Chiesa serve solo agli anziani; gli altri la frequentano soltanto per battesimi, matrimoni e funerali.
Di fatto Ivry è diventata “la capitale politica del Partito Comunista Francese”, sede del segretario generale del partito. Sugli edifici pubblici non c'è il tricolore, ma la bandiera rossa. I muri sono tappezzati di manifesti che invitano a film sovietici, conferenze ideologiche, battesimi civili, pasque rosse, e simili. L'amministrazione comunale - in fatto di alloggi e impieghi - privilegia gli iscritti al partito. Ci si saluta col pugno alzato, e i preti non si meravigliano troppo se per strada i monelli li prendono a sassate. Perfino i ragazzi nel gioco o nelle sassaiole - per marcare con chiarezza il solito antagonismo di squadra - attribuiscono agli avversari il nome di «preti», mentre tutti vorrebbero appartenere alla squadra dei «compagni». Madeleine è talmente estranea a un tale ambiente da ignorare perfino il significato della bandiera rossa. L'unica cosa che sa è che ha, davanti a sé, persone «non credenti e povere». Ciò che le tre ragazze desiderano - nella loro estrema e volontaria povertà - è «vivere gomito a gomito» con la gente, senza dissociarsi in nulla, se non nell'amore e nella fede. Rinunciano alla loro divisa da scout, quando s'accorgono che infastidisce e allontana gli altri, e poi fanno ciò che sanno fare. Madeleine è assistente sociale (o meglio: sta ancora studiando per diventarlo), una delle due compagne è infermiera, l'altra è maestra d'asilo. Cominciano a partecipare alle attività parrocchiali, ma s'accorgono che questo le emargina. Perciò vanno in mezzo alla gente, sfidando le ostilità. Fanno quello che possono, ma con fantasia tutta femminile. Un giorno che una famiglia povera le ha restituito in malo modo il pacco-dono (di scarso valore, del resto), Madeleine, per farsi perdonare, si presenta con un mazzo di rose e lo mette in braccio a una povera donna che non ne ha mai ricevute in vita sua... E il capo famiglia, arrabbiato militante comunista, le dice commosso: «Se la carità è questa, allora voglio proprio parlare di carità…”. Ed ecco che padre Lorenzo viene fortunatamente nominato parroco a Ivry e i cristiani, prima asserragliati in difesa, si mobilitano. La questione dei rapporti tra cattolici e comunisti non è teorizzata o discussa da Madeleine, ma risolta di schianto in base a un semplicissimo principio: «Dio non ha mai detto: Amerai il prossimo tuo come te stesso, eccetto i comunisti», perciò c'è solo da accogliere l'evidenza: i comunisti sono di fatto «il suo prossimo» più immediato. Perciò non li evita, come raccomandano i benpensanti, ed è pronta a riconoscere quel che c'è di buono - come aspirazione alla giustizia e dedizione reciproca - in quei rudi militanti della prima ora. E perfino pronta a un dialogo con loro quando si tratta di assistere i disoccupati. Si ferma soltanto quando si scontra col problema della violenza. I comunisti le spiegano che ci sono violenze così terribili e solidificate che non possono essere estirpate se non passando attraverso una violenza di segno contrario. Il Vangelo invece le dice di amare ogni uomo e tutti gli uomini senza alcuna eccezione. Madeleine legge e rilegge il Vangelo, e la contraddizione le appare sempre più evidente e irrisolvibile, ma è solo il primo colpo assestato alla sua istintiva generosità e voglia di giustizia. L'altro colpo è ancora più grave: i testi-guida del partito - che ella legge attentamente - insegnano che l'ateismo è essenziale alla lotta operaia, e che inculcarlo nelle anime dei giovani è lo scopo primario dell'educazione. «In quel tempo», racconta, «sussultai di paura per Dio, mio bene». E fu così che tra lei e il marxismo si scavò «un abisso incolmabile»: con il marxismo, non con i marxisti. La tentazione di cedere anche all'ideologia era stata però fortissima, perché le si era presentata ammantata d'amore per gli uomini. Ma il suo cuore, votato in profondità all'amore per Dio, aveva subito intuito l'inganno e aveva reagito. Con questi travagli, l'identità del gruppo si precisa. Nel 1938 Madeleine scrive un testo programmatico che resterà celebre (e che ella pubblica significativamente sulla rivista «Etudes Carmélitaines»). È intitolato: «Noi, gente della strada» e proclama che ci sono cristiani per i quali «la strada» - cioè: il pezzo di mondo in cui Dio, di volta in volta, li manda - «è il luogo della santità», come lo è il monastero per le persone consacrate. E' la vocazione specifica della «gente qualunque», in un «luogo qualunque», che svolge «un lavoro qualunque», assieme ad altri «uomini qualunque» e che, tuttavia, «si tuffa in Dio» con lo stesso movimento con cui «si immerge nel mondo». Ma dove trovare il silenzio che le claustrali custodiscono nei loro monasteri? Madeleine spiega che nel mondo non è certo difficile trovare «ammassi umani dove l'odio, la cupidigia, l'alcool segnano il peccato», ma proprio qui diventa possibile esperimentare «un silenzio di deserto nel quale il nostro cuore si raccoglie con facilità estrema». E dove trovare la solitudine? Risponde: «La nostra solitudine non è essere soli... La nostra solitudine è incontrare Dio dovunque». Insomma, a Madeleine Gesù non dice soltanto: «Seguimi!», ma: «Seguimi in strada!», e le chiede di camminare con Lui, a fianco di tutti i poveri della terra, soprattutto di quelli che non sanno più dove portino i sentieri dell'esistenza. Se, dunque, il monastero è per lei semplicemente il mondo - senza distinzione tra spazi sacri e profani -, nemmeno la preghiera deve più distinguersi dall'azione, non perché si dimentichino i tempi dell'orazione, ma perché anche l'azione diventi preghiera. A chi le obietta, secondo una mentalità assai diffusa, che non è possibile essere tutti di Dio quando si è chiamati a vivere da laici, in mezzo al mondo, Madeleine ribatte: «Non è concepibile che un Dio onnipotente, mentre vuole essere amato, dia ai suoi figli una vita nella quale non possano amarLo». Ritrovando i più begli insegnamenti di santa Teresa di Lisieux, ma compresi da laica, scrive: «Ogni piccola azione è un avvenimento immenso in cui ci è dato il paradiso e in cui possiamo dare il paradiso. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto questo non è che la scorza di una realtà splendida: l'incontro dell'anima con Dio, incontro ogni minuto rinnovato, ogni minuto che diventa, nella grazia, sempre più bello per il proprio Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Una informazione?... Eccola: è Dio che viene ad amarci. È l'ora di mettersi a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare». Anche Madeleine era affascinata dalla vocazione missionaria. Ma alla tradizionale descrizione del missionario vestito di bianco che sbarca su rive lontane e contempla la lunga distesa delle «terre non ancora battezzate», ella sostituisce un'altra immagine: “Il missionario, in abito o giacca o in impermeabile, dall'alto di una scalinata del metrò, vede di gradino in gradino, nell'ora di punta, una distesa di teste, distesa che freme aspettando l'apertura dei cancelli: una distesa di baschi, berretti, cappelli, copricapo di tutti i colori. Centinaia di teste, centinaia di anime. E noi lì in alto. E, più in alto, dappertutto, Dio...». E quando diceva che si poteva pregare ed essere missionari anche accalcati nel metrò, intendeva questo: «Signore, i miei occhi, le mie mani, la mia bocca sono tuoi. / Questa donna così triste davanti a me: ecco la mia bocca perché tu le sorrida. / Questo bambino quasi grigio, tanto è pallido: ecco i miei occhi perché tu lo guardi. / Quest'uomo così stanco: ecco tutto il mio corpo perché tu gli lasci il mio posto, ed ecco la mia bocca perché tu gli dica dolcemente: “Sedetevi”. / Questo ragazzo così fatuo, così sciocco, così duro, ecco il mio cuore perché tu lo ami, più di quanto non lo sia mai stato...». E, citando san Giovanni della Croce, spiegava: «Si semina Dio all'interno del mondo, sicuri che germoglierà da qualche parte, perché: “Dove non c'è amore, mettete amore e raccoglierete amore ». E venne il tempo della lotta, quando la Francia dovette reagire all'aggressione nazista e subire poi la sconfitta e l'occupazione...: la nazione sembrava distrutta e le città sembravano sfaldarsi. Perfino le più naturali appartenenze, sociali e familiari, sembravano essersi dissolte. Già nel corso della guerra, Madeleine diventa, a Ivry, un punto naturale di aggregazione nella lotta contro la miseria e il disfacimento, tanto che la città si tramuta in un geniale laboratorio di ricostruzione (soprattutto a favore delle famiglie) al quale si guarda da tutta la Francia. Perfino il «Soccorso Nazionale» guarda alla Delbrêl e alla sua équipe, e le chiede di preparare personale ausiliario per le assistenti sociali. Ella accetta, ma chiede di educare le giovani “sul campo”, cioè mettendole al lavoro. Si tratta di una “Veglia d'Armi” - così intitola un testo destinato alla loro formazione - in cui spiega che si tratta di imparare ad avvicinare «gente che è stata scorticata viva» e che perciò soffre solo a sfiorarla; gente che dev'essere incontrata «con dolcezza». Ma che cos'è la dolcezza? Spiega: «È ciò che riesce a toccare senza ferire», e vuole che le sue assistenti siano «esseri dolci che passano senza scalfire». Quando manda le sue giovani a «visitare le famiglie», le avverte che queste non hanno bisogno di essere visitate «come si ispeziona una valigia alla dogana»: bisogna andare a loro come genitori che visitano i figli, e fratelli che visitano i fratelli. È un lavoro stressante che esige coraggio a ritmo continuo (di coraggio «se ne consuma in un'ora quanto in altri tempi ne bastava per un anno») e che dura ininterrottamente fino alla Liberazione, che per altro non impedisce l'ultima atrocità: il bombardamento di Ivry accade dopo che le truppe tedesche sono già partite. Quando i comunisti tornano al potere, Madeleine spiega loro che è disposta a lavorare ancora, ma che il suo programma non cambierà, anche perché esso è assolutamente semplice e completo: «Quel che mi propongo è la diminuzione delle sofferenze e un accrescimento di felicità». Dopo due anni, lascia tuttavia il servizio sociale in municipio, sorprendendo tutti. Si è accorta che la sua piccola comunità risente della sua eccessiva attività. Ella conosce bene le urgenze sociali che premono da ogni lato e sente salire, da ogni parte, l'invocazione dei poveri... Ma la comunità - quella comunità ormai composta di una decina di donne che guardano a lei come a una guida e a una madre - è per lei «un sacramento della Presenza di Gesù». Il mondo non deve guardare a lei e alla sua personale bravura, ma alla piccola comunità di Cristo. Riconsegnandosi alla sua comunità, Madeleine vuole garantirsi di obbedire al Signore Gesù e non ai propri successi. La comunità vive in rue Raspail ed è «un enigma scientifico», come dice un'amica di passaggio. L'unica regola e l'unico ideale è la carità fraterna, come segno dell'amore di ciascuna a Cristo: ognuna poi lavora nel quartiere accanto ai più poveri, e la casa è un porto di mare perché la porta è sempre aperta ad ogni incontro, ad ogni dialogo, disponibile per ogni sostegno. E c'è perfino chi si aggiusta per riuscire a vivere nei dintorni di quella casa straordinaria: nel giardino, ad esempio, o nell'appartamentino vicino, o in una mansarda. Così la comunità si allarga a una congrega variopinta di «amici» e di «fratelli» che chiedono e danno solidarietà nei campi più disparati. Madeleine considera quella casa come una persona viva. La chiama «il signor Raspail» (dal nome della via) e la descrive così: «Il signor Raspail è un personaggio assai difficile da presentare... è un uomo di mezza età, né bene né male, piuttosto simpatico, piuttosto malvestito, dall'aria soddisfatta della sua sorte. Le persone lo giudicano rivoluzionario, i pettegoli pensano che sia un ex seminarista, i maldicenti suppongono che abbia costumi equivoci... Tanta gente va da lui e cerca la sua compagnia...». In tale strana compagnia, il compito proprio di Madeleine sembra quello di far sentire a ciascuno/a d'essere preferito/a: ella, infatti, sembra possedere una inesauribile tenerezza per tutti. «Madeleine è il solo essere al mondo che mi abbia amato in speranza», spiegava un ragazzo disadattato dopo averla incontrata, e illustrava così la sua splendida formula: «
Lei ha indovinato il mio vero io, sfigurato per tutti, sconosciuto perfino a me stesso, un io che io stesso odiavo perché mi sentivo incatenato... Grazie a lei io sono esistito, prima di esistere nella mia coscienza, quando ancora tutti gli altri mi ignoravano...». Non c'è nulla che Madeleine trascuri: può inventare un regalo, o una canzone o una scenetta comica, se ciò serve agli amici. Può immergersi nella preghiera, scrivere un articolo o una poesia, o dare una conferenza, o battersi per i diritti di qualche perseguitato politico: il tutto con la stessa foga e la stessa lucida intelligenza; il tutto con l'evidente «gioia di credere». Intanto la Francia ha un doloroso sussulto: scopre di essere diventata «una terra di missione» e il cardinale di Parigi pensa di affrontare il problema della scristianizzazione delle masse operaie come lo si affronta nei paesi di missione. Così a Lisieux viene aperto un seminario particolare - posto sotto la protezione di santa Teresa - che dovrà preparare un nuovo tipo di prete, capace di andare là dove la fede sembra non solo scomparsa, ma divenuta impossibile: nelle periferie più abbandonate, nei quartieri operai, nelle fabbriche. Madeleine esulta perché sembra che la sua originaria intuizione stia quasi per diventare un progetto che la Chiesa assume in proprio. La nuova esperienza si dilata, cresce vertiginosamente e dà origine al fenomeno dei preti che tentano di portare il Vangelo nelle fabbriche, facendosi essi stessi operai, condividendo le pene, le fatiche, le lotte dei lavoratori. Ma non è facile farlo senza schierarsi, senza condividere le lotte sociali e politiche, senza aderire al partito che rappresenta i lavoratori, senza cedere prima o poi all'ideologia marxista che impera, senza accettare la logica dello scontro e della violenza... Madeleine vede molti preti - ministri di quel Cristo che ella ama con tutta se stessa - cedere alla tentazione che ella ben conosce per averla già subita: quella di mettere a rischio la loro stessa vocazione, lasciandosi trascinare dagli «ingranaggi accecanti» della lotta di classe. Roma interviene e, con pronunciamenti successivi, sconfessa l'esperienza dei preti-operai, così come veniva allora condotta. Madeleine soffre fino in fondo all'anima: da un lato vorrebbe che quello sforzo generoso di preti generosi - che ella conosce personalmente ed ammira - venisse compreso e valorizzato, e non accetta i giudizi superficiali dei troppi benpensanti; dall'altro comprende ancor più le preoccupazioni della Chiesa che vede ideologizzato e reso di parte il suo ministero sacerdotale, e teme ormai per la fede dei suoi preti. Per conto suo ella ha maturato una convinzione: a quella esperienza straordinaria è mancato il sostegno della preghiera di tutti i cristiani. L'errore è stato di esporre così i preti, nella trincea più avanzata, senza che tutti i cristiani si stringessero assieme in una preghiera corale e intensissima per sostenerli. E un altro problema ancora ella vede: troppo scarso è l'amore alla Chiesa. Troppo poco gli uomini capiscono che «la Chiesa li ama» - anche la Chiesa considerata nei suoi aspetti istituzionali e gerarchici - e troppo poco questa Chiesa si preoccupa di far capire il suo amore per gli uomini. Nel 1952, sorprendendo tutti, Madeleine decide un viaggio lampo a Roma che per lei è «una specie di sacramento di Cristo-Chiesa». E' un vero pellegrinaggio, volutamente faticoso, che ella intraprende perché «certe grazie non si chiedono né si ottengono, per la Chiesa, se non a Roma». Due giorni e due notti in treno, tra andata e ritorno, per fermarsi nella città eterna dodici ore soltanto: le passa quasi tutte a san Pietro, pregando «a perdita di cuore». Racconterà poi: «Mi è apparso fino a che punto occorrerebbe che la Chiesa gerarchica fosse riconosciuta da tutti gli uomini come colei che li ama. Pietro: una pietra alla quale è chiesto di amare. Ho compreso quanto amore bisognerebbe far passare nei segni della Chiesa». Quando torna a Ivry viene a sapere che un amico prete, residente a Roma, venuto a conoscenza del suo viaggio, le aveva addirittura ottenuto una udienza dal papa, ma poi non era riuscito a contattarla e il papa aveva atteso invano. L'attaccamento di Madeleine alla Chiesa è indistruttibile. Ella ne parla sempre come del «Cristo-di-ora».
Nel corpo della Chiesa si deve essere soltanto «cellule viventi e amanti». «Quando si hanno ragioni per non capire», scrive, «bisogna pregare due volte, riflettere due volte, scusare due volte quel che non si capisce. Dove la nostra carità è messa in tentazione, bisogna volere due volte la carità». L'anno successivo, la tempesta si aggrava ancora; ella torna a Roma e questa volta può parlare al papa per qualche minuto. Nella breve risposta, il papa le ripete per tre volte la parola: «Apostolato». e Madeleine se ne torna via molto colpita da quella strana parola. In Francia la parola d'ordine è «missione», nessuno usa più il termine «apostolato», e Madeleine intuisce che c'è qualcosa di profetico nell'insistenza del pontefice. Si accorge che nel progetto di «missione», a cui anch'ella si è appassionata, c'è in primo piano l'annuncio della Buona Novella e la preoccupazione della salvezza degli uomini, ma che ne è della preoccupazione «per la gloria di Dio»? Che ne è della preoccupazione perché Dio sia adorato e amato, perché Dio «cessi di essere morto» per i marxisti?
Capisce così che una vera missione, condotta alla maniera degli apostoli, dovrà muoversi su due direttive: risvegliare in sé e nei credenti il senso dell'adorazione di Dio che vuole essere conosciuto e amato come una persona viva, e poi testimoniare questo attaccamento a Lui, occupandosi della salvezza del prossimo
. In fondo si tratta ancora dell'essenziale unità dei due più grandi comandamenti e delle necessarie priorità nell'amore. Per Madeleine è come scoprire in sé lo stesso amore di prima ai fratelli più poveri e a quelli che lottano - e agli stessi marxisti - ma rigenerato da una nuova maternità ecclesiale. In un suo celebre testo intitolato: «Città marxista, terra di missione», arriva a scrivere: «Se ti amo, comunista, non è malgrado la Chiesa, è grazie a lei e in lei!». Intanto il suo gruppo, la sua piccola comunità, è alla ricerca di una identità: tutti cominciano a chiedersi quale sia il «posto» che essa occupa nella Chiesa. C'è chi vorrebbe che Madeleine aggregasse la sua comunità a qualche ordine religioso già esistente o a qualche organizzazione ecclesiale. Come si può lasciare una comunità di vergini, protese all'amore di Cristo e al servizio ecclesiale, senza nessuna regola e nessuna salvaguardia giuridica? Per fortuna, a Roma, un monsignore francese che ha una qualche influenza protegge la comunità con la sua amicizia e la sua guida. Si chiama mons. Veuillot. In seguito diventerà Cardinale Segretario di Stato di Paolo VI. Nel 1956 costui pone a Madeleine la domanda decisiva: che cosa pensa «lei stessa, per lei stessa?». Di getto Madeleine scrive un testo in cui le frasi si susseguono tutte ritmate da un appassionato: «Avrei voluto...». «
Avrei voluto unicamente, appartenere interamente ed esclusivamente a Gesù, Nostro Signore e nostro Dio; avrei voluto provare a vivere il suo Vangelo, essere completamente disponibile alla sua volontà, nel più intimo della Chiesa e per la salvezza dell'uomo... Avrei voluto che ciò bastasse a spiegare tutto». Senza saperlo, però, Madeleine non sta soltanto offrendo alla Chiesa un fedele in più che prende sul serio la vocazione alla santità: sta descrivendo un «nuovo tipo di cristiano» tutto appartenente a Gesù e tutto innestato nel mondo. Oggi, perfino i Dizionari di Teologia già citano tale nuova «tipologia» offerta da Madeleine e sintetizzano il suo insegnamento in questo testo: «Quando teniamo il Vangelo tra le mani, dobbiamo pensare che lì abiti il Verbo che vuole farsi carne in noi, impadronirsi di noi, perché con il Suo cuore innestato nel nostro cuore e con il Suo Spirito comunicante col nostro spirito, noi diamo nuovo inizio alla Sua vita in un altro luogo, in un altro tempo, in un'altra società». E fu vivendo in prima persona questo ideale che ella divenne una maestra di preghiera: di una preghiera che poteva essere fatta dovunque e che poteva accompagnare il credente in ogni attimo della giornata Hans Urs von Balthasar - uno tra i più grandi teologi del nostro tempo - diceva che la personalità e gli scritti della Delbrêl manifestano qualità contrastanti e paradossali: da un lato una profonda serietà e dall'altro uno humour sorridente; da un lato un infantile «sapersi di Dio» e dall'altro uno forte realismo nelle analisi sociali e psicologiche; da un lato l'appartenenza ecclesiale vissuta fin nel midollo delle ossa e dall'altro un'assoluta libertà dai consueti clichés ecclesiastici. Ma spiegava che ella riusciva a tener uniti questi aspetti contrastanti in forza della qualità straordinaria della sua preghiera. Quando qualcuno domandava un colloquio a Madeleine, l'incontro cominciava sempre con qualche minuto di silenzio, il tempo che le occorreva per accendersi accuratamente una sigaretta. Solo i più intimi sapevano che quello era il tempo che ella si concedeva per pregare per la persona che aveva di fronte, prima di cominciare il dialogo. E se l'episodio fa sorridere, esso appartiene - dal vivo - allo stesso mondo che Madeleine ha descritto in un libretto di massime da lei attribuite ad Alcide, piccolo monaco che scopre ogni giorno l'incredibile saggezza che si acquista quando si vive in familiarità con Dio. «Per chi cerca Dio come lo cercava Mosè», spiega Alcide, «anche una scala può trasformarsi in Monte Sinai».
E il fatto di poter trovare Dio sempre, anche fumando una sigaretta, dipendeva dalla certezza che il piccolo monaco esprimeva così: «Se credi davvero che il Signore vive con te, dovunque hai un posto per vivere, hai un posto per pregare». L'importante era saper vincere l'errore più strano che noi commettiamo, quello che lo stesso Alcide indicava con la invocazione-domanda: «Mio Dio, se tu sei dappertutto, come mai io sono così spesso altrove?». Madeleine non voleva «essere altrove», nemmeno quando fumava una sigaretta. Negli ultimi anni di vita, ella ebbe la gioia di intravedere i tempi nuovi, anche se la questione dei «preti operai» - che si concludeva in quegli anni con la definitiva interdizione dell'esperienza - la faceva nuovamente soffrire. Dapprima la rallegrò l'avvento di papa Giovanni XXIII, così caritatevole e semplice che la faceva sentire - disse - «come una analfabeta del Vangelo». Poi la riempì d'entusiasmo la celebrazione del Concilio Vaticano II, riflettendo sul quale trova una delle sue espressioni più belle: «Il cristiano è “in stato di Chiesa” come è “in stato di grazia”».
Aveva solo sessant'anni e già si sentiva stanca, ma continuava a provare un'estrema ripugnanza al pensiero della morte. Diceva, sentendosi un po' in colpa: «Probabilmente sono stata battezzata a metà...», ma si consolava al pensiero che «anche Gesù provava una specie di indignazione ogni volta che si trovava davanti alla morte». Ma la sua capacità di immedesimazione amorosa negli altri era intatta. Una foto del luglio 1964 (tre mesi prima della morte) la mostra accoccolata a terra di fronte a una bambinetta, e tra loro c'è una trottola che gira. Il 13 ottobre 1964, a Roma - per la prima volta nella storia della Chiesa - un laico prendeva la parola nell'aula conciliare, per parlare a tutti i Vescovi del mondo sul tema dell'Apostolato dei laici... In quello stesso pomeriggio, a Ivry, Madeleine si accasciava sul suo tavolo da lavoro: se ne era andata senza disturbare nessuno...
Nel suo messale, le compagne trovarono alcune parole risalenti a dieci anni prima, e da lei scritte per commemorare il trentesimo anniversario della propria “conversione”.
Per segnare il proprio radicale abbandono a Dio, maturato in quegli anni, aveva scritto:     
IO VOGLIO CIO' CHE TU VUOI/               SENZA CHIEDERMI se lo posso/        SENZA CHIEDERMI se lo desidero/       SENZA CHIEDERMI se lo voglio”.
Il programma
che lasciava alle sue figlie e a innumerevoli amici - per giungere a tanta assolutezza - poteva essere espresso con una frase soltanto: “Leggere il vangelo – tenuto dalle mani della Chiesa – come si mangia il pane”

