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lunedì 23 luglio 2012

chi nel movimento è diventato adulto,


PAROLA TRA NOI

L'opera del movimento

Luigi Giussani
A vent’anni dal riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione proponiamo gli appunti dalla sintesi di Luigi Giussani ai primi Esercizi spirituali della Fraternità. Rimini, 7-9 maggio 1982

«Dove due o tre si riuniranno nel Tuo nome: Ti riconosciamo presente, o Signore, perdonandoci a vicenda e soccorrendo al bisogno di tutti. Ascoltiamo la Parola e insieme spezziamo il Pane. (…) Ci scambiamo la pace che ci hai dato: perché (…) l’umanità sani le divisioni e costruisca il mondo nuovo»1. Ora, noi che cosa desideriamo, con l’impegno del movimento, se non che questo si realizzi? Quando poi cantiamo insieme un Inno come quello di questa mattina2, non è possibile che siamo così totalmente distratti da non provarne un’emozione grande, perché questa è proprio, fin nel dettaglio, la descrizione di quello che vorremmo accadesse, che preghiamo accada, meglio ancora, che supplichiamo si manifesti: là dove due o tre si riuniscono Ti riconosciamo presente, e la Sua presenza genera un’umanità diversa.

Non so quale altra pagina possa descrivere un’umanità diversa in modo così suggestivo come l’Inno di questa mattina: «La Vita ha distrutto la morte... Cristo, splendore di gloria [risorto], illumina il nostro mattino». Questo è il principio e questo è tutto. «Con l’anima piena di gioia», allora, riprendendo la vita al mattino, «in Lui ci scopriamo fratelli. A [ognuno di] noi… Cristo risorto si sveli; c’incontri e ci chiami per nome»: diventi realtà personale quello che è accaduto; la presenza Sua, che continuamente accade, diventi me stesso, la mia realtà personale. «Ritorni sul nostro cammino e la Sua Parola c’infiammi»: sia la Sua presenza ciò che ci infiamma - ciò che infiamma la vita dell’uomo, infatti, è il movente, il motivo, la ragione del vivere -. «Di nuovo, nel Pane spezzato, vedremo il Suo volto risorto»: di nuovo, in certi gesti, come nella santa comunione, è come se toccassimo il Suo volto risorto. Che cos’è la vita di un’amicizia come la nostra, se non un’Eucarestia che continua nel giorno, letteralmente una comunione che continua, che investe la giornata? Lì noi vediamo il Suo volto risorto! Allora, ogni volta che ci raduniamo, «al nostro raduno concorde un Ospite nuovo s’aggiunga»: è una novità ogni istante il prendere coscienza della Sua presenza che accade, di questa presenza che accade per tutta la storia. «Confermi la debole fede»: non c’è bisogno che siamo diversi per diventare diversi per l’energia del Suo Spirito. Siamo deboli, ed è questa debolezza che Egli ha già vinto, e la Sua vittoria sarà manifesta, si manifesterà. «Confermi la debole fede mostrando le piaghe gloriose», mostrando tutta la storia, la storia in cui Egli si è incarnato e rivelato e comunicato. «In questa letizia pasquale...»: la letizia è solo l’annuncio che «la Vita ha distrutto la morte, l’Amore ha lavato il peccato», che «Cristo, splendore di gloria, illumina il nostro mattino»; la letizia è qui e basta, non cerchiamola altrove, perché non esiste radice di letizia, se non qui. «In questa letizia pasquale, rifatti di nuovo innocenti»: nella letizia dell’annuncio di Cristo risorto, continuamente siamo rifatti innocenti. Ogni volta che prendiamo coscienza di ciò che Lui è, di questa Presenza che accade continuamente oramai, siamo investiti da una purità, perché la purità è lì, nella fede.

Ma questa non è la descrizione dell’ideale del movimento?

Allora ci siamo detti: chi nel movimento è diventato adulto, chi è adulto nel movimento, perché non aiutarlo a vivere con responsabilità personale come s’addice a un adulto, nella libertà come s’addice a un adulto, con una creatività secondo la vocazione della sua persona come s’addice a una vita adulta? Per l’adulto, per chi è diventato adulto nella vita del nostro movimento, occorre come stringere con dolcezza il nodo e venire all’ultimo dunque - e l’ultimo dunque sei tu -, liberando il tutto dalla inevitabile strettoia di un organismo associativo (non strappandolo fuori, ma liberandolo, facendogli vivere la vita del movimento nella libertà dello spirito), liberando quindi anche tutti coloro che sono, nel movimento, impegnati con responsabilità (come la maggior parte degli adulti), liberandoli a un determinato livello, liberandoli dal peso o dalla fatica o dalla complicazione del loro servizio stesso. Perché c’è un punto in cui debbo dire “io” di fronte al mio destino che è Cristo. Ed è lì, solo a quel punto, che veramente si riscopre d’essere fratelli: è la coscienza della Sua presenza che mi rende improvvisamente e veritieramente presenti anche coloro che mi ha fatto incontrare sul cammino.

