***
Tu hai convertito in
luce le mie tenebre ed in gioia la mia tristezza; e la mia luce e la mia gioia
Tu solo sei, o Gesù!”.
“Dicono che sono
cieco. Ma io affermo, con tanta compassione per gli altri: «Io non sono
veramente cieco. I veri ciechi sono quelli che guidano alla perdizione le
anime; i veri ciechi sono quelli che non vedono Gesù, e Gesù si vede con la
luce della fede!».
Eppure, essendo cieco, quanta
luce! Eppure, essendo sordo, quanta armonia!.. Eppure, avendo una voce rauca,
con la quale mi faccio a stento intendere dai miei simili, che gioia parlare di
tutti al Creatore, implorando per tutti la sua misericordia!
Ah, come è bello e santo,
per chi non ha da fare tantissime cose, per chi, come me, non sa fare altro,
vivere nella solitudine, ubbidendo al divino Comandamento: “Ama Iddio con tutte
le forze e il prossimo come te stesso”. Come è bello pregare per la perseveranza
dei buoni e per il ravvedimento dei cattivi! Come è bello pregare con Gesù per
i suoi crocifissori di ogni tempo: ”Padre, perdonali! Non sanno quello che
fanno!”.
“Questo è il mio ufficio; non so fare altro che stare in
ginocchio davanti a Gesù e a Maria. Parlo a Gesù delle anime o parlo alle anime
di Gesù. So che il Signore non mi vuole né predicatore né scrittore, ma con le
mani giunte e davanti a Lui. Pregherò, dunque, molto”.
“Tu hai convertito in luce le mie tenebre ed in gioia la mia tristezza;
e la mia luce e la mia gioia Tu solo sei, o Gesù!”.[1]“Vedete, io sono il più ignorante di tutti gli
uomini della terra. Tutti sanno molte cose, ed io una cosa sola: so soltanto
essere felice! Tutti posseggono più oggetti; io invece non posseggo che una
cosa: la vera felicità! Io altro desiderio non ho, se non di adempiere sempre
ed ovunque la santissima volontà di Dio.
Questo cieco,
questo ammalato è felice di una felicità non egoista; perché piange per la
infelicità altrui e prega il suo Dio e la sua Madre celeste, affinché il numero
degli infelici sia ridotto a più pochi che è possibile..."
Frate
Ave Maria
UN RAGAZZETTO PIENO DI VITA
Pogli, il paese di nascita di frate Ave Maria, situato alla
riva sinistra dell'Arroscia, a 10 km. da Albenga, conta un 300 abitanti e fa
parte del comune di Ortovero che sorge più a valle ed è un centro di floridi
mercati.
La famiglia di Cesare Pisano, un uomo gagliardo e laborioso
che esercita il mestiere di panificatore, è di stampo e antico e di buona
tempra religiosa, garantita in modo speciale dalla mamma Serafina che deve
allevare quattro maschietti e una bambina.
Il primogenito è il nostro frate Ave Maria, che vede la luce
il 24 febbraio 1900 e al battesimo, somministratogli dal parroco don Giovanni
Favara, riceve il nome del padre, caso non raro tra la gente di campagna, con
altri due nomi di santi protettori, Domenico e Francesco che si riveleranno
fatidici della sua fede, del suo amor di Dio, del suo spirito di povertà e di
penitenza.
Il miraggio di un guadagno più sicuro seduce l'umile
panettiere che nel 1906 parte per l'America in cerca di fortuna e riesce a
procurarsi un posto di macchinista nelle ferrovie.
In casa oltre la mamma Serafina e i fratelli, e poi la
sorellina, ci sono i nonni materni e alcune zie.
Cesarino si affeziona alla chiesa: serve da chierichetto
all'altare e a nove anni fa la prima Comunione e riceve la Cresima il 12
luglio 1909. Promette veramente bene.
E’ sano, vispo, ardito, con una faccia tonda e rosea e due
occhi limpidi castani che sono una meraviglia. Ed è sveglio di intelligenza,
primeggia tra gli scolari che frequentano le elementari a Ortovero e, più
avanti, la IV classe, presso l'istituto Sacro Cuore di Albenga retto da don
Isola. Quando s'iscrive alle tecniche guadagna una borsa di studio per
profitto e buona condotta. Ha già davanti a sé un avvenire di distinzione.
Alla serietà di piccolo studente unisce una grande
vivacità di carattere che lo stimola a scavalcare rapidamente la frontiera
dei giochi fanciulleschi.
Su alcuni ricordi della prima infanzia tornerà volentieri
Cesare Pisano già avanti negli anni, scrivendo alla mamma: «Vi ricordate
quando mi feci male all'occhio destro trascinando rami d'olivo e rovi in
piazza? (Alla vigilia di san Giovanni Battista a Pogli, come altrove, di sera
accendono i falò). Voi andavate coi secchielli ad attingere acqua alla
fontanella ed i miei compagni e io venivamo dal ponte verso la piazza
trascinando e spingendo rami d'olivo, quando, ad un tratto, scappa di sotto ad
un mio compagno un ramoscello e mi batte nell'occhio. Ricordo ancora come fosse
ora, il vostro viso pieno di spavento nel vedermi portare piangendo le mani
all'occhio. Mamma cara, quanti spaventi vi ho fatto prendere... Eppure quello
non era che un preludio, a colori assai sbiaditi...».
LA SPAVENTOSA «DISGRAZIA»
La sollecitazione per l'avventuroso era nei ragazzi
dell'epoca allo stato vergine e istintivo, non inficiato da deformazioni
mentali. Si sviluppava su di un fondo di semplicità prendendo forma
dall'ambiente non dai fumetti pornografici o da complessi freudiani.
Piuttosto confluivano nelle determinazioni i libri di Verne
e di Salgari, le reminiscenze letterarie dei poemi omerici, virgiliani e
romanzeschi, e le immagini delle ultime guerre, quelle dell'Africa, sempre
deleterie alla fantasia dei ragazzi. Fare il grande andando a caccia era uno dei
diversivi programmatici della gioventù in quella zona che vi si prestava, a
due passi da casa, con la libera campagna e la distesa dei boschi ricchi di
selvaggina.
Non esisteva ancora la passione per lo sport della palla
rotonda nella quale si scaricano tanti richiami di lotta insiti nell'animo. Ma
usava molto il pallone elastico anche nelle minuscole frazioni. Cominciava ad
affermarsi il ciclismo, quello dei tempi leggendari, e lungo la Via Aurelia
ogni anno dal 1907, il giorno di San Giuseppe, passava la Milano - Sanremo resa
dura dal favoloso Turchino. Ma i pochi chilometri che separavano la corsa dal
paesetto di Cesarino potevano annullarsi dai giovani che possedevano una
bicicletta, non dai ragazzini che ancora dovevano sognarsela.
La caccia invece era a portata di tutti se non altro come
spettatori e aiutanti in campo.
È il 1° novembre 1912, un pomeriggio tiepido, soleggiato,
che richiama i parrocchiani alla pratica dei suffragi dopo che con la messa
cantata del mattino si è esaurita sostanzialmente la solennità di Tutti i
Santi.
In chiesa prima, ognuno con la candela accesa, a recitare
l'ufficio dei Morti, e poi, in processione, al piccolo cimitero, già tutto
infiorato ai tumuli erbosi e alle bianche lapidi, per la commemorazione
anticipata dei fedeli defunti.
Nessuno manca al dovere umano e cristiano.
Il nonno sta avviandosi alla parrocchia dove la sua
presenza è richiesta come cantore anziano e incontrando Cesarino per la
strada lo invita a seguirlo. Ma il ragazzo scantona. Ha scorto il suo «Tumelin»
Vignola di un anno maggiore di lui e suo indivisibile compagno di svago nel
pescar anguille all'Arroscia e nell'arrampicarsi su per i boschi a caccia di
nidi e di uccelli: con quel desiderio ancora inappagato di poter un giorno
concedersi il gusto e il piacere di imbracciare il fucile ed imitare i grandi.
Lo raggiunge, lo segue e nella penombra di una stalla
aperta, coi ruminanti sdraiati sullo strame, intravvedono le canne lucenti
di un fucile da caccia appoggiato alla umida parete.
Perché non provarlo? Il padrone è altrove in quel momento.
Bartolomeo entra, afferra l'arma, la palleggia
bilanciandola tra le mani e poi la spiana per gioco in direzione di Cesare:
«Scappa, se no ti tiro come a un piccettu» (il pettirosso).
Cesare vorrebbe palparla, maneggiarla subito anche lui
quell'arma così seducente, ma si scosta per sostenere «l'altra parte», quella
di bersaglio. Tanto il fucile è scarico. E pregustando la gioia che proverà
dopo di lui, incita il compagno: « Su, presto, presto, spara io non ho
paura!». E allarga le braccia, pronto a ricevere la scarica.
Bartolomeo preme il grilletto.
Un grido: «Mamma!». Cesarino urlando si copre con le mani
la faccia, da cui gronda il sangue, e crolla a terra terrorizzato.
Il velo delle tenebre è calato sui suoi occhi per sempre.
Bartolomeo fugge via a dar l'allarme, con il cuore in tumulto. La gente
accorre. Il nonno è il primo a raggiungere il fanciullo. Lo prende sulle
braccia e lo porta in casa. Di lì si prepara in fretta un mezzo di trasporto
per l'ospedale di Porto Maurizio.
I medici dopo aver apprestato al ferito i soccorsi
immediati, pietosamente alla mamma e ai nonni, che gli sono accanto,
lasciano un lieve margine di speranza. Cesarino continua a protestare,
smaniando, che vuol vederci, che gli levino quelle bende. «Stai tranquillo -
gli dicono - che appena tolta la fasciatura ci vedrai!».
Un mese a Porto Maurizio.
Nel frattempo il padre è accorso dall'Argentina. Il
ragazzo una volta sente il dottore che gli dice: «Solo un miracolo potrebbe
salvargli la vista». Ne rimane sgomento. Comincia nel suo pensiero un sordo
lavorìo di ribellione, di rabbia, di disperazione.
Con ogni cautela si compiono diversi interventi operatori.
I pallini sono asportati con l'occhio colpito, il sinistro. Si tenta il
possibile per salvare quello destro, ma per il pericolo del tetano, e perché
ormai spento, lo devono enucleare.
Due occhiaie vuote dove prima brillava tanta luce di
intelligenza e di bellezza. Un mese di strazio e la più cupa angoscia nel
cuore. Un'indole tanto buona, portata naturalmente all'ottimismo, che rischia di
deteriorarsi in un carattere irrimediabilmente introverso.
ALL'ISTITUTO DAVIDE CHIOSSONE DI GENOVA
Tornato in famiglia dopo le ultime medicazioni, colle
ferite rimarginate ma spaventose a vedersi, se le lenti nere non le
nascondevano, rimase a smaltire i mesi più duri del suo tirocinio di
adattamento ad una vita da condurre nella cecità totale, mentre in casa con
l'accorata partecipazione del parroco, degli insegnanti di Albenga, si
venivano prendendo le decisioni per la sua sistemazione definitiva.
Il fanciullo si sente tremendamente solo.
Il pensiero e la presenza dei ragazzi che ci vedono, che si
divertono, può influire negativamente su di lui, accentuando il suo complesso
d'inferiorità nell'inevitabile, ossessivo confronto.
L'affetto della mamma e del papà, dei parenti, dei
sacerdoti che lo avvicinano, mitiga quel senso di abbandono e solitudine, ma
non può ancora sostituire il tesoro perduto.
Il rimedio più adatto è vivere con dei compagni simili a
lui nella menomazione fisica. Se il collegio è un ospedale rispetto alla
famiglia, diventa utile, indispensabile, nel caso particolare.
I ciechi non amano sentirsi compatiti, perché hanno delle
possibilità di ricupero e di affinamento delle doti migliori dello spirito, che
largamente li compensano.
Per Cesarino fu deciso il ricovero all'Istituto Davide
Chiossone di Genova.
È una tra le migliori opere sorte in Italia a sollievo dei
giovani privi del dono della vista. Porta il nome del suo fondatore medico e
letterato, autore di diversi drammi a sfondo sociale (Genova 1822-1873).
E’ bene impostato religiosamente. L'infermeria è affidata
alle Figlie della Carità.
Cesare Pisano vi entra il giorno 8 maggio 1913 ed è subito
circondato di affetto, oggetto di amabili attenzioni specialmente da parte del
direttore don Giovanni Gando e del confessore dell'Istituto don Giovanni
Lagomarsino prete della Missione e presidente dell'Associazione Ligure Ciechi.
Gli dà subito una sensazione di sollievo, se non di rassegnazione alla
tremenda «disgrazia» che l'ha colpito, la compagnia di giovani e di adulti
che soffrono come lui, hanno come lui il rimpianto della luce e dei colori, del
libero movimento, degli incontri con le persone e il contatto visivo della
natura, ma, con sua sorpresa, diversamente da lui si son adattati
all'ineluttabile destino e gli presentano con l'esempio pratico la via da
seguire per uscire dalla tetraggine e riprendere un po' di confidenza e di
fiducia nell'avvenire.
Egli si dibatte in una crisi che per ora non offre
alternative di sicura salvezza.
A scuola non si applica come potrebbe, però realizza
qualche buon profitto. Apprende il metodo di scrittura e lettura Braille, e le
sue dita acquistano molta finezza tattile e percettiva; segue piuttosto
distratto, da principio, le lezioni di storia, di letteratura, di scienza e
matematica che gli vengono impartite, attende con risultati appena mediocri allo
studio della musica e nell'ora di esercizi pratici impara qualche mestiere
come quello di impagliare sedie, confezionare coroncine, eseguire determinati
lavoretti, nei quali potrebbe anche distinguersi, se tutto non rimanesse
offuscato, paralizzato da quell'oscuro sentimento di irreparabile inferiorità
di cui si sente ingiustamente vittima.
L'AZIONE BENEFICA DI SUOR TERESA
Il confronto con il passato lo getta nell'angoscia ogni volta
che si presenta al suo pensiero. Dotato di buona sensibilità artistica, egli
avverte ancor più struggente il rammarico. Reso precocemente adulto dalla
sventura, non più protetto e salvaguardato dalla gioconda esuberanza
giovanile, piomba in un abisso di tristezza che col tempo si esaspera e
s'intorbida di cupe riflessioni demolitrici della stessa fede.
È il momento più lontano da Dio da lui vissuto. La
Provvidenza non tarda però a manifestarsi. Trasferita da Cagliari, giunge, come
prima infermiera dell'Istituto Chiossone, suor Maria Teresa Chiapponi di
Pianello Val Tidone.
Diventerà l'angelo tutelare di Cesare Pisano.
Suor Teresa lo incontrò al quarto anno di cecità, quando il
giovane entrava nell'età critica e i germi malefici dello scetticismo e della
incredulità avrebbero potuto avviluppargli il pensiero e rapidamente
inaridirgli il cuore.
La piccola suora, fornita di senso pratico e di finezza
psicologica, serviva con grande bontà i suoi ragazzi, li coltivava
moralmente e spiritualmente, e, senza ricorrere all'uso di troppe parole, aveva
al momento buono il tocco risolutore per attirarseli e convincerli al bene.
Cesare da molto tempo non pregava più e covava in sé una
specie di rancore contro la fede che gli pareva inefficiente a ridargli la
pace e la gioia di vivere. Nell'intimo del suo animo compiva due operazioni
contraddittorie: negava Dio e lo contestava, lo «bestemmiava».
Era insofferente di tutto. All'ora della messa, della
domenica e del giovedì, si dava malato: e malato lo era solo nello spirito.
La suora capiva benissimo che era un pretesto per sottrarsi al dovere religioso,
ma non lo redarguiva direttamente, per non mortificarlo e irritarlo. Mentre
gli passava una sigaretta per tenerlo su di morale, gli diceva: «Non ne hai
abbastanza della cecità degli occhi: vuoi crescere cieco anche nell'anima.
Poveretto!».
Lui però non si sentiva affatto disposto a secondare le
affettuose iniziative. La considerava un'inesperta della vita, una fanatica,
una pazza.
Ma poi capì che era possibile un'altra spiegazione di quel
suo caritatevole sacrificarsi: - E se fosse una santa?
La grazia di Dio, per mezzo di quell'anima pia e generosa,
cominciava a operare in lui.
L'alba della salvezza non era lontana. Un fatto che potrebbe
ritenersi decisivo.
Muore nel 1918 la nonna, da lui visitata poco prima all'ospedale
di Galliera. Ne prova una vera desolazione. Suor Teresa lo esorta a onorare la
memoria della defunta con la preghiera e con la santa Comunione. Agisce cioè
sul suo naturale sentimento di affetto verso i congiunti. Straordinariamente
Cesare Pisano acconsente: si confessa e ritorna alla Comunione.
Non si esagera a parlare di conversione, anche se si tratta
di un giovane sotto i 18 anni. E di «conversioni» ce ne saranno altre lungo
il cammino della sua vita, che da quel punto ha trovato il suo orientamento
definitivo.
Chissà! Avrebbe potuto applicandosi meglio essere tra gli
allunni scelti per continuare lo studio della musica al Conservatorio. Ne fu
escluso, ma non senza un provvidenziale disegno di Dio, che «scrive diritto
sulle nostre linee storte», come usava dire don Orione.
VOCAZIONE RELIGIOSA
Davvero straordinario! Va a casa per passare un po' delle
sue vacanze in famiglia, ma lo prende la nostalgia dell'Istituto, e comunica a
suor Teresa che vuol presto rientrare per potersi concedere la gioia di
«pregare».
Tornato al suo «dolce nido», studia appassionatamente la
religione, pone domande, chiede soluzioni ai suoi dubbi e medita a lungo sul
proprio avvenire.
Non è però un cammino scevro di difficoltà e di
contrasti. A volte lo invade un senso di malinconia, e teme di perdere quel
«gusto sensibile», quel fervore della preghiera, a cui si è applicato.
Intanto s'insinua nel suo cuore un'idea e forse già un
desiderio: donarsi tutto al Signore entrando a far parte di qualche
comunità religiosa.
«Ogni immagine che dimora in noi, tende a impossessardi di
noi, a modellarci del suo stampo. Penetrati da una idea liberamente scelta, noi
ne diventiamo schiavi: schiavi di noi stessi, della nostra volontà di scelta,
cioè liberi» (Sertillanges). Una volta a suor Teresa, che gli domandava
perché era triste e cogitabondo, Cesare Pisano rispose per scherzo che stava
mulinando nel cervello l'idea di farsi frate. Ma poi l'idea s'impossessò di
lui nel senso or ora esposto, e quando un'idea signoreggia un cuore libero
nessun ostacolo può più impedirne la realizzazione.
Il padre Lagomarsino, messo al corrente, si adoperava per
tener viva la fiamma della vocazione e avrebbe voluto indirizzarlo al
Cottolengo di Torino. Non era quello il suo posto.
Suor Teresa gli veniva parlando di un sacerdote, don Luigi
Orione, fondatore d'una Congregazione dove egli avrebbe meglio attuato il suo
sogno claustrale.
A don Orione suor Teresa si era già rivolta per
raccomandargli alcune suore, cieche o vedenti, in quel periodo di tempo.
Parlava di lui all'aspirante religioso con tanta convinzione da accendere nel
suo cuore non un vago desiderio o una semplice curiosità di conferire con lui,
di ascoltarlo, di saggiarlo, ma la brama risoluta e incontenibile di donarsi
interamente a lui, di mettersi da quel momento a sua completa disposizione.
DON ORIONE E IL SUO IDEALE DI VITA
Il sacerdote don Luigi Orione era già stimato, specialmente
nelle alte sfere ecclesiastiche, come uno degli esemplari più significativi del
clero, mentre rappresentava nel modo più degno la tradizione delle grandi
figure apostoliche piemontesi, dal Murialdo al Cottolengo, dal Cafasso a don
Bosco.
La sua caratteristica più qualificante era l'ardente brama
di immedesimarsi con Gesù Crocifisso, divenuto il centro propulsore della sua
vita, da cui derivava, come logica conseguenza, l'assoluta e incondizionata
fedeltà alla Chiesa e al Papa «dolce Cristo in terra», e lo zelo
generosissimo per la salvezza delle anime, di tutte le anime, comprese nel
grido: «Ho sete!» che parte dalla croce di nostro Signore.
Ma per salvare le anime «membra di Cristo» occorre una
fede, uno spirito di dedizione e di sacrificio capace di suggerire e
accompagnare l'esercizio di tutte le opere di misericordia. E per realizzare
questo programma e raggiungere queste finalità, è indispensabile la devozione
alla celeste Madre, dispensiera di grazie, «posta da Dio sull'orizzonte del
cristianesimo, perché a lei si rivolgano i voti di tutti coloro che soffrono
e sperano», secondo una sua espressione, oggi scolpita sul marmo nella parete
centrale esterna della torre - monumento che fa da piedestallo alla grande
statua dorata splendente sul santuario da lui eretto alla Madonna della Guardia
di Tortona.
Per questo, Luigi Orione - nato a Pontecurone (AL) da
un'umile famiglia di selciatori di strade il 23 giugno 1872, e passato da
giovane per esperienze in parte dolorose, ma sempre vissute nella luce della
vocazione, prima come postulante dei Minori francescani di Voghera, poi come
allievo dell'Oratorio salesiano di Valdocco, dove conobbe don Bosco, e
finalmente nel seminario vescovile di Tortona, - sua diocesi -, quando, spinto
dagli esempi dei Santi torinesi, inaugurò, ancor semplice chierico, l'Oratorio
festivo "San Luigi", il 3 luglio 1892, che segna l'inizio della
«Piccola Opera della Divina Provvidenza» da lui fondata, e approvata il 21
marzo 1903 dal suo vescovo Igino Bandi, volle nel timbro e nello stemma della
Congregazione fissare questa sigla: «Gesù, Papa, Anime, Maria».
Tutta la sua vita si sviluppa su queste quattro direttrici
intercomunicanti pur nelle diverse forme delle loro attuazioni. Nell'esercizio
della carità («Fare del bene sempre, del bene a tutti, del male mai a
nessuno») e nell'intento particolare di portare la gioventù «sole e tempesta
di domani» all'amor di Dio e del prossimo, egli non si rivela solo un buon
organizzatore, ma un esecutore, votato a tutti i sacrifici e pronto a morire
sul campo del lavoro, come poteva succedergli quando accorse nel 1909 tra i
superstiti del terremo calabro - siculo, e nel 1915 tra quelli del terremoto
marsicano, meritandosi il titolo di «padre degli orfani» ravvivato da
prodezze ed eroismi eccezionali.
Per questo ancora, alla Congregazione di sacerdoti chierici
e coadiutori professi, e alla famiglia religiosa degli Eremiti (1899),
aggiunse la fondazione delle «Piccole Suore Missionarie della Carità»,
impegnate soprattutto in quelle Case di assistenza denominate «Piccoli
Cottolengo di don Orione», iniziate si può dire fin dal 1915 ad Ameno (NO) e
nel 1917 a San Sebastiano Curone (AL), ma sorte come una felice costellazione
a Genova dal 1924, a Milano nel 1933, e poi in ogni regione d'Italia, come in
Polonia, in Brasile, in Uruguay, in Argentina, nel Cile, in Inghilterra (ancora
lui vivente), e oggi presenti anche in Spagna, in Francia, nell'America del
Nord, in Africa e in Asia.
Ma proprio negli anni seguiti al suo primo incontro col
nostro giovane, don Orione provvedeva a fondare in Congregazione due nuove
famiglie: quella degli Eremiti ciechi (1923) e quella delle Sacramentine cieche
Adoratrici (1927). In questo periodo di tempo (1920) il nostro beato padre
Fondatore era ancora nel pieno vigore delle sue energie morali e fisiche. Aveva
48 anni. Esprimeva forte volontà dal volto rude e sorridente sotto una fitta
corona di capelli corti e grigi, e una luminosità affascinante dagli occhi
grandi mobili penetranti, magari anche il segreto delle anime. Gli rimanevano
altri quattro lustri da vivere, durante i quali attuerà un efficace
rinsanguamento dell'organismo religioso mediante la questua delle vocazioni, e
subirà la provvidenziale Visita Apostolica compiuta dall'abate Emanuele
Caronti, che dava il suo contributo di pietà e di esperienza all'organizzazione
e allo sviluppo della Congregazione, rinnovata nelle sue strutture ai sensi del
diritto canonico, per l'approvazione delle Regole da parte della S. Sede e il
riconoscimento pontificio, che avverrà alcuni anni dopo, col decreto del 20
novembre 1954.
Il volto della Congregazione era diverso da quello attuale.
Ma quanto c'era o ci poteva essere di confusionario, di farraginoso,
d'improvvisato, di empirico e di manchevole nella tenuta esterna, era compensato
dal fervore religioso che ci animava, dalle buone disposizioni al lavoro anche
quello più faticoso e umile, dalla semplicità di vita, da una carità
fraterna di vicendevole edificazione, che escludeva qualsiasi aspirazione a
distinzioni e cariche onorifiche e di comando. Si guardava ai più anziani con
rispetto e venerazione, si praticava la povertà a tavola e in tutto il
costume di vita. Paste, dolci, gelati, bibite, non si sapeva mai che gusto
avessero. Neppure a Natale e a Pasqua compariva alla mensa un assaggio di
panettone: bastava un po' di frutta, mandarini, arance e le belle mandorle di
Noto, oltre le castagne secche, naturalmente bollite, qualche volta nel latte
adacquato.
Lo spirito di mortificazione rientrava di continuo
nell'osservanza delle norme pratiche, molto austere, a cominciare dall'ora
della levata. Si scansava persino l'uso del vocabolo «vacanze», ritenuto
indegno di un figlio della Divina Provvidenza. «Labor, Sudor, Fervor»,
erano le vie maestre da percorrere asceticamente. Di libri personali non
avvertivamo la necessità. I testi di meditazione, oltre la Sacra Scrittura,
erano l'Apparecchio alla morte di S. Alfonso de' Liguori e il De Imitatione
Christi.
Don Orione disapprovava la cura ricercata dei capelli: li
voleva sempre tagliati corti; condannava magari con draconiane decisioni l'uso
di abiti troppo fini o secolareschi, anzi voleva che portassimo la veste talare
anche durante il lavoro. Al limite, a un damerino avrebbe preferito un
trasandato, sempre però disapprovando, lui che teneva tanto all'ordine e alla
pulizia, come al decoro sacerdotale, certe penitenze insettiformi praticate da
Giuseppe Benedetto Labre «santo non per quelle ma malgrado quelle».