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santi, delbrel

domenica, 10 febbraio 2008
Non i discorsi ma la testimonianza dell’amicizia cristiana convertirono S. Agostino

Non i discorsi
 ma la testimonianza dell’amicizia cristiana convertirono S. Agostino
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L'incontro con uomini di questo tipo( Socci sta parlando dei discepoli di S. Martino di Tours) era decisivo per la conversione, sia del volgo, pagano e superstizioso, sia dei giovani, uomini e donne, delle classi colte cittadine. Le dettagliate pagine lasciate da Agostino fanno supporre che, anche dal punto di vista psicologico, accadeva allora qualcosa di molto simile a ciò che può accadere ad un uomo del nostro tempo.
Ecco come Agostino, a Milano, dopo aver ascoltato Ambrogio, descrive la sua condizione: «Non potevo più invocare la scusa di un tempo, quando solevo persuadermi che, se ancora mancavo di disprezzare il mondo e servire Te, era colpa dell'incerta percezione che avevo della verità. Ormai anche la verità era certa. (...) Mi disgustava la mia vita nel mondo. Era divenuta un grave peso per me, ora che non mi stimolavano più a sopportare un giogo così duro le passioni di un tempo: I 'attesa degli onori e del denaro. Ormai tutto ciò mi attraeva meno della dolcezza e della bellezza della Tua casa che ho amato. Ma ero stretto ancora da un legame tenace: la donna». Agostino si sente triste e angosciato: «Dovunque facevi brillare ai miei occhi la verità delle tue parole, ma io, certo della loro verità, non sapevo affatto cosa rispondere, se non, al più, qualche frase lenta e sonnolenta: "fra breve"... Però quel "breve" non aveva una breve durata e quell 'attendi un pochino" andava per Ie lunghe».
Come risolvere questa indecisione della ragione, cosi comprensibile anche per noi oggi? Decisivo e, per il grande intellettuale d'Ippona, un incontro casuale. Un suo amico, Ponticiano, gli racconta di aver conosciuto persone che si dedicavano a Dio nella verginità, facendo vita in comune. Agostino, in particolare, resta stupefatto dai due che Ponticiano aveva conosciuto a Treviri, che erano due soldati. II "contagio" della vita di Martino, dunque, arriva fino ad Agostino. Cosi per Agostino comincia I' avventura. Intuisce che l'amicizia e il modo semplice e umano con cui si comunica la stessa vita cristiana «<In qualunque cosa umana, nulla e amico all'uomo se egli non ha un amico»). Agostino e entusiasta della vita in comune, fra fratelli. Proprio lui diverrà così «il promotore per eccellenza della "vita apostolica" nel monachesimo latino» (Garcia M. Colombas)."
Antonio Socci da: Cristiani L’avventura umana di 14 Santi ed. Nuova Cultura

