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domenica 15 luglio 2012

LA GENERAZIONE DEL BABY-­BOOM TRAVISA LA LIBERTÀ

LA GENERAZIONE DEL BABY-­BOOM
 TRAVISA LA LIBERTÀ
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 John Waters
 Mercoledì scorso, festa dell’Indipendenza degli Stati Uniti, il romanziere Kurt Andersen, in un intervento ospitato sul New York Times – “Il lato negativo della libertà” – ha ricordato una domanda che gli venne posta da un membro del pubblico quando parlò al Festival degli Scrittori di Woodstock, la primavera scorsa: “Come mai la rivoluzione sognata alla fine degli anni Sessanta ha avuto successo in gran parte sul fronte sociale e culturale – i diritti delle donne e degli omosessuali, un presidente nero, l’ecologia, il sesso, la droga, il rock – ma ha perso sul fronte dell’economia, nel quale le vecchie concezioni del libero mercato hanno sempre più influenza?”. È una domanda tipica della generazione del baby-­‐boom, e Andersen, nato nel 1954, ha risposto in una maniera che la maggior parte dei baby-­‐boomers giudicherebbe controrivoluzionaria. “Quello che è accaduto in campo politico, economico, culturale e sociale dopo il radicale cambio di orizzonte della fine degli anni Sessanta non è contraddittorio né privo di coerenza”, ha osservato. “È un fenomeno omogeneo. Per gli hippies bohémiens come per gli uomini d’affari e gli investitori, c’è stato il trionfo dell’individualismo. L’egoismo ha vinto”. Attaccando desiderio ed edonismo con uguale fervore, Andersen ha citato Thomas Jefferson concordando con lui: “L’amor proprio non fa parte della moralità”. Ha descritto il “tacito grande patto” stipulato a seguito della rivoluzione degli anni Sessanta “fra la cultura alternativa e l’istituzione, fra gli eterni giovani e le classi abbienti”, che ha portato in America a un individualismo privo di qualunque freno. “Con l’andar del tempo, le masse giovanili di qualunque età hanno avuto la licenza, in misura sconosciuta prima, di assecondare i propri impulsi personali e edonistici: Ma in cambio il capitalismo è stato altrettanto libero da vincoli, in grado a sua volta di assecondare il suo lato inumano con sempre meno condizionamenti per quanto riguardasse forme di regolamentazione, tasse e qualunque obbrobrio sociale”. La destra – ha notato – rinfaccia a quell’epoca la libertà sessuale, il multiculturalismo ecc., mentre la sinistra considera che quegli anni ci hanno lasciato delle libertà che oggi possiamo con certezza definire come progresso. “Ma quello che la destra e la sinistra rispettivamente amano e odiano sono le due facce della stessa moneta libertaria coniata intorno al 1967”. Anche se il quadro tracciato da Andersen è assai preciso, il suo andare in corto circuito riguardo a desiderio e egoismo rischia un giudizio sbagliato. Il problema è meno semplice ma più profondo. Alla radice tanto del sistema capitalista che del libertarismo che oggigiorno sottostà alle nozioni più comuni di progresso sociale sta un equivoco riguardo alla libertà dell’uomo. Nel caso del capitalista l’incomprensione è interessata e voluta; nel caso del rivoluzionario è ipocrita. Lungi dall’essere alternativi, gli obiettivi degli “idealisti” degli anni Sessanta sono il lato oscuro della moderna società dei consumi, che alimenta un’idea di “diritto” e di “uguaglianza” che a sua volta spinge il sistema economico in qualunque direzione ritenga opportuno. Gli anni Sessanta hanno messo al centro della cultura occidentale l’idea che la via più breve alla soddisfazione passasse per la linea diretta fra il desiderio istintivo e il suo obiettivo intuito. Libertà era il godimento di quanto veniva spontaneo, e secondo le regole ciò si sarebbe verificato senza conseguenze una volta che tu ti fossi liberato del complesso di colpa imposto dagli oppositori dai capelli bianchi, dalla cui società antiquata e dai cui strumenti eri stato irretito. Gli hippies e i contestatori sconvolsero il conformismo del padre repubblicano di Andersen perché giunsero a vedere i suoi valori come esistenti per lo più in astratto, privi di un contesto che non fosse il semplice controllo sociale. Non si resero conto che queste regole e limitazioni in apparenza imposte erano il frutto di una saggezza maturata attraverso le prove e gli errori degli uomini nei secoli. Le “regole” sono sgorgate dall’interno della persona, sia per definire i limiti dell’umana ricerca della soddisfazione sia per porre degli argini contro potenziali abusi verso o da parte di altri. Non erano dunque tanto regole, quanto leggi stabilite dalla realtà e dalle caratteristiche dell’esistenza umana. In questo schema, ogni desiderio comporta una serie di potenziali conseguenze che vanno considerate prima di valutare correttamente il costo della “libertà. Se una mia azione rischia di danneggiare me o un altro, è “sbagliata” secondo il calcolo delle sue conseguenze ultime, e questo è proprio ciò in cui consiste la morale. Le generazioni post-­‐anni Sessanta, negli Stati Uniti come in Irlanda, non sono state leali nei confronti della propria esperienza di libertà. Privatamente – individualmente – molti si sono resi conto che la loro ricerca della libertà non aveva dato loro quella soddisfazione che bramavano, ma avevano investito troppo di se stessi nel progetto per ammetterlo. Ora che si avvicina il finale del dramma epico della loro ribellione, essi perseguono i loro obiettivi eretti a idolo con rinnovato vigore, non più mossi in primo luogo dai desideri che una volta li avevano spinti, ma piuttosto per una spinta di riflesso generata da nostalgia e da irrigidimento culturale. Richiedono il matrimonio omosessuale non perché siano convinti dei suoi benefici, ma perché esso rappresenterebbe un’altra “vittoria”. Eleggono un presidente nero perché il suo colore aggiunge un elemento di dilazione al declino della loro rivoluzione. Il debito, la vera definizione dell’economia moderna, è insieme un riflesso di queste disposizioni e una metafora della mancanza di conseguenze della rivoluzione. Come lo schema liberale pospone tutti i costi, destinandoli a essere sostenuti dai posteri, l’economia moderna spinge i suoi passivi in un lontano futuro, per risponderne solo su una base teorica. Ma il cuore della questione non è nel desiderio, nell’egoismo o nella decadenza. Il denominatore comune sta nel fenomeno culturale dell’incomprensione del desiderio – nella mancanza di consapevolezza che l’uomo non può appartenere a nessuna delle cose banali sulle quali fissa il suo sguardo.Questo problema    non   può   essere  affrontato con    nuove regole   o con  il  rinnovarsi  di   istanze morali, ma solo riaprendosi alla domanda fondamentale: che cosa desidera oggi l'umanità?

Irish  Times, 6 luglio 2012

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