Cesare Pisano si trovò così sbalzato dall'Istituto
Chiossone di Genova al Convitto Paterno di Tortona, che presentava aspetti
del tutto nuovi per lui.
A TORTONA NEL 1920
Dunque la decisione è presa e confermata: entrerà nella
Congregazione di don Orione. L'attivissima suora ottiene persino che don
Orione sosti per breve tempo all'Istituto Chiossone per vedere il postulante,
al quale rivolge parole di fede non scevre di una certa austerità per imprimere
in lui fin dal primo incontro il concetto dell'umiltà, dello spirito di
sacrificio e di rinuncia necessario a chi intende consacrarsi a Dio, avendo
già concepito in cuore di farne il capostipite d'una istituzione destinata ad
una vita di silenzio e di preghiera.
Dice al riguardo frate Ave Maria, rievocando in seguito tale
incontro: - Allora io ero disperato, non avevo fede, desideravo solamente la
luce del mondo, la sapienza del mondo. Con molta pazienza riuscì a farmi
capire e ricordare che la vera pace è un dono di Dio e che il Signore la
promette a tutti gli uomini, e non solo ai potenti, ai sapienti, ai ricchi, ai
dotati di un corpo sano, bello, agile: anzi chi, più privo di questi vistosi
vantaggi, ha miglior volontà, quegli ha maggior pace. Don Orione, con grande
paterno amore, mi dette dello stordito. «Oh, stordito - mi disse - tu desideri
i beni che poi dovresti abbandonare; di quello che avresti nelle tue mani, forse
te ne serviresti per diventare colpevole. Tu devi vedere la luce, per non
correre il pericolo di andarti a fracassare; tu devi avere la sapienza
dell'uomo giusto, e sta certo che non ti annoierai. Devi affidarti alla Madonna,
che ti assisterà sempre, continuamente, col suo materno cuore... » (La
luminosa notte, p. 21).
Ma suor Teresa vuol conoscere le modalità e le condizioni
della sua accettazione: come dev'essere il corredo, di quali cose indispensabili
deve fornirsi, quale la retta da corrispondere. Don Orione, dopo aver
ascoltato tutto in silenzio, fino in fondo, godendosi quasi la premurosa
ansietà che era nelle parole della suora, prese un contegno di serietà e
movendo il capo in segno di approvazione, disse: «Sì, una cosa è proprio
necessaria e indispensabile perché il giovane sia accolto». «Quale? Dica,
dica, padre».
«Che si presenti alla porta personalmente».
Qui c'è tutto don Orione intus et in cute, con la sua
carità, la sua intuizione, il suo umorismo.
Ha compreso benissimo che quella era un'anima che Dio gli
mandava come il più desiderabile dei regali.
L'undici marzo 1920 Cesare Pisano è di nuovo al paese per
salutare la famiglia. I genitori, la nonna rimasta, gli accordavano il
consenso, un fratello no. Riparte quasi subito per Genova e di lì per Tortona.
È ricevuto affettuosamente al Convitto Paterno. Don Orione
è assente, ma torna presto da Roma e il giovane aspirante lo può avvicinare
e parlargli mentre tutti sono riuniti in refettorio per il pranzo.
La prima impressione che egli riporta dell'ambiente non è di
entusiasmo. Tutto quel fervore elogiativo, tutti quei racconti di sogni e di
visioni dell'uomo di Dio che formano l'abituale tema dei discorsi al Paterno,
gli sembrano viziati di fanatismo. Anche la voce di don Orione (evidentemente un
po' diversa da quella del primissimo incontro al Chiossone) gli giunge dapprima
«sgradevolissima». Ma poi...! I dubbi, le riserve mentali, lo scetticismo, se
mai ci furono, cedono all'ammirazione e alla venerazione per l'uomo
straordinario a cui si è affidato.
Si fa così presto ad affezionarsi a lui!
«Man mano che i giorni passano - dirà poi Cesare - io
andavo sempre più affezionandomi a don Orione, tanto che avrei desiderato star
sempre con lui, ascoltare la sua Messa, far da lui la Comunione, sentirlo
predicare, far con lui tutte le altre pratiche di pietà, perché tutto in lui
aiutava il raccoglimento, a meditare, a pregare. Preferivo sentir leggere don
Orione, che predicare qualsiasi altro oratore, perché, anche quando leggeva,
aveva la parola viva. Don Orione predicava un ideale sublime, in modo da
invogliare molti a viverlo» (Ibid., 23).
Una volta durante la ricreazione don Orione lo sorprende
alle spalle e con le mani gli chiude gli occhi. Cesare scambiandolo per un
confratello, completa lo scherzo dicendo: «Come volete che possa conoscervi se
mi tenete chiusi gli occhi con le mani?».
Come sono lontane le ore della sua disperazione per la vista
perduta!
Un vivo desiderio è riposto in fondo al cuore. Lo aveva
subito manifestato a don Orione e ora lo custodisce segretamente e non osa
farvi riferimento, forse nel timore che la speranza di realizzarlo, concepita
dal primo momento del suo incontro, trovi un freno o una smentita per
sopravvenuti ostacoli aggiunti a quello fondamentale della cecità: «Divenire
sacerdote!»
È una fiamma che lo divora. Ma basta accennarvi. Il
silenzio di Cesare Pisano deve essere il nostro.
Per ora si tratta di un miraggio. Realizzarlo sarebbe un
prodigio.
Egli crede possibile questo prodigio.
NOVIZIO A VILLA MOFFA DI BRA
Nella austera divisa del "Chiossone" il giovane,
ben portante fisicamente, gli occhi di cristallo sempre velati da lenti
oscure, rimase fisso al "Paterno" per alcuni mesi, e sul finire di
luglio don Orione gli procurò un'ambita soddisfazione: la partecipazione al
corso di Esercizi Spirituali che si svolgevano a Villa Moffa di Bra per i
sacerdoti e chierici della Piccola Opera.
Villa Moffa (dal nome dell'antico proprietario, il conte
Moffa di Lisio uno dei più celebri patrioti piemontesi del primo Ottocento)
situata a mezza costa della lunga linea di colline che da Bra fiancheggiano la
ferrovia e la statale fino a Sommariva Bosco, verso Torino, costituiva un
soggiorno incantevole.
Là si venivano formando, attraverso il noviziato e gli studi
ginnasiali (allora... era così) le più giovani speranze della Congregazione.
Compiuto il corso di Esercizi, Pisano fu ammesso a vestire
la talare, con altri aspiranti, durante la suggestiva funzione solita a
compiersi nella vigilia notturna dell'Assunta, e fu ascritto tra i chierici
della Divina Provvidenza.
Però per il nuovo anno scolastico egli dovette far ritorno
al "Paterno" di Tortona.
La sventura che lo ha privato della vista è ormai un
semplice ricordo. Egli serve il Signore in letizia, tutto compreso
dell'impegno di farsi santo alla scuola di don Orione e dedito ad un'assidua
preghiera.
Il capovolgimento (metànoia) nella valutazione delle cose
è già perfettamente attuato. Egli considera la cecità fisica come
un'occasione e un mezzo più efficace per approfondire la penetrazione dei
misteri e della bontà di Dio, per una maggiore acquisizione di luce
spirituale.
È di carattere tanto lieto nella sua costante unione con
Dio, da non estraniarsi al divertimento dei convittori del "Paterno"
e dell'Istituto "Dante" sorto quell'anno in Tortona, che a carnevale
si concedono le tradizionali esibizioni comiche e drammatiche.
Anzi, vi prende parte attiva, lui, l'unico capace di
muovere decentemente le dita su di una tastiera, accompagnando al pianoforte
le gustosissime macchiette di un «matador» dell'arte scenica, Guido Serventi,
maestro di legatoria, noto in tutta la Congregazione e particolarmente in due
città, Tortona e Venezia. Così è fatta la sua pietà cristiana: aliena da
musonerie e agli antipodi degli atteggiamenti puritani.
Tuttavia il suo cuore è ancora a Villa Moffa che gli pare
l'ambiente meglio adatto per l'esercizio della preghiera, del lavoro, della
penitenza, e domanda a don Orione di poter fare anch'egli là il suo noviziato.
Don Orione, che aveva già pensato di destinarlo all'eremo
di Sant'Alberto di Butrio, lo accontenta due volte: prima consentendogli di
prendere parte, a Villa Moffa, agli Esercizi Spirituali del 1921, e poi di
fermarsi là come novizio.
Ha 21 anni, veste da chierico, ma ha già cominciato,
d'ordine di don Orione, a farsi crescere la barba. Continua peraltro a
tosarsi i capelli, per ora.
A Villa Moffa (Casa dell'Immacolata) funzionano la III e la
IV ginnasiale, per i giovani chierici, di differente età e formazione
intellettuale, ma tutti considerati novizi (prima che la Congregazione si
organizzasse bene, ai sensi del diritto canonico).
Cesare frequenta la IV classe (che svolge però anche il
programma della V), come uditore, senza obbligo di presentare gli scritti e di
rispondere alle interrogazioni. È lo scolaro più adulto. Solo don Cremaschi e
l'aspirante Castagnetti gli sono superiori d'età. I chierici docenti che
coadiuvano il direttore sono più giovani di lui, che cerca di profittare
soprattutto nello studio del latino, e si esercita sul testo del Vangelo di San
Luca con un doppio guadagno, per la mente e per lo spirito.
Durante quell'anno scolastico 1921-`22 don Orione si trovava
in America (Brasile e Argentina). A Villa Moffa s'era cominciato con un po' di
accademia per la festa del direttore don Giulio Cremaschi il 31 gennaio; ma
siccome l'appetito viene mangiando, i più animosi tra i chierici ottennero
dal superiore di preparare qualche spettacolo più sostanzioso per la
successiva primavera.
Assente don Orione, don Cremaschi era un ostacolo facile da
superare. Soffiarono nel fuoco dei suoi entusiasmi permissivi e la voce
«teatro» divenne la più attiva a Villa Moffa nei mesi di marzo, aprile e
maggio di quell'anno. Un repertorio coi fiocchi. Quattro rappresentazioni
pubbliche in un salone capace di 500 posti a sedere ricavato da un ampio
portico cascinale alla periferia di Bandito (la frazione di Bra dalla cui
parrocchia dipendeva la casa). Ai numeri principali, consistenti in drammi e
commedie, si intrecciavano le famose macchiette, e Cesare Pisano non oppose
difficoltà all'invito di prestarsi come pianista. Nel suo giocondo spirito di
carità prendeva viva parte al divertimento comune.
Come faceva a esprimere tanta gioia e tanta serenità? Ma
attenzione: parlando e scrivendo di quelle allegre serate, frate Ave Maria
dichiara d'avervi preso parte «come strimpellatore e come buffone». In realtà
vilipende un po' se stesso. Non disperdeva nulla della sua intimità con Dio.
Anzi... ascoltiamolo: «Riconosco che queste uscite (le recite a cui assiste
limitandosi ad accompagnare con l'harmonium alcune macchiette) mi servono a
meraviglia per acquistare un totale disprezzo del mondo e, quel che più
importa, di me stesso».
E qui sarà bene ricordare che don Orione, quando istituì il
Presepio Vivente, preparava i suoi chierici attori con austere riflessioni sui
novissimi, perché non si lasciassero incantare da quelle pubbliche
esibizioni. La Villa Moffa era al centro di un paesaggio idillico che doveva
sedurre in modo speciale l'estro poetico dei giovani, esaltarli
nell'ammirazione del bello e della natura, primo gradino per arrivare alla
contemplazione di Dio. Ma Cesare Pisano non ne percepiva gli aspetti visibili:
solo quelli tattili, olfattivi, auricolari.
Quei liberi orizzonti col Monviso e la cerchia alpina «a
portata di mano» nelle giornate limpide, quell'ampiezza panoramica compresa
tra i colli della Maddalena e di Superga a nord e le Langhe a sud, con di
fronte, a ovest, la pianura su sfondo alpino, non potevano rivelarsi al suo
sguardo, ma solo giungere di riflesso all'immaginazione quando i suoi compagni
glieli commentavano.
Ma bastava per suscitargli in cuore la lode al Signore e il
gaudio della contemplazione. La verità é che egli attingeva direttamente alla
fonte divina la propria gioia pura e genuina, più profondamente radicata,
più espansiva.
LAVORO E PENITENZA SULLA VIA DELLA PERFEZIONE
Il ricavato delle recite andò a beneficio d'una costruenda
Grotta di Lourdes e di un vicino pozzo d'acqua potabile che effettivamente si
rese utilissimo negli anni successivi, prima dei nuovi impianti.
La Grotta di Lourdes, da erigere a Villa Moffa a qualche
centinaio di metri dalla casa, in un angolo suggestivo della collina di là dal
frutteto, ai piedi dei Tarlapini, era un «sogno» che don Cremaschi -
autorizzato da don Orione - voleva realizzare ritenendolo di ispirazione della
Madonna. Tutti ci si misero dentro con entusiasmo, a cominciare dai contadini di
Bandito, che davano mano personalmente ai lavori di scavo e all'apprestamento
del materiale in pietre e calcari estratti e portati sul luogo dalle rocce di
Pocapaglia
Le ore di ricreazione erano interamente dedicate a quella
dolce e animosa fatica.
Il chierico Pisano vi si applicava addirittura in alcune ore
della notte. Sapeva usare piccone, badile e carriola con una sicurezza che gli
veniva dalla pratica e dall'affinamento degli altri sensi.
«Se non nevica forte - scriveva alla suora sua
benefattrice - vado soletto alla Grotta e là lavoro (...). Vado a segar
legna per la cucina (...). Il sagrestano mi chiama ad aiutarlo (...). Vado pure
a sbucciare patate, zucche e rape». Aveva molta fiducia in don Cremaschi che
cooperò efficacemente con i suoi consigli semplici e saggi a levargli dall'animo
alcuni scrupoli nei quali andava impegolandosi. Chiese più di una volta il
permesso di vegliare fino a mezzanotte Gesù eucaristico. E già tutto
infervorato della devozione alla Madonna ottenne in segreto dal direttore di
poter trascorrere alla Grotta l'intera notte sul Capodanno 1922, solo, nel
gelo, a lavorare e pregare a cantare lodi al Signore.
Al mattino si ritrovò puntuale con la comunità in
cappella per la messa, la Comunione e la meditazione.
Ma sopravvenne la bronchite e fu l'inizio di un calvario.
Perché tanta brama di penitenza? Perché lui è convinto di essere stato un
grande peccatore: «Di me altro non so dire se non che molto, infinitamente,
inauditamente offesi Dio». Si considera «erbaccia tra i fiori», «fango tra
le perle», «vizio tra virtù», «diavolo tra gli Angeli. E il suo è un
sentimento di sincera profonda convinta umiltà, come quella del padre Felice
di fronte agli scampati della peste (Promessi Sposi, XXXVI). Ha tanta fiducia
nella misericordia di Dio, però deve far ammenda dei suoi peccati, della sua
disperazione, delle sue bestemmie di quando odiava, detestava la propria
infelicità e osava ribellarsi a Dio.
«Tutti mi leggono sulla fronte la serenità e la pace -
confessa in una delle lettere - mentre nel petto mi rugge la tempesta».
È la lotta contro le passioni che lo impegna così
duramente, ma è anche il desiderio di soffrire che ora trova ostacoli nel
divieto dei superiori di vegliare la notte.
La bronchite lo ha debilitato e gli ha lasciato uno
strascico di tosse e di febbriciattola di cui egli non si preoccupa
minimamente. Riconosce però di sentirsi fiacco, di aver bisogno di
nutrimento, ma teme che il gusto del cibo ridondi a danno dello spirito di
mortificazione e arriva a chiedere alla suor Teresa un ricostituente amaro con
cui aspergere le vivande, per essere certo di non condiscendere alle tentazioni
della gola. Deve nutrirsi, ma prega Dio di levargli il gusto e da parte sua fa
di tutto per rendere il cibo intollerabile al palato.
Lotta di santi. Pensino cosa vogliono gli spregiosi
denunciatori della mortificazione tradizionale. Certo però anche un residuo
d'antichi scrupoli, povero giovane, gli causava sfumature di esagerazione.
La missione che don Orione gli ha affidato, di far
penitenza dei suoi peccati, di pregare per tutti e di santificarsi, intende
compierla diligentemente, perché (richiamo ancora il Manzoni che egli ben
conosceva nei punti culminanti della sua sapienza cristiana) era «persuaso
della verità delle massime evangeliche».
La via della perfezione è infinita. Cesare Pisano l'ha già
imboccata e vi corre a passi da gigante. Pochi desideri che non siano di
completa rinuncia rimangono in lui: preminente l'aspirazione al sacerdozio.
GLI EREMITI DELLA DIVINA PROVVIDENZA
Fra le "stranezze" di don Orione c'è anche quella
- e il biografo è costretto ad annotarlo - della istituzione di un particolare
ramo di religiosi, dediti alla preghiera e al lavoro, detti appunto
"eremiti della Divina Provvidenza".
Il bollettino dell'Opera del 6 agosto 1899 dava questo
annuncio: «Domenica scorsa (30 luglio) all'offertorio della Messa solenne, a'
piedi del sacro Cuore a Stazzano, monsignor Vescovo vestiva e benediceva i
primi nostri eremiti della Divina Provvidenza. Ora sono tornati alla preghiera e
al lavoro tra i boschi montuosi e le campagne delle loro solitudini. Amici e
fratelli in Gesù, ringraziamo e lodiamo insieme il Signore!».
La famiglia religiosa di don Orione, converrà sapere,
comprende nel suo seno ben due rami di "contemplativi", ossia di
religiosi dediti al silenzio orante e adorante, tessuto di preghiera e di
umile lavoro, proprio in fedeltà al motto benedettino, a don Orione
carissimo, "Ora et labora" (prega e lavora). Uno di questi rami è
costituito dalle suore sacramentine cieche, adoratrici perpetue del sacramento
dell'altare, ostie viventi, anche per la loro menomazione fisica, trasformate in
lucida testimonianza di adesione al divino volere e di apostolico ardore per
la salvezza delle anime.
Il ramo maschile di queste anime contemplative è
costituito dagli "eremiti della Divina Provvidenza", persone
consacrate alla vita religiosa desiderose di solitudine - e per questo don
Orione restaurò antichi abbandonati eremitaggi e li rivitalizzò - e impegnate
in una incessante preghiera, intervallata dall'umile e salubre lavoro dei
campi.
Di recente, le costituzioni della Congregazione hanno
codificato la possibilità anche per sacerdoti di scegliere la vita eremitica,
come risposta ad una particolare vocazione di solitudine, di lavoro, di
silenzio e di preghiera.
Perché gli eremiti, in una congregazione che, per il suo
molteplice servizio di carità e di promozione umana, ha bisogno di braccia e
di cervelli sommamente attivi?
Facilissima, alla scuola della santità di don Orione, la
risposta.
Innanzitutto don Orione stesso, come si può dedurre dalla
sua vita e dai suoi scritti, fu un'anima altamente contemplativa, assetata di
misticismo, innamorata di silenzi colmi di mistero, francescanamente affascinata
dalla natura sorella, avida di preghiera e di solitudine orante, affamata di
assoluto, quindi di silenzio e di preghiera, un'anima bruciante d'amore.
«Un amore, come ha scritto don Giuseppe De Luca, dentro lo avvampava, che non
doveva dargli sosta un attimo, se talvolta gli dava il tremito insostenibile
dell'estasi, la leggerezza sovrana d'un tutto - anima, d'un tutto - Dio. I suoi
sogni, i suoi silenzi, le sue opere non spiate da nessuno, i suoi solo a solo
con Dio, nessuno potrà mai raccontare».
Questa caratteristica che spiega anche il suo indubbio amore
alla spiritualità benedettina, egli voleva trasfusa nei suoi. Forse per
giustificare prima a se stesso e poi ai suoi figli questa esigenza di mettere a
fondamento dell'attività caritativa un'abbondante misura di silenzio e di
preghiera, e perché di essa restasse un monumento vivente, pensò ed attuò
la famiglia degli eremiti fin dai primi tempi della sua attività di Fondatore.
Inoltre la fondazione della nuova famiglia di umili,
silenziosi e tenaci «lavoratori della preghiera e della terra», dava ampio
respiro per le capacità della Congregazione di accogliere quei fanciulli o
giovani o uomini maturi, più portati al lavoro manuale dei campi, alla fatica
agricola, allora generalmente abbracciata dalle famiglie umili e meno
abbienti.
L'idea del progetto si può ricavare, in don Orione, già nel
1895, quando sul bollettino "La Scintilla" del 31 agosto egli scrive
queste espressioni significative:
«I ROMITI DEI MIEI MONTI - Sono usciti dal mondo e si sono
ritirati a fare orazione nelle tacite valli che circondano il mio lago, là,
nell'eremo, tra rupi selvagge. Quando la sera è vicina e il vasto paese
montuoso s'oscura, e il gran lago s'addormenta nella pace del crepuscolo, i
santi romiti escono e salgono i deserti sentieri della montagna. Giungono alle
cime sull'imbrunire, mentre l'aria intorno s'oscura e sul gran lago si stende
un grigio velo di ombre. Tristi ad occidente si raccolgono rosseggiando le nubi
che tutta la giornata errarono di vetta in vetta. Nel cielo sereno brillano le
prime stelle. Tutta la montagna tace. Allora i romiti innalzano al Cielo la
preghiera della sera, mentre i boschi nereggiano sui dorsi montuosi. E quando
l'ultimo barlume è lì per spegnersi e sull'ampio paese s'addensano le
tenebre, avanti di scendere pei sentieri serpeggianti nell'umida valle, i santi
romiti levano dall'alto la mano a benedire... Oh quanta pace soave scende
allora per le pendici boscose! E quale il bianco lume della luna che si
espande per le infinite vallate. La benedizione de' santi è soave..., è la
benedizione di Dio!».
Nuovo impulso all'idea germinale del progetto dové
accendersi nell'animo di don Orione, quando, nel 1898, recatosi a Noto di
Siracusa, durante la visita ivi fatta all'eremo di San Corrado fuori le mura
(ancor oggi affidato alle cure dei suoi figli) vi aveva trovato alcuni solitari
la cui vita gli sembrava corrispondere al disegno accarezzato interiormente.
Ne scaturì anzi un lungo articolo, pubblicato nel bollettino dell'Opera il 2
ottobre 1898 col titolo "Una cara visita".
Dato che vi si coglie assai bene il pensiero del Fondatore
circa i suoi eremiti, piace riferirlo in parte.
«UNA CARA VISITA - Pensieri e voti - Stamattina ebbi il
piacere di trovarmi con due monaci, o meglio - come li dicono qui - eremiti di
San Corrado: sono solitari molto avanti nella via della perfezione. Mi dissero
che avevano altri compagni, e tre eremi, e tener essi in venerazione la
"Madonna della Divina Provvidenza". Quest'ultima circostanza mi ha
fatto un'impressione così rara che non vi so dire, e mi ha fatto balenare
un'idea.
Pensai dunque tra me e me: - I boschi che la Provvidenza ha
già mandato all'Opera, e perché non potrebbero popolarsi poco a poco di
questi santi uomini? L'eremita fu sempre qualche cosa di caro nella religione,
è un essere che deve pur vivere nell'Opera della Divina Provvidenza: vivervi
quasi sacrificio continuato, continua voce di amore a Gesù per la solitudine
dei fratelli!
L'eremita! - Uomo che rinunzia alle gioie della famiglia,
alle ricchezze, a tutto che è di quaggiù, e se ne va all'eremo a piegare la
fronte al cenno d'un fratello, che sulla terra gli tiene le veci di Dio. Egli
segue i consigli di Gesù, e promette osservarli tutti i giorni della vita: è
della milizia che si stringe più davvicino al Signore: l'amore di Gesù gli
rende facile ogni prova più ardua, fa soave e desiderabile ogni sacrificio.
Gli antichi ebbero le loro legioni più forti: l'età dei
Comuni e della Lega Lombarda ebbe le famose Compagnie della morte, dove
l'amore della patria, della gloria, della libertà, più fortemente sentito,
traeva nuovi prodi là ove più viva ferveva la pugna, ove più grande era il
numero dei caduti. Ma, e Cristo non avrà Lui la sua falange che, nel
sacrificio continuato d'una vita immacolata e d'un lavoro assiduo, preghi, e
sia come una gran voce di amore a Gesù, che Lo plachi e implori la vittoria sui
campi dell'azione cattolica in mezzo alla società, e affretti la conversione
de' peccatori, l'unione dei poveri fratelli separati, e il trionfo della
Chiesa e del Pontificato? Oh sì! - ci deve pure essere (...).
La società è in pericolo, perché l'oro non è pure una
forza, è un idolo che ormai tiene luogo di tutto: di fede, di religione, di
onore. La società è in pericolo perché la disonestà allaga, spegne le
intelligenze, infiacchisce la gioventù. La società è in pericolo: - vuole
indipendenza da ogni autorità: ormai regna l'orgoglio, l'insubordinazione, la
ribellione negli spiriti. Per allontanare questo triplice pericolo, il mondo
ha bisogno di vedersi innanzi le virtù opposte. Ebbene, eccovi gli eremiti!
Quale predica e quanto efficace non faranno ogni giorno
questi servi di Dio, mostrandosi nei loro costumi e nella pratica della vita,
così diversi dagli altri! Come un giorno, nelle lotte sanguinose, legioni di
anacoreti diedero al mondo esempi di austerità incredibile e dall'Oriente sino
a queste coste del Mediterraneo, parlarono con l'esempio e impedirono il ritorno
del mondo a un paganesimo più reo dell'antico: - così oggi che la società si
va paganizzando, urge che l'eremita risorga, e allontani, con l'esempio di una
vita santa, i nuovi pericoli e, con l'opera paziente, porti anche la prosperità
temporale a molti nostri paesi.
Sì, la prosperità temporale a molti paesi! - Questa
Sicilia, ad esempio, un giorno granaio non pur di Roma, ma dell'Impero, ora
è una delle parti meno coltivate della nostra patria. Quanto bene le potrebbe
fare l'opera loro! E all'Italia? Pensate che abbiamo due milioni di ettari di
terreno non coltivato eppure suscettibile di coltivazione, - non tenendo conto
di quelle zone di terra che, per la elevazione sul livello del mare, o per la
natura rocciosa, non possono essere sottoposte a coltivazione alcuna, come
pure astraendo da quei terreni destinati unicamente al pascolo del bestiame,
che non si potrebbero per la loro stessa giacitura apparecchiare ad altre
coltivazioni.