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amicizia, santi, sagostino



Il santo di febbraio
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Bianca Neve e i sette...
Doni dello Spirito Santo. Qualcuno avrà pensato: adesso P. Aldo vuole raccontarci la storia di Bianca Neve e i sette nani, ma non é cosí, per questo insieme ai puntini, puntini, puntini, aggiungo: I sette doni dello Spirito Santo, perché solamente chi possiede questi doni può vivere come ha vissuto Bianca Neve”. La sua storia é l’evidenza del miracolo, di quello che puó fare la grazia Divina attraverso i sette doni dello Spirito Santo, che qui voglio ricordare per quelli che li hanno dimenticati o che non ne hanno mai sentito nemmeno parlare: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timore di Dio.
Bianca Neve (che bel nome ... mi ricorda non solo una storia simpatica che quando ero piccolo mi raccontava mia madre, la notte, prima di andare a letto, ma alla neve bianca, molto bianca delle mie amate montagne
!). Bianca Neve é stata un'umile donna, che la malattia obbligò su una sedia a rotelle per 13 lunghi anni, impossibilitata a muoversi. L´unica forma che le rimaneva per comunicare era la parola, lo sguardo pieno di affetto e le mani, che con il tempo rimasero "mute", cioè immobili. Ha vissuto in un quartiere marginale, in un'umile casa, circondata dai suoi familiari e da sua figlia di 13 anni. Da giovane, aveva conseguito il diploma in scienze umanistiche; la fede, anima e respiro dei poveri di spirito, ha mosso tutta la sua vita, ma è diventata l’unica ragione della sua esistenza, quando un giorno, è rimasta paralizzata, assolutamente incapace di qualsiasi movimento.
Ancora giovane, ciò che per molti sarebbe stato un motivo di disperazione é diventata una ragione per vivere una vita più intensa ed impegnata, dalla sedia a rotelle creò una scuola per i bambini poveri ed analfabeti del quartiere. Tutti i giorni, circondata dai bambini, gli insegnava il catechismo, le preghiere, il gusto per la vita, inoltre, li aiutava nei compiti di scuola con una pazienza infinita. La testimonianza che, quando l´uomo vive l’esistenza come coscienza di essere relazione con il Mistero, di essere stato creato dal Signore, tutto si trasfigura, perche l'io ritrova quella unità persa con il peccato originale. Un'unità che si dilata, vivendo una solidarietá con il cosmo ed in particolare con il re del cosmo che é l’uomo stesso. Bianca Neve ha vissuto questa unità nella sua persona, un'unità ogni giorno più evidente grazie alla sua vita di fede, e perciò, in modo commovente e instancabile, completamente al servizio dei suoi bambini.
Con il tempo le sue condizioni sono peggiorate e il cancro si è impadronito di lei, ed a questa terribile malattia ne seguirono altre. La situazione diventava grave ed i medici le diagnosticavano 6 mesi di vita. La grande povertà non le permetteva di entrare in nessun sanatorio, ma la Provvidenza, che ama i suoi figli preferiti, i più umili e bisognosi, l’ha portata alla nostra clinica, dove adesso si trova anche suo fratello Pietro. É arrivata sorridente, nonostante il suo corpo era completamente rovinato. Già dal primo giorno il suo sorriso ha trasformato la sua camera in un tempio. Con tutti dimostrava una gentilezza ed una gratitudine impressionante. Non c’é una persona che si sia avvicinata a lei senza sentirsi provocata a un cambiamento. Era lei la presenza dello Spirito Santo con i suoi sette doni:
La pazienza, più grande che quella di Giacobbe, non le ha mai permesso di concedersi un piccolo lamento, neanche quando la morfina non riusciva più a calmare il suo dolore;  la sapienza le permetteva di gustare qualsiasi dettaglio; il dono del consiglio la spingeva ad incoraggiare chi, famigliare o no, si avvicina al suo letto; il dono della pietà trasforma il suo letto in un altare; il dono del timore di Dio era la coscienza chiara e intensa della tenerezza divina che trasformava il suo volto; il dono della fortezza le permetteva di affrontare tutto con sicurezza, nella certezza che tutto era grazia e che tutto era utile per testimoniare la gloria di Dio.
Prima di morire, dice a sua cognata:
non vedo l’ora che il Signore mi porti con sè, desidero che si compia la Sua volontà, desidero già essere con il mio Dio. Non si preoccupino per me, perché quando Dio dirà basta io sarò pronta per stare sempre con Lui”.
Pregava continuamente e, negli ultimi giorni, quando alternava momenti di lucidità ad altri di incoscienza, pregava, offriva. Personalmente sono stato testimone dell’ordine con il quale pregava l’“Ave Maria” e le preghiere che fin da piccola aveva imparato da sua madre. Quando passavo davanti al suo letto con il Santissimo Sacramento, tre volte al giorno, lei mi aspettava con le mani giunte, in posizione di supplica, di ringraziamento al Signore per il dono della vita e della malattia. Quando riceveva l’Eucarestia il suo volto si trasfigurava: era l’evidenza che lei e Cristo erano una sola cosa.
I famigliari, coscienti del dono della sua persona, non l’hanno lasciata sola un istante.
I suoi bambini, quelli del quartiere povero nel quale aveva vissuto la sua vita di madre e maestra, ogni giorno, volevano parlare con lei, purtroppo, la sua grave malattia non l’ha reso possibile. Ma questa intensitá di relazioni era l’evidenza che Bianca Neve era per loro la grande mamma e la buona maestra.
Quando è morta, dopo averla vegliata nella nostra clinica, é stata portata al suo quartiere perché i bambini, i bambini del quartiere volevano vederla, baciarla, salutarla, ringraziarla prima di lasciarla nella speranza della risurrezione. Bianca Neve, una grande persona sconosciuta al grande pubblico, appartiene a quella classe di persone nelle quali la santitá é vissuta come coscienza che qualsiasi cosa, qualsiasi istante é relazione con l’infinito, e perciò, segno in questa terra della bellezza e della misericordia divina.
Una goccia nell´oceano, direbbe qualcuno ... ma senza questa goccia l’oceano della vita sarebbe stato terribilmente più povero.
Grazie, Bianca Neve, eroina del istante, testimone di quello che puó la fede e la sofferenza vissuta come il sacrificio di Gesù nell’altare della croce.
Con affetto, P. Aldo Trento

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santi, padre trento

martedì, 29 gennaio 2008


Santa Francesca Saverio Cabrini
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
L'anno giubilare del 2000 non è solamente un tempo a cavallo fra il secondo e il terzo millennio, ma celebra anche il centocinquantesimo anniversario della nascita di Santa Francesca Saverio Cabrini avvenuta a Sant'Angelo in provincia di Lodi e il cinquantesimo anniversario della sua proclamazione a patrona di tutti gli emigranti del mondo (17 settembre 1950) da parte di papa Pio XII, che l'aveva canonizzata nel 1946.
In una biografia della Madre Cabrini, detta «la Santa degli Ita­liani in America», si leggono testualmente queste parole: «In quell’ 800 americano, madri e nonne, volendo intimorire il proprio frugolino troppo irrequieto, invece di nominare l’orco, gridavano: ‘Ecco un italiano!’ e subito il bimbo correva a cercare riparo nel loro grembo».
Sembra una annotazione di colore, ma sono tra le righe più tristi che siano state scritte sulle tragiche vicende dei nostri emigrati, tra la fine del secolo scorso e i primi decenni di questo secolo.
È l’epoca in cui i bar delle città americane espongono cartelli per avvertire che l’ingresso è vietato «a negri e italiani», dato che questi ultimi vengono considerati come «negri bianchi».
Tra il 1876 e il 1914 (alle soglie della prima guerra mondiale) emigrarono circa quattordici milioni di italiani, dicono le nostre sta­tistiche; «diciotto milioni!», ribattono i paesi che furono invasi dalle turbe dei nostri poveri. E l’intera popolazione italiana non superava allora i trenta milioni.
Nei testi di storia si parla delle grandi migrazioni dei popoli e dei tempi in cui intere popolazioni venivano ridotte in schiavitù, ma si sorvola sul fatto che in tutto simile fu allora la storia dei nostri emi­grati.
Italo Balbo ha scritto che tutti quei nostri connazionali - in­ghiottiti nelle miniere di carbone, nelle imprese di sterramento per le strade ferrate, nei pozzi di petrolio, nelle officine dell’industria si­derurgica, nei capannoni dell’industria tessile, nei cantieri per la co­struzione dei porti, nelle piantagioni di cotone e di tabacco - erano «l’Italia di nessuno», «un popolo anonimo di schiavi bianchi», «ma­teriale umano mercanteggiato a migliaia di capi».
Si calcola che nelle miniere il numero degli italiani superasse, a un certo punto, quello di tutti gli altri immigrati messi assieme. Giungevano a centinaia di migliaia all’anno, insidiati già alla parten­za e all’arrivo da loschi procacciatori che ne sfruttavano l’ignoranza e il bisogno, privi di ogni protezione, disponibili a tutto; e diventa­vano letteralmente il materiale umano su cui - come su detriti neces­sari, ma senza valore - si costruiva la potenza economica americana.
Vivevano in condizioni di incredibile degrado, affollati in alveari umani (fino a ottocento persone stipate in un piccolo edificio di cin­que piani), in condizioni di abbrutimento fisico e spesso anche mora­le. Col loro stesso genere di vita sembravano accreditare l’idea dell’i­taliano come di un semi-selvaggio, pronto alla rissa e alla violenza.
Vivevano senza scuole, senza ospedali, senza chiese, chiusi nelle loro «piccole italie», quartieri che proliferavano ai margini delle grandi città. E quasi sempre non erano nemmeno «piccole italie», perché i vari campanilismi le frazionavano e mettevano rissosamente i vari gruppi regionali gli uni contro gli altri. I ragazzi crescevano sul­le strade. Un destino di strilloni o Iustrascarpe attendeva i bambini (quando non diventavano procacciatori e guide di clienti ai vari bor­delli) e spesso un destino ancora più equivoco attendeva le ragazzi­ne. Quand’anche qualcuno li avesse voluti aiutare, l’impossibile co­municazione (quasi tutti erano analfabeti e si esprimevano solo in stretto dialetto) rendeva vano ogni tentativo di solidarietà.
Quelli che riuscivano a far fortuna (e molti cominciarono con ne­gozi di frutta e verdura o organizzandosi in cosche malavitose) si guardavano bene dal mescolarsi con i propri disprezzati connaziona­li, cercando piuttosto di far dimenticare la comune origine.
Un giorno del 1879 un deputato osò leggere al parlamento italia­no la lettera di un colono veneto: «Siamo qui come bestie: viviamo e moriamo senza preti, senza maestri, senza medici». I politici italiani chiudevano però gli occhi. Affrontavano il problema dell’emigrazio­ne dal punto di vista dell’ordine pubblico, con qualche provvedi­mento di polizia, ma senza nessuna intelligenza volta a immaginare forme di tutela economica e sociale.
Alcuni anni dopo - quando la Cabrini avrà fatto da sola, per amore di Cristo, quello che l’intero governo non aveva mai saputo fare - i politici, guardando indietro ai loro pseudo-provvedimenti le­gislativi, confesseranno: «Abbiamo sbagliato tutto».
Nemmeno la Chiesa cattolica d’America poteva fare qualcosa. Allora in tutta New York non vi erano più di venti preti che capisse­ro un po’ di italiano. E, ad aggravare le cose, i nostri emigrati trova­rono un costume, ad essi estraneo, che legava la frequenza alla chiesa con l’obbligo, già all’entrata, di contribuire economicamente al so­stegno delle attività parrocchiali. Erano già poveri e un simile costu­me sembrava loro ingiusto (chiamavano quell’elemosina: «la doga­na»). Per non dire poi che le sole organizzazioni italiane attive sul posto erano i circoli «Giordano Bruno», che avevano come unica preoccupazione quella di diffondere e mantenere un acceso anticleri­calismo.
Così finivano per non andare più in chiesa e per perdere anche gli ultimi brandelli di dignità spirituale e morale.