«Ciò che dovunque, altrove, è una frustrazione, qui non è che una dolce e lunga obbedienza; ciò che dovunque, altrove, è costrizione di regola, qui non è che punto di partenza e movimento di abbandono; ciò che dovunque, altrove, è una lunga usura e logoramento, qui non è che sostegno e occasione di crescita; ciò che dovunque, altrove, è confusione, qui non è altro che l’apparire sull’orizzonte della bella avventura»3. Questo brano di Péguy, che invito tutti a rimeditare, deve descrivere il clima da creare nei nostri gruppi di Fraternità. Nessuno giudichi sé, né tantomeno gli altri, ma ognuno rialzi il suo sguardo, la sua faccia, alla presenza di Cristo, come bambini che guardano la loro madre. Nessuno giudichi se stesso o gli altri, ma è giusto che l’immagine ideale ferva nel cuore e risospinga la nostra barca sull’onda ogni mattina. Così questo brano di Péguy realmente deve stabilire, indicare, come un traguardo di amicizia ideale, di convivenza ideale; deve indicare l’orizzonte di una umanità realmente, concretamente diversa nel modo di pensare, di sentire, di comportarsi. Questo è il cammino per cui noi vi abbiamo invitati a mettervi insieme - a metterci insieme -.

L’altra sera, in un raduno a Milano, osservavo che, in questi anni, da una quindicina circa a questa parte, in tutti gli anni del nostro cammino, è come se Comunione e Liberazione, il movimento avesse costruito sui valori che Cristo ci ha portati. Così, tutto lo sforzo di attività associativa, operativa, caritativa, culturale, sociale, politica, ha certamente avuto come scopo quello di mobilitare noi stessi e le cose secondo le idealità, secondo gli spunti di valore che Cristo ci ha resi noti. Ma, all’inizio del movimento, non fu così. Come ho accennato ieri, all’inizio del movimento, nei primi anni, non si costruì sui valori che Cristo ci aveva portati, ma si costruì su Cristo, ingenuamente fin quando volete, ma il tema del cuore, il movente persuasivo era il fatto di Cristo, e perciò il fatto del Suo corpo nel mondo, della Chiesa.

All’inizio si costruiva, si cercava di costruire su qualcosa che stava accadendo, non sui valori portati, e quindi sulla inevitabile nostra interpretazione di essi: si cercava di costruire su qualcosa che stava accadendo e che ci aveva investiti. Per quanto ingenua e per quanto smaccatamente sproporzionata fosse, questa era una posizione pura. Per questo, per averla come abbandonata, essendoci attestati su una posizione che è stata innanzitutto, starei per dire, una “traduzione culturale” piuttosto che l’entusiasmo per una Presenza, noi non conosciamo - nel senso biblico del termine - Cristo, noi non conosciamo il mistero di Dio, perché non ci è familiare.

Cristo ragione della esistenza, Cristo motivo della nostra creatività, non attraverso la mediazione dell’interpretazione, ma di schianto: non esiste altra posizione che possa essere cristiana se non questa seconda. Tutto il resto - la mobilitazione dell’esistenza e la creatività - verrà dopo, ma Cristo come ragione della esistenza e motivo della creatività, questo è da ricuperare. È come un appassionato desiderio di ricupero della purità originale della vita del nostro movimento, per moltissimi ignota: forse più nota per la semplice tradizione cristiana che hanno ricevuto dai loro genitori che neanche dalla semplicità immediata di una comunicazione fatta tra di noi. È per questo cambiamento che è diventato così facile identificare l’esperienza nostra con un impegno attivistico, organizzativo o culturale, a volte così esclusivistico e autoritariamente definito e condotto.

Io dico che abbiamo voluto, con la Fraternità, invitare a una forma di impegno che mirasse, innanzitutto, a un aiuto al cuore di ognuno, a un aiuto perché ognuno cammini di fronte a Cristo e, in secondo luogo, ad assicurare persone che costruiscano l’opera del movimento con una maturità di fede sempre più grande, perciò in un modo creativamente più sicuro. Tutta la fatica, tutta l’energia, tante volte dolorosa, che moltissimi fra voi usano, danno, subiscono, per il loro servizio al movimento, non può non essere sostenuta. Dovete essere aiutati più direttamente al fondo del vostro cuore, alla radice per cui la vostra persona si impegna, con questa fatica. Insomma, abbiamo voluto chiamare gli adulti che l’avessero voluto, chiamiamo gli adulti che lo vogliano a un aiuto più direttamente personale, che assicuri, proprio per questo, una presenza più liberamente matura nella vita del movimento.