Ebbene, e perché quest'isola fertilissima, perché tanti
luoghi, ridenti una volta di bella cultura, si cambiano in isquallide e
abbandonate campagne? Perché, dove biondeggiavano le messi, crescerà irto il
prunaio?
Ben sorgano e si moltiplichino gli eremiti della Divina
Provvidenza, perfezionino le anime, e ridonino col lavoro la perduta fertilità
della terra!
Tra le preghiere e le astinenze facciano la legna dei
boschi per le case dell'Opera, facciano il carbone, vi sia chi meni le
bovine e gli agnelli al pascolo, e provveda di lana e di latte gli Istituti
nostri, e siano loro i nostri fratelli della preghiera specialmente, i
fratelli che fanno piovere le benedizioni del cielo sulle nostre fatiche, sui
nostri giovani, sui loro studi e su tutti i nostri carissimi benefattori!
Aprano, nei loro romitaggi, un asilo a noi, nei giorni
agitati della vita: aprano un asilo a tutti gli oppressi, a tutti i cuori
straziati dagli sconforti e dai dolori. E l'orazione alternino al lavoro
manuale: asciughino stagni, conducano le acque a dare fertilità ai campi,
aprano strade, gettino ponti, lavorino pel povero ricovero!
Dal loro volto discenda il raggio della pace... Con le
virtù e con la preghiera tengano sospesa la mano di Dio sugli uomini
peccatori..., e la voce, che, dal silenzio delle loro capanne solitarie,
verrà sino a noi, muova i nostri cuori a conversione, e ad amare
ardentissimamente Colui che si compiacque essere chiamato giglio del bosco e
fiore della convalle.
Oh sorgete, dunque, sorgete, pieno il cuore di amore a Gesù,
o eremiti fratelli! Io saluto la vostra venuta come una benedizione del Signore,
e m'inchino davanti a voi, chiamati a fare tanto bene! Mille volte vi amo!».
Tra gli "eremiti della divina Provvidenza" vengono
accolti anche i non vedenti che si distinguono per il saio bianchissimo con
due clavi neri.
Gloria di questi ultimi, nella Piccola Opera della Divina
Provvidenza, il nostro Cesare Pisano che sta per diventare il "Frate Ave
Maria" che conosciamo.
UN'OASI DI PACE: L'EREMO DI SANT'ALBERTO
Al ritorno di don Orione dall'America nel luglio 1922, dopo
meno d'un anno di assenza, Cesare Pisano sta per compiere il suo noviziato e
presto sarà disponibile per l'attuazione di un programma che il Fondatore
aveva già chiaro nel pensiero fin dal primo istanti in cui lo conobbe, cieco e
desideroso di darsi a Dio nella vita religiosa: farne il capostipite di una
famiglia di vita contemplativa non disgiunta peraltro da quella attiva, nei
limiti del possibile, che raccogliesse, senza distinzione di età e di
formazione, i non vedenti in uno degli eremi da lui restituiti al fasto ascetico
del passato: quello di Sant'Albero di Butrio, in diocesi di Tortona, provincia
di Pavia, quello di San Corrado, presso Noto in Sicilia, quello del Monte
Soratte (venuto più tardi, ma già «adocchiato» nella «sua» lungimiranza).
Il venerdì 13 maggio 1923 il chierico Cesare Pisano,
fornito d'una barba cospicua, ma ancora in abito talare, varcava la soglia
dell'antica abbazia di Sant'Alberto, e si aggregava alla piccola comunità
composta dal parroco don Domenico Draghi e da tre eremiti dediti alla preghiera
e al lavoro manuale.
L'Eremo, fondato da Alberto di Butrio nel primo secolo dopo
il Mille (il santo morì nel 1073), attraversò periodi di grandi splendori, poi
decadde in un quasi completo abbandono, quando i monaci si ritirarono da esso,
divenne semplice parrocchia - la più povera - della diocesi tortonese e fu
risuscitato a nuova vita da don Orione a partire dal 1900, quando si compì la
seconda ricognizione delle ossa di Sant'Alberto (la prima risale a pochi anni
dopo il 1100).
Vi ricomparve allora, ma per breve tempo, un gruppo di
eremiti, e dopo un silenzio di quattro lustri, passata la parrocchia alla
Congregazione (1920), i religiosi di don Orione vi si stabilirono
definitivamente, in numero esiguo, ma costante.
L'amore di don Orione per il fondatore dell'abbazia risale
ai tempi della prima sua giovinezza. Infatti egli ricorda: «Io, povero
fanciullo e contadinello, andavo a pregare dov'erano (nel passato lontano) le
celle e una chiesa di S. Alberto, a Bagnolo, tra Pontecurone e Voghera».
Un senso di pace e di beatitudine si comunica allo spirito
dal paesaggio. Attorno ai muri grezzi della chiesa e del monastero, dominati
dalla torre quadrata e da un campaniletto disadorno, non ci sono case di
abitazione. Solo verso sudovest è uno spiraglio che rompe la cerchia
claustrale e di là s'intravvedono le montagne che s'alzano oltre la valle
Staffora avvolte nella nebbia della distanza, come le preoccupazioni del mondo
che qui non hanno più contorni e rilievo per chi viene in cerca di pace. È
sempre l'ambiente tipico, ma reso più suggestivo da quei passaggi angusti, da
quegli ambulacri, da quel chiostrino rimesso in evidenza, da
quell'orticello, da quel pozzo antico dall'acqua freschissima e miracolosa. È
un ambiente che costringendo ad adattarsi e ad abbassarsi continuamente, traduce
l'umiltà in pratica esteriore come invito a quella interiore.
Lì comincia la sua vita di eremita il chierico Cesare
Pisano. Ed è subito un'introduzione armoniosa a grande orchestra: la
povertà, le fatiche materiali, le lunghe ore di preghiera formano la collana
offerta ogni giorno a Dio in ispirito di sacrificio e di letizia.
Senza esitazione, senza rinvio, senza soste. Manca l'abito
esterno, il saio.
Ma non tarderà il rito di vestizione.
LA LEGGENDA DI FRATE AVE MARIA
Don Orione che da due anni ha aperto in Tortona il nuovo
Istituto "Dante" per ragionieri e geometri compone una circolare che
esce a stampa nel maggio 1923, proprio nei giorni in cui Cesare Pisano ha
varcato la soglia dell'eremo di Sant'Alberto.
Mai come in solari.
Quest'ultima è una libera e un po' audace rielaborazione
della leggenda di frate Ave Maria, nota in verità soltanto agli studiosi, ai
lettori delle «Glorie di Maria» di Sant'Alfonso e ai più attenti visitatori
di Chiaravalle, che la osservano riprodotta in un grande quadro a olio appeso
ad una parete di sacristia.
La fonte letteraria più antica della leggenda è un'opera di
Bonvesin de la Riva, milanese, dell'Ordine degli Umiliati, di poco anteriore a
Dante (1240-1314).
Don Orione che, probabilmente, venne a conoscenza di questa
leggenda attraverso Sant'Alfonso (ma non è da escludere Bonvesin de la Riva)
la ricostruì, v'impresse il segno inconfondibile del suo stile e del suo
fervore religioso, la rivestì di fantasia poetica e la distribuì stampata a
forma di messaggio circolare a tutta la Congregazione dedicandola però in
modo particolare ai suoi giovani allievi, per eccitare in essi la devozione alla
Madonna.
Il frate Ave Maria della leggenda è un rozzo e semplice, ma
tanto devoto converso religioso, che dopo essere vissuto di penitenza e di
preghiera, che peraltro si riduceva solo alla recita dell'«Ave Maria», perché
non sapeva esprimersi al di là del saluto angelico, venne a morire... e sulla
sua tomba miracolosamente fiorì un giglio che affondava le radici nel suo cuore
incorrotto e portava scritto attorno alla corolla a caratteri d'oro: «Ave,
Maria!».
Il cielo, nella notte in cui fu scoperto il prodigio, era
tutto ingemmato di stelle.
Per cominciare don Orione ambientò la leggenda nei tempi
moderni: fece del protagonista un ex brillante ufficiale dell'esercito,
tornato dalla prima guerra mondiale cieco e decorato, fornito di cognizioni
letterarie e musicali, e ritiratosi a far penitenza nell'eremo di Sant'Alberto,
distinguendosi per la tenera devozione alla Madonna che egli continuamente
salutava: «Ave, Maria!», al coro, lungo il chiostro, al bosco, alla cella,
sul poggio: quasi non sapesse dire altro. Anche le sue ultime parole prima di
morire furono queste: «Ave, Maria!».
Segni miracolosi accompagnarono i suoi funerali. Il giglio
fiorì sul tumulo sotto il quale egli giaceva incorrotto «sorridente come un
angelo». E tra gli alberi del bosco passava un alitare di vento che ripeteva:
«Ave, Maria! Ave, Maria!» e andava verso il cielo.
«Giovani, - concludeva don Orione - far sbocciare molti di
questi gigli, far risplendere molte di queste stelle», segnando ogni giorno
ed ogni ora della nostra vita con la preghiera: «Ave, Maria!».
Trascriviamo per intero la poetica e splendida circolare di
don Orione.
«Fu volontario di guerra, e poi brillante ufficiale del
nostro esercito, e dalla guerra tornò cieco e decorato.
«La luce di Dio risplendé su la sua anima, che aveva
respirato la tenebra del secolo; e la mano del Signore lo condusse,
attraverso le mirabili vie della Provvidenza, sino al nostro Eremo di
Sant'Alberto di Butrio, in Val Staffora, ove, tra valli e montagne boscose, è
solitudine grande e pace soavissima.
«O beata solitudo! O sola beatitudo!
«Quella solitudine, quella semplicità di vita rispondeva
no mirabilmente ai desideri del suo cuore. Amava le rocce, le messi, i boschi e
la freschezza delle fonti, l'aria, il sole, i fiori. Egli scopriva per tutto i
rapporti eterni che legano i misteri della natura a quelli della fede, e si
sentiva trasformato dallo spirito del Signore.
«Diffuso sul volto e su la fronte alta e serena gli
splendeva un raggio di divina bellezza e di predestinazione, e viveva
infiammato di Gesù come un serafino.
«E chiese e ottenne d'esser eremita della Divina
Provvidenza: di vivere nascosto a tutti, di rendersi negletto e servo di
tutti, per l'amore di Cristo benedetto.
«E così visse, da povero fraticello. Visse semplice e pio,
d'una pietà lieta, là nell'antico e diruto cenobio che vide passare santi e
guerrieri.
«La vita di lui parea si andasse infervorando ogni dì più,
tutta amore di Dio e degli uomini, tutti abbracciando, e vincitori e vinti.
«E, morto al mondo e a se stesso, bruciandogli fortissima
la fiamma dell'amore divino, correva frequente ad abbracciare i piedi del
Crocifisso e gridava: Perché voi in croce, o mio dolcissimo Signore, e io no?
«Si seppe mai chi fosse quel monaco cieco, che sorrideva a
tutti, quel cieco che aveva una parola buona, delicata per tutti.
«Lo vedevano i montanari e i pellegrini, raccolto in
profonda meditazione, disteso sul crudo sasso ove l'abate Alberto si fe'
santo; lo vedevano dritto con le braccia tese cantare a Dio in ardore di
carità:
«"Laudato sii, mi Signore, - per quelli che perdonan
per lo tu' amore! - Laudato sii, mi Signore, - per sora nostra morte
corporale!".
«Lo vedevano prostrato a l'urna miracolosa del Santo, o
all'altare, lapideo, preziosissimo per venerabilità, dove, pochi anni innanzi
il suo morire, che fu nel 1444, Bernardino da Siena, peregrino all'Eremo di S.
Alberto di Butrio, volle consacrare il Corpo e il Sangue del Signore, e
confortarne i monaci pur con quella sua voce di pace insieme e di mistico
fervore, ma anche, e più frequente, di formidabile profeta.
«La natura, lungi dalle agitazioni e dagli inganni della
società, nel silenzio della solitudine, ammaestra di Dio più che non i libri
degli uomini.
«E fu tutta una vita nascosta con Cristo in Dio: vita di
penitenza, di adorazione, di elevazione sublime dello spirito: fu come la voce
della preghiera, la vita del nostro eremita cieco.
«Egli sapeva di lettere, sapeva di musica, sapeva di armi,
ma venne all'eremo per sapere solo e umilmente di Dio. Vanitas vanitatum, et
omnia vanitas! Vanità delle vanità, e ogni cosa è vanità, fuori che l'amare
Dio e il servire a lui solo. «E si fe' stolto, per essere sapiente di Cristo,
lasciando le vanità ai vani, muna cosa bramando, fuorché vivere in semplice
obbedienza, con libertà di spirito e carità grande nella servitù di Dio,
grata e gioconda.
«O servitù amabile e desiderabile sempre! O santo stato del
religioso servizio, che rende l'uomo pari agli angeli, terribile a' demoni, e
a tutti i fedeli onorevole!
«E seguendo Gesù con la croce sua, e lietamente amando
Cristo in croce, il nostro valoroso cieco di guerra seppe nascondersi sì
ch'ei fu il minimo di tutti, e ti pareva che solo sapesse dire: Ave, Maria!
«Ave, Maria! al coro; Ave, Maria! lungo il chiostro; Ave,
Maria! al bosco; Ave, Maria! alla cella; Ave, Maria! sul poggio che mena alla
grotta di S. Alberto; sempre: Ave, Maria! «Si chiamava Fratello Avemaria.
«E così, conformando la sua vita a quella di Cristo, compì
la sua "giornata innanzi sera".
«Era un tramonto, e venne a morire. Volle essere portato
nella primitiva chiesetta di S. Maria; volle essere disteso là sulla nuda
terra, ai piedi degli affreschi, bellissimi, della Madre di Dio; incrociate le
braccia, aprì le labbra a un sorriso luminoso. Evidentemente era la Vergine,
celeste e pia, che dal Paradiso se lo veniva a prendere.
«Frate Avemaria apparve trasfigurato. Egli la chiamò, la
salutò ancora; l'ultimo respiro fu: Ave, Maria! "Morte bella parea nel suo
bel viso", e rivelava tutta la sua beatitudine. «Dalla torre antica
"corse su l'aure l'umil saluto". Quella campana che, fiera, dal
Carroccio aveva chiamati i popoli a raccolta contro il despota del Medioevo,
Federico Barbarossa, quella stessa campana che aveva suonato la libertà dei
Comuni sui piani lombardi, parve, in quell'ora, che dall'alto della torre
venisse mossa dalla mano d'un angelo. Con voce dolcissima si mise a squillare
alle valli e ai clivi: Ave, Maria! Ave, Maria!
«Una soave volontà di pianto invase l'animo dei monaci
bianco vestiti, e subito una gioia, una pace, un ardore indistinto si
diffondeva d'intorno; le ultime tinte del tramonto sfumavano nella notte, e
scorreva sulle cime delle montagne, per le pendici, e giù, fin su le acque
della Staffora, scendeva a valle il murmure dolce: Ave, Maria!
«Si fece il mortorio. Gli eremiti, piangendo, cantarono al
fratello i salmi del suffragio e della requie sempiterna. Quando tacquero,
dalla bara fonda una voce quale di cigno lontano s'intese distinta; diceva:
Ave, Maria!
«Finite le esequie fu portato al cimitero, a mano, dai
fratelli in lacrime; al cimitero, lì, presso l'eremo; ma dov'ei passava le
erbe e sin le pietre fiorivano e gli uccelli cantavano a gloria.
«La bara posò nella fossa, e la terra la ricoperse, e vi fu
piantata una croce di legno che egli s'era fatta con le sue mani, già cieco.
«Si nascosero i passerotti al cipresso; ai folti castagni
del bosco di Butrio quietarono i cardellini. Era silenzio. Di sotterra, nella
pace della notte, una voce sommessa s'intese; veniva verso l'eremo, e si
andava perdendo lungo quella stradicciola che conduce alla chiesetta solitaria.
Diceva, la voce dolce e sommessa: Ave, Maria!
«Passarono dei giorni, e gli eremiti della Divina
Provvidenza si raccolsero a pregare sulla tomba di Frate Avemaria. Erano
venuti anche di lontano, dalla Calabria di S. Bruno
e di Cassiodoro, dalla Sicilia che vide i primi eremiti e fu
terra di Santi, e pur dalla Palestina lontana ne vennero, di là dove visse il
Signore.
«Vennero, e videro - meraviglia! - sulla tomba del
fratello, un giglio candidissimo apriva l'odoroso calice; e attorno alla
corolla, in lettere d'oro, recava scritto: Ave Maria! Vollero svellere il fiore
per recarlo alla Madonna, ma era forte; scavarono, e videro che aveva poste le
radici entro la bocca di Frate Avemaria, e andavano giù giù fino al cuore.
«Piangendo di commozione, "pieni di maraviglia e di
pietade", caddero i buoni eremiti in ginocchio avanti a Fratello
Avemaria, che era là bello come un giacinto, incorrotto, sorridente come un
angelo, e compresero allora che, ad ogni nostra Ave, Maria!, fiorisce un
giglio in terra, e odora in grazia al cospetto della Madonna.
«Ma ecco, sulle loro teste, un alitare di vento, e passare
soave la nota voce che andava al cielo, ripetendo: Ave, Maria! Ave, Maria!
«Ed oh, gioia d'una nuova aurora! L'azzurro si era tutto
gemmato di stelle, e le stelle che fiorivano nel cielo erano le molte, le dolci,
le care "Ave, Maria!".
«Perché, o giovani miei, dovete sapere che, ad ogni
nostra Ave Maria, si accende una stella in cielo e risplende in omaggio alla
Madonna.
«Gigli e stelle le possono essere offerti da noi, o miei
cari. Gigli a far tappeto ai suoi passi, a far corona a lei da presso;
stelle a far diadema alla sua fronte verginale, ad aggiungere luce alla sua
aureola.
«Gigli che gli angioli colgono; stelle che gli angioli
intessono in ghirlanda per lei. Gigli che vanno così innanzi a prepararci
la strada per la quale noi passeremo un giorno per salire alla Madonna; stelle
che illumineranno la nostra via al cielo, come fu già di S. Benedetto, e un po'
della loro luce daranno poi a farci corona eternamente.
«Far sbocciare molti di questi gigli, far risplendere molte
di queste stelle equivale per noi ad onorare Maria, e ottenere sicuro favore e
materno patrocinio per la nostra salvezza.
«A fasci crescano, dunque, su i nostri passi i gigli; a
costellazioni s'illuminino adunque sul nostro capo le stelle. «E ogni giorno
e ogni ora della nostra vita e ogni battaglia del cuore siano segnati, siano
suggellati dalla nostra preghiera: Ave, Maria!
"Taccian le fiere e gli uomini e le cose, "roseo `1
tramonto ne l'azzurro sfumi, "mormorin gli alti vertici ondeggianti: Ave,
Maria!"
«O giovani: "Ave, Maria!" sempre! O giovani:
"Ave, Maria!" e avanti! «O giovani: "Ave, Maria!" sino al
beato Paradiso!».
«NON MI CHIAMO PIU’ CESARE PISANO, MA FRATE AVE MARIA»
Quello che doveva essere solo un'effusione di mistica
poesia divenne una realtà visibile, palpabile, nella vocazione di Cesare
Pisano.
Don Orione intuì in lui l'antico devoto della Madonna
inserito nel nostro tempo e lo chiamò, pochi mesi dopo il suo arrivo all'eremo,
frate Ave Maria.
Non fu Cesare Pisano l'ispiratore della leggenda di frate Ave
Maria: fu questa leggenda a concretarsi in lui temprato d'indomita fierezza e
coerenza ligure, esaltata e abbellita nel nuovo proposito di fede, di amore, di
consacrazione a Dio nel giardino claustrale.
Per evitare equivoci e confusioni è dunque bene tener
presente che siamo davanti a tre frate Ave Maria: il primo è il monaco
cistercense della leggenda tramandataci da Bonvesin de la Riva; il secondo è
quello che, nella rielaborazione fantastica e poetica di don Orione, viene
inserito, con audacia tutta sua, e molta disinvoltura, in questo nostro secolo
XX (... un brillante ufficiale della prima guerra mondiale!), per indicare che
la devozione alla Madonna non conosce limiti di tempo né di spazio; il terzo
che s'incarna nella realtà di Cesare Pisano dal momento in cui si consacra alla
vita eremitica.
Hanno in comune la nota della spiritualità, dell'unione con
Dio, dell'amore a Maria SS.ma. Segni prodigiosi si riscontrano nei primi due.
Non possono riguardare il post mortem del nostro frate Ave Maria che, quando
uscì la circolare di don Orione, aveva appena 23 anni e tanto gli rimaneva da
vivere quaggiù.
Il 9 settembre di quello stesso anno 1923, festa di Sant'Alberto,
egli mutò l'abito di chierico in quello di eremita.
La devota cerimonia della vestizione fu compiuta, per
delega di don Orione, dal sacerdote missionario don Sante Gemelli, uno degli
orfanelli raccolti dal Beato al terremoto di Messina.
Una suggestiva memoria di quel rito ce l'ha lasciata don
Orione stesso scrivendo a un amico: «Passo a dirti d'una cerimonia piena di
misticismo e di sublime olocausto, che m'ha profondamente toccato il cuore: la
vestizione cioè di un nuovo eremita della Provvidenza. Un bel giovane, sai,
dalla fronte serena, pieno di vitalità, di 24 anni, ma cieco! La bontà di
animo di lui traluceva non dallo sguardo, no, poveretto!, ma dal suo sorriso e
da tutta la persona assai dignitosa. Un giovane che pareva felice della sua
cecità, il quale prese il nome di frate Ave Maria, a ricordare un eremita di
tal nome, di cui forse avrai udito parlare» (Ibid. p. 51-52).
Per lui, profondamente compreso del significato religioso
del sacro rito, comincia una vita nuova.
Spieghiamo subito: nella vita semplice, lineare, limpida di
Cesare Pisano ricorrono parecchie «conversioni». La prima, dalla
disperazione alla fede, la seconda dall'abito laicale a quello religioso,
(tenendo presente che «abito» equivale a «costume», cosa sulla quale oggi
allegramente si ama sorvolare) la terza... Eccoci alla terza. Lasciamo che ne
parli lui stesso: «Non sono più chierico ma frate. Non mi chiamo più Cesare
Pisano ma frate Ave Maria (...). Ho tutte le ragioni di credere che questo
antico cenobio sia mia stabile dimora. Il chierico Pisano è morto: Laus et
labor il mio programma». Questo da una lettera a suor Teresa.
E a don Orione scrive: «Grazie, venerendo Padre. Al di fuori
ho cambiato qualche cosa, ma interiormente vive ancora purtroppo il vecchio
io. A lei lo offro, perché lo immoli ai piedi del Signore e della Madonna».
Don Orione annota: «È con questo asceta che l'Eremo di
Sant'Alberto rinasce».
L'abito di frate Ave Maria è bigio con lo scapolare
bianco. È quello portato dagli altri eremiti della Divina Provvidenza,
vedenti. Agli inizi non era cinerino: era come quello dei cappuccini, marron
scuro.
Don Orione però all'atto di istituire la famiglia degli
eremiti ciechi aveva pensato ad una divisa propria: il bianco saio doppiamente
listato di nero, con alcune crocette disposte in simmetria; dopo aver
accantonato l'idea di rappresentarvi all'altezza del costato un sole rosso
raggiante simbolo del fervore eucaristico.
Un nuovo abito speciale verrà adottato più tardi con una
cerimonia di vestizione compiuta dallo stesso Fondatore a Sant'Alberto il 10
aprile 1932, seconda domenica di Pasqua, sui primi tre eremiti ciechi, frate Ave
Maria, fra Pacomio, fra Giovanni.
LA PRIMA PROVA: EMOTTISI
Il suo fervore di pietà si esprime non soltanto nella
preghiera, nelle veglie eucaristiche, in forme di penitenze e di
mortificazioni di libera scelta, e con il lieto abbandono alla volontà dei
superiori, ma attraverso un'attività pratica che attua il programma di San
Benedetto, nella sua integralità: scrivere, prestarsi nei piccoli lavori
consentiti alla sua condizione, accompagnare all'armonium il canto e le
funzioni per ispirare il raccoglimento dei religiosi e dei fedeli. Lo strumento
sacro era un dono d'una buona signora, nel 1924.
Sono anni di grande concentrazione spirituale e di
elevazioni mistiche testimoniate dalla sua nutrita corrispondenza epistolare
con suor Teresa e con don Orione. Sono realtà altrimenti imperseguibili. La
sua figura è come circonfusa da un alone di religiosità che si sprigiona dalla
sua consacrazione alla lode, al servizio e all'amore di Dìo.
La sua sottomissione umile e lieta alla divina volontà è
posta al confronto di due prove che avrebbero potuto incrinarla se fosse stata
meno tenace e sincera.
La prima prova è la malattia.
Nel novembre 1924 (tre anni dopo la notte rigida vegliata
alla Grotta di Bra) cominciò ad avvertire una tosse molto insistente. La sera
del 6 mentre si era già coricato sul suo povero saccone fu riscosso da un
repentino sbocco di sangue. Pensò subito (diremo: con smarrimento?) che quello
era il segno della sua condanna all'etisia.
Si alzò, corse in cucina, dove trovò don Draghi al quale
confidò la sua convinzione di essere sicuramente tisico, invitandolo a
prendere provvedimenti non tanto a suo riguardo quanto a salvaguardia degli
altri; e poi trascorse la notte su di un giaciglio improvvisato accanto alla
stufa, assistito dal suo «ottimo superiore».
Al Capodanno del 1925 altro abbondante sbocco di sangue.
«Deo gratias!» ripete.
Ormai (se ci fu sgomento la prima volta) egli ha già
saputo riprendere la propria posizione rassegnata al volere di Dio.
Al persistere dell'emottisi, si aggiunge un senso di
prostrazione, inappetenza... Ma che fa l'umile eremita? Non potendo dormire
passa la notte in continua orazione.
Da buon religioso frate Ave Maria ha messo a parte il
direttore delle sue condizioni. È tranquillo.
Il medico venuto su da Godiasco gli dà al massimo 20 giorni
di vita. Poi, constatato che il lucignolo non si spegne, dice che il malato
sopravvive miracolosamente.
È l'Anno Santo 1925. Egli è convinto di poter compiere il
proprio olocausto a Dio entro quel termine per coronare la beata speranza di
raggiungere presto il Paradiso.