La casa di Francesca Saverio Cabrini a Lodi (Italia)
In Italia il problema era avvertito dal papa Leone XIII (che af­frontava il problema anche nella celebre enciclica Rerum novarum) e dal vescovo di Piacenza, Scalabrini, che aveva fondato una congre­gazione per la cura dei migranti.
Francesca Cabrini era una lodigiana che aveva desiderato fin da bambina la vita missionaria, sognando ad occhi aperti quando in ca­sa il papà leggeva ai figli, nelle lunghe sere, gli Annali della Propaga­zione della Fede. La piccola sognava allora la Cina misteriosa. Aveva perfino cominciato a non mangiare più dolci, quando s’era convinta che in Cina non ce ne fossero, e doveva dunque prepararsi.
Era divenuta, dopo numerose traversie, fondatrice di una picco­la congregazione religiosa con finalità missionarie, un progetto allora strano per un istituto femminile, e si sentiva pronta per dare inizio al suo antico sogno di fanciulla.
Incontrò il vescovo Scalabrini che cercò di farle cambiare idea descrivendole la condizione miseranda degli emigrati in America.
Confusa, Francesca decise di rimettere la decisione al papa Leo­ne XIII, che l’ascoltò a lungo, poi le disse con decisione: «Non in Oriente, Cabrini, ma in Occidente!». Fu per lei la parola stessa di Dio che le indicava la Sua volontà.
Aveva 39 anni, era malata ai polmoni e i medici le avevano pro­nosticato non più di due anni di vita.
Partì con sette compagne; sulla nave, su cui compì il primo viag­gio, c’erano in terza classe 900 emigranti.
Giunse a New York alla fine di marzo del 1889, sapendosi attesa dall’arcivescovo Corrigan e da una nobildonna americana (moglie di un conte italiano che era divenuto direttore del Metropolitan Mu­seum of Art); ma i due avevano intanto litigato, per divergenza di ve­dute e di programmi, e avevano scritto in Italia affinché la partenza delle suore venisse sospesa.
Risultato: nessuno attendeva le suore. Sbarcarono mentre piove­va a dirotto e giunsero, come Dio volle, fradice di pioggia e di stan­chezza, alla povera casa dei padri scalabriniani, i quali non sapevano proprio come ospitarle. Finirono in una sordida pensione vicino al quartiere cinese, dove i letti erano così luridi che non ebbero nem­meno il coraggio di coricarsi: restarono a rabbrividire sedute per ter­ra, con le spalle appoggiate al muro.
Quando, a giorno fatto, l’arcivescovo le ricevette, consigliò loro sbrigativamente di tornarsene là da dove erano venute. «Questo mai, Eccellenza - ribatté la Cabrini - Io sono qui per ordine della Santa Sede, e qui devo restare».
Alla fine, e con l’aiuto della contessa, la madre riuscì ad aprire un piccolo educandato per poche orfanelle, che chiamò: «Casa dei santi angeli».
Questo per la contessa. Per obbedire all’arcivescovo, invece, or­ganizzò una grande scuola per i bambini italiani. Era una scuola sui generis. I ragazzi giungevano a decine e decine; non c’era altro luogo per ospitarli che la povera chiesa degli scalabriniani e lì, tra una fun­zione e l’altra, in spazi ricavati nella cantoria, nella sacrestia, in an­goli di chiesa recintati con tende, si costituirono le classi. Le panche servivano da banchi, gli inginocchiatoi da cattedre.
L’insegnamento delle suore cominciava spesso col lavare e pettinare quelle schiere di ragazzini sudici e arruffati. Al pomeriggio c’e­ra la «dottrina», seguita dal gioco in un cortiletto affondato tra case alte e scure.
Nelle ore libere e fino a tardi, la Cabrini percorreva poi le viuzze fangose del quartiere italiano, alla ricerca di quei genitori che altri­menti non avrebbe mai conosciuto.
In un trafiletto del New York Sun, in data 30 giugno 1889, si leg­ge: «In queste ultime settimane, alcune donne, vestite come suore di carità, vanno percorrendo i quartieri italiani del Bend e della Little Italy, arrampicandosi per irte e strette scalinate, scendendo in spor­chi scantinati e in certi antri in cui nemmeno i poliziotti di New York osano entrare da soli».
Nonostante l’iniziale aiuto della contessa, il problema principale restava quello del denaro. Le suore si diedero allora a percorrere la città in lungo e in largo per cercare aiuti, rifiutando per principio ogni discriminazione.
In un ambiente dove regnava la divisione (tra gli stessi italiani separati per gruppi di famiglie e di campanili), dove i cattolici irlan­desi consideravano gli italiani come neopagani e dove i «nativi» si as­sociavano per organizzare «la protezione etnica», quelle suore si mossero con la dignità e la cordialità dell’amore.
Furono accolte oltre ogni speranza: bottegai d’ogni razza e reli­gione si affacciavano alla porta per chiamarle e riempirle di provvi­ste; uomini d’affari si decisero a staccare qualche assegno; i padroni dei mercati diedero ordini perché nessuno fermasse o maltrattasse quelle suorine coraggiose; perfino un falegname tedesco di religione ebraica cedette gratuitamente i mobili che servivano per arredare scuola e orfanotrofio; i nazionalisti irlandesi esigettero che i poliziot­ti fermassero il traffico, quando passavano le suore con le loro mas­serizie, perché «rappresentano il Papa»; e degli sconosciuti in tram mettevano loro in mano furtivamente qualche dollaro.
Intanto la «Casa dei santi angeli» s’era ingrandita e la frequenta­vano anche bambine negre, cinesi, mulatte.
Il 17 luglio 1889, per le vie di Little Italy sfilò una ordinata pro­cessione di trecentocinquanta bambini e bambine: queste con il velo e le coroncine; i ragazzi con il bracciale dell’associazione; a gruppi di trenta, con i loro bravi stendardi di san Luigi, sant’Agnese, sant’An­tonio.
Chi ancora ricorda certe processioni che un tempo si tenevano nelle nostre parrocchie, quando le associazioni erano fiorenti, può farsi un’idea della tenerezza di un simile quadro; ma mai potremo immaginare l’impressione di irlandesi e protestanti che vedevano sfi­lare in silenzio e decoro proprio quei ragazzi che erano abituati a considerare come ladruncoli sporchi e disordinati.
La prima battaglia era vinta, ma si era appena agli inizi.
Nello stesso mese Francesca tornò in Italia, per prendersi cura delle novizie della sua Congregazione. A Roma la raggiunse la noti­zia che i gesuiti d’America vendevano a buon prezzo una grande te­nuta in West Park, sulle sponde dell’Hudson, a 150 miglia da New York.
Tornò con altre sette suore e riuscì a mettere insieme i cinquemi­la dollari necessari per la caparra. Agli altri diecimila avrebbe pensa­to Dio. Fondò così la casa di formazione per l’Istituto, un collegio e perfino un ospizio per ragazze affette da tisi, la malattia che allora faceva strage tra i poveri.
La domanda nasce spontanea: ma come faceva a trovare il dena­ro? Si potrebbero dare mille risposte, fino a raccontare che se un be­nefattore si decideva a firmarle l’annuale assegno di trecento dollari, Francesca era capace di fermargli la mano sull’ultimo zero, con un sorriso, e poi - come era abituata a fare con i bambini - gli guidava la mano fino a tracciarne ancora uno. Non bisognava forse insegnare la carità come si insegna a leggere e scrivere?
Ma c’è un episodio che è giusto anticipare perché dà la misura del suo stile e della sua fede.
A New Orleans, nel 1892, la Madre incontra un ricchissimo av­venturiero siciliano che aveva fatto fortuna con navi, fabbriche di birra, compagnie d’assicurazione, imprese edilizie, ed era proprieta­rio inoltre di circa sedicimila ettari coltivati a cotone e a limoni.
Riassumiamo da una relazione del tempo, riportata nella biogra­fia di G. Dell’Ongaro.

 - «La sua visita mi onora, Madre Cabrini, di lei parla ormai tut­ta l’America. In cosa posso esserle utile?».
 - «In niente. Vorrei io essere utile a lei».
 - «Io non ho bisogno di nulla. Non chiedo nulla a nessuno, desi­dero solo che mi lascino fare in pace i miei affari...».
 - «Io invece non mi interesso di affari. Ma mi interessa la sua felicità. Mi hanno detto che lei è sposato, da molti anni. Non avete figli però. E triste».
 - «Purtroppo è così, mi piacciono i bambini, ma...».
 - «Peccato. Proprio peccato. Con tutte queste belle cose, nean­che un figlio a cui lasciarle... Si è mai chiesto, lei, il motivo di tanti doni piovutili dal cielo? Un motivo ci deve essere. Sono certa che il Signore ha formulato un bel progetto sul suo conto. Non sa quanta gioia possano dare i bambini!».
A questo punto l’uomo le rivela d’aver pensato qualche volta a una adozione, ma di averci sempre rinunciato per timore di trovarsi in contrasto con la moglie, e conclude:
 - «Mi lasci pensare, lasci che ne parli a mia moglie, e se Maria è d’accordo allora la chiamo e lei ci porta il bambino».
 - «Il bambino? chi ha parlato di un bambino solo? Perché uno solo?».
 - «E quanti me ne vorrebbe dare, Madre?».
 - «Cosa ne direbbe di sessantacinque, tanto per incominciare?».

L’uomo d’affari finì per finanziare un intero orfanotrofio. E quando, alcuni anni dopo, questo divenne troppo piccolo, le regalò ancora sessantacinquemila dollari, una cifra enorme per quei tempi.
Fondata la casa di West Park, la Cabrini tornò nuovamente in Italia, dove continuava a dirigere la sua Congregazione missionaria in rapido sviluppo. Vi restò alcuni mesi e ripartì ancora con altre ventotto suore, decisa ad accettare una nuova fondazione in Nicara­gua. Aprì così un collegio a Granada che, dopo quattro anni, venne spazzato via da una delle tante rivoluzioni centro-americane.
Da lì passò agli Stati Uniti meridionali dove l’attendeva l’impat­to più terribile. In Virginia, Carolina, Louisiana, emigravano nume­rosi italiani provenienti principalmente dalla Sicilia, che trovavano ad attenderli gente abituata agli odi razziali. La schiavitù era stata abolita ufficialmente solo da trent’anni e gli americani non si intene­rivano certo per quei «negri dalla pelle chiara» che erano per loro i nostri emigrati.
Ma i siciliani non erano passivi come i negri. Le cosche mafiose dei fratelli Matranga e dei fratelli Provenzano dominavano e si con-tendevano il «fronte del porto».
Nel 1890 il capo della polizia di New Orleans cadde in un aggua­to e diciannove italiani vennero incriminati. Non c’erano prove, ma alcuni cronisti, prima che il commissario spirasse all’ospedale, l’ave­vano udito mormorare: «m’hanno sparato i dagos» (termine dispre­giativo per «meridionale»).
Il processo tenne col fiato sospeso la nazione, ma i boss mafiosi, difesi dagli avvocati migliori, vennero tutti assolti nel marzo del 1891.
Ma se avevano abbastanza potere per difendere i loro picciotti dalla giustizia, i boss non ne avevano abbastanza per difenderli dall’odio popolare. Prima che fossero liberati, una folla inferocita di cir­ca diecimila persone, guidata dal vice-sindaco, aggredì le carceri e linciò i prigionieri: due vennero impiccati, due finiti a colpi di spran­ga, altri abbattuti coi fucili. I corpi vennero appesi agli alberi e ai lampioni.
Quasi metà dei giornali dell’Unione approvò il massacro e la ten­sione salì al punto che l’Italia ritirò il suo ambasciatore da Washing­ton. In seguito altri linciaggi si ebbero in altre due città della Loui­siana.
Nella città di New Orleans, lacerata da questi odi implacabili, Madre Cabrini giungeva il martedì santo del 1892. Comprese subito che bisognava partire dalle nuove generazioni, dare un altro volto e un’altra speranza a quelle torme di ragazzi che aspettavano di in­grossare le schiere della malavita, costringere la città a riconoscere la dignità di quella gente umiliata e temuta.
Le occorrevano almeno un orfanotrofio, una scuola e un convit­to. E almeno cinquantamila dollari, per cominciare.
Paradossalmente a New Orleans erano molti gli italiani che ave­vano fatto fortuna, divenuti capitani d’industria e padroni di azien­de; ma non ci tenevano affatto a farsi riconoscere come italiani. Cer­cavano, anzi, di far dimenticare in ogni modo le proprie origini.
        Francesca andò a scovarli uno per uno: il Rocchi, armatore mila­nese, i bresciani Marinoni, banchieri e proprietari di piantagioni di cotone, il napoletano Astrada, proprietario di famosi ristoranti, l’il­lustre clinico Formenti, la signora Bacigalupo, grossista di alimenta­ri, i Bevilacqua e Monteleone, negozianti di calzature di lusso, e quel ricchissimo capitano Pizzati, siciliano, di cui abbiamo già parlato.
Sono solo alcuni nomi che abbiamo voluto citare, tra molti altri, proprio perché risuonano ancora nelle nostre terre; quasi tutti compresero e apprezzarono l’intento della Cabrini: dimostrare, a quella città che apprezzava l’Italia (la sua musica, i suoi artisti), ma odiava
    gli italiani (ritenuti tutti mafiosi o potenziali delinquenti), che il vero problema era il disinteresse sociale in cui tutti quegli adolescenti venivano lasciati, senza nessuna cura e nessuna protezione.
      
L’orfanotrofio di Saint Philip Street divenne un centro sociale, sia per i ragazzi che vi erano ospitati, sia per altre centinaia che lo utiliz­zavano come oratorio, sia perfino per decine di ragazzi di ogni altra razza e colore.
       La cappella dell’istituto divenne la chiesa degli italiani e, anche in questo caso, fu una superba e ordinata processione in onore del
    Sacro Cuore - di quelle all’antica, che anche gli abitanti di New Orleans amavano molto - a sancire una ritrovata dignità; una processione con molti canti religiosi, e con tanto di «Va’, pensiero» che commosse perfino i bianchi «padroni», anche se in città ormai imperava il jazz.
       Per la prima volta sfilavano insieme i circoli, le società, le federa­zioni e gli altri gruppuscoli in cui gli italiani erano da tempo divisi e lacerati.
      
Nel 1905 scoppiò in città una epidemia di febbre gialla. Gli im­migrati di ogni razza e colore, nella loro ignoranza, rifiutavano medi­cine, trasgredivano ogni misura di igiene e di prevenzione, non volevano abbandonare case e luoghi infetti. Le suore di Francesca si assunsero il compito - girando casa per casa, rischiando la vita, e sacri­ficandola davvero in qualche caso - di convincerli di ciò che veniva disposto per il loro bene.
       Delle suore tutti si fidavano, e - quando l’epidemia fu vinta – a loro andò il pubblico ringraziamento non solo dell’intera città di New Orleans, ma perfino del governo degli Stati Uniti e di Roma.