Comunque, adesso, descrivendo - come ieri sera è venuto emergendo da un dialogo con l’Esecutivo della Fraternità -, vorrei puntualizzare alcune cose su come la figura della Fraternità è concepita in base allo Statuto che è stato approvato dalla Santa Chiesa. È un cammino che iniziamo, anche come consapevolezza di che cosa voglia dire, di ciò in cui consistano i passi. Quel che si debba immaginare, pensare o realizzare di tutto questo, sarà una compagnia, sarà il cammino che lo mostrerà. È un inizio, questo, perciò non restiamo confusi da quello che ancora non ci appare chiaro, da come i rapporti, specialmente con la vita del movimento, possono sembrare preoccupanti, non sufficientemente distinti o non sufficientemente uniti. Non preoccupiamoci di questo, preoccupiamoci realmente di cogliere il punto centrale della nostra iniziativa, del nostro impegno. E il punto centrale è quello che ho detto prima: un aiuto al nostro cuore, perché la nostra vita cammini di fronte a Cristo. Tutto quanto viene implicato dalla impostazione che la Fraternità dà a questo sforzo si chiarirà nel tempo.

Dunque, la Fraternità ha lo scopo di proteggere, indirizzare e sostenere la volontà di chiunque intenda impegnarsi con l’esperienza del movimento fino in fondo. Perciò non c’è bisogno d’altro che di questo, di persone che vogliano impegnarsi con l’esperienza del movimento fino in fondo, o meglio, che riconoscano nell’esperienza del movimento l’impegno della loro fede, l’impegno della loro coscienza di uomini e di cristiani. Dico l’esperienza del movimento, perché essa è quanto ho accennato prima, con quel breve richiamo storico: l’esperienza del movimento troverà allora proprio nel nostro radunarci, nelle lettere che ci scriveremo, nei rapporti che stabiliremo, una sua chiarezza e la sua profondità. Può dunque entrare nella Fraternità chiunque abbia questa volontà. Come afferma l’articolo quinto dello Statuto: membri sono coloro «che si impegnano a vivere in pieno lo spirito della Fraternità, sia nella sostanza che nella forma».

La sostanza della vita della Fraternità è quello a cui accennavo poco fa: è il rendere reale l’Inno delle Lodi, è la creazione di ambiti umani dove la certezza del Benedictus diventi realmente, non solo un pezzo delle Lodi del mattino, ma un movente della vita, l’orizzonte della vita, ciò che determina il cuore nella vita. La forma della Fraternità è la nostra compagnia, è la compagnia. Questa compagnia è innanzitutto la Fraternità come tale. Perché non si parla “delle” Fraternità, se non impropriamente: è “la” Fraternità che è stata riconosciuta dalla Santa Chiesa. La Fraternità si specifica normalmente attraverso una libera scelta di aderenti che si costituiscono in gruppi di amici. La Fraternità si realizza normalmente, come norma, attraverso o dentro gruppi di amici che si costituiscono liberamente. Non so, il Teatro dell’Arca di Forlì (che ha già preparato una nuova pièce Norwid-Chopin) è lo spunto per una Fraternità. Oppure, come dice questa lettera che mi hanno mandato: «Carissimo don Giussani, siamo un gruppo di insegnanti che in questo anno ha cercato di vivere un’esperienza di Fraternità. Ciò che inizialmente ci aveva spinti a metterci insieme era stato il desiderio di rendere accessibile ai ragazzi cui insegnavamo l’esperienza del movimento, ma poi ci siamo accorti che questo non bastava, o meglio, implicava molto di più: la totalità della nostra persona nella compagnia tra noi. Infatti il desiderio di verità di noi stessi cominciava a definire la nostra vita, fino a far sì che il movimento come tale fosse l’unico orizzonte educativo nostro e della gente che incontravamo». Questo è un secondo spunto: sono insegnanti dentro un certo ambito che, per il motivo detto, si sono costituiti in Fraternità. Ma può essere che della gente voglia fare una cooperativa agricola e vivere questa iniziativa come spunto a qualcosa di più profondo tra di loro, in modo più determinatamente e definitivamente umano. Oppure possono essere degli amici di famiglia o gente che partecipa a una diaconia, che, come quelli che fanno una cooperativa, si domandano: cosa vuol dire per noi questo affanno “diaconale” che ci rende “manager” di questa comunità, di tutta questa altra gente per cui, come dire, consumiamo tempo e sangue? E noi? E poi anche per condurre loro, per testimoniare bene a loro, dovremmo vivere noi! Incominciamo a vivere noi! E così fanno una Fraternità.

Gli spunti per questi coaguli in cui la Fraternità si realizza possono essere i più vari possibili. Ci potrebbe essere una Fraternità in cui uno abita a Venezia, due a Udine, uno a Messina e un altro a Palermo. Ci potrebbe essere una Fraternità anche così. Lo spunto o il movente o la materia, il materiale, per cui questa forma profonda sia desiderata e tentativamente vissuta, può essere qualunque - qualunque! -.

Ecco perché chiunque, liberamente, può presentare la domanda di iscrizione, che deve essere poi accettata dalla Diaconia centrale (di cui parleremo dopo), la quale cercherà di assicurarsi circa le persone che domandano. La responsabilità della domanda è personale.