A rendere il suo stato di salute e di spirito bastano queste
poche righe frammentarie che riportiamo dalle lettere a suor Teresa:
«Il giorno di San Rocco (16 agosto) mi si è aperta la
ferita (i suoi polmoni si stanno trasformando in una caverna). Deo Gratias!
Pazienza! Lo stato mio è spaventevole. La notte fra il 26 e il 27 il sangue
che versai fu in quantità consolante... Laus Deo et Mariae».
Tenta di tener nascosta la gravità della malattia alla
mamma, ai fratelli, ai parenti, ma questi, informati di tutto, corrono
all'eremo col timore di non trovarlo più in vita.
Una nota di grande consolazione.
Poche settimane dopo la visita dei parenti, è con lui don
Orione il 18 ottobre 1925.
Ma la giornata di don Orione all'eremo esige un cenno di
cronaca particolareggiato. Si preparavano grandi cose a Sant'Alberto. Un'urna
nuova, costruita dagli allievi ebanisti dell'Istituto Manin di Venezia (maestro
Latino Piantoni) con il legno dei boschi dell'antica abbazia, doveva accogliere
le ossa del Santo, composte nell'apposito simulacro al natura le, confezionato
dalle esperte suore del Cottolengo di Torino. Col suo trasferimento trionfale
all'eremo avrebbe dato l'avvio a una buona ripresa della vita religiosa e
dell'antica tradizione monastica.
Il grandioso avvenimento secondo un primo progetto si sarebbe
dovuto realizzare durante l'Anno Santo 1925, ma per diversi motivi fu rinviato
ai primi giorni di settembre dell'anno successivo. Per la descrizione completa
di questa storica vicenda tanto cara al cuore di don Orione e di frate Ave
Maria, consultare «Una gemma d'Oltrepo» al capitolo: «Una data
memorabile».
Intanto don Orione, che preparava l'evento pensando anche
ai minimi particolari, alle ore 13 della domenica 18 ottobre 1925, partì da
Tortona per Val di Nizza, sulla macchina messa a disposizione e guidata dall'ex
campione ciclistico d'Italia Giovanni Cuniolo, suo antico allievo del primo
Oratorio. C'erano con lui mons. Felice Cribellati, vescovo di Nicotera e
Tropea, il suo segretario don Angelo Galluzzi (diacono) e il suddiacono
Domenico Sparpaglione. Li aspettava il parroco don Giuseppe Rota, primo alunno
accolto nel collegio di San Bernardino nell'ottobre 1893.
Cuniolo ripartì con la sua macchina per Tortona. C'era un
grande movimento in canonica, che quella sera avrebbe ospitato per la cena e per
il riposo l'intera comitiva. Nipoti e donne di casa erano in faccende.
Secondo il suo solito sbrigativo e riservato, don Orione
decise di far a piedi la salita dell'eremo e sceglie don Domenico come suo
compagno; mentre il vescovo e il suo segretario dovevano raggiungere
Sant'Alberto col barroccio di don Rota per aliam viam.
Tutto si svolse secondo il piano stabilito, in un
pomeriggio di splendido azzurro. C'era un grande concorso di fedeli. Dopo la
funzione, (con la poderosa predica del vescovo, così esile e tonante), mons.
Cribellati ripartiva in barroccio con i suoi due accompagnatori, e don Orione si
tratteneva a lungo con frate Ave Maria e gli altri religiosi, mentre a
occidente andava smorzandosi il fulgore aureo di un meraviglioso tramonto; e a
sera inoltrata, riprese a piedi la via del ritorno. Ma questa volta i Domenico
erano due. Al primo si aggiungeva don Draghi che, nel buio sempre più fitto
sotto lo stellato, li veniva scortando tra i boschi con una lanterna accesa.
In vista della chiesa di Val di Nizza don Draghi spense la
sua lanterna e se ne tornò solo soletto all'eremo, mentre invano don Orione
insisteva per trattenerlo almeno a cena con tutti gli altri. Le stanze della
canonica non videro mai tante e così distinte persone a tavola e al riposo
della notte. La mattina dopo, incombeva sulla valle il classico nebbione
autunnale. Su due carrozze, tutti raggiunsero Pontenizza, dove presero il
trenino di Voghera; il vescovo e il segretario per portarsi a Staghiglione, don
Orione e il suo chierico per far ritorno a Tortona. Don Orione accusava un
insistente mal di reni e forti dolori reumatici, eredità della sua vita di
garzone selciatore, diceva.
In una sua lettera frate Ave Maria ricorda così
l'avvenimento:
«Ero pronto a morire senza più parlare al mio venerato
padre don Orione e invece egli venne ieri mentre qui si festeggiava il santo
Rosario, con mons. Felice Cribellati vescovo, figlio della Divina Provvidenza,
don Rota e due chierici della Divina Provvidenza. Che festa! Che predica! Che
fuoco!... Anch'io ho potuto parlargli; ma non gli dissi nulla (della grave
malattia). (...) Sono troppo debole a reggere le consolazioni. Disse che prima
della fine dell'Anno Santo verrà per fare la vestizione di un giovane eremita e
in tale occasione mi permetterà di emettere i santi voti perpetui e il IV
voto in via eccezionale, che non si potrebbe fare se non dopo dieci anni di
Congregazione. Mi disse di tenermi preparato ... Fiat!». Il nuovo anno 1926
segna una certa ripresa.
La sua croce fisica frate Ave Maria non potrà mai
compiutamente deporla. Ma dal tempo delle celebrazioni del 1926, che aprirono
un'era nuova nella storia religiosa del l'antica abbazia e cominciarono a
richiamare a Sant'Alberto folle di pellegrini, nella giornata del 4 giugno,
riservata ai fanciulli, i beniamini del Santo, e nella prima domenica di
settembre, festa patronale, le crisi violente e devastanti potevano dirsi
superate.
Gli resteranno i segni caratteristici della malattia: un
pallore incarnato, l'abbassamento della voce, rauca e straziata, il tossire
profondo cavernoso, un frequente ansimare.
Intanto tirerà avanti fino oltre i sessant'anni con
meraviglia di molti.
Fa sorridere la sua vena scherzosa e letiziante.
Nell'informare suor Teresa del suo stato di salute: «Sono un po' debole -
dice - ma sto benissimo!».
LA SECONDA PROVA: IL MARTIRIO DELL'ATTESA SACERDOTALE
Desiderava ardentemente d'essere un giorno ordinato
sacerdote. Non per accontentare in qualche modo l'amor proprio, ma solo per
far del bene, dar gloria a Dio, coadiuvarlo efficacemente nella santificazione
delle anime. Vi può essere di meglio per chi si consacra al Signore?
Frate Ave Maria aveva rinunciato alla vista. Rassegnarsi
all'ineluttabile! Che merito c'è, si domanda il mondo scettico e miscredente.
È proprio qui la forza del cristianesimo: nell'indurre ad
accettare con propensione la volontà di Dio. È come un immolarsi. È il
cuore in questo caso che agisce. Ed il sentimento che ispira la rinuncia,
l'accettazione della realtà immutabile, vale più della materia offerta.
Mediante la rassegnazione il sacrificio si rinnova, rivive come omaggio
spontaneo reso a Dio. In fondo l'essenza della santità è tutta qui: dire di
sì al Signore che ha disposto le cose e dal quale vengono tutte le grazie,
compresa questa, essenziale, dell'adattamento o adeguamento alla sua volontà.
Sarà cieco per dar gloria a Dio, in questa situazione da lui
voluta permessa tollerata, non importa.
Aveva rinunciato alla famiglia. Quando gli domandano se ha
ancora i genitori, fratelli, sorelle, egli risponde: « Sì, molti!». E pensa
a quelli di Congregazione. Se vogliono sapere di che paese è, dichiara nel
dialetto locale: «A son d' Sant'Albert».
Ama teneramente i suoi congiunti, ma li ha lasciati per amore
di Gesù e non desidera con loro altro rapporto che quello della carità
attraverso la preghiera.
Ha rinunciato alla salute. Non denota la minima ansietà o
preoccupazione per le proprie condizioni fisiche disastrose, superato il
primissimo senso di sgomento per 1'emottisi del 6 novembre 1924.
Salva sempre la volontà del Signore, si rallegra ad ogni
sintomo di aggravamento, augurandosi di poter presto - entro l'Anno Santo -
rivedere la luce in Paradiso.
Ha rinunciato al proprio io, per sottomettersi in tutto
alla volontà del Signore, per affidarsi come un fanciullo alla mano di don
Orione sua guida e maestro, ed è lieto di considerarsi l'asino di casa,
l'ultimo dei confratelli, il più acconcio all'obbedienza integrale di
chiunque lo comandi, lo inviti, lo preghi di un favore, di un lavoro, gli
assegni una incombenza anche la più estemporanea.
«Io sono un povero asinello totalmente ignorante, che non so
nemmeno più ragliare» - dice, più avanti, ai sacerdoti piacentini che gli
fanno corona per ascoltarlo.
Non c'è più in lui alcuna aspirazione che non rivesta
carattere spirituale, mistico, che non tenda a perfezionarsi nella santità,
nella preghiera, nella sofferenza. Che siano soddisfatte o meno tali
aspirazioni, non altera l'orientamento della sua volontà che come ago
magnetico punta sempre a un solo indirizzo: Dio.
Eppure una brama, una sete ardente, una speranza sempre
più forte e assillante lo tiene desto e ansioso: diventare sacerdote.
L'idea gli ha scosso il cuore, gli ha esaltato lo spirito fin
dal momento in cui don Orione, accogliendolo, gliela fece balenare alla mente.
La coltivava studiando, la confermava a Sant'Alberto, quando
alcune persone si rivolgevano a lui - ritenuto sacerdote - per confessarsi,
per comunicarsi.
Egli allora bruciava intimamente di quel desiderio e
sentiva scatenarsi in cuore una lotta ineffabile tra l'ideale e la realtà.
Che questa santa aspirazione lo tormentasse è documentato
da un brano d'una sua lettera a suor Teresa, nel 1923, mentre era in attesa
della sua vestizione da eremita a Sant'Alberto.
«Le confido il mio martirio. Eccolo: spesse volte mi si
presentano delle persone in chiesa o fuori e mi dicono: - Padre, desideriamo
confessarci; padre, ci benedica; padre, la santa Messa! Oh, come mi piacerebbe
essere quello che non sono per poterle benedire più efficacemente!... per poter
essere ministro di misericordia!».
La nostalgia di un bene tanto desiderato! La sorpresa della
incredibile indifferenza o della colpevole rinuncia di chi è già costituito in
uno stato di tanto privilegio e di tanta grazia! Tutto questo fa soffrire il
cuore di frate Ave Maria nella lunga attesa. «Nei primi anni di comunità
nonostante fossi cieco sperai di poter ugualmente divenire sacerdote!».
È un'ansia di cui non si rendono conto i confratelli
religiosi, ma che gli macera lo spirito in una continua alternanza di attese
e di speranze non ancora appagate: «Mi addolorano molto alcuni miei compagni
che abbandonando, la vocazione, rientrano nel mondo. Questi che possono essere
sacerdoti rinunciano; io che vorrei non posso...». Davvero straziante. «...
Una voce spesso mi dice: impossibile che tu sia sacerdote».
Soffocato da un impeto di commozione, mentre sta per
assistere alla prima messa di un sacerdote novello, deve uscire di chiesa poco
prima che la funzione abbia inizio «e solo dopo essermi liberamente sfogato
(nel pianto?) potei ricuperare la calma...».
Ma questi assalti improvvisi di nostalgia sacerdotale si
fanno sempre più frequenti, perché in fondo al cuore vibra,
inestinguibile, la speranza.
Durante gli Esercizi spirituali svela a don Orione «il suo
stato e le sue aspirazioni».
«Mi assicurò e mi benedisse».
In effetti don Orione lavorava per ottenere a frate Ave Maria
le necessarie dispense, e averlo tra i suoi sacerdoti, valutandone in pieno la
virtù e il peso sulla bilancia dei valori spirituali.
La crisi, se possiamo così chiamarla, della lunga attesa
sacerdotale toccò il suo acne verso la festa della Immacolata di quell'anno
1923, quando «Cesare Pisano era da poco morto per dar luogo a frate Ave Maria».
Egli la risolvette con un atto di umiltà degno di San
Francesco d'Assisi.
Pochi giorni prima aveva scritto a suor Teresa in rapporto
alle sue aspirazioni sacerdotali: «Non sono certo di niente; della mia
vocazione solo sono certissimo. Io desidero con tutto il cuore, con tutte le mie
forze essere un giorno sacerdote. Ministro di Dio, ma che sono io? Un bambino,
ma che bambino! Puer centum annorum!».
Un po' più avanti nella stessa lettera sembra contraddirsi
(ed è invece un fior di sincerità nel turbinare dei sentimenti). È una frase
rivelatrice della situazione in cui si trova e della risoluzione a cui perviene
con un atto eroico: la rinuncia a quanto gli rimane di più caro e desiderabile
su questa terra. Scrive: - « Se desidero ancora ascendere al sacerdozio? Le
dirò subito che non oso più desiderarlo».
E dopo questa rivelazione ricorda d'aver detto al mite e
semplice don Sterpi che gli aveva chiesto quando pensava di cantare la messa:
«Quando ciò vorrà l'obbedienza». (Ossia: - Non dipende più dal desiderio,
ormai messo a tacere). In vista della festività di Maria Immacolata, a cui
accennava, don Orione gli raccomanda di prepararsi a emettere i suoi voti
religiosi (annuali). Verrà egli stesso all'eremo a riceverli.
E frate Ave Maria così informa suor Teresa: «Il mio
preparamento è questo: che più ci penso più sono portato a desiderare
ciò che finora ho temuto, affinché il sacrificio sia totale. Morire senza
Messa! Morire senza voti! Morire senza abito, gettato fuori come un cane
ripugnante! In isconto dei miei peccati, secondo le divine intenzioni!».
Sono le parole più drammatiche che frate Ave Maria abbia
mai pronunciato, o fissato su di una pagina. E svelano intero il suo cuore
sanguinante. Effettivamente egli, che nel 1921-`22 a Bra aveva fatto i voti di
devozione, potè emettere i tre voti canonici annuali soltanto il 18 marzo degli
anni 1944-`45-`46 e quelli perpetui il 18 marzo 1947! E pensare che don Orione
il 18 ottobre 1925 gli aveva fatto balenare la speranza dei voti entro l'anno.
Il sacrificio più costoso, la rinuncia al sogno più atteso,
si privilegiava attraverso la preghiera, la contemplazione, le mistiche
elevazioni.
È un'autentica conversione. La terza, finora,
riscontrabile nella sua preziosa esistenza.
Dunque qualche cosa di più o di diverso di un semplice
progresso sulla via del misticismo e della perfezione religiosa,
dell'abbandono integrale al volere di Dio. È infatti una trasformazione
radicale quella che si opera in lui. All'esterno rappresenta un limite, uno
sbarramento posto attraverso la sua ascesa di consacrazione a Dio. Ma
spiritualmente è la più alta conquista da lui realizzata: l'accantonamento del
desiderio più santo, scevro di qualsiasi infiltrazione passionale, di
orgoglio, di soddisfazione sensibile: oro finissimo purificato nella
mortificazione e nell'amore: l'ideale tanto intensamente vagheggiato offerto a
Dio in olocausto!
Frate Ave Maria rimarrà per sempre un religioso laico.
Don Orione per molto tempo aveva sinceramente sperato di
portare il suo eremita alla Messa. Le autorità competenti gli avevano fatto
credere che, costituita una famiglia religiosa di ciechi a Sant'Alberto, frate
Ave Maria, ordinato sacerdote, ne sarebbe potuto divenire il padre abbate. I
religiosi, sia pure in gruppo esiguo, si costituirono, ma la dispensa dal
grave ostacolo della cecità non fu accordata, certamente per una superiore
disposizione della Provvidenza che veniva formando l'eremita cieco al più alto
grado di virtù, quella che si attua attraverso l'uso per sacrificio dei
talenti.
Chi meglio di frate Ave Maria avrebbe saputo dir messa?
Eppure questo carisma dovrà trafficarsi non per attuazione, ma per rinuncia.
Frate Ave Maria non patirà crisi di sconforto, non
affievolirà la sua azione di grazia e di amore. Anzi! Svincolato da
quest'ultimo desiderio, il più profondamente radicato, moltiplicherà il suo
zelo, intensificherà la sua preghiera, sarà tutto una cosa sola con la sua
missione. E certamente Dio trarrà da lui maggior frutto per la santificazione
delle anime.
OTTIMISMO E FERMEZZA DI PRINCIPI
Dalla sua disposizione a far sempre e in tutto la volontà di
Dio, gli deriva il facile e sicuro superamento delle difficoltà, tanto da
infondere anche nella comunità di cui fa parte una maggior fiducia e dissipare
sul nascere l'umor nero. I Santi sono sempre degli ottimisti, perché guardano
lontano. Ce lo dimostra don Orione quando esorta a non essere «di quei
catastrofici che credono che il mondo finisca domani», e che in particolare
risolvette casi intricatissimi rifugiandosi nel sentimento più radicale sulla
Provvidenza Divina. Nel 1947 i superiori della Congregazione si videro costretti
dalla scarsità del personale a ritirare da Sant'Alberto le due suore che vi
prestavano servizio di cucina e guardaroba. Il direttore locale, messo in gravi
angustie, convocò frate Ave Maria e lo incaricò di scendere a Tortona a
perorare la causa nell'interesse della piccola comunità.
Obbedientissimo l'eremita accettò l'incarico e,
accompagnato da un giovane, si presentò alla Casa madre, dove lo accolse don
Giuseppe Zanocchi, vicario generale e direttore spirituale delle suore. La
missione peraltro ebbe esito negativo. Non era possibile derogare alle
disposizioni prese, non solo per Sant'Alberto, ma per diversi istituti di
formazione e di educazione funzionanti in Italia e all'estero.
Le condizioni di vita all'eremo destavano preoccupazioni,
come risulta da una lettera del Nostro a un sacerdote della Piccola Opera.
Dopo aver delineato il quadro piuttosto squallido della nuova
situazione, (vocazioni messe in crisi, mancanza di ordine e di pulizia, che
induce qualche giovane aspirante a tornare nel secolo, e altro ancora) frate
Ave Maria si richiama a una frase di don Orione, il cui contenuto é questo:
«Penso che il Signore voglia fare di questa casa (l'eremo) qualcosa di
grande»; poi soggiunge che lo stesso Nostro Signore si servirà magari di lui
per compiere questa specie di miracolo. (Riferiamo ad sensum, non alla
lettera...). Lo dice con quell'accento di pace e di serenità che sa prendere
anche forme di santa giovialità. Dunque che cosa farà lui con l'aiuto del
Signore e della Madonna? Imiterà quel Santo che, avendo con molta fatica
accumulato tanto grano da distribuire agli indigenti, un giorno se lo vede tutto
investito dalle fiamme, senza la possibilità di metterne in salvo almeno una
parte. Allora avvicina le mani intirizzite alle vampe per scaldarsi e,
calmissimo, dice: - «Anche questo fuoco a qualcosa serve ed ha una sua
utilità: sia benedetto il Signore!». Le parole del Santo portano nei cuori
più grazia che non sia stato grande il danno da cui avevano origine, -
conchiude il nostro eremita.
Siamo in un'atmosfera di pura ascetica. Pensiamo a ciò che
disse don Calabria la mattina dopo il bombardamento aereo che distrusse una
parte rilevante della Casa del Fanciullo di Verona: «Un peccato veniale è un
danno maggiore di quello che abbiamo patito noi».
Pensiamo ai «Sette Effe» del nostro beato Fondatore, che
diedero occasione al card. La Fontaine di comporvi sopra un giulivo sonetto,
che, dopo l'elencazione dei primi cinque: Fede, Fatiche, Fame, Freddo, Fastidi,
allude agli ultimi due così: «Se d'esta pianta (la nostra Congregazione) il
legno andasse in Fumo, - opra più grande a segnalarvi avrei: - Che al caldo di
quel Sole ond'io m'allumo, - voi cantereste: Fiat voluntas Dei!».
Ma a questo riguardo è bene precisare che l'ottimismo di
frate Ave Maria di fronte alle difficoltà non significa un facile
accomodamento delle situazioni per via di compromessi con la coscienza e col
mondo. Fermo sui principi fondamentali di fede, di carità, di umiltà, egli
non demorde mai da essi e ama dire sempre la verità con la schiettezza del suo
carattere ligure illuminato dalla grazia e forte della buona coscienza.
L'abbiamo avvertito più d'una volta in alcuni spunti delle sue lettere, pur
senza fermarci a sottolineare questo concetto. Chi scrive lo ha sperimentato
personalmente.
L'avevo a scuola d'italiano e storia, come semplice
uditore, a Villa Moffa di Bra nell'anno 1921-22, lui il più anziano tra i
chierici di terza e quarta ginnasiale. Stavo spiegando l'episodio di Renzo che,
per avere via libera nel suo secondo ingresso di Milano, durante la peste, fa
«volare ai piedi di una guardia di Porta Nuova un mezzo Bucatone» (P.S. -
XXXIV). Intesi quel «mezzo Bucatone» come un certificato di sanità. E Cesare
Pisano (chierico) osservò: «Permetta, non è così: il Bucatone è una moneta
d'argento usata nel `600 a Milano». Schiettezza e sincerità. Abbozzai senza
batter ciglio, ringraziandolo della precisazione.
Anima candida, rifuggiva dall'artificio, da ogni larvata
ipocrisia, dalla sudditanza psicologica, dagli atteggiamenti dettati da rispetto
umano, onorando la verità, sempre rivestita di carità, come Dio comanda: «Facere
veritatem in charitate».
Un altro esempio mi viene dalla testimonianza di un nostro
eremita che nel 19521o accompagnò dall'eremo di Monte Soratte a quello di Noto
in Sicilia. Mi dice fra Carlo che durante il viaggio in treno frate Ave Maria,
sempre concentrato nella preghiera mentale, ascoltò una sua conversazione con
un signore che sbandava nelle idee in fatto di morale, mentre egli cercava in
qualche modo di spiegare se non di giustificare le sue affermazioni. Quando
furono soli frate Ave Maria, che non aveva mai interloquito, raccomandò al
giovane confratello di mostrarsi più risoluto in avvenire, affermando la
verità senza paura, ma sempre usando le buone maniere che sono le più
persuasive.
LA SUA MISSIONE: PREGARE
È improprio pensare che da quel momento egli «invidiava»
i sacerdoti. Le metàfore possono facilmente riuscire a degli equivoci o non
dire le cose nella loro essenza ben definita.
Frate Ave Maria - deposta la speranza di diventare
sacerdote, compiuta la rinuncia interiore della sua ardente aspirazione -
non si lasciò adombrare per una maggior efficacia della loro opera.
Vibrava nel suo cuore lo stesso zelo di Santa Teresa di
Lisieux che meritò d'essere costituita patrona delle Missioni, perché seguiva
i banditori della fede e della carità cristiana con le sue mistiche elevazioni,
con la penitenza, con il desiderio di collaborare dal chiostro alla diffusione
del Vangelo. Pio XI paragonò le risorse missionarie della Santa all'azione
potente dei bacini alpini idroelettrici che nell'apparente immobilità
alimentano le dinamo per la distribuzione e il funzionamento dell'energia ai
grandi centri industriali.
Era questa la missione assegnatagli da don Orione. Egli -
chiusa la parentesi del sogno sacerdotale - continuò ad esercitarla come
prima, ma con maggior merito di prima.
Lassù tra i monti rivestiti di boscaglia, aspri e selvaggi
nei botri profondi, che fiancheggiano l'antica abbazia, egli incarnava l'ideale
religioso dei santi cenobiti del passato che sembrava riverberare su di lui i
suoi splendori.
«Va, - gli aveva detto don Orione - e in quella solitudine
ti sentirai più facilmente a contatto di Dio e adempirai meglio il compito che
ti affido di meditare e di pregare». Ed egli stesso conferma: «Volle da me
soltanto una cosa: che pregassi, che pregassi molto. Questo è il mio ufficio;
non so far altro che stare in ginocchio dinanzi a Gesù e Maria. Parlo a Gesù
delle anime o parlo alle anime di Gesù».
Don Orione gli aveva detto di recitare tante, tante a Ave
Maria, ricordandosi anche di lui pronunciando le parole "ora pro nobis
peccatoribus", e di raccomandare tutte le intenzioni sue e delle molte
persone che a lui si rivolgevano raccomandandosi alle sue preghiere e
invocando conforto ai mali fisici e morali.
Perciò, già avanti negli anni, frate Ave Maria può
scrivere alla madre: "Mamma cara, sono un povero vecchio che non so fare
altro che stare in ginocchio, con le mani giunte, davanti al Signore e alla
Madonna e pregarli per tutti quelli per cui io devo pregarli e, se sapeste
quanto sono numerosi, per quelli per i quali ho strettissimo obbligo di pregare!
Mamma cara, io mi sento un grandissimo debitore verso tutti ed ognuno. Per
fortuna la preghiera è una chiave d'oro...".
"In ginocchio, a mani giunte, davanti al Signore":
è lo spettacolo che per quarant'anni chi saliva a Sant'Alberto poté
ammirare nella chiesetta dell'eremo, restandone impressionato ed edificato.
Ecco una testimonianza: "Una volta volli, lo confesso a
mia vergogna, assicurarmi che proprio fosse preghiera... Tacito, immobile
anch'io, inavvertito, mi trattenni a lungo in posizione da poterlo osservare
lì, nel coretto di Sant'Alberto, dietro l'altare. Passò il tempo, tanto
tempo: egli era sempre lì, immobile, tutto assorto, concentrato nella sua
preghiera".
Attuò sempre quanto ebbe a dire spesso con forza:
"Bisogna pregare, pregare, pregare e mandare via dalla testa la pazza
idea che vorrebbe farne intendere che il tempo speso pregando sia tempo
perduto".
RACCOGLIMENTO E VITA INTERIORE
Tutte le qualità esteriori della preghiera si incontrano con
la profondità della vita interiore a formare la sua immagine di asceta
inginocchiato, a mani giunte, devoto senza artificio, assorto e immobile nella
concentrazione della mente; e rendono la misura di questo mezzo di comunicazione
che praticamente fa di lui un sacerdote (un mediatore) tra Dio e il mondo.