Torniamo a New York.
Un settore della vita in cui la tragedia degli emigrati poteva esse­re quasi toccata con mano era il problema sanitario.
Poiché li consideravano come materiale umano, nessuno si preoccupava molto né di coloro che si ammalavano per le disumane condizioni di vita, né delle vittime di quella che venne chiamata «strage industriale» (centinaia e centinaia di feriti sul lavoro), né del fatto che non esistessero ospedali dove gli emigranti potessero essere accolti.
C’erano sì ospedali a pagamento, ma anche avendone la possibi­lità economica, nessuno voleva andarci. Quale ne era l’utilità per gli ammalati che non riuscivano nemmeno a farsi capire quando cerca­vano di spiegare i sintomi del male in quel gergo che mescolava assie­me - spesso per assonanza - il dialetto originale e lo slang dei bassi­fondi americani?
Ai ricoverati sembrava d’entrare prima del tempo in una prigio­ne o in obitorio - tutto era così freddo e asettico! - e spesso perdevano perfino la speranza senza la parola di conforto di una suora o di un prete.
Preferivano morire nelle loro casupole, senza cure né pulizia, ma con un po’ di tenerezza.
Certo, mettendo assieme le forze, gli italiani avrebbero potuto avere un ospedale per loro; lo stesso governo americano li avrebbe aiutati e anche il governo italiano era disposto a fare qualcosa.
I progetti non mancavano, e si può dire che l’argomento fosse di quelli che teneva più banco nei sogni e nelle discussioni di tutti, ma ogni tentativo era miseramente fallito: ci sarebbe voluto un ospedale per i siciliani, uno per i napoletani, uno per i calabresi, uno per i lom­bardi e via di questo passo. A ognuno importava solo dei suoi corre­gionali, quando non ci si fermava ai soli compaesani.
A dire il vero, si era riusciti ad aprire un «Ospedale Giuseppe Garibaldi» - nella speranza che l’Eroe dei due mondi mettesse tutti d’accordo - ma il Commissario generale per l’Emigrazione dovette riconoscere, sconfortato, che là dentro «i dottori italiani litigavano dodici mesi all’anno» e i soldi raccolti per mantenere l’ospedale in at­tività si volatilizzavano inspiegabilmente.
Francesca sentiva, con un certo fastidio, che gli occhi e le spe­ranze si volgevano verso di lei, ma non si sentiva tagliata per quel compito.
D’altronde ne aveva già abbastanza di pensare a scuole e orfano­trofi!
Poi accaddero due episodi che nella sua coscienza lei percepì co­me due voci - una dalla terra e una dal cielo - che le chiedevano am­bedue obbedienza alla volontà di Dio.
La voce terrena le giunse dal racconto di due suore che erano an­date a fare una visita all’ospedale cittadino e s’erano sentite chiama­re da un ragazzo che, gettato lì da alcuni mesi, s’era messo a piangere sentendole per caso parlare nella sua lingua. Da tre mesi aveva sotto il cuscino una lettera dall’Italia, ma era analfabeta e nessuno gliel’a­veva potuta leggere. Anche le suore, del resto, solo con molta fatica, riuscirono a leggere la lettera che annunciava al ragazzo che la mam­ma, al paese, era morta all’improvviso.
E per tre mesi lui aveva posato il capo su quella notizia che non riusciva a farsi voce.
Francesca pianse a lungo. Poi la notte sognò - e fu la voce prove­niente dal cielo - una corsia d’ospedale in cui una dolce e bellissima signora si aggirava tra i letti, con incredibile tenerezza, e accarezza­va i malati e rimboccava le coperte. Capì subito, nel sogno (o nella visione, chissà!), che era la Vergine Santa e si precipitò ad aiutarla. Non toccava a lei, la Regina del cielo, fare l’inserviente dei malati! Ma la Madonna - sempre nel sogno - l’aveva guardata con un po’ di tristezza in fondo agli occhi e le aveva detto: «Faccio io quello che non vuoi fare tu!».
La mattina dopo Francesca aveva già deciso di destinare a quel compito dieci delle sue suore.
In un primo tempo cercò di rilevare e far funzionare un ospizio cui avevano già messo mano gli Scalabriniani, ma che navigava in cattive acque.
Quando s’accorse che con quella gestione ci avrebbe rimesso molto denaro, fece un colpo di mano. Affittò due case, comprò alcu­ni letti, mise le suore all’opera per confezionare dei materassi, e poi trasferì di nascosto i malati (ognuno con le sue posate nascoste sotto le coperte) e qualche flacone di medicinali nella nuova sede. Le suore avrebbero dormito su materassi posti a terra, avvolte nei cappotti.
Cominciò così - nel 1892, centenario della scoperta dell’Ameri­ca - il Columbus Hospital, con due medici americani che prestavano gratuitamente la loro opera, affascinati com’erano dal coraggio di quella donna. Il mantenimento fu sempre più garantito da mille rivo­li di carità che Francesca sapeva fare emergere e scorrere senza inter­ruzione, fin quando non vennero anche le sovvenzioni statali.
In pochi anni le cabriniane furono conosciute dovunque come «le suore di Colombo». Nel 1896 si potevano contare seicentoquin­dici ricoveri gratuiti; nei primi trent’anni di vita l’ospedale si prese cura di circa centocinquantamila ammalati.
«Ma questo è Italia!», esclamò allibito il Commissario del Gover­no italiano per l’Emigrazione, vedendo il clima meridionale che re­gnava in quella casa di cura: poi attese che gli presentassero la Ma­dre, con tutto il sussiego di una persona importante, venuta per «rendersi conto della situazione e riferire a chi di dovere».
Restò impressionato dagli occhi penetranti, indagatori, di lei e da una specie di energia indomabile che emanava da quella figura ap­parentemente fragile. Ma ancor più lo fu quando si sentì dire con una franchezza che non ammetteva replica: «Voi discutete troppo! Non è necessario discutere molto sulla necessità di proteggere gli emigrati: questa protezione bisogna farla! Io non discuto; trovo che un bene dev’essere fatto? Mi metto subito all’opera col mio piccolo istituto e non dispero mai di trovare i mezzi, perché ho fiducia che in un modo o nell’altro li troverò sempre».
Qualche anno dopo lo stesso Commissario, divenuto ormai un amico e un entusiastico ammiratore, le dirà: «Madre Cabrini, fa più lei per gli emigrati italiani che tutto il Ministero degli Esteri messo assieme».
Nel 1903 costruì un altro ospedale a Chicago, adattando un al­bergo di lusso acquistato per centoventimila dollari, quando era in grado di versarne solo un acconto di diecimila, raccolti tra gli italiani dell’intera città.
Lasciò in mano la ristrutturazione ad alcune sue suore che furo­no ingannate da impresari senza scrupoli, che le coinvolsero in lavori inutili e malfatti e provocarono debiti paurosi.

Basilica Cabriniana
Francesca tornò dopo dieci mesi, quando ormai tutto sembrava perduto. Ma lei non si perse d’animo, licenziò imprenditori, archi­tetti, muratori, e si mise a rifare tutto ingaggiando, ai suoi diretti co­mandi, nuove schiere di muratori, falegnami, idraulici. Si scontrò con le cosche mafiose dell’Illinois: ricevette minacce e avvertimenti. Era d’inverno quando le tagliarono i tubi dell’acqua, sì che il pian­terreno si coprì di un tale strato di ghiaccio che ci vollero i picconi per romperlo; le incendiarono gli scantinati, poi minacciarono di far saltare tutto con la dinamite. Quando nessuno ancora se lo aspetta­va, perché i lavori non erano conclusi, ci trasferì dentro gli infermi:
«Vediamo - disse - se faranno saltare in aria i malati!». La lasciaro­no stare. Ebbe partita vinta e prima di ripartire poté perfino dettare un regolamento per il servizio interno di medici e infermieri.
Sembrava indistruttibile al punto che le avevano dato l’affettuo­so nomignolo di «Suor moto perpetuo».
Un giorno che viaggiava in ferrovia, nel Colorado infestato di banditi, il treno venne attaccato. Un proiettile penetrò nello scom­partimento di Francesca e sembrava dirigersi dritto verso di lei, ma deviò senza colpirla: «Non vi colpirebbero neanche se vi sparassero in faccia», le disse ammirato un ferroviere. Ed era proprio l’impres­sione che dava ogni volta che affrontava una difficoltà o un pericolo.
Dobbiamo rinunciare a raccontare tante storie che colpiscono l’immaginazione solo ad accennarle.
Ecco soltanto alcuni nomi e date principali.
1896: fonda un collegio a Buenos Aires, dove arriva dopo aver attraversato le Ande salendo a dorso di mulo fino ai quattromila me­tri; 1898: apre tre nuove scuole a New York, un collegio a Parigi e uno a Madrid; 1900: altre fondazioni a Buenos Aires e un collegio a Rosario de Santa Fè; una scuola a Londra e una casa a Denver nel Colorado; 1903: oltre al Columbus Hospital di Chicago, dà inizio a un orfanotrofio a Seattle; 1905: apre un orfanotrofio a Los Angeles; 1907: fonda un collegio a Rio de Janeiro; 1909: apre un altro ospeda­le a Chicago; 1911: apre una scuola a Philadelphia; 1914: un orfanotrofio a Dobs Feny in New York; 1915: un sanatorio a Seattle. Per non nominare le fondazioni italiane, come l’Istituto Superiore di Magistero a Roma, e un collegio a Genova e a Torino, tra un viaggio e l’altro.
Il tutto, in numeri: trentasette anni di attività con la fondazione di sessantasette istituti; percorrendo quarantatremila miglia per ma­re (scherzando sulle sue origini contadine, Francesca chiamava l’A­tlantico: «la strada dell’orto») e sedicimila per terra.
Ma i numeri nulla dicono ancora dell’ampiezza dell’apostolato delle cabriniane. Basta ricordare che Francesca ne condusse alcune fin dentro le miniere di Denver, a novecento piedi di profondità, preparandole con accorata dolcezza: «Non sarà difficile parlare ai minatori del Paradiso, dato che all’inferno ci sono già!».
E da allora destinerà sempre alcune delle sue figlie al servizio di coloro che erano «senz’aria e senza famiglia».
Come ne condusse altre fino a Sing Sing, dove non pochi con­dannati italiani - incapaci di difendersi, come i malati di spiegare le loro malattie - si maceravano nell’odio e nella disperazione.
Le suore si preoccuparono soprattutto di mantenere i legami, al­trimenti impossibili, tra i prigionieri e le loro famiglie.
E i carcerati piansero quando seppero che Francesca si era dispe­ratamente battuta per ottenere il rinvio dell’esecuzione capitale di un ragazzo, figlio unico, che non voleva morire senza avere rivisto la mamma e senza averle chiesto perdono d’averla abbandonata sola al paese; Francesca l’aveva fatta venire dall’Italia, pagando le spese del lungo viaggio, conducendo con infinita tenerezza quella povera don­na avvolta nel suo scialle nero di contadina.
Ci è mancato intanto il tempo di raccontare di che tempra fosse­ro quelle intrepide suorine che la Madre conduceva con sé, a gruppi sempre più folti, ogni volta che tornava da un viaggio in Italia.
Ci basti, per intuirlo, un solo episodio: sul molo, in attesa di im­barcarsi per l’America, una suora spiega piamente ai parenti accorsi a salutarla: «Faccio volentieri questo grave sacrificio di partire per l’America!». Francesca è li accanto e l’interrompe di botto: «Iddio non vuole importi sacrifici così gravi, figliola, resta!». E la sostituì immediatamente con un’altra.
Durezza? No: realismo. Lo stesso realismo che non riteneva nul­la impossibile, le diceva che nulla si poteva intraprendere senza una dedizione piena di gioia e senza essere completamente distaccati da sé, anche dai propri vezzi spirituali.

Perciò aveva un sistema pedagogico molto sicuro: «Quando visi­to qualche nostra casa e vedo delle facce lunghe, e noto una certa aria di abbattimento, di svogliatezza e di malumore, non chiedo al­l’una o all’altra: ‘Che hai o che non hai?’, metto in piedi qualche opera nuova che obblighi le suore a uscire da se stesse».

Dio solo sa cosa accadrebbe, e come si rinnoverebbero certi isti­tuti, se i rispettivi superiori e superiore trovassero il coraggio di adottare un simile criterio pedagogico!
Ci resta un’ultima cosa da dire. A volte certi «laici» amano ripe­tere con scherno che «non si governa con i padrenostri», e nemmeno con la «dottrina sociale» della Chiesa.
E tuttavia ci sono pagine di storia in cui la fede e la preghiera si dimostrano capaci di una operosità così concreta e multiforme, di una genialità sociale così sollecita (Sollicitudo rei socialis) e anticipa­trice da renderci certi che è proprio la mancanza di preghiera - e più a monte la mancanza di una vera fede - che lascia gli uomini nel più tragico egoismo, proprio quando vogliono governare i loro simili e inventare ricette di progresso sociale.
Un egoismo soprattutto «intellettuale», di una mente cioè inevi­tabilmente costretta a baloccarsi con se stessa e con i propri pregiu­dizi, e con il proprio piccolo «partito», per quanta estensione si im­magini di dargli. E, per necessaria conseguenza, anche una inevitabi­le ristrettezza mentale nel comprendere i problemi e nell’affrontare i bisogni, la ristrettezza di una mente priva dell’infinito respiro della preghiera e della fede.

Sant'Angelo Lodigiano:
Statua di Enrico Manfrini sul monumento dedicato a Santa Francesca Saverio Cabrini
«E troppo piccolo il mondo - diceva Francesca Cabrini - vorrei abbracciarlo tutto!». E non temeva - riesumando certi ricordi di scuola - di confessare: «Non mi darò pace finché sull’Istituto non tramonti mai il sole!».
E tuttavia - con la stessa identica verità - usava dire, come tanti altri Santi prima di lei: «Dio è tutto e io sono nulla».
La differenza - che veniva dai suoi «padrenostri» - era tutta qui: che lei immaginava di portare il suo Istituto in ogni angolo del mon­do, fino a che il sole non potesse mai tramontare su di esso, senza mai pensare né a se stessa né ai suoi progetti, ma solo desiderando di fare il possibile perché non ci fosse spazio alcuno dove non splendes­se quel Cristo che le struggeva il cuore.
«Gesù - usava ella dire con espressione bellissima - è per noi una beata necessità».
E credeva tutto possibile, perché ripeteva con san Paolo: «Io posso tutto in Colui che mi dà forza!».
Ai cristiani di allora e di oggi ella ricorda: «Senza industriarsi, non si combina mai nulla. Che cosa non fanno i business-men nel mondo degli affari! E perché noi non facciamo almeno altrettanto per gli interessi del nostro amato Gesù?».
Quando, stremata di lavoro e di gioia, morì nel 1917, a Chicago, nell’Ospedale da lei stessa fondato, i nostri emigrati dissero con af­fetto e infinita riconoscenza che «l’italiano Colombo aveva scoperto l’America, ma solo lei, Francesca, aveva scoperto gli italiani in Ame­rica».
Ha scritto giustamente Divo Barsotti: «La vita di Francesca Ca­brini sembra una leggenda. Una storia della Chiesa che ignori questa fragile donna è gravemente manchevole; una storia d’Italia che non voglia parlarne è settaria».



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santi, cabrini francesca

venerdì, 25 gennaio 2008

Testimonianze
Don Gnocchi
  Poi, nelle steppe russe, accade ciò che il vostro libro definisce come il disincantamento...