L’amicizia vera deve essere la caratteristica di simili solidarietà, perché l’amicizia vera è una compagnia al destino, cioè a Cristo. L’amicizia si definisce dallo scopo per cui si è insieme, per cui essa nasce. L’amicizia vera, l’amicizia in cui è l’uomo che viene toccato fin nel cuore, è una compagnia al destino. Perciò quella dei gruppi della Fraternità è un’amicizia formativa, diciamo ascetica, perché vuole essere un alveo che costringa alla verità di sé, cioè che costringa a un rapporto vero con Cristo. In questo senso, una tale amicizia diventa come una regola di vita, una regola per la fede personale.

Ci sono due cose che mi vengono da dire a questo punto (una l’ho già detta, ma la ripeto per seconda). La prima è che non ci neghiamo, di fronte alla serietà che tentiamo e proclamiamo, la difficoltà. Ma - ecco la seconda cosa, che ripeto - non abbiate paura: quello che occorre è realmente il desiderio di impegno della nostra vita con l’esperienza che abbiamo conosciuto (non con l’organizzazione del movimento, ma con l’esperienza che abbiamo conosciuto), e basta. Non per nulla la Santa Sede, la Chiesa, ha riconosciuto l’aspetto maturo di impegno con questa esperienza, ha riconosciuto questa esperienza nel suo impegno più maturo e più libero, che è la Fraternità. Perciò quello che ci occorre è il desiderio reale, di fronte al Signore, di impegno con Lui, secondo la grazia che ci è stata fatta, secondo la grazia dell’esperienza che ci è stato dato di toccare.

È inutile per ora richiamare che una simile compagnia avrà bisogno innanzitutto - “innanzitutto” nel senso proprio materiale del termine - di capacità di perdono, cioè, come dico sempre, di capacità d’abbracciare il diverso. Dovreste voi, che vivete con marito o moglie, insegnarlo a me: la prima fondamentale caratteristica, la prima fondamentale dote di una convivenza, tanto più quanto più è stretta, è il perdono. Occorrerà allora la capacità di accogliere il diverso, e quindi la correzione, che è la coscienza esplicitata d’essere in cammino, d’avere un destino, e quindi un aiuto ad approfondire la coscienza, un aiuto all’approfondimento della conoscenza e della coscienza. Perdono, correzione, approfondimento della coscienza. Queste sono certamente le doti più necessarie per una compagnia come quella che la Fraternità implica.

Ma come conseguenza più clamorosa di quello che questa amicizia vuole essere - vale a dire impegno con Cristo secondo l’esperienza nota, secondo la grazia che ci è stata fatta - si deve stabilire una solidarietà reale fra tutti i membri. «Tutti voi che siete battezzati vi siete immedesimati con Cristo: non esiste più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù»4. Questo, che è il mistero di tutta la Chiesa, incominci a rendersi più visibile, incominci a dimostrarsi, a manifestarsi, là dove della gente è stata così investita e arricchita di grazia come noi. Incominciamo a farlo vedere noi! Ecco la Fraternità, ecco il gruppo della Fraternità.

È una solidarietà non sentimentale. La sentimentalità ha e accusa sempre, come caratteristica, un’origine ambigua: pretende di affrontare, di abbracciare la persona, ma è da un punto di vista parziale, da un punto di vista strumentale che la abborda. Una solidarietà è reale e non sentimentale quando il movente, la ragione che la determina è la persona nella sua totalità, cioè la persona nel suo destino. Questo è l’unico punto intero. Neanche tra marito e moglie c’è una solidarietà! Mi sento in dovere di dirlo per l’attenzione che uno normalmente ha quando vive appassionatamente una convivenza: c’è un impaccio ultimo anche tra marito e moglie.

Quindi è una solidarietà non sentimentale, che investe la totalità della persona, cioè la persona nel suo destino: si tratta di affermare il destino di questa gente che ho con me. Come è lontana e astratta ancora, per noi, questa percezione nel rapporto! E senza questa percezione nel rapporto noi siamo disumani, siamo “infraumani”. C’è, come dire, un istinto di conservazione, di autodifesa della nostra natura, che un po’ corregge questa nostra, altrimenti totale, assenza gli uni dagli altri - perché i nostri rapporti sono così inesorabilmente sentimentali e strumentali, così parziali! -.

Per questa sua natura, la responsabilità della Fraternità è totalmente di coloro che la vivono - totalmente! -. In particolare, la Fraternità, il gruppo della Fraternità, è assolutamente indipendente dalla struttura del movimento. Badate, per favore, che non è indipendente dal movimento, ma è il vertice e il cuore del vero movimento, della verità del movimento. La struttura del movimento è uno strumento intelligente, laborioso e generoso di servizio. Il movimento è l’esperienza dell’uomo, e quindi una trama sociale di gente che vive quell’esperienza. Perciò la Fraternità è come il culmine del movimento e nello stesso tempo è il cuore o la radice del movimento. Come abbiamo detto ieri, queste solidarietà sono il primo attuarsi vero, maturo, del movimento.