È la preghiera semplice e sublime nella forma - il
rosario, l'Ufficio divino, l'azione liturgica sviluppata in unione al
celebrante - ma che possiede in sé l'intento, l'efficacia, la sostanza della
adorazione, della richiesta fiduciosa, della rassegnazione, e si dirama a tutte
le destinazioni: per la Chiesa, per la Congregazione, per i vicini, per gli
sperduti, per i sani, per i malati, per i fedeli, per i peccatori, per i vivi
e per i morti.
E l'intenzione non è generica, ma espressa di volta in
volta, dividendosi per settori secondo le diverse finalità: di modo che egli ha
presenti tutti quelli che si raccomandano a lui, individui e categorie.
Il contegno esterno non potrebbe durare così continuo, così
costante, così naturale, se non fosse la manifestazione d'una pietà intima ed
essenziale radicata nel cuore da cui scaturisce la fede, la carità verso le
anime, l'umiltà, la gioia di vivere a contatto del Signore.
Ogni giorno alle 4 del mattino lascia la sua cella e scende
per quei gradini sconnessi e labirintici alla chiesa. È l'ultimo ad uscirne
dopo le orazioni della sera.
Spesse volte trascorre l'intera notte in cappella - se c'è
il permesso del superiore - o in camera davanti al Crocifisso. Quanti rosari!
L'Ufficio divino non può concederselo perché gli manca il testo, ma recita a
memoria e col cuore aperto alle ispirazioni della fede interi salmi e cantici.
Il suono dell'armonium nelle solennità è per lui altissima
preghiera che interpreta gli slanci, le gioia, il raccoglimento, le estasi
dell'anima e si comunica agli astanti.
Nessuno forse ai nostri tempi pregò tanto come frate Ave
Maria, a prescindere dai rapimenti mistici di padre Pio. Fin 20 rosari interi al
giorno.
«Ma non vi stanca - gli chiedono - lo star per delle ore
così assorto e inginocchiato? A che attribuite questa vostra resistenza alla
preghiera prolungata, senza distrazioni, senza soste, senza diversivi?».
«Alla gioia che provo» - risponde. E illuminandosi tutto
in volto di beatitudine, ripete col candore di un bambino: «Sì, sì, sì! »
giungendo le mani e agitandole quasi a contenere l'immensa felicità che lo
pervade.
«E come fate a ricordarvi di tutti quelli che si
raccomandano alle vostre preghiere?».
«Per non dimenticare nessuno faccio dei mementi speciali
cumulativi specialmente durante la santa Comunione».
ESTASI E LEVITAZIONI
L'attitudine alla vita interiore era il carisma più prezioso
di frate Ave Maria.
Al gruppo (già ricordato) dei sacerdoti piacentini saliti
all'eremo per una giornata di ritiro spirituale, stretti attorno a lui in un
momento di sollievo, diceva: «Pregare è la mia occupazione. Oppure scrivere e
parlare. Ma anche questo io credo che sia una preghiera. Il resto mi dà noia.
Tutto ciò che non è Dio a me dà noia».
Non che la sua pietà fosse venata d'intolleranza. Egli
sapeva anche prendere parte alle conversazioni estranee alla sua abituale
concentrazione ascetica; agiva così in spirito di carità, intendendo
condurre anime a Dio da tutti i sentieri, per tutte le vie, oltre quella della
fede, il lavoro, l'arte, l'onesto divertimento.
La sua vita è tutto un palpito di luce: prima nel
rimpianto degli occhi perduti, poi nel desiderio del Paradiso, nella visione
delle realtà sublimi ed eterne. Egli compensava la cecità fisica con una
più intensa percezione spirituale.
Ravvivava di splendori nostalgici il suo rosario, vedeva le
Avemarie colorarsi di bianco, di azzurro e di viola, di rosso, di verde, di
oro, ai riflessi del mistero che stava meditando. Ogni fibra del suo cuore era
luce. Non c'era più posto per lo sconforto, per lo sgomento, per i timori:
salvo l'unica tristezza che prova il Santo nel vedere che Dio non è amato; ma
subito risolta in ardore di carità che opera e soffre per la conversione dei
peccatori.
Deliziosamente innamorato della preghiera, partecipava alla
vita di Dio e collaborava con Gesù Redentore.
C'è chi parla di fatti straordinari inerenti alla sua vita
contemplativa.
Una testimonianza ineccepibile ci viene da don Orione.
Ascoltiamolo.
«Potrei giurare - diceva ad un gruppo di benefattori - che
ho visto frate Ave Maria, sollevato da terra tanto così, mentre stava leggendo
la "Imitazione di Cristo". Ero entrato silenziosamente nella cella
dell'eremita, la porta era semiaperta (...) e l'avevo sorpreso in quella
posizione (...). Stetti un poco, ammirato del fenomeno straordinario, poi scesi
senza che frate Ave Maria s'accorgesse di nulla. Non mi meraviglierei che
facesse miracoli». E soggiungeva: «Certo non è meno santo di alcune tra le
più note figure viventi».
E c'è chi s'incarica di andare un po' più a fondo con delle
domande:
«Si dice che voi siete stato visto in rapimento di estasi,
sollevato da terra. Aveva mai avuto l'impressione di essere sollevato da terra
da una forza arcana?».
Frate Ave Maria fa con le mani un segno come di qualcosa
che lo investe e quasi lo schiaccia, e racconta: «Ero con don Orione e mentre
parlavo ho avuto la sensazione di una grande dolcezza che mi invadeva con
violenza».
«Ma circa la levitazione?».
Semplice, del tutto indifferente, dichiara: «No, non
ricordo un simile fatto, non so ...».
Ma bisogna soggiungere che i privilegiati della grazia della
contemplazione estatica non avvertono i fenomeni fisici di cui sono l'oggetto.
IL «MIRACOLO DELL'ACQUA» A SANT'ALBERTO
Il «miracolo» tipico di frate Ave Maria rimarrà forse
quello dell'acqua del pozzo di Sant'Alberto.
È dell'estate 1928. Lo presentiamo attraverso un racconto
orale di don Orione ai suoi chierici del "Paterno".
- Quante volte vi ho parlato del fatto strepitoso di
Placido e Mauro discepoli di San Benedetto... Noi non abbiamo bisogno di
uscire di casa nostra, se vogliamo veder come Iddio premia l'obbedienza.
- Un anno era già da mesi che andavo magnificando ai
chierici di questa casa l'eremo, i suoi boschi di castagno, i frati ciechi e non
ciechi, le pitture e gli affreschi di Santi che ci sono a Sant'Alberto; e molti
che mi ascoltano ben ricorderanno. Ed erano tutti entusiasti di passare là un
periodo di vacanza.
- Lassù v'era un sacerdote molto colto
- Quando dunque si doveva partire da Tortona per Sant'Alberto
(trenta km. a piedi, attraverso le colline) mi arriva uno mandato da don Draghi
(rettore e parroco) a dirmi che non c'era più acqua nel pozzo. Era stato messo
in allarme da quel sacerdote colto, il quale mi suggeriva di non mandare i
chierici, perché - mi diceva - se tu mandi cinquanta o sessanta chierici, come
faranno a lavarsi, ad aver acqua per la cucina? Ciò sarebbe anche contro
l'igiene...
- Guardate che lui era ed è molto igienista. Ma come facevo
io a squalificarmi davanti ai miei chierici? Cosa potevo dir loro dopo aver
tanto decantato e i boschi e gli uccelli e i frati e la quiete dell'eremo? Cosa
avrebbero pensato? Avrebbero potuto dire: - Eh, ne promette tante di cose don
Orione...
- Quel sacerdote pestava un po' i piedi; non li pestava don
Draghi, perché non è capace di pestare i piedi. Quello poi aveva anche gli
orticelli, lassù, e gli premevano... È professore di agronomia e
vegetariano; e anche durante la guerra ha seminato tante cipolle e piantato
cavoli e cicorie nelle retrovie.
- E allora dissi al giovane che mi avevano inviato:
«Tornate su, perché non avremo bisogno di andare coi buoi e la botte ad
attingere acqua altrove. Direte a frate Ave Maria che vada sulla bocca del pozzo
e reciti tre Pater Noster e Dio benedirà l'obbedienza».
Quello va su, arriva e annuncia che i chierici mandati da don
Orione erano già per la strada. Figuratevi quel sacerdote: - Ma sono matti!
Ma cosa fanno!
- Intanto frate Ave Maria, ubbidiente, va alla bocca del
pozzo e con grande devozione dice i tre Pater Noster: e poi - così - cala giù
il secchio, e tutti lì sono intorno a vedere... Con meraviglia di tutti,
anche di quelli che avevano cavato dal pozzo la vita, cioè soltanto
fanghiglia di fondo, melma, venne su un bel secchio d'acqua limpida,
freschissima, buonissima.
- E allora andarono subito a chiamare quel sacerdote, il
quale, per assicurarsi del prodigio e sincerarsene - lui, diffidente - fece
tirar su ben 26 secchi d'acqua per innaffiare i suoi orticelli, le sue
insalatine...
- Ed intanto si udivano già le grida dei probandi e dei
chierichetti che cantavano e che arrivavano quasi di corsa, inseguendosi, gruppi
a gruppi, fermandosi solo a mangiare more e a dar certe scrollatine alle piante.
Arrivarono i chierici e ci fu abbondanza di acqua per tutti, durante il mese
che rimasero là; ma il giorno dopo la loro partenza, l'acqua mancò
improvvisamente; e questo anche a riprova del prodigio: del prodigio operato
dalla obbedienza umile di frate Ave Maria.
Così lo narrava don Orione (La luminosa notte di un cieco,
pp. 149-152).
Da parte sua il pio eremita attribuiva la grazia alla fede di
don Orione e alla protezione di Sant'Alberto che amava vedersi attorno tanti
futuri sacerdoti, e alla preghiera di tutto il personale religioso presente
all'eremo. Minimizzava, in umiltà sincera e carità fraterna, la propria parte.
E confermava che l'acqua non mancò mai durante la
permanenza dei chierici, che ne usavano molta. «Partiti i chierici il pozzo
si asciugò».
Non dimentichiamoci poi di don Draghi, pio e virtuosissimo
anche lui, se proprio vogliamo distribuire il merito tra diverse persone in
questo fatto straordinario.
Piace aggiungere qui di seguito altri significativi episodi
che riferiamo come sono stati raccolti da attendibili testimonianze.
Ai primi di giugno del 1925 un bambinello muto, Fronti Dino
di Monticelli (Casalasco), fu accompagnato all'eremo dalla mamma. Mentre le
campane suonavano a distesa (e l'incarico toccava a frate Ave Maria) il
fanciullo battendo le mani proruppe in questa frase che colmò i presenti di
meraviglia e di gioia «Mamma, mamma, din don din don!».
Era la prima volta che parlava.
La grazia è attribuita a Sant'Alberto protettore dei
mutolini da quando guarì il figlio del marchese Malaspina di Casalasco. Ma
il nostro eremita ci ha una piccola parte, se non altro come campanaro che
trasfonde il suo spirito di fede in ogni operazione che eseguisce in obbedienza
ai superiori.
Un suo cugino soldato ad Alessandria nel 1934 andò a
trovarlo all'eremo di Sant'Alberto esprimendogli la propria ansietà a causa
dell'imminente partenza per la guerra d'Etiopia.
Il santo eremita lo confortò e lo rassicurò con queste
parole: «Andrai in Africa, non sentirai il cannone a sparare, ci starai poco
e te ne tornerai a casa incolume».
«Io non credevo a quelle parole - confessò - e le presi
soltanto come un augurio. Partii il 5 maggio 1935, passai in Cirenaica, e lì
non sentii il cannone a sparare, vi rimasi solo cinque mesi e tornai incolume.
Allora pensai che quel mio cugino, pur essendo cieco, aveva la vista lunga».
Uno dei probandi che nel 1928 si trovava d'estate a Sant'Alberto,
quando si verificò il prodigio del pozzo, racconta che, orfano di padre e con
una sorellina malata a morte, si rivolse a frate Ave Maria.
Sapevo - dice - che i probandi erano un po' i suoi
beniamini: caldeggiava, zelava tanto le vocazioni.
Preghi per mia sorella - implorai. E lui prontamente: Sì,
sì, pregherò. E voglio chiedere al Signore che mandi a me la sua malattia».
Ebbene: ricevetti lettere da mia madre che la malata era
guarita, meravigliando i medici che l'avevano data per spacciata.
L'anno dopo, cioè nel 1929, don Orione ci mandò ancora a
Sant'Alberto. Mi feci premura di passare da frate Ave Maria e dirgli del buon
esito delle preghiere sue e quanto gli eravamo riconoscenti.
«Già lo pensavo che fosse guarita» - rispose. Ma non
aggiunse parola.
Ritenni che dovesse aver sofferto tanto, povero caro frate
Ave Maria! (Ib. 110-111).
Testimonia il nostro confratello don Andrea Alice: «Nel
luglio 1949, i Superiori mi incaricarono di dettare gli Esercizi spirituali agli
eremiti di S. Alberto e frate Ave Maria era fra questi. Ad esercizi inoltrati,
allorché tenni una meditazione sulla Madonna, accadde un fatto. Frate Ave
Maria era seduto in prima fila ed io potevo osservarlo per bene. Ad un certo
punto, mentre parlavo dell'amore materno della Vergine, fissando in volto
frate Ave Maria, notai che dai suoi occhi scendevano abbondanti lacrime,
silenziosamente, senza nessun sussulto della sua persona. Ne rimasi
impressionato ed incuriosito. Terminata la meditazione, ebbi l'ardire di
recarmi in camera sua: frate Ave Maria - gli dissi -, ho notato che durante la
predica lei piangeva silenziosamente... Il santo confratello rimase confuso e,
con una certa timidezza, rispose: «A volte mi succedono delle cose che io non
posso frenare! Dobbiamo amare la Madonna specialmente noi religiosi, perché,
se non si ama la Madonna, si ameranno altre madonne che non sono la Madonna».
L'amore a Gesù ed a Maria era in lui così ignito da
meritargli dallo Spirito Santo il dono delle lacrime come si riscontra nei
mistici».
SUL FONDAMENTO DELL'UMILTA’
Il sentimento fondamentale dell'umiltà ispira e sorregge le
preghiere di frate Ave Maria. Egli considera se stesso un miserabile, bisognoso
di tutto, il più indegno di tutti.
Un sacerdote - che egli non riesce subito a riconoscere dalla
voce - lo invita in sagrestia per un breve colloquio e lui docilmente lo segue e
recepisce questa domanda che sa quasi d'inquisizione:
«Frate Ave Maria, tanti vengono da voi a chiedere
consiglio, compresi sacerdoti e distinte personalità. La buona gente del
popolo si accosta a voi come ad un santo e ritiene la vostra parola come
ispirata. Un giorno forse voi sarete ricordato come un altro Sant'Alberto. Non
vi sentite proprio mai, neppure per un istante, tentato di orgoglio e di
compiacenza di voi stesso?».
Stette ad ascoltare. L'ansietà andava dipingendosi sul suo
volto scarno. Strinse fortemente il capo fra le mani tremanti, poi sbottò in un
grido staziante, soffocato: «Dalle unghie dei piedi fino all'estremità dei
capelli sento di essere un miserabilissimo peccatoraccio».
E scoppiò in lagrime e singhiozzi che commossero
l'interlocutore e lo fecero pentire dell'ardimento avuto nel porre una simile
interrogazione.
«Ma, d'un subito, l'eremita si trasformò, presentando un
viso tutto sorridente: «Ma lei - disse - è don ...?». Ed avutane conferma
portò il discorso su altri argomenti di assoluta serenità.
Si può affermare che ormai da lunghi anni frate Ave Maria
aveva vinto la sua battaglia contro l'amor proprio e la vanagloria.
Si dice che l'amor proprio scompare da noi solo tre giorni
dopo la nostra morte, ma frate Ave Maria lo aveva domato fin dai primi tempi
della sua «conversione».
Don Orione proprio per assicurargli la vittoria su di sé,
specialmente agli inizi, lo aveva sottoposto alle prove della umiltà con delle
umiliazioni, e il discepolo aveva tratto il miglior profitto dalle lezioni e
dall'esempio del maestro.
«Tutte le lodi mi fanno pensare al giorno del giudizio di
Dio» confessa in una delle sue lettere. La stima degli uomini quasi lo spaventa
perché difficilmente coincide in tutto con la realtà nota a Dio solo.
Straordinario! Qui frate Ave Maria s'incontra con un'altra
anima di grande vita interiore e tutta compresa di umiltà: don Arturo Perduca,
il quale usava tanta delicatezza e tanta amabilità col prossimo «anche nel
timore di essere punito al giudizio di Dio se avesse mancato di carità verso
gli altri». Sono sue parole.
LA PENITENZA CORROBORA LA PREGHIERA
La pietà religiosa si integra con lo spirito di penitenza.
C'era una connessione naturale tra la preghiera liturgica o privata, in cui egli
si concentrava per tante ore del giorno e della notte, e le opere di penitenza
che egli compiva per renderla più efficace e meritoria dinanzi a Dio.
Come se non bastassero la cecità fisica, la tubercolosi che
gli incavernava i polmoni, i molti altri acciacchi della sua esistenza, ad
appesantirgli la croce abbracciata con tanto fervore, egli si sentiva spinto e
galvanizzato dalla brama della sofferenza, non soltanto attraverso i molti atti
di mortificazione che compiva ogni giorno adattandosi con gioia alla
povertà dell'eremo, alla squallida cella, al saccone di paglia o di foglie
secche del granoturco come giaciglio, ma privandosi del vino, della carne, del
pane, salva l'obbedienza, e tuttavia evitando simili fioretti e atti di
rinuncia quando si trovava alla mensa comune.
Si scoprì negli ultimi giorni della sua vita che egli
portava una specie di cilicio confezionato ruvidamente con del fil di ferro.
La preghiera era «il suo forte», perché corroborata da
aspre penitenze e da continue rinunce che libravano il suo spirito in
un'atmosfera di sublime contemplazione.
Custodiva in cuore come gemma preziosa il detto
scritturale: «Jacta cogitatum tuum in Domino» (Immergi il tuo pensiero nel
Signore).
La luce di Dio gli inondava l'anima. La cecità divenne per
lui un dono provvidenziale e all'amico di infanzia Bartolomeo, che ne era
stato la causa occasionale, scrisse una affettuosa lettera, per toglier dal
suo animo ogni ombra di rimorso e di amarezza e sollecitarlo a ringraziare con
lui il Signore. Con tanto amor di Dio e tanta luce spirituale divenivano
desiderabili le stesse sofferenze. Ma la virtù di frate Ave Maria arrivava a
trascenderle in una visione superiore di carità, finalità ultima e
insostituibile. Ci spieghiamo.
Dormiva in una cella squallida sprovvista di arredamenti
indispensabili nell'uso comune. Ma a lui piaceva più di una reggia. Aveva per
giaciglio un saccone di paglia triturata ormai al punto da sembrare segatura,
disteso su tre tavole sformate sorrette da due cavalletti.
Una recrudescenza del male, durante i giorni più rigidi
dell'inverno 1933, lo costringe a tenere il letto. Vogliono sostituirgli il
saccone con un materasso di lana. Lui protesta con calma e scherzando minaccia
di ricorrere a don Orione se insistono. Ma quando il direttore don Draghi sale
alla sua stanza e gli dice: «Frate Ave Maria, fate l'obbedienza», egli si
rimette alla sua decisione e il letto viene cambiato.
Molti anni dopo la famiglia Piccinini di Berzano (Tortona)
- Aldo, il primogenito, e tre sorelle - devota del pio eremita chiede e ottiene
di poter fare qualche cosa per lui e in pochi mesi gli appresta all'eremo un
modesto soggiorno, restaurando l'antica cella disagevole, cadente e in parte
sbrecciata. Egli, com'è suo costume, non muove obiezioni e obbedisce al
nuovo superiore che ve lo accompagna a prenderne possesso.
È una stanzetta di completo disimpegno dove potrà
occuparsi tranquillamente della preghiera, della lettura prediletta dei
testi religiosi, delle lettere da battere a macchina e dei suoi lavoretti
ordinari.
Durante i lavori di restauro, diretti dal geom. Moglia (un
«miracolato», bambino, da Sant'Alberto), frate Ave Maria era alloggiato alla
meglio nel vano ora trasformato in cucina.
La stessa famiglia Piccinini nel giugno 1959 aveva
edificato nella vasta tenuta agreste della Magostina una cappella dedicata
alla Madonna, con gradinata esterna e altarino per la celebrazione della Messa.
Per l'inaugurazione furono invitati da Milano e da Tortona
parecchi sacerdoti di don Orione, e il superiore generale don Pensa diede
l'autorizzazione perché fosse presente anche frate Ave Maria. Fu una giornata
di grande gioia per tutti. Per un'ora intera frate Ave Maria rimase devotamente
inginocchiato su di un gradino del tempietto a seguire la santa messa e
l'omelia, comunicandosi e pregando, senza dar il minimo segno di stanchezza.
A tavola si adattò in tutto all'ambiente e, affabile, fu al
centro della conversazione, lieto d'aver onorato la Madonna e contribuito a
soddisfare il pio desiderio dei suoi benefattori.
Da allora bottiglie e damigiane di vino squisito partivano
dalla Magostina per l'eremo e per altre case della Congregazione nelle
occasioni solenni. Questo è detto a loro onore
e in segno di gratitudine, e nasconderlo sarebbe...
ipocrisia. L'adattamento di frate Ave Maria al nuovo soggiorno è un fiore di
virtù da segnalare e da ammirare, non un «infortunio» da nascondere. Come a
tavola egli accettava quello che gli ponevano nel piatto, per un atto di
obbedienza e di mortificazione in quanto era un freno al suo desiderio di
rinunciarvi, così quando si trovò in quella camera pulita, modestamente
ordinata, al tutto diversa dalla cella abituale, non mosse rimostranze, perché
nella sua alta virtù capice che l'obbedienza val più del sacrificio
personalmente scelto e accettare un servizio offerto dalla carità altrui può
essere un dovere di gratitudine, mentre il cuore non s'attacca a quel nuovo
ambiente e non se ne compiace che per rendere onore al merito di chi glielo
procura.
Una penitenza scontrosa, ostinata, disubbidiente: questa sí,
sarebbe cosa incompatibile con la vera santità.
AL VERTICE: LA CARITA’
La preghiera come componente della vita interiore si
completa e si esalta nella carità.
1,1,11, cieco, diventa raggio di luce allo spirito,
consolatore degli afflitti, consigliere dei dubbiosi e degli inesperti, faro
di orientamento degli sperduti in false prospettive di felicità o brancicanti
nelle tenebre delle illusioni e degli inganni, denunciando la vanità degli
idoli mondani: prima mostrando di là della notte tempestosa dell'errore e dei
sensi l'alba serena della fede, quindi propiziando nel tempo la conquista e il
possesso del gaudio riservato alle anime in grazia anche durante le prove più
ardue, come la malattia, lo sgomento, la persecuzione degli uomini, il senso di
nausea provocato dallo sfaldamento dei valori morali e tradizionali nella
stessa Chiesa di Cristo (quella deteriore ribelle e mondanizzata) la tentazione,
il rimorso che ha davanti a sé un'alternativa tremenda: il pentimento o la
disperazione.
La rigenerazione della preghiera ne faceva un esempio vivo di
pace e di felicità nelle afflizioni: facile al sorriso, spontaneo, sorgivo;
pronto a tutti gli entusiasmi, conversando, scrivendo; docile, che, in
humilitate et sirnplicitate, seguiva chi lo chiamava, fosse anche solo per una
istantanea fotografica o una curiosità da appagare osservandolo, studiandolo,
amrnirandolo: cose di cui egli pareva non rendersi conto tanto era sincera la
sua amabilità.
Certo, frate Ave Maria esercitava anche la carità nel
senso materiale, compatibilmente alle sue condizioni di cieco e di figlio
dell'obbedienza.
Per quanto gli era possibile s'interessava dell'ordine
esteriore della casa, proponeva mezzi adatti a raccogliere elemosine per le
missioni e in agibilibus mostrava di possedere doti di iniziativa e praticità.
Era una sua idea costante che i ciechi d'Italia divenissero
membri attivi dell'Apostolato della Buona Stampa, già così ben avviato, per
suo suggerimento, tra le Suore Sacramentine Adoratrici; che ciascuno di essi
si impegnasse nel volgere in Braille (') qualche testo letterario e poetico, ma
soprattutto religioso, finché si stabilì il Movimento Apostolico fra i
Ciechi, che gli procurò viva soddisfazione (Ib. 48).
Si adoperava molto nella questua delle vocazioni per la sua
piccola famiglia eremitica, interessandosi direttamente perché nuovi postulanti
fossero accettati, e non rimase mai estraneo alle varie attività nelle quali
vedeva impegnati i confratelli dell'eremo e della Congregazione offrendo il
suo modesto contributo non solo di preghiera ma di assistenza e operosità.
E tutto questo altro non era che emanazione ed
estrinsecazione del suo profondo sentimento.
... CON LA PAROLA E CON LE LETTERE
Frate Ave Maria credette nella carità. La sua anima
semplice ignorava il male, viveva per il trionfo del bene sotto ogni aspetto,
in tutti i cuori. Diventa pleonastico dire che amava il prossimo, che voleva
servire il Papa, la Chiesa e per essa offrirsi, dopo che abbiamo scoperto che
egli si manteneva costantemente a contatto di Dio.
E poi: «devoto di Maria SS.» dice tutto.
Non un sentimento effimero, ma una volontà protesa sempre
al meglio, un anelito di perfezione, una fede viva e operosa.
All'atto pratico la sua carità si esprimeva, oltre che nella
preghiera, attraverso la parola e gli scritti. Egli possedeva lo zelo di un
apostolo. Non prediche (sebbene qualche volta tenesse conferenze a chierici e
a sacerdoti, addirittura in chiesa dalla balaustra) ma conversazioni a tu per
tu con delle più o meno numerose comitive che lo avvicinavano in camera, o nel
chiostrino, o nella sala dell'eremo, dovunque insomma riuscisse facile poterlo
«sequestrare» per consultarlo, interrogarlo, ascoltarlo.
Raramente una vita si presenta così «unitaria» come la
sua. Nei capolavori si cerca soprattutto l'unità d'ispirazione. A volte per
trovarla si ricorre a delle acrobazie di pensiero. Ma nella biografia del nostro
eremita il principio unitario, evidentissimo, è la fedeltà alla sua missione
di pregare. Intorno ad essa, elemento catalizzatore, si accentra e si
polarizza la sua attività spirituale e religiosa.