I mutilatini del Centro di Don Gnocchi in una immagine del dopoguerra
     RUMI: Sempre per seguire i suoi giovani, il pezzo di popolo di Dio che gli è stato affidato, il cappellano Gnocchi si trova insieme agli alpini “là dove si muore”: in Albania, Grecia, Montenegro, Polonia, Ucraina, fino alla campagna di Russia. L’impresa, all’inizio, gli appare giustificabile con motivi patriottici e religiosi: i russi sono comunisti, sono slavi e non sono cattolici. Ma nelle campagne russe si imbatte in povere genti contadine cristiane come lui, che non mostrano alcun trasporto per l’ideologia bolscevica, e che la guerra condanna a una vita fatta di miserie, sofferenze e morte. Le stesse che riserva agli alpini decimati dal gelo e dalle battaglie. È lì che vengono spazzati via tutti gli orpelli ideologici, e la condizione umana si rivela nella sua nudità sofferente, incapace di redimersi da sola: crudeltà, egoismi, dolore senza ragione. Scrive don Gnocchi nel libro Cristo con gli alpini: «Ho visto contendersi il pezzo di pane e di carne a colpi di baionetta; ho visto battere col calcio del fucile sulle mani adunche dei feriti e degli estenuati che si aggrappavano alle slitte come il naufrago alla tavola di salvezza… Ho visto un uomo sparare nella testa del suo compagno che non gli cedeva una spanna di terra, nell’isba, per sdraiarsi freddamente al suo posto e dormire…». Egli stesso si salva dalla morte per freddo in maniera fortuita. Un tenente medico, riconoscendolo in mezzo alla colonna di disperati che si trascina nella neve durante la ritirata, lo carica quasi a forza su una slitta.
      Quale effetto ha questo impatto duro sulla vicenda umana e cristiana di don Gnocchi?
      RUMI: Lì tutto viene ricondotto alla realtà nuda. Anche la fede. Svanite le teorie astratte sulla civiltà cristiana, le sovrastrutture ideologiche, le aure gladiatorie, emerge che l’unica cosa reale, che agisce, è la tenerezza di Gesù stesso verso gli uomini afflitti e bisognosi di salvezza. E siccome, come dice il cardinal Biffi, gli angeli non hanno le mani, le mani del Signore diventano le opere di carità di chi crede in Lui. È sul fronte che prende corpo la sua vocazione. Nel settembre 1942 scrive a un suo cugino: «Sogno dopo la guerra di potermi dedicare per sempre ad un’opera di carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia carriera».

De Gasperi, presidente del Consiglio, all'inaugurazion del Centro a Roma nel 1950

      Perché la sua opera si rivolge proprio ai mutilatini?
      RUMI: C’è, forse, nella scelta di don Gnocchi, un desiderio di espiazione della colpa storica di aver seguito il fascismo per un tratto non piccolo. Nell’Italia del dopoguerra c’è una pulsione generale di ripresa, una voglia di lasciarsi alle spalle gli orrori e le sofferenze. Ma il dolore innocente dei mutilatini è tagliato fuori anche da questo flusso. Appare senza possibilità di riscatto. Rimangono ai bordi della strada, come testimoni muti e dimenticati che portano per sempre impressi nella propria carne gli effetti del disastro di tutta una generazione. Alla fine della guerra ottiene di essere nominato direttore dell’Istituto grandi invalidi di Arosio. Così descriverà le impressioni avute nel suo incontro con Bruno, il primo ragazzo mutilato ospitato presso quella struttura: «Le sue lacrime e il suo sangue mi accusano insopportabilmente. Quando noi si farneticava di spazi vitali e di supremazie di razza egli non chiedeva che di vivere e di giocare un poco».
      Don Gnocchi parla di educazione al dolore. Dopo la creazione della Federazione pro infanzia mutilata, una delle sue iniziative sarà quella delle settimane del dolore. In queste formule non c’era il rischio di un certo “dolorismo”?
      RUMI: È il contrario. Don Gnocchi vede bene che il dolore, di per sé, rende cattivi. Inaridisce. Spegne i volti e i cuori. Racconta egli stesso, come una delle sue esperienze più decisive, l’incontro con Marco, un mutilatino che era saltato su una mina e a cui erano state amputate le gambe. Don Carlo gli chiese: «Quando ti strappano le bende, ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?». E lui rispose: «A nessuno». La sua opera di carità partiva proprio dallo sgomento davanti all’“irreparabile sciagura” del dolore innocente che si perde nel vuoto. E dall’esperienza fatta tante volte di come la grazia di Gesù poteva prendere in braccio i poveri e i sofferenti che da soli si sarebbero perduti, redimendo misteriosamente anche il loro dolore. Come scrive don Gnocchi, «la redenzione di Cristo deve estendere i suoi benefici anche alle conseguenze materiali della colpa originale e perciò deve mirare anche a sanare o almeno attenuare il dolore fisico e combatterne tutte le cause. Sanare il dolore non è allora soltanto un’opera di filantropia, ma è un’opera che appartiene strettamente alla redenzione di Cristo». Tutta la vita di don Gnocchi è una lotta al dolore. Per questa ragione giungerà a occuparsi di meccanica, di leghe metalliche, di marchingegni tecnologici. A servirsi di tutti i ritrovati messi a disposizione dalla più avanzata ricerca tecnica e medico-sanitaria.
      Il suo vescovo, il cardinale Schuster, aveva qualche riserva sulle scelte di don Gnocchi…
      EDOARDO BRESSAN: Schuster era un padre che considerava don Gnocchi un figlio un po’ irrequieto. Il vescovo aveva su di lui un progetto diverso. Pensava di affidargli una parrocchia, e che tutte le sue esperienze avrebbero ben potuto confluire in un ministero parrocchiale ordinario, quello di tutti gli altri preti ambrosiani. Ma per don Gnocchi la parrocchia era la sua opera per i mutilatini, quella che chiamava «la mia baracca». Non era facile resistere al vescovo benedettino con quel cognome così tedesco. Ma alla fine Schuster lasciò fare, e benedì i frutti inattesi di quella grande Opera.
      Nel dopoguerra, l’Opera per l’infanzia mutilata (che dal 1951 diventa Fondazione pro iuventute) assume rilevanza nazionale nel settore dell’assistenza. Riceve finanziamenti dal governo. C’è anche qualche bisticcio con chi vuole preservare il carattere statale degli istituti di cura.
      BRESSAN: Le difficoltà si superarono senza troppe guerre ideologiche. Le disposizioni giuridiche tendevano a ribadire un controllo pubblico del settore, ma nell’attuazione pratica la legge stessa diventò lo strumento per riconoscere alla Pro juventute la leadership di fatto nella gestione del problema. In don Gnocchi non c’era alcuna animosità o competizione nei confronti dello Stato e delle istituzioni pubbliche. Lui cercava il loro sostegno, e il governo De Gasperi appoggiò con decisione l’inizio della sua impresa. Nella sua vicenda ci fu una collaborazione e compenetrazione concreta tra pubblico e privato vantaggiosa per lo Stato. In termini attuali, fu un caso esemplare di applicazione del criterio della sussidiarietà.
Don Gnocchi in Russia

      Insomma, la carità fa bene anche allo Stato…
      BRESSAN: Don Gnocchi diceva: «Non si può fare la carità in carta da bollo. Ma lo Stato ci costringe spesso a fare questo». Nell’Istituto grandi invalidi di Arosio, don Gnocchi aveva visto negli adulti mutilati durante la guerra gli effetti negativi della “burocratizzazione del dolore”. Descriveva così la situazione: «Il dannunzianesimo e il fascismo hanno lasciato in eredità a queste anime sofferenti (più di 600mila) uno spirito esasperato, esaltato, pretenzioso soltanto di diritti, inquieto e senza consolazione». Sperava che ai mutilatini non toccasse la stessa sorte. E secondo lui solo chi era mosso dalla carità cristiana poteva aiutarli a non ripiegarsi e incattivirsi. «Noi» scriveva «non vogliamo assolutamente che diventino come sono spesso gli altri, degli esosi il cui scopo principale della vita è quello di mirare al 27 del mese per far coda impaziente davanti agli sportelli delle pensioni contando avaramente il denaro ricevuto e bestemmiando il governo. Vogliamo farne degli uomini superiori, capaci di far dono del tesoro della loro sofferenza a Dio e agli uomini, per la ricchezza di tutti».
      Nel sottotitolo del vostro libro, don Carlo è definito imprenditore della carità
      BRESSAN: In una lettera, una volta, don Gnocchi scrisse: «Io ammiro le persone e le istituzioni che tutto attendono dalla Divina Provvidenza, nulla cercando e nulla rifiutando, ma io non ho la loro Grazia speciale. Nella ricerca dei mezzi per la vita dei miei poveri, io cerco di ispirarmi più a don Bosco che “cercava” che al Cottolengo che “attendeva”». Forse era un paragone un po’ ingiusto per il Cottolengo… ma certo
don Gnocchi ebbe un’energia fantasiosa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e occasioni per far crescere la sua “baracca”. Usava con totale libertà i contatti umani, il mondo dei mass media, le sue entrature con l’alta società lombarda per far affluire fondi e risorse all’Opera. Inventò iniziative come le catene di solidarietà o altre, più spettacolari, come il volo aereo del cosiddetto “Angelo dei bimbi” da Milano a Buenos Aires, o come la collaborazione con Cesare Zavattini nel film Tutti i bambini del mondo: tutto poteva esser utile per sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma dei mutilatini. E fu rapido ed efficace anche nel “riconvertire” la sua opera alle nuove situazioni. Man mano che ci si allontanava dalla guerra, e diminuiva il numero dei mutilatini, tutte le case della Pro juventute cominciarono ad ospitare i poliomelitici, e altre categorie di persone bisognose di assistenza…
      Il processo di beatificazione di don Gnocchi ha
superato la sua fase diocesana e adesso è “fermo” a Roma. Il sempre più vasto e vitale mondo del volontariato potrebbe prendere a cuore questa causa…
      BRESSAN: Potrebbe essere un’idea: san Carlo Gnocchi, patrono del volontariato e del no profit…

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santi, testimonianza, don gnocchi

mercoledì, 23 gennaio 2008

TESTIMONI DI CRISTO
FRATEL ETTORE
                    http://www.fratelettore.it/frame_fratel.htm          
 
UN “FOLLE” DI DIO SULLA FRONTIERA DELLA CARITA’
Di Teresa Martino
Per capire il carisma e comprendere l’origine dell’esperienza di Fratel Ettore Boschini a servizio dei poveri bisogna riascoltare le parole da lui pronunciate nel corso di un’intervista.

Parla del suo arrivo a Milano dove intuisce che nella sua vita c’è un passo in più da compiere, e lo racconta così: “La mia è semplicemente una storia d’amore, un percorso scelto per me da Dio. Una mattina bussa da me un uomo, era malato, stanco, sporco. Chiedeva aiuto.


Ho spogliato delicatamente il suo corpo coperto di piaghe, l’ho lavato e medicato. Quel giorno di tanti anni fa la mia scelta è diventata definitiva, non avrei aspettato che gli ultimi della terra arrivassero moribondi alla mia porta: sarei andato io a cercarli sui marciapiedi, nelle stazioni e nei sottoscala della città”. Fratel Ettore, senza tregua, ha offerto tutto se stesso alla causa degli emarginati.
Difficile contare le sue notti insonni, trascorse alla guida di un pulmino traballante, lungo le vie meno frequentate di Milano. Andava alla ricerca dei suoi poveri, di chi non aveva né tetto né cibo. “Hai fame? Hai bisogno di un vestito? Vuoi venire con me?”.

Quando c’era da soccorrere, intervenire, dare sollievo alle sofferenze, non si fermava davanti a nulla. Senza clamori, in anni di rinunce e sofferenze, ha saputo provvedere tempestivamente ad alcune tra le urgenze più drammatiche di Milano. Per primo ha accolto i barboni che languivano sui binari della Stazione centrale. Per primo ha deciso, già alla fine degli anni settanta, di aprire le porte dei suoi Rifugi agli immigrati, offrendo conforto materiale e parole di speranza. Ha istituito uno dei primi centri privati per accogliere gli ammalati di Aids, alla fine degli anni Ottanta, mentre l’assistenza pubblica sembrava disarmata di fronte all’incalzare della tragedia. Il suo centro in uno dei padiglioni del “Paolo Pini” ad Affori, è stato a lungo l’unica alternativa alle poche strutture pubbliche esistenti. Con lo stesso slancio inesausto ha pensato ai tossicodipendenti, ai malati mentali, agli anziani lungo degenti e senza assistenza. Ecco perchè Milano è grata a questo uomo di Dio che ha fatto proprio, rinnovandolo e adeguandolo alle nuove emergenze, il carisma del fondatore dell’ordine a cui apparteneva, San Camillo De Lellis, l’apostolo dei malati. Con la forza della sua misericordia Fratel Ettore ha sferzato la fraternità tascabile, gli animi tiepidi, la solidarietà minimalista. Ha mostrato che lo scandalo dell’amore evangelico, totale e senza condizioni, è il filo tenace che lega gli uomini al mistero. Il primo miracolo di Fratel Ettore è il Rifugio di via Sammartini: eccolo in un ricordo del sindaco Albertini: “I milanesi seppero che il frate camilliano voleva aprire un rifugio per gli emarginati sotto il cavalcavia ferroviario della Stazione Centrale in via Ferrante Aporti, e pensarono che posto più squallido non poteva trovarlo, ma proprio la campata sotterranea del ponte è diventata la cattedrale di Fratel Ettore. Proprio lì, nel 1987 partecipai in incognito alla Messa celebrata davanti a credenti e non credenti di tutte le razze accomunati dalla miseria e dalla disperazione. L’altare era il tavolo della mensa e le panche i cartoni sistemati per terra. Come pulpito Fratel Ettore salì su una sedia e rivolto a quella platea di fedeli disse loro di pregare tutti assieme per le intenzioni di una persona che in quel momento era in mezzo a loro, anonima come loro, ma che ricopriva alte responsabilità è per la città di Milano. Fu un momento di forte intensità spirituale il cui ricordo ancora oggi mi pervade lasciandomi intuire il misticismo di questo religioso”.

Al Rifugio di via Sammartini offriva a tutti un pasto e un letto. Poi prima di spegnere la luce, prendeva la corona del Rosario, si inginocchiava e cominciava a pregare: “Ringraziamo Maria che anche oggi è stata generosa con noi. Chi vuole ripeta le mie parole”. Nessuno si rifiutava. Anche chi da tempo aveva smarrito la fede, anche chi non era cristiano. Fratel Ettore con il sorriso dolce e gli occhi luccicanti, non conosceva le sottigliezze teologiche del dialogo interreligioso. Ai musulmani, che sempre più numerosi affollavano i suoi centri in questi ultimi anni, diceva: “Pregate come siete capaci, Dio sa leggere nei cuori”. E lui intonava il Salve Regina, senza iattanze né obiettivi di proselitismo, ma perchè convinto che il manto materno della Vergine fosse per tutti un aiuto formidabile. Fratel Ettore era ciò che nel monachesimo viene indicato come guida, che è molto più di un maestro, come spiega bene André Louf, abate di Mont-des-Cats in un suo libro. L’intera vita di Fratel Ettore era ciò che sapeva o poteva dire, ma in forza di ciò che era. Solo dall’amore scaturisce la vita perchè l’amore è interamente immagine di Dio e del figlio suo, di cui la guida tende ad essere l’icona.