Ogni singolo gruppo è così autonomo che decide della propria regola. Noi come guida della Fraternità chiediamo che siano salvati tre punti, tre fattori in questa regola (fatela come volete, però questi tre punti debbono essere salvati): primo, la preghiera; in secondo luogo, come simbolo e segno di povertà, la adesione, la partecipazione al fondo comune della Fraternità (come diremo dopo specificando); e, terzo, un’ultima obbedienza alla Diaconia centrale che dirige la realtà della Fraternità e ne ha responsabilità di fronte all’autorità ecclesiastica, di fronte alla Chiesa. La Diaconia centrale ha la responsabilità di tutti i gruppi di fronte alla Chiesa, perciò chiediamo un’ultima obbedienza a essa. Insisto sulla parola “ultima obbedienza a essa” perché, evidentemente, dato e detto quello che abbiamo specificato prima, non è che la Diaconia potrà pretendere di entrare nei dettagli o nella pratica della vostra vita di Fraternità, se non per indicare una strada di ascesi in sintonia con l’esperienza del movimento, oppure per correggere, se ci fossero, degli errori clamorosi. È come una salvaguardia, da una parte, e una direzione, una direttiva ideale, dall’altra.

Ogni gruppo, secondo la tradizione educativa del movimento, è bene - proprio dal punto di vista dell’ascesi - che abbia, che fissi una persona che svolga, per il tempo che il gruppo stabilisce, un’azione di richiamo, di coagulo e di servizio agli altri, cioè un responsabile. Dico “secondo la tradizione educativa del movimento”, perché è parte grave della nostra immagine educativa la presenza di una funzione autorevole.

È augurabile che ogni gruppo abbia un prete come presenza al suo interno o come riferimento per consiglio e aiuto. Nella Fraternità, il prete vi è come fedele, come una persona battezzata; per questo è molto significativo che tanti sacerdoti del movimento facciano attenzione alla Fraternità, così da sacrificare anche loro due giorni, un week-end, per venire a questo raduno: è significativo di intelligenza della nostra esperienza, è come, da parte loro, un sentirsi risospinti all’origine di tutta la loro figura, compreso il loro ministero sacerdotale, perché il fondamento anche del ministero sacerdotale è la fede, è il mio battesimo. In questo senso, il prete, qualunque prete, è uno della Fraternità (possono anche essere in tre, in quattro, in una Fraternità). Ma la mia notazione voleva dire che è bene che ogni Fraternità individui un sacerdote cui ricorrere come consiglio spirituale, d’aiuto. Ovviamente il criterio per individuare questo sacerdote è che sia intelligentemente e cordialmente simpatetico e immedesimato con l’esperienza del movimento (non che necessariamente debba essere del movimento, perché ci possono essere preti così cristiani da sentire il valore e l’originalità di una esperienza destata dallo Spirito in modo tale che prestino la loro persona per un aiuto capace di immedesimarsi con essa).

Questo richiamo alla figura del prete ritorna subito. La Fraternità come tale assicura un aiuto spirituale attraverso l’organizzazione di un ritiro periodico. Non è che chiunque sia obbligato ad andare: ci va chi vuole, perché io spero che sia ben chiaro come tutto questo è all’insegna dell’assoluta libertà. Quello che rimane nella storia, ciò che costruisce è solo ciò che nasce dalla assoluta libertà. La creatività è dalla libertà.

La Fraternità come tale assicura un aiuto spirituale attraverso un ritiro periodico, che svilupperà un contenuto teologico e ascetico, secondo l’ispirazione della nostra esperienza, con particolare riferimento al tempo liturgico, così come ci richiama il Decreto.

Poiché è l’unico punto di riferimento oggettivo (tutto il resto è abbandonato alla vita del singolo gruppo), il ritiro può essere tenuto dai singoli gruppi - un singolo gruppo può organizzarsi la mezza giornata di ritiro -, però questa iniziativa deve essere sempre resa nota al responsabile regionale. Il ritiro può essere tenuto per singoli gruppi o per più gruppi insieme, come sembrerà più opportuno. Per esempio, potrà sembrare più opportuno che ci sia un ritiro per regione, per tutti i gruppi di una regione. Però, se un gruppo lo vuole fare con il suo prete, lo faccia. In ogni caso, a guidare questi incontri dovranno essere sacerdoti che li preparano con me. Periodicamente io mi incontrerò con i sacerdoti che guidano i ritiri per approfondire insieme l’indirizzo teologico-ascetico, secondo la linea del movimento che quei ritiri dovranno comunicarvi.

Più liberi di così “se more”. Però, più profondamente inscritti di così dentro l’esperienza del movimento si muore.

I gruppi, d’intesa con il responsabile regionale, potranno propormi nomi di sacerdoti per questo compito. Un gruppo dice: «Voglio fare il ritiro con il tal sacerdote», allora mi manda o direttamente o attraverso il responsabile regionale il nome di questo sacerdote. Oppure cinque o sei gruppi vogliono fare un ritiro, la regione vuole fare il ritiro tutti insieme, allora mi indicano un sacerdote.