Difatto egli non considera l'apostolato della parola (e degli
scritti che la fissano nel tempo) separata, ma solo distinta, dalla preghiera
che rimane la missione fondamentale inderogabile a cui si è consacrato per
mandato di don Orione e per vocazione del Signore.
Alla luce dell'insegnamento di san Paolo l'«Ora et labora»
potrebbe interpretarsi, nel suo caso, [sostituendo alla congiunzione (et) la
copula (è)], in quest'altro modo: «I1 lavoro è preghiera», se compiuto in
ispirito di fede e di offerta a Dio di tutto se stesso.
E questo era il pensiero di frate Ave Maria come risulta dal
seguente brano che sembra operare l'amalgama perfetto tra i due elementi: «Sono
qui in ginocchio, davanti al mio lettuccio, che mi serve da tavolino, quando
voglio scrivere: anche questa è preghiera (...) Se sapessi che lo scrivere
lettere non giovasse né all'anima mia, né a quella di chi lo riceve, io
cesserei senz'altro ogni genere di corrispondenza» (Ibidem 82-83).
Dal primo anno della sua dimora a Sant'Alberto, persone
private d'ogni ceto, età e condizione, cominciarono a prendere da lui
direzione e conforto nei momenti dubbiosi della vita e sempre ne ripartirono
rasserenate nello spirito e rinsaldate nella fede, o quanto meno propense a
considerare il problema religioso sotto un'angolazione che escludeva
l'orgoglio, la prevenzione, il pregiudizio.
Nei giorni di maggior concorso all'eremo il colloquio di
frate Ave Maria con i vari gruppi di visitatori e di devoti costituiva un
numero di ordinaria amministrazione. Ed egli, docile e pronto, a prezzo di
tanto strapazzo fisico, non si ritraeva mai da questa forma di apostolato.
Oggetto dei colloqui erano le cose di Dio e dell'anima, o anche quelle del
mondo, da illuminare ai raggi delle verità eterne, mai fine a se stesso,
almeno da parte sua.
IL SUO EPISTOLARIO
Le lettere, che egli dapprincipio componeva su carta
Fabriano, o similare, secondo il metodo Braille, ma che presto imparò a
battere a macchina, sono incredibilmente numerose, dirette, per lo più a suor
Teresa, alla mamma, a don Orione, ma anche ai confratelli, ai richiedenti, che
egli non lasciava mai senza risposta.
Non sono ancora state raccolte in un epistolario vero e
proprio, ma l'attento e documentato volume, che ci fa da guida, edito nel 1964
dalla nostra Postulazione, ne riporta molti e diffusi squarci.
In esse vibrano due sentimenti fondamentali: quello della
fede e quello della carità, che si corredano poi delle virtù morali e
religiose: l'umiltà, la sete di conquista delle anime all'amor di Dio, il
disprezzo delle vanità, il desiderio e il gusto della preghiera e della
mortificazione, e qua e là sanguinano della sua umanità prostrata in un
Getsemani ignorato dagli altri; in uno stile che non ha nulla di manierato, ma
sgorga vivo, spontaneo, senza fronzoli, infiorato di arguzia e di lepidezza, da
un cuore tutto immediatezza, sincerità, entusiasmo, felicità spirituale,
semplicità, rapimento in Dio.
Una nota insistita in queste lettere: la sua sincera e
sofferta commiserazione per quegli infelici che si affannano dietro le
frivolezze del secolo e, di converso, l'invito all'acquisto dei valori della
fede e delle virtù cristiane, tesori inestimabili, alla portata di tutti, ma
trascurati e ignorati dalla maggior parte degli uomini.
Ed è l'unico rammarico, l'unica tristezza dalla resa della
sua anima cristallina e pura come raggio di luce. Egli per i peccatori e gli
increduli, per gli edonisti e i vinti dalle passioni del mondo, darebbe la
vita ed esprime la più grande fede nella misericordia del Signore da impetrare
pregando e soffrendo.
Era scomparso da pochi mesi (2 gennaio 1960) in circostanze
tragiche un «pubblico peccatore» protagonista di imprese leggendarie nel
campo sportivo. Un sacerdote suo amico, avvilito per certi giudizi aspri e
spietati contro il defunto, formulati da chi avrebbe dovuto inchinarsi di
fronte alla sciagura e pregare, invece di condannare senza appello, informò
frate Ave Maria della propria ambascia.
Il santo eremita gli rispose subito mostrando tanta fiducia
nella bontà di Dio.
Però osservava con finezza: «Cosa facilissima è pregare
per la conversione dei peccatori, perché si raccomandano a Colui che più di
tutti brama salvarli, ma è difficile parlare della salvezza di un peccatore,
perché tra quelli che ascoltano vi sono quelli ai quali Gesù ancora direbbe
con tono di rimprovero: "Non sapete di che spirito siete. Non sono venuto
per perdere, ma per salvare"».
E allo stesso sacerdote che era stato criticato e offeso
pubblicamente per aver espresso fiducia nella misericordia di Dio in quella
dolorosa evenienza, raccomandava: «Sia amico di tutti i peccatori... tanto da
ricordarli tutti nella santa messa e da sperare nel loro ravvedimento, e
desiderarlo ardentemente, e da esprimere questa sua grande speranza» - (25
marzo 1960).
A scanso di equivoci suggeriva poi di parlare in modo che il
peccatore non rimandi la conversione sine die, ma neppure abbia a disperare,
in punto di morte, ricordando gli ammonimenti severi.
Vero figlio spirituale di don Orione, non voleva si
spegnesse il lucignolo fumigante, secondo il detto di Isaia.
Nei suoi scritti abbondano i riferimenti personali tanto da
costituire una vera e propria trama autobiografica dalla fanciullezza
all'estrema età, sia nel suo devolversi esteriore in fasi di tempo successive,
come nel rivelarsi sotto l'aspetto psicologico e morale.
Ma al valore autobiografico s'accompagna - e con maggior
rilievo - quello d'ordine ascetico.
Potrebbero formare un testo adeguato di riflessione e di
meditazione per chiunque, e sarebbero consigliabili proprio a coloro che
«presumono» di conoscere a fondo i segreti della vita spirituale e si
perdono in discorsi speculativi ed astratti, in brillanti teorie d'avanguardia,
perché li richiamerebbero, con una «costante» che non è mai pura predica, ma
sempre ispirazione, ai «problemi» veramente di fondo, al «porro unum est
necessarium», tanto trascurato se non irriso, e all'essenza della vita
cristiana, che non è fatta di «dottrine» (coadiuvanti della fede) ma di
pratica delle virtù.
Riflettono ad ogni passo il Vangelo, l'Imitazione di
Cristo, le esortazioni di don Orione - importante peculiarità - le sue
esperienze personali che non furono né scarse né superficiali, e lo portarono
a scavare intimamente il cuore umano e a conoscerne i risvolti più segreti, per
poterlo dominare con sicura consapevolezza.
SEMPRE LIETO NEL SIGNORE
L'esempio della sua inalterabile pace nelle avversità e
nelle prove più squassanti, e della gioia spirituale che mai lo abbandonava,
è forse la ragione più vera della sua attrattiva e l'insegnamento più
prezioso che ci ha lasciato.
Perché non si poteva non domandarsi come mai una persona
divenuta cieca a 12 anni, con la tubercolosi che l'andava demolendo senza
ucciderla (con meraviglia di tutti quelli che, dandolo spacciato a 23 anni, lo
vedevano superare senza danno la sessantina) esprimeva dal volto, dal
portamento, dalle parole, tanta felicità, vivendo nello «squallore» di un
eremo «che a molti piace visitare, ma dove pochi amano abitare».
Era pura letizia francescana quella di frate Ave Maria e
finiva per convincere de facto che la gioia non è cosa che proceda
dall'esterno (onori, denaro, piaceri, divertimenti, furfanteria et similia) ma
viene dal di dentro, dal cuore in pace con Dio e illuminato dalla fede.
Lezione di valore inestimabile specialmente oggi che tanti
vanno a dar la testa contro la barriera delle illusioni eretta sui principi
materialistici ed edonistici, mentre mai l'umanità si è trovata così a
disagio, senza giustizia, senza tranquillità, senza sanità fisica e morale,
con la prospettiva d'un avvenire ancora più spaventoso, se l'esempio dei saggi
e dei buoni (che non mancano, anzi sono la maggioranza «silenziosa») non la
richiamano ai valori evangelici, non deformati, non strumentalizzati ed
avviliti, ma autentici e quindi capaci di creare la base d'intesa su cui
ricostruire una nuova era cristiana.
Noi col Papa, con don Orione, con frate Ave Maria, crediamo
sempre nella carità e non vogliamo essere «dei catastrofici che pensano che
il mondo finisca domani» (don Orione).
A proposito della giocondità e letizia di frate Ave Maria
piace riferire ancora la testimonianza di don Alice, già ricordato: «Felice
un frate Ave Maria cieco, tubercoloso, ansimante, dalla voce cavernosa?
Proprio così! Se questo ci stupisce, prepariamoci a rimanere maggiormente
stupiti, quando riusciremo a scoprire l'origine della sua felicità. Frate Ave
Maria fu felice «nonostante» le molteplici sciagure che lo colpirono?
Assolutamente no! Quale fu allora il motivo della profonda gioia che lo
caratterizzò? Eccolo: proprio «a causa» delle sue sventure.
Folgorato dalla potenza dello Spirito Santo, esse
sprigionarono nel suo cuore una grande divina luce, che gli permise di
contemplare il Cristo trionfante a motivo della passione dolorosa amorosamente
accettata. Rapito dalla visione del Crocifisso, frate Ave Maria comprese ed
esultò del privilegio insigne di essere posto sulla stessa scia del
Salvatore. Di conseguenza il grande prodigio: il dolore che genera una
felicità divina e contagiante, comprensibile soltanto da chi ha fatto
l'esperienza del divino!
Non ricordo in quale anno i Superiori mi inviarono a S.
Alberto di Butrio, a prestare il mio aiuto in occasione della festa del Santo
patrono. La buona educazione mi indusse a recarmi nella camera di frate Ave
Maria allo scopo di ossequiarlo. Dopo i soliti convenevoli, i suoi sentimenti
e le sue parole si elevarono ben presto all'ordine superiore della grazia resa
infuocata dall'esperienza viva del soprannaturale. Non seppe più contenersi e
lasciò dilagare l'abbondanza della gioia e della felicità tutta spirituale che
lo inondava. lo, stupito e contagiato da così insolito spettacolo, non potei
trattenermi dal dire a me stesso: «Ecco un puro di cuore, cui già da questo
mondo è concesso godere la felicità celeste». Era evidente che in frate Ave
Maria agivano profondamente quelli che S. Paolo chiama i «frutti dello
Spirito», tra i quali si enumerano appunto la pace e la gioia.
Infervorato io pure dal contatto del santo confratello, gli
citai un versetto tratto dall'antica Volgata: «Nox illuminatio mea in
deliciis meis». E gli dissi: «Frate Ave Maria, mi pare che il Signore le
faccia gustare la dolcezza di queste parole della Sacra Scrittura... Egli
volle conoscerne il significato ed io gliene feci la traduzione libera: La mia
notte ha una luce deliziosa».
All'udire queste parole frate Ave Maria ebbe un sussulto di
gioia: saltellò e batté le mani come un fanciullo felice, ed esclamò: Che
bello! Che bello! Poi mi pregò di ripetergli quella frase, che lo aveva
incantato. La sua esperienza di Dio, certamente provata tante altre volte, gli
inondò l'animo e lo sollevò alle regioni celesti.
Quindi mi chiese di attendere un poco per avere il tempo di
prendere carta e punteruolo per scrivere in braille, ripetendo: Che bello! Che
bello! Scrisse la frase per poterla richiamare spesso alla memoria. Uscii
dalla camera di frate Ave Maria con la persuasione: Ho parlato con un santo!
In non so quali vacanze estive, insieme a mons. Garaventa,
rettore del seminario minore della diocesi di Tortona, accompagnai a S.
Alberto un gruppo di seminaristi per un breve ritiro spirituale: alla fine essi
desiderarono incontrarsi con frate Ave Maria. Questi annuì di buon grado e
scese in cortile. I seminaristi pendevano dalle sue labbra e lo fissavano
stupefatti e commossi. Io approfittai per interpellare il santo confratello.
Gli chiesi pubblicamente: frate Ave Maria, lei è felice? Egli, con evidente
trasporto, rispose: Tanto, tanto! La mia felicità è essere cieco, la mia
felicità è essere povero, la mia felicità è essere ubbidiente!... Non c'è
dubbio, a farlo parlare in quel modo era la perfetta ed allegra conformità al
volere di Dio, che lo faceva partecipe della passione di Cristo Crocifisso:
sbarazzato dalla mentalità umana era rivestito della mentalità divina. Non
vi pare che frate Ave Maria sia tutto qui? Da parte mia non ne dubito
minimamente».
SCRIVONO DI LUI...
Frate Ave Maria non ebbe certo la popolarità di un padre
Pio da Pietrelcina, ma non la cedeva a lui in saggezza di consigli.
Don Orione usava indirizzargli anime spiritualmente
angustiate, perché ritrovassero al suo contatto la luce della verità e
della fede e la fiducia nel bene.
Scrittori e pubblicisti di chiara fama, ammiratori,
discepoli occasionali, rendono testimonianza della sua virtù e del suo zelo
apostolico.
Accenniamo ad alcuni.
Il primo posto tra i divulgatori della presenza di frate Ave
Maria all'eremo di Sant'Alberto spetta al duca Tomaso Gallarati Scotti grande
amico di don Orione e una delle figure più note del movimento modernistico,
agli albori del secolo. Egli era nella scia di Antonio Fogazzaro, di don Brizio
Casciola e di altri esponenti che, colpiti dalle censure della Chiesa,
doverose, come no? seppero sottomettersi all'autorità religiosa in spirito di
obbedienza.
A ciò non fu estranea l'azione pacificatrice e risanatrice
di don Orione, il quale, quando voleva rifare un'anima in cerca di pace,
suggeriva e propiziava una sosta all'eremo di Sant'Alberto.
Qui trascorre un certo periodo della sua vita anche il duca
Tomaso proprio all'epoca in cui vi dimorava frate Ave Maria, con il quale si
tratteneva in lunghe conversazioni.
«Ebbi un ritiro a Sant'Alberto in un periodo piuttosto
difficile per me». Cosi dichiara egli medesimo. Ne riportò tanta
impressione e soddisfazione spirituale che volle poi ambientare all'eremo la
scena madre di un romanzo dal possente respiro religioso, «La confessione di
Flavio Dossi». L'atmosfera spirituale è resa con efficacia. Vi si sente il
travaglio interiore risolto in conquista di verità eterne. Gli addentellati
autobiografici sono palesi, la descrizione dei luoghi è perfetta e
suggestiva. Frate Ave Maria vi è adombrato nella figura di un «fra Giovanni»
che vi sostiene una parte di rilievo: «I neri capelli radi, lisci, intonsi gli
cadevano sulle spalle magre e curve... Gli occhi erano chiusi. Ma la palpebra
sinistra sollevata un poco non riusciva a nascondere la pupilla trafitta, che
dava al volto potentemente scolpito un'espressione tragica».
«I casi dell'infelice re tradito e spodestato (Edoardo Il,
di cui all'eremo si indica la tomba primitiva) non commuovono e affascinano
come la luminosa cecità di frate Ave Maria (...). Divenne cieco in un
incidente di caccia, si dice; e come la sua pupilla fu fredda al raggio del
sole, gli si accese, entro, la fiamma misteriosa che lo consuma. Chi più re di
lui, che possiede un regno interiore così fondo e vasto e complesso? Chi più
re di lui, che sa condurre per i meandri dell'Inconoscibile con mano certa e
passo sicuro?».
«Come don Orione mi aveva detto, qui ho incontrato per la
prima volta frate Ave Maria. Questo monaco nel suo bianco saio simile a quello
degli Olivetani, che sembra uscito da una tavola a fondo d'oro dei primitivi, ha
nella voce e nel gesto la soavità del nome mariano (...) Ho potuto parlargli a
lungo prima che rientrasse nella sua modesta cella».
Chi scrive così, nel 1934, è Nino Salvaneschi, autore di
libri pregiatissimi, lui pure cieco, ma che sa intuire e vedere come pochi la
bellezza e i valori della natura e delle anime.
«I miti ed umili eremiti ciechi ci appaiono come una
speranza di salvezza e come un segno di perenne vitalità cristiana che
accompagna il tormentato cammino delle generazioni attuali« (Renato Canestrari
- 1936).
«Quando ripeteva il nome di don Orione, traspariva da tutta
la persona, specie dalle mani diafane e affusolate, che vedevo congiungersi
strettamente, quale grata venerazione gli riscaldasse il cuore (...).
«Non ero più solo con lui, ora: un topolino che si era
affacciato più volte, timidamente, forse temendo la voce insolita di un
visitatore che poteva essere cattivo, s'era poi fatto ardito e girellava a suo
piacimento. Lo dissi a frate Ave Maria... «Sa che qui nessuno lo vede e gli
può far male...» mi rispose.
«( ,.,) Il tempo era volato via con frate Ave Maria, e
pensavo con mestizia all'addio. Gli chiesi perdono di averlo affaticato. Non
volle, e le parole che disse - ultime - toccarono le più recondite fibre del
mio animo, che ne vibrò tutto, come arpa sfiorata da mano d'angelo. La melodia
soave che si sprigionò dall'intimo del cuore non s'è ancora spenta né - lo
sento - potrà spegnersi più».
Così riferisce il giovane Giuseppe Zambarbieri di anni 22
aspirante religioso nella Congregazione di don Orione.
«Non s'inquieta, non s'irrita mai, sebben non gli manchino i
motivi, in un luogo desolato, povero, dove l'inverno dura, senza esagerare, sei
mesi e dove gli aiuti di ogni genere sono limitati. È sempre calmo; il sorriso
gli è abituale sulle labbra. Non solo non si lamenta mai di nulla, ma è
incapace di dir male di qualcuno (...). E nella peggiore delle ipotesi ha un
sorriso scevro assolutamente da malignità, oppure dice una lepidezza di
sapore manzoniano (...). Alcuni anni or sono chi scrive era solito leggergli,
quasi tutti i giorni, alcuni tratti dei nostri grandi luminari, Ruysbroek,
Sant'Agostino, la Beata Angela da Foligno, oppure della vita di alcuni eroi
della fede e della carità. Raramente quelle pagine e quelle azioni furono
così ben comprese sulla terra. La sua faccia si illuminava, un raggio di
gioia usciva dal suo intimo e pervadeva tutto il suo aspetto, che si
trasfigurava» (1937).
È don BrI,~io Casciola, anima semplice, pura, generosa che,
attraverso periodi di tormento e di crisi, trovò in don Orione il suo fraterno
consolatore.
Silvio Negro, corrispondente del Corriere della Sera presso
la Città del Vaticano, scrittore affascinante per magistero e limpidezza di
stile, che tratta la cronaca religiosa in modo esemplare, per serietà e
competenza, dedica a Sant'Alberto un articolo apparso su «La lettura» del
dicembre 1938, dal titolo «Un mistero della storia inglese rivelato in
Italia?».
Dichiara che la visita all'eremo gli riservò la più
profonda impressione nell'incontro d'una memoria che si riferisce alla
presunta tomba di Re Edoardo II, sotto un arcone dell'antico chiostrino.
Domanda scusa ai «buoni religiosi che vivono in quella
solitudine pregando e rinnovando con il lavoro l'antica regola benedettina, se
di fronte a quella passano in secondo piano tutte le belle cose di religione,
antiche e recenti».
Non fa il nome di don Orione, ma pubblica due grandi
fotografie di frate Ave Maria, una che lo rappresenta da solo, l'altra in
conversazione con Riccardo Bacchelli, il più grande romanziere dei nostri
tempi, l'autore de «Il mulino del Po», e sotto quest'ultima pone la didascalia
seguente: «Una vocazione rientrata? Riccardo Bacchelli a colloquio con frate
Ave Maria».
Sono entrambi in piedi sullo sfondo degli archi del
chiostrino, e lo scrittore, a capo scoperto, fissa il suolo in atteggiamento
meditativo evidenziato dalla mano che stringe il mento.
Dice molte cose questa fotografia sia sul conto
dell'eremita ancor giovane, nero di barba e di capelli, a mani congiunte,
mentre parla; sia sul conto del romanziere che ascolta così umile e rispettoso.
Molti anni dopo, il 18 febbraio 1958, Riccardo Bacchelli
così scriveva a chi gli aveva rivolto l'invito di ritornare sul tema del re
inglese: «Dell'abbazia e della tradizione o, troppo più verosimilmente,
leggenda di Edoardo II, ho vivo ricordo. Ma per scriverne dovrei ripetere la
visita: e non escludo di farlo un giorno o l'altro. La sua troppo benevola
assicurazione, che farei cosa gradita ai figli spirituali di don Orione, fa
più vivo il desiderio di rivedere quel luogo tanto poetico».
«Frate Ave Maria ha trovato nel silenzio una ricchezza
spirituale la cui fama ha varcato i confini dell'eremo (...). La sua stanza è
squallida; egli dorme su di un pagliericcio, si ciba di erbe cotte e prega
(...). S'è trascritto il Vangelo e altri sacri testi nella scrittura Braille, e
vi passa sopra le notti. E mite, dolce, serafico. Lunghi capelli gli inanellano
le spalle ed ha copiosissima e nerissima la barba. La sua età è ferma, perché
quando la vita è ridotta, o elevata, come è per lui, il calendario, ch'è poi
il cilicio di noi laici, non esiste più» (Giovanni Cenzato 1938).
«Figura di asceta di un pallore spettrale (...). Ma quanto
è soave e sicura la sua parola, e sempre ispirata e pregna di tutta la sua
inesausta edificazione! Perché frate Ave Maria
è l'uomo più felice del mondo...» (G. N. Filippini 1948).
«Frate Ave Maria leggeva - passando rapido e leggero i
polpastrelli della sinistra sulla pagina in scrittura Braille - il suo libro di
preghiere (...). Si fece sulla soglia del coretto a fianco dell'altare, nella
mite luce dorata della finestrella dell'abside, e sorrise. Dava, a guardarlo,
un senso di mistica irrealtà, come un'apparizione di tempi lontani e
leggendari; e, se ci avesse detto che abitava in quell'eremo sin dalla sua
fondazione, e che aveva aiutato Sant'Alberto a costruirlo su questo sperone
diruto, dopo il Mille, non ci saremmo meravigliati: tanto la sua parola
infervorava...» (Gino Cornali 1948).
Nella «Gemma d'Oltrepò» la figura di frate Ave Maria,
genius loci, è così rappresentata: « Il suo aspetto ieratico, reso ancor
più grave dall'onda di capelli che gli ricadeva sul bianco saio, dalla barba
incolta e da una malattia che gli scavava le guance, gli macerava il corpo,
gli arrochiva la voce, mentre ne esaltava il valore spirituale, la sua
sorridente e umile bontà, la lunga esperienza meditativa, la saggezza delle sue
parole, un'aria di trasognata beatitudine e di dolce rapimento ai pensieri di
Paradiso, lo splendore del passato che sembrava riverberarsi su questo
esemplare di asceta tornato come per un prodigio a dar lustro all'antico eremo,
attiravano su di lui la venerazione di tanti devoti che anelavano
d'incontrarlo per edificarsi alla sua conversazione e trarne conforto e
incitamento al bene» (D. SPARPAGLIONE: «Una gemma d'Oltrepò», o.c.p. 72).
Sono tutte pagine sincere e colmano di poesia e di verità
rappresentativa le lacune di questi cenni biografici. Perciò le abbiamo
riportate.
Frate Ave Maria ignorava in generale queste testimonianze
eccezionali e quelle usuali dei nostri modesti periodici di Congregazione, e,
se ne veniva a conoscenza, non era certo per compiacersene, turbando il
raccoglimento in Dio e nella preghiera. Si faceva leggere l'articolo e lo
vagliava a misura e a lume di fede. Dove incontrava la propria lode protestava
intimamente, ma senza perdere il tranquillo equilibrio della
santa indifferenza. Era troppo superiore alle tentazioni di vanità
letteraria, allergico agli stimoli dell'amor proprio.
Nella seconda edizione della «Gemma d'Oltrepò» (1962) si
accennava all'«imprudenza del suo compagno di giochi Bartolomeo Vignola che
gli costò l'improvvisa perdita della vista». Frate Ave Maria scrisse, poche
settimane dopo, all'autore della monografia: «Non ho ancora avuto la grazia di
sentirmi leggere la «Gemma d'Oltrepò», ma ho trovato chi spontaneamente
mi facesse leggere in Braille ciò che in essa mi riguarda (...). Se queste
parole (sulla dinamica dell'incidente) capitassero sotto gli occhi del mio
caro amico Bartolomeo aggiungerebbero duolo nuovo al vecchio duolo. Mi sembra
più chiaro dire che la Provvidenza per mezzo di un mio caro compagno mi tolse
ciò che prima mi aveva dato. Misericordiosamente mi diede e benignissimamente
mi tolse.
«Sono contento però che mi abbiate collocato in mezzo ai
due strumenti di cui la Provvidenza maggiormente si servì per beneficarmi: una
Figlia della Carità che mi raccomanda a don Orione e don Orione che mi parla
della "provvida sventura"».
La frase peraltro non fu modificata nelle edizioni
successive perché esprime una realtà storica obbiettiva e serve a mettere
in rilievo l'eroico spirito di fede e di carità che animava frate Ave Maria.
Concludiamo questa carrellata di testimonianze
aggiungendovi quella che il conosciutissimo padre Mariano da Torino fece
nella sua celebre rubrica televisiva il giorno 30 maggio 1967, quindi dopo la
morte del nostro.
« In una lettera, scritta, non a me, ma ad una nonna e più
di 30 anni fa, ho letto queste curiose parole:
"Vedete, cara nonna, io sono il più ignorante di tutti
gli uomini della terra. Tutti sanno mille cose, ed io so una cosa sola: so
soltanto essere felice. Tutti posseggono più oggetti. Io invece non posseggo
che una cosa: la vera felicità".
Era un eremita cieco che è morto nel 1964, la cui storia è
più bella che un bel romanzo. Per questo ve la voglio in breve raccontare.