Il messaggio di vita s’irradiava da lui in qualità del suo essere e quasi inconsapevolmente. Sul volto di questo uomo santo e attraverso il suo modo di agire abbiamo percepito l’amore di Dio nelle sue sfaccettature di tenerezza e di fermezza. Era molto forte in Ettore la paternità. Quando è morto sulla sua bara una mano sapiente e è perspicace ha voluto scrivere: “Padre dei poveri e il cardinale Tettamanzi, nella sua omelia, riprenderà quell’appellativo spiegando che la Bibbia lo riferisce solo a Dio, il Pater Pauperum per eccellenza. Ma, continua il Cardinale, Fratel Ettore è stato, con tutta la sua carica di umanità e per un dono grande di Dio e del suo amore, una trasparenza particolarmente luminosa, credibile ed efficace di questa paternità. Padre Fausto Beretta, missionario comboniano in Brasile, racconta in una testimonianza: “Il primo ricordo con Fratel Ettore risale al 1947, quando nell’Auditorium del “Cenacolo di Milano”, era di autunno, ci comunicò la sua scelta di viver con gli ultimi alla Stazione Centrale. Era una sfida a seguirlo, ad andare con lui. L’abbiamo accettata, ma quante volte di sabato pomeriggio andando a Milano ci chiedevamo: ma perchè ci andiamo? Per vedere chi? Se poi, probabilmente, Fratel Ettore sarà tutto indaffarato e non ci darà attenzione o ci farà fare cose assurde? Sì, perchè davvero diceva e faceva cose che nessuno di noi aveva il coraggio di fare, ma la sua testimonianza ci ha sedotto e dato coraggio. Ricordo i rosari al “Rifugio”, prima e dopo cena, i digiuni e le penitenze imposte ai poveri barboni che avevano abusato nel bere, o quelle minestre troppo saporite, annacquate all’ultima ora a mortificare la gola. Fratel Ettore si spingeva sempre avanti, oltre il buon senso, con la forza e la chiarezza dei profeti. Erano proposte sempre nuove e quasi assurde, ma che venivano dal suo cuore, dal suo amore per Maria e per chi viveva al margine della società: per il barbone, l’alcolizzato, la prostituta, la vecchia abbandonata, il terzomondiale, il fallito nella vita. Il Rifugio di via Sammartini divenne per molti la scuola del Vangelo, il luogo di verifica della nostra preghiera, il luogo della scoperta del volto di Gesù di Nazareth nel povero e la fonte di molte vocazioni missionarie, e non solo. Là, in via Sammartini, molti giovani, ragazzi e ragazze, hanno deciso di lasciare tutto per seguire il Signore, scegliendo la vita religiosa contemplativa o attiva”.

Devotissimo a Maria, angosciato quando rubarono la statua davanti al dormitorio di via Sammartini, si mise a girare per Milano su una scassatissima automobile con la sacra immagine legata sul tettuccio, mentre da un megafono usciva la sua voce che recitava il rosario. Come quell’altra volta, ricorda il sindaco di Seveso, Tino Galbiati, che Fratel Ettore, arrabbiato perchè non gli venivano concessi i permessi per ampliare il centro, girò per due giorni le strade del paese con l’auto con sopra la Madonna, finchè i permessi non giunsero. Allo scoppio della guerra nei Balcani portò la sua Mamma Celeste in piazza Duomo, la pose sui gradini, si inginocchiò e cominciò a sgranare la corona, fra lo stupore della folla, per chiedere la fine della guerra.

Al Gay Pride si mescolò alle lesbiche e agli omosessuali chiedendo a Maria di intercedere per loro e, dopo aver pregato brandendo la statua della Vergine e ponendosi di fronte al corteo, come il ragazzo di Tienan-Men davanti al carro armato, gridava “Convertitevi!”. Ai più queste scene apparivano patetiche. Perchè Fratel Ettore era sorretto dalla fede ma soprattutto da una ingenuità beata e testarda, tipica dei santi. Lo dimostrò anche nell’ottobre del 1989 quando il Coro della Scala partì per una tournee in Unione Sovietica. Ai coristi diede centinaia di Bibbie, perchè le nascondessero nelle valigie e le distribuissero a Mosca e Leningrado. A uno di loro, il Frate che credeva nella Provvidenza, consegnò un regalo per Gorbaciov, un’icona di San Michele, con la raccomandazione:”Portalo al fratello Michele per il suo onomastico e digli che prego per lui”. Il corista obbedì. Il vice ministro che prese in consegna il donò ringraziò...a solo due settimane dal crollo del Muro di Berlino e dal disfacimento dell’Unione Sovietica. Non c’era ricorrenza significativa che non lo vedesse raggiungere piazza Duomo con i suoi mezzi alternativi ed il suo seguito di umanità sofferente, megafono alla mano per il rosario e due volontari a distribuire immaginette della Vergine Maria. Era, la sua, un’autentica evangelizzazione di strada, tanto più dirompente e scandalosa perchè giungeva a sorprendere la fretta un poco indifferente della metropoli. Ben presto Fratel Ettore stesso, diventa meta di pellegrinaggi altrui, da madre Teresa All’Abbé Pierre. Lui non si ferma, va in visita al Papa, torna in stazione, va fra i terremotati; durante la guerra nell’ex-Iugoslavia, a metà anni Novanta, aiuterà con più di duecento viaggi di Tir carichi di aiuti umanitari e i Savoia si terranno obbligati a fargli visita per ringraziarlo. Controcorrente sempre, capace di sorprendere e di disorientare con quella forza segreta che gli veniva da lunghe ore trascorse immerso in preghiera. Quando un sacerdote camillliano in partenza per l’America Latina gli chiese una statuetta della Madonna da portare in missione, Fratel Ettore andò ad acquistarne una da un amico scultore, alta quasi due metri, pesantissima, in marmo bianco, magnificamente scolpita. Costo, cinque milioni di vecchie lire. E quasi altrettanto occorreva spendere per imballarla e spedirla oltre Oceano.

Quando l’economo di Casa Betania a Seveso -il quartiere generale delle sue opere di misericordia- fu informato della spesa, assalì Fratel Ettore con parole di fuoco: “Ma come, dobbiamo pagare un conto di cento milioni, tra pochi giorni per i lavori qui alla casa e tu vai a spenderne altri dieci per una statua”. Ma lui non si fece intimorire:”E’ una missione che sta muovendo i primi passi. Hanno il diritto di avere una bella immagine di Maria”. Quella sera stessa una signora mai vista prima bussò alla porta e consegnò un assegno di alcune centinaia di milioni, sufficiente per la statua, per pagare i lavori e per altre spese ancora. La casa di Bogotà, la sua missione in Colombia, l’ha pagata Luis Gabriel. Naturalmente quella casa Fratel Ettore l’aveva fermata con il conto in banca sotto zero. Un giorno andando a messa con i suoi poveri, incontra per strada un uomo appoggiato al muro che tiene sul viso uno straccio, (quell’uomo si chiamava Luis-Gabriel, ha fatto una morte santa). Pensandolo ubriaco lo invita a bere un tinto, così si chiama il caffè a Bogotà. Quando il povero si stacca dal muro per seguirlo e toglie lo straccio dal viso, Fratel Ettore non trattiene un urlo...Luis ha solo mezza faccia, il resto gliel’ha mangiata il cancro. Lo convince a seguirlo in un ospedale da dove viene cacciato insieme al povero:”E’ uno di strada, non lo vogliamo. E poi che serve curarlo? Ha poco da vivere”. Come una mamma se lo porta a casa e sembra non sentire il fetore che emana quel povero viso devastato. Lo netta del pus, stacca brandelli di pelle marcia, lo fascia con amore e gli dà un bacio. Il giorno dopo dall’Italia gli comunicano che un benefattore ha donato 90 milioni. Il costo della casa.

Non era uno che “chiedeva” Fratel Ettore. Soldi meno che mai. La Provvidenza (scrivi “Provvidenza” sempre con la maiuscola, diceva, perchè significa Dio!), ci pensava da sola: si chiama “Rotary” o con qualunque altro nome. No, era lui, Fratel Ettore, ad andare incontro alle altrui necessità. Era lui a fare offerte al Papa, accompagnandole con un bigliettino pieno di candore: “Dai poveri per i più poveri del Papa”; oppure offerte per le missioni del suo Ordine Camilliano; o aiuti di tutti i generi ad altre Comunità religiose.

Se vi erano richieste, le sue erano di tutt’altra natura. Come quando fece irruzione ad un convegno sulla solidarietà milanese, pieno di nomi importanti, portandosi dietro un centinaio di ucraine: “Se volete  davvero fare qualcosa di utile – gridò – ciascuno di voi ne assuma una come colf. Adesso!”.

Era un grand’uomo che ha stupito Milano con la sua semplicità, umiltà e determinazione. Era uno che apriva strade impensabili ad altri e le percorreva tutte, fino in fondo, con passione, Aveva una fiducia cieca nella Provvidenza.

“L’altro giorno” ha raccontato una volta “eravamo senza pane. Stavo uscendo per andarlo a cercare quando ne è arrivato un camion pieno”.

“E chi te lo ha mandato?”

“Non lo so. Secondo me Maria Vergine”.
 per saperne di più:

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santi, testimonianza, fratel ettore

sabato, 12 gennaio 2008

I SANTI - PICCOLE STORIE DAL PARAGUAY n° 06 - gennaio 2008
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da: www.alfredotradigo.it

Il santo di gennaio
Contemplate il volto dei santi per incontrare il riposo in quello che ci dicono”. Credo che all´inizio di quest´anno sia essenziale ricordarci queste parole che da sempre accompagnano le mie giornate e non solo mi impediscono il borghesismo di chi sa già tutto o dà tutto per scontato (è il peccato più grave che possiamo vivere) ma come un pugno nello stomaco mi “obbligano” a vivere in ginocchio gridando: “Vieni Signore Gesù”.
Quanto scrivo ogni mese non ha niente di mio, neanche una virgola, ma è tutto opera della grazia che opera i miracoli che cerco di raccontarvi e la mia mano, tremolante per la commozione, cerca di mettere sulla carta come può. Come vorrei che ognuno leggendo queste testimonianze le potesse sentire con le proprie orecchie e vedere coi propri occhi!
A volte sembra “esagerato” quanto scrivo, eppure se c’è una esagerazione è per difetto, perché mai riuscirò a scrivere quanto in questo angolo di paradiso accadde ogni giorno. Desidero una sola cosa all'inizio di quest'anno: non perdere mai, neanche per un istante, lo sguardo di Marcellino pane e vino (ricordate il film?), non dare mai per scontato niente e vivere con la semplicità di un bambino.
La tristezza più grande è lasciarsi, anche senza accorgersi, guidare dalla scontatezza, dalle nostre categorie mentali. Dio voglia che stiamo sempre svegli e curiosi di imparare, coscienti che è la Divina Provvidenza che muove tutto.
Morire con letizia
Già in altre occasioni ho offerto ai lettori la testimonianza di questa “Santa”, come, senza un minimo di dubbio, amo definirla. Se la Santità, come dice il Papa Benedetto XVI quando era ancora cardinale: “è quel peccatore che nella sua vita ha vissuto in modo eroico le virtù; è sempre lo stesso peccatore che ha permesso a Dio di realizzare il disegno previsto dalla Sua Divina Provvidenza nella esistenza di ognuno di noi”; certamente Helena é stata una Santa.
Già provata nella sua vita da tanti dolori (l´ultimo è stata la morte di suo marito, morto nella nostra clinica), in questo ultimo anno è stata toccata dal terribile cancro maligno alle mammelle che in poco tempo sono diventate metastasi diffuse in tutto il corpo. Lascio a voi immaginare il dolore, un tormento che nell´ultimo tempo sembrava impedirle perfino di respirare e neanche la morfina riusciva a calmare. Mesi in questa situazione, una prova che avrebbe distrutto per fino l'acciaio. Ma in lei non abbiamo visto, quanti la hanno assistita, una smorfia sulle sue labbra, neanche un lamento dalla sua bocca. Impressionava per la sua serenità che spesso si trasformava in felicità.
“Padre, sono felice”, mi ripeteva spesso
. “Padre, sono cosciente di morire presto; ma lei sa cosa significa vedere faccia a faccia a Gesù? ”. “
Padre non ho paura di morire, perché Gesù mi sta aspettando”. “Padre non ho dolori, sto troppo bene, mi sento amata, sento che Gesù è al mio fianco...che si faccia la sua volontà”. “I miei figli sono pronti, protetti, e questa era l'unica cosa che mi preoccupava”. “Padre, parlami di Gesù, regalami la sua benedizione, prega con me”. “Padre, a tutte le ore prego il rosario, a tutti chiedo di pregare il rosario con me, ma ho paura che si stanchino per la mia insistenza nel pregare e non mi vengano più a visitare”. Io ho bisogno solamente di pregare, perché il rosario mi calma i dolori. Il rosario fa quello che la morfina non può. È la medicina più potente che esista, e come mi piacerebbe che tutti lo comprendessero”. Padre, che si faccia la sua volontà, finché il Signore non dica basta, perché tutto quello che viene da Lui, che è misericordia, è una cosa buona”. “Padre, che bello è amare la mia Madonnina. Quando dopo un piccolo sogno mi sveglio, immediatamente prendo il rosario e chiedo, chiedo! Inoltre, tra un rosario e l'altro lavoro, ricamo e faccio braccialetti per il rosario”. “Padre, desidero che mi trovi degli occhiali per trovare consolazione nella Parola di Dio”. “Il regalo più bello che mi fa è quando celebra la Santa Messa nella mia stanza, quando mi visita e mi benedice con il Santissimo Sacramento, quando posso contemplare l’ Ostia consacrata”. “Padre, tutto è al suo posto nella mia casa e nella mia famiglia...non sono preoccupata, perché so che il Signore accompagnerà i miei tre figli”. “Grazie, padre, per aver dato un lavoro a mia figlia. Che Dio e la Madonna la benedicano”.
Tutto ciò sono alcune delle molte testimonianze che Helena mi ha regalato. Mi parlava continuamente di Dio e della sua offerta, finché un giorno non ho potuto non chiedere un registratore per immortalare tutte le parole che uscivano dalla sua bocca. Ricordo con quanto affetto e amore riceveva la comunione, mi aspettava nel suo letto con la mente immedesimata nel Signore, le mani unite esprimevano la grande statura religiosa della sua personalità. Era cosciente e la posizione supplicante delle sue mani testimoniavano il suo essere una mendicante dell'Eterno. Le braccia distese e le mani strette una nell'altra in forma di grido, come chi è cosciente che le manca tutto, si mette in ginocchio e con le mani supplicanti urla: “Vieni, mio Signore, mio Dio”. Distrutta dal dolore che per lei era allegria, notte e giorno mendicava l'Eterno, desiderava già essere nelle braccia dell'amato Gesù.
Negli ultimi giorni, già aveva speso tutte le energie, domandava ai suoi figli o ai parenti che la aiutassero a mantenere le mani alzate in forma di supplica quando arrivavo con il Santissimo Sacramento o per darle la Comunione o benedirla. Sembrava Mosè sul monte Sinai quando, mentre nella valle il popolo lottava, egli stava giorno e notte con le mani alzate e pregava perché Dio desse la vittoria al suo popolo. Ugualmente, Helena ha vissuto i suoi ultimi giorni aiutata in questa posizione dalle persone che la accompagnavano al destino finale, oramai vicino. Mentre la morte giá stava bussando alla porta lei non guardava piú nessuno, non parlava piú. Ma, come per miracolo, quando ascoltava il canto “Alabado sea”, ed io entravo nella sua stanza, i suoi occhi si aprivano fissandoli nella Ostia bianca come un’ innamorata, e la sua bocca si apriva per unirsi al piccolo coro cantando “Alabado sea el Santísmo”. Era una sola cosa con l'Eucarestia. Non si accorgeva di chi era al suo fianco, ma in Cristo era come se tutto il cosmo fosse presente nella sua relazione ultima con il Mistero, nel sacramento dell'Eucarestia.
È morta dopo aver guardato intensamente il Santissimo Sacramento e averlo ricevuto fisicamente nel suo corpo. L'abbiamo vista andarsene in silenzio, senza nessun lamento. I suoi respiri si facevano ogni volta sempre piú distanziati l'uno dall'altro (era la sua ultima maniera di pregare), finché alle prime ore dell'alba della domenica 22 dicembre è andata all’incontro con Gesù.
Amici, ogni settimana i cari amici ammalati muoiono in questo modo.
Credo che se un ospedale non serve affinché accadano questi miracoli è meglio chiuderlo. Perché questi fatti accadano occorre che tutti, prete, medici, e personale, viviamo un’autentica e drammatica posizione religiosa, l’unica che ci permette di non essere mai tranquilli, ovvero borghesi o peggio ancora borghesi che osano definirsi cristiani.
Vi auguro, come diceva Giussani, che nel 2008 “non siate, e non sia” mai tranquilli.
Con affetto, P. Aldo Trento
a nome del direttore Sanitario
che è Gesù Cristo Eucarestia