Coloro che non partecipano ad alcun gruppo si intenderanno con il responsabile regionale per partecipare a uno degli incontri così organizzati. Siccome alla Fraternità partecipa l’individuo, la persona, ci sono tante persone che non sono ancora in gruppo. L’indicazione è che si tenda a mettersi in gruppo, ma, almeno per il ritiro - questa è l’unica cosa necessaria, perché è necessario avere un punto di riferimento -, chi è senza gruppo, d’intesa col responsabile regionale, oppure sapendolo e scegliendolo, può andare a uno dei ritiri organizzati.

Più liberi di così si muore; ma anche più profondamente impegnati di così nell’esperienza del movimento si muore! Perché quello che vogliamo, l’opera che dobbiamo realizzare - l’opera è parte dello scopo della Fraternità, come avete visto nella lettera che vi ho mandato - è il movimento. L’opera che vogliamo realizzare è che questa esperienza di fede e di umanità si diffonda il più possibile, s’approfondisca e si diffonda il più possibile. Ora, quello che noi ci aspettiamo dalla Fraternità è che essa crei, educhi, maturi tanta gente che collabori alla diffusione di questa esperienza, vale a dire, che edifichi il movimento. Perché il movimento non è edificato dalla organizzazione, ma dalla vita delle persone. L’organizzazione è uno strumento, come l’alveo del fiume: il fiume non è l’alveo, ma è l’acqua che vi scorre. In questo senso, l’istituzione della Fraternità è realmente un richiamo alla purità totale nell’impegno col movimento.

Il rapporto con il movimento è dato dal fatto - e solo da questo - che il maturarsi ascetico della propria persona, il diventar più maturi noi nel rapporto con Cristo, non può che provocare un senso di responsabilità e di passione maggiore per la vita del movimento. Mi si scrive in una lettera: «Ti chiedo di capire bene, per favore, se è necessario essere di Cl per partecipare alla Fraternità, di Cl così come è organizzata localmente». È una questione delicata, che non è di un posto solo, ma è comprensibile: siamo uomini, siamo gretti, siamo pesanti, siamo possessivi, in nome dell’efficacia diventiamo meno efficaci, siamo in cinque gatti e ci dividiamo in tre pareri diversi accanitamente perseguiti; è umano, e bisognerà che non ci scordiamo di confessarle queste cose, perché sono peccati reali. Comunque sia, la frase ha un equivoco: Cl non è l’organizzazione locale, ma l’esperienza di cui ho parlato. Perciò non è necessario partecipare alle cose così come vengono fatte in un certo posto per essere di Cl e quindi per essere della Fraternità. Dirò che chi è della Fraternità è innanzitutto di Cl; soprattutto chi è della Fraternità è di Cl! Per questo anche se l’organizzazione di Cl, nel proprio ambito, non solo non soddisfa, ma è contraria a quello che riteniamo buonsenso, apertura, agilità, non possiamo però restare indifferenti, pregheremo perché le cose cambino, ma non faremo un’alternativa. Infatti l’organizzazione non può avere alternative: o l’organizzazione come tale, io o il Consiglio nazionale di Cl, esautora un responsabile, oppure, organizzativamente, l’organismo non può subire alternative: è peggio, diventa un male peggiore. La Fraternità permette, primo, di vivere l’esperienza secondo la libertà del proprio temperamento e della propria storia, secondo, di creare opere: non una organizzazione diversa del movimento, ma opere. Nessuno ti può impedire di fare una cooperativa o una sezione del Touring Club o un’iniziativa caritativa verso i vecchi della tua zona, per esempio. Nessuno te lo può impedire, neanche il capo della Diaconia.

Vorrei che questo punto fosse chiaro, perché non solo non può esistere ostilità o alternativa tra la Fraternità e la struttura di Cl, ma la Fraternità è come un correttivo profondo che lentamente agirà in funzione di una magnanimità, di una agilità, di una comprensività, di una libertà più grande anche nell’organizzazione. Dobbiamo perdonarci innanzitutto come appartenenti a una stessa esperienza. E poi la Fraternità mette anche dentro, come dire, un pungolo, è “birichina” la Fraternità. Poniamo, infatti, che una Diaconia faccia una Fraternità e che altri che non sono contenti della Diaconia facciano un’altra Fraternità - questo è possibile, anzi, è reale -. Allora, io non pretendo nulla - conosco da me stesso cos’è l’uomo, le sue debolezze, le sue chiusure -, però non possono dire di vivere a lungo una Fraternità, se la carità che dovrebbe esserci all’interno di ogni singola Fraternità non cercherà anche l’apertura, il perdono, la correzione e l’approfondimento con l’altra Fraternità, perché il movimento è uno, il movimento reale è uno! Non dico che la Fraternità non della Diaconia debba cedere alla Diaconia, perché potrebbe essere che abbia ragione, chi lo sa. Nella libertà, è una correzione vicendevole - perché la correzione, “reggersi insieme”, non è possibile se non nella libertà -.