Ascoltate:
Dunque, era il primo di cinque fratelli, di una modesta
famiglia di contadini liguri: Cesare Pisano! Era un giovane, buono, generoso ma
vivacissimo, ecco: troppo vivace, tanto che si esponeva continuamente a rischi e
pericoli; ed un brutto giorno - un bel giorno per lui, ma noi umanamente
diciamo un brutto giorno - scherzando con un suo coetaneo, che teneva in mano
un fucile, il solito maledetto fucile che si crede scarico e che invece era
carico, gli dice così con tono di sfida: "spara, spara, su spara...";
e l'amico spara. Il colpo parte e gli occhi se ne vanno per sempre! Cesare è
cieco! Tragedia indescrivibile, incerti i familiari soprattutto per lui... ma
pensate, a dodici anni non vederci più! E nel suo cuore di adolescente si
alternano crisi di profonda disperazione, di ribellione, di bestemmia, mentre lo
ricoverano in un istituto dei ciechi a Genova dove rimarrà per sette anni per
ricevervi un'assistenza adeguata e una educazione e istruzione adatta alla sua
dolorosa menomazione.
Proprio in quell'Istituto c'è una buona suora, suor Teresa,
la quale, con materno affetto, sta vicino a questo adolescente drammaticamente
sconvolto per questa tragedia nei primi anni della vita, e riesce, dolcemente,
lentamente, gradatamente a smorzare quell'astio, quel rancore contro la
disgrazia. Non solo, ma riesce, un giorno, anche a vedere di nuovo il sorriso
sul volto di quel ragazzo, e si sente chiedere, con grande sua sorpresa:
"... sorella, posso io aspirare a consacrarmi un giorno al
Signore?...". Ecco, in quel cuore erano subentrate due realtà, due
certezze: una, la rassegnazione cristiana; non soltanto il far di necessità
virtù, ma una vera,
piena rassegnazione cristiana a quella che era stata la
volontà di Dio che aveva permesso quella sua cecità; e contemporaneamente,
e superiore a questa rassegnazione, una gioia, calda, sincera, piena, gioia per
aver scoperto in questa stessa disgrazia, una occasione per lui provvidenziale
per consacrarsi al Signore. Questa gioia si trasformerà poi in letizia, in
felicità che, come diceva lui, non tramonterà più per lui, lo
accompagnerà fino al letto di morte, nonostante che egli abbia dovuto passare
attraverso prove innumerevoli, dolori inenarrabili. La sua stessa salute
sempre cagionevole, è stato un terribile cilicio per tutta la sua vita, oltre
alla cecità, s'intende. Nonostante questo, quella felicità non l'ha mai
abbandonato.
Ecco, decisivo per il suo spirito è stato l'incontro con don
Orione; questo grande apostolo della carità, illuminato da Dio, illuminò lo
spirito di Cesare facendogli capire quello che la Provvidenza stava preparando
per lui. Don Orione è il santo della Provvidenza, e vide benissimo che in quel
giovane di ormai vent'anni, i segni erano certi di una vocazione religiosa e
lo accolse benevolmente nella sua fiorente famiglia religiosa, tutta dedita ad
opere di carità. Erano i primi anni proprio dell'attività di don Orione. E,
stando vicino a questo giovane, si accorse lentamente che egli aveva una
propensione accentuata alla ritiratezza, forse dovuta anche al suo male, alla
sua cecità, al raccoglimento, al silenzio, alla preghiera, alla
contemplazione. Ed allora gli propose, ed egli accettò, e lo aiutò a
realizzare un'idea nuova. In poche parole, dopo qualche tempo, il nostro Cesare
diventa eremita col nome di frate Ave Maria. Fra' Ave Maria!
Questo nome potrà sorprendere qualcuno, ma non chi conosca
la pietà mariana di don Orione, che faceva tutto nel nome della Madonna, e
diceva ai suoi: "...dite tante Ave Maria, perché ogni volta che dite
un'Ave Maria si accende una nuova stella in cielo". Caro don Orione! Quanto
amava la Madonna! E amava altrettanto anche il giovane Cesare.
Eremita è una parola, e... dove stanno gli eremiti? Oggi
purtroppo stanno scomparendo gli eremi, perché sono luoghi, è vero, sono e
potrebbero essere, e devono essere fortilizi dello spirito, o se non altro,
richiamo ai valori spirituali.
Oggi stanno scomparendo perché sono soffocati da quella che
è la tumultuante invadenza dei motori e delle macchine; non c'è più un luogo
solitario oggi, grazie alla macchina.
Don Orione però aveva ben tre eremi a disposizione, e in
tutti e tre - in due, meno a lungo: meno a lungo in Sicilia, meno a lungo al
Soratte quì nel Lazio - ma più a lungo in quello di S. Alberto di Butrio in
Val di Staffora in provincia di Pavia. Era un eremo abbandonato da tanto
tempo. Don Orione l'aveva preso, l'aveva fatto restaurare e lo - non dico
riempì - ma lo popolò di alcuni eremiti tutti quanti ciechi con il nostro
frate Ave Maria.
Ed era bello vedere i turisti - i turisti amano in modo
eccezionale questi luoghi, queste tappe dello spirito, questi silenzi improvvisi
nel tumulto della loro vita settimanale -
i turisti si arrampicavano, andavano sovente a cercare di
frate Ave Maria nell'eremo.
E sempre che andavano, lo trovavano immerso in preghiera,
in qualunque ora del giorno, o in qualche angolo buio della Chiesa, oppure
vicino all'urna di S. Alberto eremita, che è appunto il patrono di quella
piccola Chiesa.
Il più interessante era quando i visitatori, dopo qualche
preghiera, perché non si può non pregare quando si vede qualcuno che prega
sul serio e che gode di pregare; dopo qualche istante si facevano coraggio,
rompevano il silenzio, si avvicinavano a lui e lo interrogavano parlando. Ed
egli, come se gli avessero fatto il regalo più grande - che anima bella!...
sapeva lasciare la dolcezza della sua contemplazione per far del bene a qualcuno
- e rispondeva, e li accoglieva con tanta benevolenza, e spiegava la storia
dell'eremo e li conduceva all'aperto, si prendeva una boccata d'aria, di sole
e anche di acqua del pozzo di cui raccontavano tanti prodigi fatti da lui per
l'acqua di quel pozzo, e potevano finalmente vedere alla luce del sole il volto
profetico, segnato dal dolore e dalla sofferenza, dalla cecità, dai digiuni,
dalle penitenze, ma coperto da uno splendore di felicità inenarrabile. È
testimonianza universale di tutti quelli che lo hanno avvicinato in quasi
quarant'anni di eremitaggio, tutti quanti concludevano così:
"Finalmente abbiamo veduto un uomo felice sulla
terra!". Tutti dicevano così.
Ma che cosa è che rendeva così felice un uomo sempre
infermo e che, umanamente parlando, nulla possedeva? La risposta la dava a tutti
il suo sguardo cieco, eppur profetico, sempre rivolto verso l'alto, verso il
cielo.
Non che frate Ave Maria trascurasse le cose della terra o i
dolori degli uomini. Anche lui, uomo, doveva pensare alle cose della terra, e
la sua preghiera continua era soprattutto per gli uomini che soffrono; ma le
cose della terra e le sofferenze degli uomini le vedeva con le pupille della sua
anima, tutte nella luce del cielo. E perciò l'animo suo esultava, ed egli era
veramente felice di essere così, privo della vista materiale, ma più disposto
a vedere le cose spirituali. Era genuina e profonda la sua felicità. E
scendendo dall'eremo i visitatori portavano con sé nel cuore il ricordo e la
certezza di aver avvicinato un santo, ma un santo felice!
E questa testimonianza diventò, direi così, esultante e
trionfante nel giorno della sua morte, il 21 gennaio del 1964. Oh, allora, da
tutte le parti, con tutti i mezzi, accorsero per baciare quella salma, per
venerarla e per ringraziare quell'uomo così singolare che non aveva fatto
nessuna predica, non aveva regalato nessun Buono del Tesoro a quelli che erano
andati a trovarlo; ma che aveva ottenuto dal Signore con le sue preghiere tante
grazie e tanti prodigi; anche per questa riconoscenza andavano, ma soprattutto
perché avevano ricevuto da lui, che era un uomo come loro, e più sofferente
di molti di loro, il dono di una testimonianza impressionante di felicità.
Insomma, era stato un infelice, che era invece felice.
Quindi egli non raccontava delle menzogne quando, scrivendo
alla nonna continuava così: «... io, altro desiderio non ho, se non di
adempire sempre ed ovunque la santissima volontà di Dio». Questo era stato
il fulcro della sua conversione: adagiarsi come una foglia nel letto di un
torrente impetuoso, nella volontà di Dio.
«...Questo è il desiderio che mi rende felice, ed io credo
che è infelice colui che non ha questo desiderio, di fare la volontà di Dio.
Che meraviglie sa fare il Signore e la santa Madonna» - sentite la
terminologia abituale di don Orione - «Vi sono delle persone che non credono ai
miracoli? Ecco, uno stupendo miracolo che compie il Signore, che compie la
santissima Madonna ai giorni nostri; un miracolo stragrande e continuato: un
cieco, grande peccatore, perdonato da Dio, in abito di penitente, chiuso fra le
quattro mura di un eremo, che è felice; tanto felice da avere grande
compassione dei più ricchi, dei più potenti, dei più sapienti di questo
mondo, ma che non hanno fede, ma che non hanno amor di Dio. Questo cieco, questo
ammalato, questo solitario è felice; di una felicità non egoista, perché
piange per la infelicità altrui. E prega il suo Dio e la sua Madre Celeste,
affinché il numero degli infelici sia ridotto a più pochi che è possibile.
Caro frate Ave Maria, quanto è bella questa conclusione!
È il programma di ogni apostolo cristiano: fare sì che il numero degli
infelici sia ridotto a più pochi che è possibile. Pace e bene a tutti!».
12 MARZO 1940: MUORE DON ORIONE
Frate Ave Maria venerava don Orione soprattutto perché
gl'insegnava con l'esempio e con la parola l'amore della croce, del sacrificio,
della mortificazione, la via regale che conduce al Cielo. Ed era lieto di essere
qualche volta umiliato, specialmente nei primi tempi, come gli accadde a Villa
Moffa, quando in cappella, mentr'egli sedeva all'harmonium, il beato Fondatore
rivolse ai chierici una sua esortazione, concludendo: «...perché, vedete,
non bisogna fare come fanno certi ciechi i quali, perché sanno strimpellare
qualche canzoncina, chissà che cosa si credono di essere!».
Questo del resto rientrava nel suo metodo di formazione, e
lo usò anche nei riguardi di altri sacerdoti dell'opera, di don Cremaschi
maestro dei novizi, di don Ferretti, di don Zanocchi, tutte anime semplici e
salde nella virtù. Ma la sua stima per frate Ave Maria era altissima, come
abbiamo più di una volta potuto constatare.
Don Orione fu certamente a Sant'Alberto nel settembre 1934
(per l'ultima volta?). Pochi giorni dopo salpava, col «Conte Grande», per
l'Argentina. Rientrò in Italia dopo tre anni di intenso apostolato nell'America
del Sud.
Non era più fisicamente quello di prima. Subì due forti
attacchi del suo mal di cuore, il 1° aprile 1939 ad Alessandria, e il 9
febbraio 1940 a Tortona. I medici gli consigliarono il clima mite di Sanremo,
dove egli, per puro spirito di obbedienza, soggiornò dal 9 al 12 marzo, quando
alle 22,40 rispose santamente alla chiamata del Signore.
Frate Ave Maria, che aveva gioito nel saperlo partito per
Sanremo, ascoltò trafitto dal dolore il messaggio telegrafico inviato da don
Sterpi agli eremiti, col ferale annuncio.
Si raccolse nella preghiera e poi confidò per iscritto a un
confratello i suoi pensieri poggiati su queste due realtà spirituali: la
croce di Cristo e il beato Paradiso. Adora in tutto la volontà di Dio,
riafferma la sua certezza che don Orione continuerà a vivere nei suoi esempi e
nelle opere che ci ha lasciato e sarà sempre per noi una guida sicura. A chi
gli ha promesso una reliquia (i capelli del Beato) risponde ringraziando, ma
soggiunge: «Lasciate che una cosa sola d'ora innanzi desideri e domandi di
lui al Signore: l'eredità della virtù».
Compendia tutto in questa riflessione: «Gesù Crocifisso da
lui predicato e vissuto in terra, è ora contemplato glorioso. La croce amata,
tanto cara, ora ha perduto per lui il momentaneo pungolo del dolore, e da essa
già attinge il gaudio promesso».
È questo l'atteggiamento dell'eremita, sempre raccolto in
Dio, di fronte alla morte: «Il tempo della mestizia e della faticosa
seminagione è passato: ora è nei trípudi santi della mietitura».
E ricorda: «Don Orione non mi amò di un amore
sentimentale, bensì forte, generoso, crocifisso... al fine di compiere in
me ciò che manca alla passione e alla morte di Gesù» (Ibid. 135).
Incarica il destinatario della lettera di un favore:
«Fratello, l'ultimo bacio alla bara del nostro incomparabile Padre, datelo
per me, ultimo dei suoi figli, ma pur suo beniamino».
Era lontano dall'idea di poter presenziare al funerale. Ma
don Sterpi (il successore), pur congestionato dall'immane lavoro e dal peso
delle responsabilità, volle che frate Ave Maria scendesse a Tortona per la
giornata conclusiva di quella settimana che da Sanremo al santuario della
Guardia aveva visto folle di fedeli stringersi commossi e fidenti attorno
alla bara di don Orione, già invocato come celeste protettore.
Nessuno come lui provava per il Fondatore tanta
riconoscenza per i doni spirituali di cui aveva arricchito la sua anima.
Ma intanto, da parte di confratelli e di gente del popolo, si
verificavano altre scene di devozione, proprio verso di lui, che stagliava la
sua figura solenne e pia in mezzo alla folla in cammino, o si prostrava assorto
nel raccoglimento della preghiera.
Non dice nulla, quando s'accorge d'essere oggetto di
venerazione, ma si vede che soffre.
Durante quei giorni è ospite della Casa Madre e deve
adattarsi a dar la «Buona notte», nella cappellina, al personale religioso,
per tre sere consecutive. Alcuni lo vedono per la prima volta. Tutti egli
edifica col suo comportamento e con la sua parola convinta, intrisa di umiltà,
accesa di fede e di zelo, spirante devozione, servita però da una voce stanca,
un po' cavernosa, a tratti impercettibile.
Passa quasi tutto quel tempo a pregare in chiesa, a seguire
docilmente chiunque lo conduca a un colloquio, a una conversazione, a un
incontro di anime.
Poi, tornato al silenzio dell'eremo, stende sulla carta i
suoi pensieri, i suoi sentimenti, rispondendo o scrivendo di propria
iniziativa alle persone più familiari. Al centro di queste impressioni, di
queste confessioni, di questi propositi, di queste aspirazioni, c'è sempre
don Orione, sentito e compreso come nessun altro mai avrebbe potuto meglio di
lui dal punto di vista ascetico.
Eccone un saggio, un fior da fiore: «Chi più di lui (di don
Orione), fu strumento visibile della misericordiosissima Divina Provvidenza,
per trascinarmi sulla buona via? (...) Con l'esempio e con la parola egli mi
convinse che la sola via alla vera felicità è la mortificazione cristiana, è
la fede negli infiniti beni da Gesù a noi promessi, e la speranza di
raggiungerli con l'obbedienza ai suoi precetti, ai suoi consigli divini».
Rifà l'esame della propria vita e sente di dover riparare
alla poca buona volontà con cui ha corrisposto finora alla luce che gli inondò
l'anima dal momento in cui il beato Fondatore esercitò su di lui la sua
azione spirituale: «O Padre mio amatissimo, ispirate a don Sterpi che cosa
volete da me. Eccomi, sono pronto... a seppellirmi vivo... a cambiare il luogo
del mio pellegrinaggio... a mendicare il pane di porta in porta... a ricordare a
tutti l'amor di Dio dimenticato, il giudizio finale non temuto... Fatemi erede
di tutto il vostro spirito di fede, di tutto il vostro spirito di carità» (lbid.
138-144).
NELLA BUFERA DELLA II GUERRA MONDIALE
La seconda guerra mondiale, scoppiata l'anno stesso della
morte di don Orione, lasciò indenne l'eremo di Sant'Alberto, protetto dalla
sua povertà e da un misterioso alone di pace che pareva diffondersi
all'intorno, in gran parte dovuto alla «buona fama» della santità di frate
Ave Maria, tutto assorto nella preghiera e nella partecipazione al dolore
universale da offrire a Dio in espiazione dei peccati del mondo sconvolto e
forsennato.
Non mancò mai del necessario: ospitò incidentalmente
parecchi sbandati, di diversa origine e coloritura politica, dei giovani
minacciati, degli ebrei perseguitati, degli armati di passaggio.
Scontri sanguinosi, rappresaglie inqualificabili, sevizie e
orrori raccapriccianti si verificarono nelle vicinanze, al Groppo, a Godiasco,
a Pietra Gavina, a Varzi, sulle colline d'Oltrepò casteggiano e stradellino,
ed ebbero una eco sinistra nel cauto conversare delle popolazioni prima di
filtrare nelle cronache dell'epoca.
Ma Sant'Alberto, malgrado tutto - miracolosamente si direbbe
- conservò la sua caratteristica di oasi di pace.
Riportiamo una bella pagina del volume-guida.
«La terribile guerra (1940-`45) raggiunge l'eremo soltanto
con brontolii lontani. Qualche bagliore ne illumina le notti tranquille nei mesi
ultimi, quelli della lotta partigiana.
Frate Ave Maria è sempre là che prega. Passano le fazioni
armate. Qualche minaccia. Ma l'umile eremita e i suoi confratelli, con la loro
innocente miseria, disarmano più di qualsiasi potente.
Se qualcosa si fa sentire sul serio lassù, è la fame. Ma la
Provvidenza non abbandona. E c'è don Sterpi che ci pensa... (il superiore
generale succeduto a don Orione). Per frate Ave Maria del resto occorre così
poco...
Continua la sua missione consolatrice. Questa,
specialmente, sembra la sua ora, perché è l'ora dell'odio, delle lagrime,
della distruzione... Ed egli conosce e vorrebbe conoscere solo l'amore.
Le frontiere sono lontane ma insanguinate: giovani e uomini
vengono richiamati, sui campi della morte, le famiglie si svuotano, trepidano e
piangono. Lettere e lettere portano a frate Ave Maria l'eco d'immensi dolori,
incertezze sul destino di chi non dà notizie, ansie per la sorte dei
prigionieri, apprensioni e spaventi per le voci di bombardamenti, di massacri
e rappresaglie, apprese da radio clandestine e sussurrate di bocca in bocca...
Chi passa all'eremo per una breve preghiera vuol salutare l'eremita, ed egli
deve ascoltare, ascoltare...
Cieco e ignaro di troppe cose, la sua anima si rigonfia di
tristezza e di malinconia. Non ha occhi per distrarsi, vedere cose belle, per
dimenticare ciò che affligge; nello spirito le immagini gli si fissano,
diventano realtà sempre presente. Tutto scuote quel povero cuore. La pietà
verso i miseri e le vittime della guerra condisce di amarezza il suo misero pane
quotidiano. Lo rallegra soltanto la stella che gli brilla nell'anima, la sua
fede in Dio, integra e forte: da tanti mali Egli saprà ben trarre tanto
bene...» («La luminosa notte...», pp. 153-154).
INTERMEZZI: I - AL SORATTE
In Congregazione parecchi importanti avvenimenti si
succedono a brevi intervalli: la morte di don Orione (12 marzo 1940), di don
Sterpi (22 novembre 1951), la nomina di don Carlo Pensa a Direttore generale.
Frate Ave Maria in tali circostanze scende dal romitaggio
al santuario di Tortona a pregare sulla tomba dei venerati Servi di Dio e a
chiedere la loro protezione, per prepararsi degnamente ad incontrarli
affrettando quel momento col desiderio.
Ma l'obbedienza attraversa e modifica quello che poteva
essere l'intimo convincimento di conchiudere - senza altre novità - i suoi
giorni all'eremo, di cui è divenuto ormai un elemento insostituibile, una
specie di istituzione nel pensiero di tutti.
Sentite con quanta trepidezza racconta egli stesso il corso
degli eventi, inatteso, ma accettato coll'entusiasmo del buon religioso pronto a
tutto.
Scrive alla mamma: «La mattina del 23 gennaio (1952) mi
svegliai ancora con 999 probabilità su 1000 di finire i miei giorni lassù (a
Sant'Alberto) dove avevo trascorso 30 anni in santa pace, e invece alla sera mi
trovavo già a Tortona»... per disporsi alla partenza alla volta dell'eremo di
monte Soratte (Roma), dove i superiori lo hanno destinato, perché sia di
esempio ai giovani aspiranti alla vita eremitica, e anche perché in un clima
più dolce possa ristorare le precarie condizioni fisiche.
Si trattiene a Tortona fino al 28. Poi parte per Roma e sosta
alla Curia generalizia, passando il tempo quasi sempre in cappella a pregare. La
mattina del 30 (gennaio) viene condotto a Sant'Oreste, il paese a mezza costa
del Soratte, e di lì raggiunge la propria destinazione compiendo a piedi la
dura e disagevole salita, in ispirito di penitenza.
Nell'informare di tutto la mamma, indugia nella descrizione
dei luoghi e nella storia più recente (si fa per dire) dell'eremo.
Le ricorda che tanti anni prima un fulmine colpì la chiesa
dov'erano i monaci a salmodiare e ne uccise una «mezza dozzina». «Che fortuna
- commenta - passare dal cantare le lodi del Signore e della Madonna eternamente
nel santo Paradiso!».
Sono i quarant'anni esatti della sua cecità.
Muta l'ambiente, giacché al Soratte non c'è tutto il verde
di Sant'Alberto, bensì solitudine aspra, rocciosa, ferrigna; ma non cambia il
suo tenore di vita, né gli mancano le occasioni di continuare a far del bene
alle anime che lo vanno a cercare anche tra quei ruderi di antico cenobio, e
ai suoi confratelli di comunità.
Non sempre c'è la possibilità della messa festiva
all'eremo; e frate Ave Maria per ascoltarla e comunicarsi si sottopone alla
fatica di discendere per quelle balze petrose fino alla parrocchia di
Sant'Oreste, per lui quasi un'ora di cammino.
Una volta si presenta in ricreazione tutto lieto e al
direttore che gliene chiede il motivo, confida e rivela: «Il Signore mi ha
fatto comprendere che la vita è "un lungo Venerdì Santo" che
precede la Pasqua».
Sono le «scoperte» dei santi, dei rapiti nella
contemplazione di Dio. Punti di vista, s'intende, in dipendenza dell'ideale
che muove ed eccita il cuore. Matteo Maria Boiardo conte di Scandiano ordina di
suonare a festa le campane quando gli riesce di inventare il nome di
«Rodomonte» per uno dei personaggi del suo poema cavalleresco. Merita
rispetto, ma l'arte in definitiva non vale l'ascetica.
II - A SAN CORRADO DI NOTO
Il Soratte è una parentesi relativamente breve. La salute di
frate Ave Maria non sembra giovarsi troppo di quell'ambiente e di quel clima.
L'eremo, sul fianco del monte, isolato dominatore delle colline sottostanti, è
esposto ai venti. Bisogna essere di buona tempra per soggiornare lassù. Il
Consiglio di congregazione con a capo don Pensa decide di trasferire il pio
religioso, disponibile a tutto, ad un altro romitòrio, quello di Noto, in
Sicilia, legato al nome e alla vicenda storica di san Corrado Confalonieri, il
guerriero piacentino divenuto monaco dopo la conversione.
«Ci vado molto volentieri, - dichiara alla mamma - anche
se la Madonna mi dicesse che laggiù sarà la mia tomba». A San Corrado i
nostri eremiti si erano stabiliti fin dal 1898. Ma durante la prima guerra
mondiale don Orione per difficoltà varie insorte era stato costretto a
ritirarli. Nel 1939 il vescovo di Noto mons. Calabretta affidò alla Piccola
Opera la parrocchia e insieme riaprì agli eremiti di don Orione il romitòrio
di San Corrado dove frate Ave Maria dimorerà dall'ottobre 1954 all'agosto 1957,
adattandosi in serenità e letizia spirituale al nuovo ambiente, senza coltivare
nostalgie di sorta per quello antico di Sant'Alberto, dove ha lasciato una
fitta rete di comunicazioni e di abitudini.
Prega, medita, lavora, scrive come prima. Ha con sé alcuni
giovani eremiti, tutti vedenti, da formare alla vita religiosa con l'esempio e
con la parola e accoglie amorevolmente le persone che vengono a lui, richiamate
dalla fama che si è subito diffusa intorno alla sua virtù. Ed è per natura un
grande ottimista.
«Nelle cose - egli dice - dobbiamo sempre guardare il lato
bello» .
Trova interessante venir a sapere che poco lontano c'è una
località chiamata «Favara» - lo stesso nome di un villaggio della Valle
Arroscia - e conversa amabilmente con la mamma, per lettera, su questa
coincidenza.
Inoltre la salute si avvantaggia in quel clima di eterna
primavera tanto celebrato dai classici e dai moderni. Con l'intuito
raffinato dei ciechi egli ammira la campagna in fiore, le distese degli
agrumeti, l'aria limpida e profumata, il sole sfolgorante, la freschezza delle
acque correnti.
I siciliani del luogo vanno a lui, colpiti soprattutto da
tanta pace e serenità di spirito, in un cieco, e lo considerano un nuovo san
Corrado del quale sono tutti devoti per tradizione di secoli.
Un cieco chiede di parlargli. Non ha più fede ed è
indispettito contro tutto. Gli confessa che medita il suicidio. «Ma come può
lei, essere contento?!» gli domanda.
Amabilmente il frate gli parla... gli scopre la verità... lo
commuove. L'uomo che non sapeva rassegnarsi alla cecità, parte piangendo,
rasserenato, ricuperato alla Grazia.
C'è un altro, un giovane uomo, in pieno vigore di salute e
ben avviato economicamente, ma vive lontano da Dio e dalla pratica cristiana. Va
a trovarlo solo per curiosità. Frate Ave Maria, aperta la conversazione, gli
denuncia misteriosamente il suo stato di coscienza. Dopo il colloquio, la
conversione dell'incredulo è un fatto compiuto, testimoniato dalle lagrime di
pentimento e di consolazione con cui l'uomo si congeda dal suo pio, inatteso
benefattore.