Postato da: giacabi a 12:25 | link | commenti
santi, padre trento

martedì, 25 dicembre 2007

I Santi
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"I santi sono come le stelle all'orizzonte della nostra storia, che irradiano in continuazione luce nel mondo in mezzo agli annuvolamenti di questo tempo, in mezzo alla sua oscurità, cosicché possiamo vedere qualcosa della luce di Dio. E se qualche volta siamo tentati di dubitare della bontà di Dio a causa delle vicissitudini della storia, se siamo assaliti dal dubbio anche nei confronti dell'uomo, perché non sappiamo se sia buono o piuttosto intimamente cattivo e pericoloso, se dubitiamo anche della Chiesa a causa delle controversie e delle miserie che la travagliano, allora guardiamo a questi uomini che si sono aperti a Dio, a questi uomini nei quali Dio ha preso forma. E da essi riceveremo di nuovo luce."
Benedetto XVI


Postato da: giacabi a 13:40 | link | commenti
santi, benedettoxvi

mercoledì, 19 dicembre 2007

E in tutto questo io so che il Signore è vicino ...
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Eppure da qualche parte ormai deve far caldo, deve essere primavera.
Da qualche parte le betulle mettono le gemme, sbocciano i narcisi e i lillà ... 
A dire il vero, anche qui ormai si sente nell'aria
un non so che di primavera ... Se sopra la giacca imbottita, il maglione, la camicia pesante indosso il giubbone non fa poi così freddo ...
Assomiglia così poco a una vera primavera,
come la pena tormentosa della solitudine non somiglia alla vita vera, piena, intrisa di luce e di un sorriso carezzevole.
Ma bisogna sopportare. Basta che l'anima non si indurisca, non si assideri e non avvizzisca del tutto,
che non si immiserisca fino in fondo in questo vano, penoso agitarsi.
E in tutto questo io so che il Signore è vicino ...
     10 maggio 1935 Dal diario di padre Anatolij sacerdote internato nel lager sovietico, ex monastero delle isole Solovki

 


Postato da: giacabi a 20:14 | link | commenti
perle, santi

venerdì, 14 dicembre 2007

Il segreto per vivere in Cristo
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Sai, figliuola, chi sei tu e chi sono io? Se saprai
queste due cose sarai beata. Tu sei quella che
non è; io sono invece colui che sono. Se avrai
nell’anima tua tale cognizione, il nemico non
potrà ingannarti.
Gesù a Santa Caterina

Postato da: giacabi a 16:45 | link | commenti
santi, gesù

giovedì, 13 dicembre 2007

Il  vero bisogno degli uomini:    i Santi

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Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri.
Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini”.
 Joseph Ratzinger  1 aprile 2005 a Subiaco,

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santi, benedettoxvi

domenica, 09 dicembre 2007

Diventare Santi
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" Già gli uomini nuovi sono sparsi in tutta la terra. Alcuni sono ancora difficilmente riconoscibili; ma altri possiamo riconoscerli. Di tanto in tanto li incontriamo. Le loro voci e le loro facce sono diverse dalle nostre: più forti, più calme, più liete, più raggianti. Questi uomini partono da dove i più di noi si arrestano. Sono riconoscibili, ma dobbiamo sapere cosa cercare. Non attirano l'attenzione su di sé. Tu immagini di far loro del bene, mentre sono loro a fartene. Ti amano più di quanto ti amino gli altri uomini, ma hanno meno bisogno di te. Sembrano, di solito, avere una quantità di tempo a disposizione, e tu ti domandi da dove gli venga. Quando abbiamo riconosciuto uno di essi, riconoscere il successsivo ci riesce molto più facile. E io sospetto molto fortemente (ma come faccio a saperlo?) che essi si riconoscano tra loro immediatamente e infallibilmente, al di là di ogni barriera di colore, sesso, classe, età, e anche dottrina. Diventare santi è un po' come aderire a una società segreta. Per dirla in termini molto riduttivi dev'essere un gran divertimento.”
C.S. Lewis

Postato da: giacabi a 14:06 | link | commenti
santi, lewis

lunedì, 03 dicembre 2007

 IL SEGRETO DI PADRE PIO
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617INTERVISTA  AD ANTONIO SOCCI

  • IL SEGRETO DI PADRE PIO

  • Postato da: giacabi a 19:29 | link | commenti
    santi, socci

    venerdì, 16 novembre 2007

    Don Oreste,
    piccola antologia scelta***
     
     
    Don Oreste Benzi ha parlato soprattutto con le sue opere. Ma queste nascevano da un giudizio sulla realtà che il sacerdote ha più volte espresso con i suoi scritti. Proponiamo una breve antologia perché la sua testimonianza e le sue parole continuino a ferire il cuore di chi cerca la verità. Per molti sarà la sorpresa di scoprire un don Benzi mai conosciuto.


    Chi seguo
    I membri della comunità non seguono la virtù della povertà, ma Cristo povero, cioè totalmente figlio del Padre, tanto da non riporre la fiducia nelle cose o in se stessi. Inoltre noi seguiamo Cristo servo che non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce. E seguiamo Cristo sofferente che espia su di sé il peccato del mondo e condivide la vita degli uomini a partire dagli ultimi.

    Il disegno
    Tutta la nostra azione è fondata sulla precarietà ed è un modo di fare in contrasto con la mentalità del mondo. Ci accusano di essere degli sciagurati, a me rimproverano di non tenere i piedi per terra. Ma quale terra, rispondo io, quella di Dio o quella degli uomini? Seguendo Cristo servo e Cristo povero noi capiamo che solo il Signore ha il progetto di crescita della Chiesa. A noi è concesso di fare piccoli passi e solo dopo molto tempo comprendiamo il disegno verso il quale quei passi erano ordinati. Nel 1958 ero negli Stati Uniti e il vescovo della diocesi di Hartford, dove ero andato per raccogliere fondi, mi impedì di fare la colletta. Sembrava che tutto andasse a rovescio. Nella meditazione dicevo al Signore: sono venuto per Te, perché va tutto a rovescio? Mi è venuta in mente la facciata di San Petronio a Bologna, coi suoi mattoni ad angolo. Ho pensato: i muratori avranno ritenuto pazzo l’architetto che li costringeva a posare i mattoni in quel modo. Ma loro non potevano capire perché mancavamo del disegno generale, che unicamente l’architetto possedeva. Solo alla fine hanno capito l’armonia del progetto.

    Io peccatore
    Rimango sempre sbalordito dall’amore di chi, nelle case famiglia, deve alzarsi anche tre o quattro volte per notte per muovere nel letto il ragazzo miodistrofico, o portano nel bagno e puliscono, sempre con il sorriso sulle labbra, persone che non sono autonome. Rimango impressionato dall’amore di chi lascia un buon lavoro e va in pensione prima del tempo per potersi dedicare ai nomadi. E anche da chi va tutte le sere in stazione per offrire un letto chi non ce l’ha e, nonostante sia stato pestato proprio da coloro che voleva aiutare, continua ad andarci sempre.
    Quando penso ai miei fratelli della comunità dai quali prendo lezioni di vita così forti, dico sempre al Signore “Allontanati da me perché sono un peccatore”.

    La preghiera

    Ripeto sempre ai membri della comunità che per stare in piedi bisogna stare in ginocchio e che sa stare con il povero chi sta tutto con il Signore. Chi non prega non solo non capisce, ma nemmeno capisce di non capire.

    Il senso religioso
    Un ragazzo è salvo solo se incontra Qualcuno e in questa relazione sviluppa la pienezza di sé, scopre di avere un senso nel mondo, acquisisce un futuro.
    Si afferma che l’uomo è un essere razionale. Io dico che non sempre è vero, tante volte l’uomo è un essere irrazionale. L’uomo è un essere religioso, questo invece è sicuro. L’uomo è rapporto con l’Altro e nessun rapporto particolare può essere sopportato se l’uomo prima non trova il rapporto grazie al quale acquista senso ogni altra relazione.

    L’epoca gramsciana
    Gramsci notò che in Italia la Chiesa era forte sul piano culturale, quindi individuò il primo obiettivo nella distruzione della cultura cattolica. Non occorreva combatterla direttamente, era più opportuno togliere alla Chiesa l’opportunità di fare cultura. In questa prospettiva alla Chiesa viene lasciato l’esercizio della carità, intesa in senso peggiorativo e limitativo. Lo Stato lascia che i preti facciano l’elemosina, riservando a sé il potere di fare cultura. I passaggi per arrivarci sono: l’attività cattolica deve rientrare nel sistema dei servizi pubblici; lo Stato deve potere somministrare metadone ed eroina, in modo da svuotare e spegnere le comunità di recupero che hanno come punto di riferimento la visione cristiana dell’esistenza; alla scuola cattolica non viene concessa una parità autentica ma solo di facciata. Quest’azione è accompagnata da un’opera da “gas soporifero”, in modo che la Chiesa sia neutralizzata e non riesca più ad avvicinarsi al mondo dei giovani. Siamo cioè arrivati agli obiettivi indicati da Gramsci, uno dei comunisti più acuti e intelligenti che la storia registri.

    La Chiesa
    Lo scopo è che la Chiesa diventi prossima ad ogni persona attraverso comunità missionarie che, salvate da Cristo, diventano contagiose per gli altri, riescono a far innamorare di Cristo. In gran parte oggi il cammino pastorale viene indicato dall’alto. I preti e i laici sono la cinghia di trasmissione e tutti insieme si dovrebbe camminare sulla linea tracciata, che però molte volte non risponde alla vita reale. Prima di fare le strade è bene guardare dove passa la gente, altrimenti le strade nuove rimarranno deserte e i sentieri percorsi saranno lasciati senza cura. Il metodo dovrebbe essere esattamente il rovescio: promuovere la comunione, ringraziare e accogliere le comunità suscitate dallo Spirito, fare in modo che questa vita si dilati, si sviluppi e arrivi a rendere responsabili tutti i cristiani
    .

    La politica

    I cattolici devono impegnarsi al massimo in politica, devono costruire la città terrena, però la devono costruire con il coraggio della verità di cui sono portatori. Capisco che i programmi di governo debbano essere mediati con forze politiche che non sono cristiane. È però importante che il politico cristiano non abbia dentro di sé compromessi o secondi fini e che, oltre alla purezza delle intenzioni, compia i fatti; sono gli atti concreti che modificano la vita e la storia. Il politico cristiano non deve essere prigioniero di altri criteri che non siano quelli della fede e del Corpo mistico di Cristo. Se i cattolici sono impegnati in diversi partiti, devono però ritrovarsi uniti intorno ai valori della loro concezione di vita. Ma l’impegno deve essere a tradurre nei fatti questi valori, a trasformarli in legge. A questo proposito sono un po’ pessimista. Mi sembra che spesso i cattolici obbediscano più alle logiche del partito in cui militano e si dimentichino dei valori che dovrebbero promuovere.

    I santi della carità
    Questa società non ha obiezioni contro i santi della carità, in fondo la aiutano a coprire le sue contraddizioni. (…) Voglio dire che
    la carità del singolo non basta: solo un popolo che vive la giustizia può cambiare la storia.

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