Sono sicuro che siete ancora lontani dall’aver afferrato il grandioso amore alla libertà e la grandiosa passione per la verità che il movimento produce. Il movimento ha una tale passione per la verità che ha, come conseguenza, un’inevitabile passione per la libertà: altrimenti, trent’anni fa nessuno ci sarebbe venuto. Allora, guai a chi utilizzasse la Fraternità per scomunicare gli uni o scomunicare gli altri, per rivalersi contro l’istituzione (Cl come organizzazione) o per schiacciare quelli che non aderiscono al proprio managerismo.

Amici miei, di fronte a Cristo come ci viene annunciato nella storia del Suo corpo, che è la Chiesa, e che è il cuore del contenuto del nostro movimento, di fronte a questo non è possibile che non scatti un abbraccio comune, anche se rimangono tutte le diversità (ci sono tra marito e moglie, immaginiamoci se non ci possono essere tra altri!). Ma le diversità non debbono diventare decisive per il riconoscimento dei nostri rapporti, perché il perdono è l’accettazione delle diversità: il perdono è la prima caratteristica fondamentale del rapporto tra Dio e noi - si chiama misericordia -, perciò è la prima condizione per i rapporti tra uomo e uomo, tra uomo e donna, tra la gente. La prima condizione non è l’attrattiva, ma il perdono. Perché l’attrattiva - come dice il mio carissimo amico Leopardi - sta dietro la faccia, è qualcosa che sta dietro la faccia.

Continua la lettera citata: «Dire, infatti, che le Fraternità sono a servizio di Cl locale, da noi significa dire che i membri della Fraternità sono tenuti a lavorare nelle opere che già ci sono». Per nulla affatto! Le Fraternità sono a servizio del movimento; ma, come essere a servizio del movimento dove la Fraternità è, passa attraverso la libertà di quelli che vivono la Fraternità. Che la Fraternità sia a servizio del movimento non significa dire che i membri della Fraternità sono tenuti a lavorare nelle opere che già ci sono: i membri della Fraternità, man mano maturano, superando angustie, resistenze, ecc., cercheranno di guardare con la maggior benevolenza possibile quello che già c’è, nei limiti del possibile (del possibile anche psicologico) cercheranno di dare una mano a quello che già c’è, ma possono fare anche altro, può venire loro in mente di fare altro e, soprattutto, si può non essere d’accordo su certe impostazioni, e allora uno fa un’altra cosa. Ma dovrebbero essere tutti, gli uni e gli altri, contenti che la fede suggerisca una creatività multipla, plurima.

Badate che l’ideale non è questo, o meglio, badate di stare attenti a tutto quel che dico, perché non può esserci una Fraternità che si ponga o covi un risentimento verso altre Fraternità o verso la realtà che guida il movimento nel proprio posto, nella propria città: ma che razza di impostazione sarebbe? Ci può essere una Fraternità che, amando veramente il movimento e desiderando collaborare al movimento locale con tutta la sua buona volontà, realmente non si senta d’accordo su talune cose, e allora cercherà di parlare, di dialogare. Ma dico: innanzitutto la mossa, il modo di muoversi sia libero!

Potrà essere una funzione della Diaconia centrale quella, per esempio, di fronte a un’opera, di chiedere a tutti i gruppi della Fraternità di preferire l’aiuto a quell’opera che neanche impegnarsi a crearne di proprie. Questa potrebbe essere un’intelligenza a cui occorrerà obbedire. Ma ciò sarà certamente attuato con estremo “grano salis”.

Adesso leggo di volata due note, una sulla Diaconia centrale e l’altra sul fondo comune.

È opportuno precisare che l’unica autorità all’interno della Fraternità è la Diaconia centrale. A essa, infatti, compete non solo designare le persone a cui affidare le responsabilità di maggior rilevanza nella nostra associazione, ma anche e soprattutto di stabilire le direttive autorevoli per la vita della Fraternità. Quest’ultimo compito appartiene in modo esclusivo, quindi, alla Diaconia centrale, dal momento che gli organi regionali (Responsabile regionale e Diaconia regionale) si limitano a tradurre per le comunità dell’associazione esistenti nella regione le direttive della Diaconia centrale (come dice lo Statuto).

Leggo tutto questo perché sia risaputo, ma l’importante è quello che ho detto prima: sono cose che impareremo man mano che camminiamo, ma la cosa grande e importante è lo scopo per cui ci mettiamo insieme.

Data l’importanza della Diaconia centrale, è bene descriverne sinteticamente la struttura. Possiamo ricordare che la Diaconia centrale si compone dei responsabili regionali, dei responsabili della attività nei diversi ambienti (uno per la scuola, uno per l’università, uno per il lavoro, uno per la vita cittadina, uno per il mondo della cultura) e di un certo numero di membri cooptati. I responsabili regionali rappresentano per così dire il tramite normale del rapporto tra gli appartenenti alla Fraternità e la Diaconia centrale (il responsabile regionale è una funzione di servizio, di tramite tra i singoli gruppi e la Diaconia centrale).

Infine, l’ultima nota sul fondo comune, cui ogni iscritto alla Fraternità si impegna a contribuire secondo una somma annuale da lui liberamente stabilita come percentuale del proprio reddito, che intende destinare alle esigenze della nostra compagnia. La partecipazione al fondo comune è obbligatoria e libera: obbligatoria, perché ognuno vi deve partecipare; libera, assolutamente libera, come quantità. Essa deve essere intesa come percentuale del proprio reddito, perciò come un simbolo e un segno della povertà, del fatto cioè che le nostre cose non sono nostre, ma ci sono date da Dio da amministrare. La povertà non è non aver nulla da amministrare: la povertà è amministrare avendo come scopo supremo che tutto sia in funzione del Regno di Dio, in funzione della Chiesa. Il segno che concepiamo tutta la nostra vita - compresi i soldi e quel che possediamo - in funzione del Regno di Dio sta in questa partecipazione al fondo comune della Fraternità.

Il fondo comune verrà utilizzato di norma per i seguenti scopi: assicurare gli strumenti organizzativi necessari alla vita della Fraternità; sostenere importanti e significative attività missionarie e culturali del movimento (perché per noi l’attività culturale è quello che dà potenza alla nostra esperienza); soccorrere le più gravi situazioni di bisogno che vengano segnalate alla Diaconia centrale.

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Prima di concludere, vorrei richiamare ancora che la Fraternità è stata creata per darci un aiuto nel cammino della conoscenza vera di Cristo. La Fraternità darà questo aiuto se noi vi parteciperemo con obbedienza. Parte essenziale di questa obbedienza è la preghiera. Uno mi ha scritto in un biglietto, citando Il padrone del mondo di Benson: «I cristiani ebbero la forza di agire, ma non ebbero la forza di avere pazienza». Secondo me è un rilievo molto importante, perché non si diventa adulti se non con questa seconda forza. Perciò se la tua situazione d’animo e di cuore è disagiata, è una prova che il Signore ti fa attraversare; e se ti sei messo insieme a questa compagnia, è perché speri di esserne aiutato, come noi di essere illuminati dalla tua fatica. Intanto c’è una cosa da fare, per cui puoi benissimo non perdere tempo, che è il chiedere a Dio. Questa è l’unica cosa che, in fondo, dovremo sempre fare.

Quanto al responsabile della Fraternità, questi ha una funzione di richiamo, di coagulo, cioè di sollecitazione alla solidarietà. Può essere, sarà molto probabile che chi ha una personalità più autorevole sarà scelto dal gruppo, ma non necessariamente, perché questa funzione ha un duplice valore: primo, quello di un servizio, perché uno dovrà pur telefonare, dovrà dire: «Facciamo», e alla fine, nel dibattito generale, cinque contro cinque, dire: «No, facciamo così»; ma - secondo - il fatto di una certa dipendenza ha anche un valore ascetico. Io più di così non posso dire, perché altrimenti entriamo in un dettaglio pietistico, moralistico. Non siamo in un convento, siamo laici nel mondo. Ma, badate, per favore, che una regola per laici nel mondo, come è la Fraternità, applica i valori ascetici del convento alla nostra vita, perché la dipendenza da una persona, anche se è una rogna, può essere un approfondimento del sentimento più grande dell’uomo, che è la dipendenza da Dio, cioè può educare alla coscienza di essere come dipendenza. Soltanto che questo non può essere applicato meccanicamente. In un convento ci sono tutte le regole che regolano anche il comando, chi comanda. Perciò è semplicemente come una questione di principio, un punto di dipendenza ultima nella vita del gruppo. Qui è come a fisarmonica la questione: uno può viverlo cento e uno può viverlo uno, uno può essere nelle condizioni di viverlo cento e uno può essere nelle condizioni di doverlo vivere uno.

Guardate che letteralmente questo lo faccio per voi come lo faccio per me, e mi viene in mente perché ne sento il bisogno io; mi è venuto in mente perché ne ho sentito il bisogno io. Non si può sentire quello che è dentro un altro uomo, quello che vale per un altro uomo, se non lo si percepisce nella propria personale umanità.

Non esiste niente di maggiore aiuto al cammino di una persona come il fatto stupefacente che altra gente accetti di stare con lui: è una cosa dell’altro mondo! Perciò vivetela anche tra di voi questa semplicità. E chi si deve più ringraziare sono quei tanti tra voi, o siete voi quando sapete vivere l’annuncio del movimento con serietà e con semplicità profonda, come quei due giovani sposi che sono venuti qui nel loro viaggio di nozze.

Comunque vi chiedo, da ultimo, che abbiamo ad avere fiducia vicendevole: facciamoci credito, perché se siamo in 1.800 non è diverso che essere in tre o quattro; siamo realmente come una famiglia. In questo senso, io vi prego - perché questo lo metto avanti a tutto il resto della mia responsabilità nel movimento - che interrogativi, suggerimenti, confidenze di situazioni, mi siano fatti noti, avendo, mettendo in preventivo, la necessaria pazienza, perché il tempo è breve.

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