Come non pensare all'incontaminata porpora di Federigo
bagnata dal pianto del convertito Innominato?
Frate Ave Maria si intrattiene spesso con i ragazzi dell'orfanotrofio
annesso alla parrocchia, affezionandoseli tutti. Anche là all'eremo situato
fuori mura, a fondo valle, la messa qualche volta non è possibile averla e lui
se la deve conquistare salendo all'istituto, ed è uno spettacolo di
edificazione per tutti. La strada è pericolosa, ma frate Ave Maria va su da
solo tastando con il bastoncello il terreno disuguale. Spinti da un grande
affetto, gli orfanelli si offrono a turno a fargli da guida, se appena
possono.
IL RITORNO A SANT'ALBERTO E LE VISITE A POGLI
Dopo tre anni di permanenza a Noto è rispedito a Sant'Alberto.
Lui non domanda perché.
Obbedisce e, sul punto di partire, raccomanda ai giovani
eremiti che gli si stringono attorno, di mantenersi nella carità fraterna.
Non lo dimenticheranno più.
È così staccato dalle cose terrene, da non nutrire in sé
il desiderio di un ritorno, ma solo quello di far la volontà del Signore
manifesta nelle disposizioni dei superiori. Con la santa indifferenza (che non
significa apatìa, veh!), con cui si era prima allontanato, adesso ritorna al
suo nido antico. L'immagine del nido e dell'uccello è suggerita da una sua
frase. «Miei cari, - aveva scritto qualche anno prima - vedete dove la Divina
Provvidenza m'ha fatto volare? Ero all'estremo nord-ovest d'Italia; ora mi
trovo all'estremo sud-est (...). Per me la Sicilia è diventata il paradiso
terrestre».
Ma ora che ci si era così bene ambientato, rivolerà al
nord. Qualunque località, a qualsiasi latitudine e longitudine, è sempre per
lui un paradiso terrestre (un esilio illuminato dall'amore di Dio e da un grande
inestinguibile desiderio della vera patria).
In concomitanza con questi suoi viaggi di trasferimento da un
eremo all'altro, frate Ave Maria potè - sollecitato dal vecchio parroco -
ritornare a Pogli, suo paese nativo, due volte.
La prima fu il 30 agosto 1954, dopo che, risalito da Roma,
prima di «volare» all'estremo sud d'Italia, ebbe preso parte
alla festa della Madonna della Guardia, con tutti i
confratelli di Congregazione convenuti a Tortona. Era l'Anno Mariano.
A Pogli si trattiene una dozzina di giorni con la mamma e con
gli altri congiunti, ai quali parla di cose spirituali, senza troppo insistere
sugli anni lontani, veduti ora in una prospettiva tutta diversa.
Era partito di là con la disperazione nel cuore, 42 anni
prima. Vuol tornare su quel sentiero dove si verificò il «provvidenziale»
incidente, accompagnandosi con Bartolomeo Vignola, mai più incontrato in
precedenza.
Glielo mandano a chiamare. Frate Ave Maria è a letto per
curarsi di un raffreddore. Lo abbraccia affettuosamente e per togliere dal suo
animo ogni soggezione ed ombra di rammarico, avvia subito il discorso sulla
bontà del Signore.
Appena rimesso dall'indisposizione, vanno insieme al luogo
convenuto per ringraziare Dio che tutto sa volgere al nostro profitto
spirituale.
A Pogli tornò una seconda volta, nel settembre 1959, in
occasione della prima Comunione di una sua nipotina, Delia. Da due anni si era
stabilito definitivamente a Sant'Alberto.
Ci tiene a sottolineare che lo scopo della visita è, sì,
quello di «rivedere» la mamma e tutti i suoi cari, ma ancor di più quello
di pregare nella chiesetta del suo Battesimo, anche a riparazione delle troppe
dissipazioni giovanili. E rivive nel pensiero l'incanto della sua fiorita e
solatia valle d'Arroscia «tanto cara e tanto bella che soltanto il Signore
con un suo comando ha potuto strapparmene».
Sono sentimenti d'amor domestico e d'amor patrio che si
inseriscono tanto opportunamente nell'amor di Dio, della Chiesa e delle anime.
Se mancassero, la lacuna sarebbe stridente e denuncerebbe presuntuosa la
ricerca della virtù, falsa la spiritualità, dubbia la carità e scadente la
vita interiore. Altra cosa è il distacco dalle cose terrene, che non può mai
significare ripudio del «natio loco» e dei congiunti, e della natura, dono di
Dio, come in un ordine superiore è dono di Dio e carisma preziosissimo la
Grazia.
Quest'armonia di sentimenti esalta la personalità ascetica
di frate Ave Maria.
Per la mamma che compie gli ottanta anni (e che gli
sopravviverà toccando gli 87) ha parole affettuose condite di lepidezza e
figliale confidenza: «Coraggio, mammina cara, state sempre lieta nel Signore,
pregate per tutti ed anche per questo vostro figlio barbone e, la prima volta
che fate il caffè, fatene anche una tazza per me e bevetela voi, oppure
chiamate a farvi compagnia qualche buona vecchierella... Mamma cara, piangete
o ridete? Guardate che io vi ho scritto queste cose per farvi ridere e non
piangere. Eppure dobbiamo essere preparati a piangere... Siamo in esilio...».
Con un suo cugino usa espressioni ancor più argute ma sapide
delle eterne verità che gli preme di ricordargli. Se dovesse incontrare
qualche sapientone che dice di saperla lunga in fatto di religione negandola o
disprezzandola, e mostrasse di non credere né in Dio né al paradiso, né
all'inferno, né all'immortalità dell'anima «abbi, ti prego, una grande
compassione di lui e nel cuore tuo dì: "che poveu omó! U me cuxin fratte
u l'è assae menu orbu de ti!"» (che povero uomo! Il mio cugino frate è
assai meno cieco di te).
GIOCONDITA RELIGIOSA ALL'EREMO
Il ritorno di frate Ave Maria a Sant'Alberto riempie
l'animo dei suoi estimatori di consolazione. Non sapevano adattarsi all'idea
di non vederlo più animare di vita e di gaudio celeste l'eremo, e la sua lunga
assenza non aveva interrotto i loro rapporti di carità e di fede con lui.
Parve che la vita riprendesse più animosa e serena, lui
presente, con più intense e vibranti manifestazioni religiose. La festa
patronale di settembre e quella del 4 giugno riservata ai bambini richiamavano
all'eremo molti fedeli, anche perché la strada finalmente asfaltata favoriva
un maggior concorso.
Un apocalittico temporale, con grandine, scatenatosi sul
mezzogiorno del 4 giugno 1960, destò qualche apprensione, più in riferimento
alla campagna esposta ai danni che alle persone sorprese nel viaggio di
ritorno.
E frate Ave Maria, informato di una situazione critica in cui
vennero a trovarsi due amici dell'eremo, risolta peraltro in maniera
soddisfacente, ci rise sopra con amabile umorismo.
Si allestiva gioiosamente il banco di beneficenza, si
organizzavano incontri e conferenze con i Maestri cattolici,
gitepellegrinaggi con i ragazzi delle scuole, presenti i loro insegnanti e
le maggiori autorità.
Il vescovo di Tortona immancabilmente (Melchiori, Rossi,
Canestri, Angeleri) decorava del suo intervento almeno una delle due maggiori
festività religiose.
E tutto quel largo movimento sembrava facesse perno sulla
figura ascetica dell'eremita cieco sul quale convergeva l'attenzione generale,
senza che egli nella sua umiltà se ne avvedesse.
Però si notava in lui un sempre più accentuato
affievolimento di energie. Non aveva più la resistenza di prima alla fatica,
era pallido, stanco, sofferente. Lo spirito era sempre alto, la serena letizia
inoffuscabile.
Continuava ad esercitare il suo apostolato di bene con le
anime attraverso i colloqui privati e collettivi.
Dalle confidenze da lui fatte al gruppo dei sacerdoti
piacentini, proprio in quegli anni e accuratamente registrate da don Molinari
arciprete di Pianello V.T., ci piace riportare questo tratto di umile realismo,
proprio dei santi che non si illudono sul bene che fanno: «Ecco quello che mi
può capitare - disse a un certo punto frate Ave Maria -. Una volta una
signora commentò così le mie parole: - Ma quello lì ha perduto la testa! Dice
che è contento di star al buio, che è una grazia fattagli dal Signore! Ha
perduto la testa! -».
LE NOZZE D'ORO CON LA CECITA
1962. Data giubilare per frate Ave Maria che ci va pensando
da tempo. È il 50° anniversario della sua cecità. Intende festeggiarlo. A
modo suo. Non con delle esteriorità, ma con un canto di lode e ringraziamento a
Dio per la grande grazia ricevuta.
La cecità - lo sappiamo - per lui non è più una sventura.
Il maestro Luigi Venturello, capo gruppo del Movimento Apostolico Ciechi per
la diocesi di Asti, raggranella una somma di denaro per dare a lui la
soddisfazione di recarsi a Lourdes a chiedere la grazia, e l'eremita declina
l'offerta a favore di un cieco che sia veramente «cieco». E un giovane un po'
sviato, «veramente» cieco, va a Lourdes al suo posto e ne torna completamente
trasformato. Nel suo cuore ora brilla la luce della fede.
Già nel 25° di cecità (1937) aveva fatto stampare, con
l'approvazione dei superiori, una modesta immaginetta-ricordo, invitando tutti
i suoi conosciuti a ringraziare Dio per il «dono» da lui ricevuto.
L'occasione si ripete. Egli vorrebbe passare la data del
giubileo d'oro, solo pregando in abscondito, come dichiara, timoroso d'una
pubblicità che lo confonderebbe.
Poi si adegua, sull'esortazione dei superiori, alla
celebrazione esterna della ricorrenza.
Aveva un motto preferito, sintesi di fede e di speranza, e
con esso iniziava ogni sua lettera: «In lumine tuo videbiinus lumen» (nella
tua luce vedremo la luce).
Per onorare la conquista della Grande Luce che gli
splendeva nell'anima, compose il seguente testo per l'immaginericordo delle
sue nozze d'oro con la cecità:
«Deo gratias! Frate Ave Maria, eremita dei Figli della
Divina Provvidenza (don Orione), nel 50° anno di sua cecità corporale,
invita quanti gli vogliono bene ad unirsi spiritualmente a lui per cantare
nell'intimo del cuore, un solenne inno di ringraziamento a Gesù benedetto che
così mirabilmente - per quelli che l'amano - sempre può, sa e vuole volgere
ogni cosa in bene. Convertisti in luce le mie tenebre e in gioia la mia
tristezza, sicché la mia luce, l'unica mia gioia sei Tu solo, o Gesù Figlio di
Dio! O Gesù Dio Mio! O Gesù Figlio di Maria!
Eremo di Sant'Alberto - Ponteniza (Pavia) - Ognissanti
1962».
Ha già scritto a Bartolomeo Vignola invitandolo a
ricordare la «grande data», perché «tu sei tra i miei cari amici e
benefattori» e «non posso dimenticarti in questa occasione. Vedi, caro
Bartolomeo, noi due, or fa 50 anni, abbiamo fatto un'azione indifferente,
dalla quale è venuto un apparente gran male, l'Onnipotente ed immensamente
Buono trasse fuori per me un reale e durevole bene. Dunque, caro, sbandisci dal
tuo cuore ogni antica amarezza e benedici il Signore con me e con tante anime
buone».
Nella mistica esaltazione s'intravvede un fondo di
drammatica umanità. Si capisce che l'amico d'infanzia non ha ancora saputo
darsi pace d'aver provocato la tragedia e... riteniamo d'intravvedere anche la
lotta interiore di Cesare Pisano, prima della conversione, per giungere a una
così alta affermazione di amore, che scaccia dal cuore il risentimento e non
solo perdona, compatisce e assolve, ma vuol fare ammenda di un lontano
passato. Abbiamo riferito in precedenza quel suo intervento a rettifica della
cronaca dell'incidente.
Non si spiega tanta minuziosa delicatezza se non come
l'intimo bisogno di bandire dall'animo anche l'ombra dei ricordi dolorosi.
Riparazione trionfatrice della divina misericordia, operante nei cuori, come
affermava in un corso di Esercizi spirituali mons. Pier Carlo Landucci asceta e
scienziato di profonde conoscenze.
Il 1 ° novembre 1962 a Sant'Alberto si svolge la festa
religiosa in intima semplicità. Tutta la Congregazione si senti unita
spiritualmente a frate Ave Maria in quel rendimento di grazie che attingeva la
sua ispirazione dal cuore di Gesù crocifisso.
L'umile eremita è idealmente vicino a san Paolo, a san
Francesco d'Assisi, a don Orione nell'amare Gesù, et hunc crucifixum!
Anime veramente privilegiate!
Che hanno scoperto il segreto della felicità.
PLACIDAMENTE IN DIO...
Che rimane ormai a frate Ave Maria se non attendere il
momento della gioconda entrata in Paradiso?
Ha sofferto, ha lottato, ha amato, ha interceduto grazie per
i fratelli, ha acceso tante speranze e apprestato tanta consolazione nel cuore
degli afflitti, ha edificato con il buon esempio i suoi confratelli, al mondo
ignaro della vera sorgente della felicità ha ripetuto con la vita e con
l'apostolato della parola e la preghiera continua, quali sono le vie da
percorrere per giungere a una meta non deludente, indirizzando l'esistenza verso
Dio principio di ogni bene, ha accumulato un tesoro tanto prezioso di meriti.
Così doveva trovarsi una sera di settembre Sant'Alberto, il
fondatore, circondato dai suoi monaci, in procinto di lasciarli, per breve
tempo, soli quaggiù, ed entrare nel regno promesso ai buoni.
Tutto poteva far credere che frate Ave Maria fosse per
chiudere, lì all'eremo, il ciclo della sua mirabile vita terrena. La
Provvidenza disponeva le cose diversamente.
I raffreddori si fanno sempre più frequenti. Sul finire del
1963 una bronchite con tosse lo affligge, l'asma accentuata lo debilita
ulteriormente. E quello che egli chiama il suo «cilicio invernale», però
questa volta le cose cominciano a preoccupare, non lui, ma i confratelli
dell'eremo e i superiori subito informati.
L'invito a lui rivolto di scendere a Voghera per far visita a
don Emilio, il suo direttore, degente all'ospedale, gli procura una certa
perplessità. Che s'intenda ricoverare anche lui, per apprestargli cure più
convenienti? Vorrebbe, in questo caso, qualche cosa di più di un invito: un
ordine.
Si persuade a lasciare l'eremo quando lo assicurano che è lo
stesso direttore a desiderare la sua presenza a Voghera. «Là - gli dicono -
potrete avere la santa messa, il dottore...».
Farà come sempre la volontà del Signore. Forse avverte che
questa a cui si accinge è, da vivo, una partenza senza ritorno. Sembra
sopraffatto da sentimenti di nostalgia e mormora, tra il continuo tossire:
«Qui c'è il mio Sant'Alberto a cui sono tanto affezionato... A Voghera mi
vizierete troppo... Ho vergogna di questo, io non merito niente... Qui veniva
don Orione. Che belle ore passavamo! Si parlava delle cose del Signore e della
Madonna... Oh, caro don Orione!».
È molto emozionato quando sale sulla macchina, che subito
s'avvia.
Passando in paese riceve un saluto dalla mamma di Nino
Nobile, che guida l'auto. «Arrivederci in Paradiso! » risponde con un
sorriso di gratitudine. E all'autista dice: «Chissà se torneremo indietro?».
È il pomeriggio del 17 gennaio 1964.
Arriva all'ospedale. Sosta in preghiera nella cappella e
chiede la santa Comunione che a Sant'Alberto non aveva potuto ricevere. Il
cappellano, che è già sul posto per la funzione serale, lo accontenta.
Subito dopo il ringraziamento, va a trovare il suo direttore, al quale rivolge
parole di augurio per una sollecita guarigione.
Eccolo ora nella cameretta che gli hanno assegnato. Il
primario prof. Callerio, lo sottopone a un'accurata visita e gli raccomanda
amorevolmente di volersi risparmiare la sofferenza del cilicio che gli ha
scoperto sulle nude carni.
Lui si meraviglia d'essere in un ambiente tiepido,
nell'atmosfera di tanta benevolenza che gli dà un senso di ristoro. E
osserva: «A Sant'Alberto l'aria gelida sferza il viso e il nevischio
turbinando toglie persino il respiro. Qui è primavera... ».
Vuole presso di sé le tre corone che usava portare a
cintola: «Una me l'ha data don Orione, quest'altra viene da Roma, e la
terza me l'hanno portata da Lourdes».
Mentre prega il respiro è affannoso, la stanchezza lo
domina, e la tosse ogni tanto lo scuote.
Una notte molto sofferta. La mattina di sabato 18 si porta in
cappella per la messa e la Comunione, ma quando, al ritorno in camera, il
professore lo vede, gli ordina di non alzarsi da letto.
E’ una giornata di visite continue, da parte di religiosi,
di conoscenti, di devoti: tutti discreti, riguardosi, edificati della sua
pietà, delle parole che a stento gli escono dalle labbra riarse: «Com'è bello
fare la volontà del Signore!... Il Signore vuole la mia vita... Gliela
offro...».
La domenica 19 non può ascoltare la messa, ma riceve la
Comunione. Sembrano migliorate le condizioni generali, ma se tenta di rispondere
alle sollecitazioni degli astanti che quasi continuamente s'alternano al
capezzale, l'immane sforzo è evidente: la tosse gli squassa la persona, e fa
pena non potergli recare alcun sollievo. Alle preghiere sommesse dei
circostanti partecipa con segni palesi di approvazione.
La situazione è molto grave la mattina di lunedì 20
gennaio.
Da Roma è giunto il Direttore generale don Zambarbieri che a
lui riconosce tanto merito della propria vocazione. Quando gli domanda se è
disposto a ricevere i conforti della fede, il santo eremita s'illumina di gioia.
E il momento che rivela la sincerità delle sue parole e dei
suoi scritti, la coerenza dell'intera sua vita volta ad un solo ideale:
l'aspirazione al Paradiso, condizionata al distacco completo da tutti i beni
secondari, dalle cose indifferenti, dagli stessi desideri più santi (il
sacerdozio), senza parentesi opache, senza remore di superstiti rimpianti,
senza veli e infingimenti di segrete compiacenze, ma nel solo intento di
immergersi tutto nella realtà di Dio, e d'immolarsi alla sua volontà. Nessuna
radice lo lega alla terra.
Perciò esulta quando gli annunciano che entrerà presto
nella casa del Signore.
La santa Unzione gli viene somministrata dallo stesso
Superiore generale, presenti molti confratelli, alcuni sacerdoti diocesani,
qualche suora, amici, benefattori, devoti, tutti commossi e ammirati.
Terminato il sacro rito dichiara la propria soddisfazione:
«Il Signore ha esaudito il mio vivo desiderio di ricevere l'Estrema Unzione con
piena conoscenza: ho pregato per questo tutta la mia vita».
Sulle labbra smorte fioriscono continue invocazioni alla
Madonna, a don Orione, a sant'Agnese la cui festa si celebra il giorno seguente.
Domanda ripetutamente perdono a tutti, dichiara di offrire volentieri la vita
per i sacerdoti, per i probandi, gli apostolini che a turno lo avvicinano.
A sera la febbre è fortissima, il respiro molto affannoso,
le condizioni sempre più gravi... Difficile che sopravviva fino all'alba del
21 festa di sant'Agnese.
Mormora: «Ora con gli uomini non ho più nulla a che fare:
per me ora c'è solo il Signore».
È una notte molto agitata, e penosissima quella che segue.
L'asma lo soffoca, non gli concede respiro. Gli si appresta l'ossigeno. Trova
ancora modo di esprimere la sua riconoscenza verso l'infermiere, il chierico
Primo Poggi - oggi sacerdote - che lo assiste.
Ma quelle ore sono pesanti ed egli è consapevole della lenta
angosciosa agonia. Gesù lo vuole vicino a sé nella penombra del Getsemani.
Verso l'alba il moribondo sembra acquietarsi: è assopito.
Sono le prime ore del martedì 21 gennaio, festa di santa Agnese. Entra la suora
per domandare se desidera la Comunione. Il chierico, che ha vegliato su di lui
tutta la notte, si dispone a preparare l'occorrente.
Ma l'infermo non sembra recepire in sé
quell'interrogazione, quel movimento. Non è in grado di ricevere Gesù
Eucaristico.
Il chierico, rimasto di nuovo solo accanto a lui, lo
osserva: ecco il suo volto si spiana, l'affanno si placa in un lungo
sospiro... Che possa riposare un po' dopo una notte di tanta pena!
Ma la pace che si va stendendo su quel volto esanime, mette
il chierico in sospetto. Per togliere da sé il dubbio si china su di lui e
comprende.
Frate Ave Maria da pochi istanti, senza un gemito, senza un
brivido, è entrato nella luce del suo Signore. Sono le 6,40.
L'ARCA DI FRATE AVE MARIA
Tutta Voghera assistette ai suoi funerali celebrati
solennemente in Duomo la mattina di giovedì 23 gennaio, favorita da un
tempo. freddo e sereno. Accorsero i confratelli, i fedeli da ogni parte
d'Italia, dove il santo eremita era conosciuto. Anche il vescovo di Tortona
mons. Francesco Rossi era stato a visitare la salma e a confortare i Figli
della Piccola Opera.
Mons. Giovanni Biscaldi, venerando di età, celebrò la
santa messa. La commemorazione fu tenuta dal Direttore generale che
ripercorse in bella sintesi la preziosa esistenza di frate Ave Maria interamente
consacrata all'amor di Dio.
Poi un corteo numeroso di macchine lo seguì nel viaggio di
ritorno alla sede che fu sua e lo sarà nei secoli.
Parve un riflesso di Paradiso anche la luce che inondava le
valli e le montagne bianche di neve, quando la sua spoglia composta nella bara
risalì a Sant'Alberto per essere tumulata nel piccolo cimitero di fronte
all'abbazia.
Dall'alto del colle che domina l'eremo si dispiegava un
immenso panorama di serenità. La nebbia raccolta nella profondità del
piano, al di là delle ultime colline tortonesi indorate di sole, sfumava
lontano in trasparenze azzurrine che conferivano alle vette candide delle
Alpi, in maestosa corona, un'inattesa favolosa sublimità.
Mai l'eremo si circondò di tanta poesia e religiosità come
in quel pomeriggio del 23 gennaio.
Era il trionfo, non il funerale di frate Ave Maria. E i
presenti compresero, che si trattava solo di un preludio.
Ma il vuoto da lui lasciato rimane incolmabile. Chi potrà
darci la sensazione di entusiasmo religioso che si comunicava ai cuori quando
dalla tastiera da lui toccata con agili dita, si sprigionava sorprendente, di
là dell'altare, che lo nascondeva ai fedeli, una musica d'introduzione alla
messa solenne di Sant'Alberto e pareva la sublimazione in arte della sua
preghiera soffusa di letizia celestiale?
Basterà il ricordo a rinnovare quelle comunicazioni? Oltre
il sentimento, rimane però qualche cosa di più importante.
Da Sant'Alberto risuona con la squilla d'argento delle
campane, il suo messaggio semplice essenziale: ricordare che in Cielo c'è un
Padre che ci ama, sollevare la mente a lui con la preghiera, promuovere in
umiltà e sacrificio la sua carità tra i fratelli.
L'età nostra ha bisogno più che del pane di questo invito
alla spiritualità.
L'arcivescovo di Milano G.B. Montini, nei giorni della grande
missione del 1957 rivolgeva una speciale parola alle diverse categorie della
diletta popolazione.
Ai giovani diceva: - Se l'uomo non è che un animale gli
basta una civiltà di cemento e di piaceri... I giovani devono comprendere che
il dono della fede in Dio Padre è come all'occhio la luce, della quale tutto
si illumina.
Ai malati: - Cristo chiama a sé tutti quelli che sono
afflitti e tribolati... La volontà di Dio ha due piani: quello naturale
governato dalle leggi fisiche e biochimiche, da cui Dio non ci vuole
ordinariamente sottrarre, e quello soprannaturale governato da una libera e
urgente effusione di carità divina, a cui Dio ci invita.
Tutti voleva raccogliere nella consolante visione della
misericordiosa bontà del Padre che sta nei cieli, per risolvere gli
assillanti problemi d'ogni genere che tormentano l'umanità.
L'augusta parola che oggi ha timbro e risonanza ecumenica,
è come condensata nel messaggio che ci lascia frate Ave Maria. Non s'improvvisa
lo spirito di preghiera e costerà un certo sforzo di volontà. Ma poi... tutto
s'illumina.
Chi prega, «chi ama Dio, gode». Lo ha scritto il nostro
venerabile padre don Luigi Orione.
Ne è un esempio edificante la vita di frate Ave Maria.
Dal settembre 1967 la salma del pio eremita riposa in un'urna
di pietra al fondo di una stretta cappella ricavata di fianco al muro
occidentale dell'eremo.
L'iscrizione è semplicissima: frate Ave Maria Eremita dei
Figli della Divina Provvidenza, 1900-1964.
Il 21 gennaio 1982 con la domanda formale rivolta al
vescovo di Tortona mons. Luigi Bongianino ha avuto inizio la procedura,
prevista dalle leggi della Chiesa, per il processo di beatificazione e
canonizzazione del pio eremita di Sant'Alberto di Butrio.
Un processo richiesto da molti, non solo suoi confratelli, ma
anche suoi devoti e ammiratori.
Il processo vero e proprio si è aperto, presso la
Commissione d'inchiesta di Tortona il giorno 30 agosto 1983. Nei due mesi
seguenti si procedette alla scelta dei testimoni, amici, parenti e conoscenti
di frate Ave Maria che avrebbero dovuto - e quanto volentieri lo fecero! -
esporre le loro convinzioni sulle virtù e sulla santità del pio eremita. I
testimoni ascoltati furono complessivamente trenta. Le deposizioni di tali testi
si protrassero fino al giugno del 1986, quando in solenne seduta, il 3 giugno,
il vescovo di Tortona mons. Bongianino dichiarò chiuso il lavoro diocesano
riguardante il processo di beatificazione di frate Ave Maria, aggiungendo parole
di vivo compiacimento. Subito gli atti vennero inviati a Roma alla
Congregazione per le cause dei Santi, della quale ora si attende il
giudizio, per la seconda tappa del processo stesso.
Nel medesimo tempo si procedeva alla raccolta e
trascrizione degli scritti del Servo di Dio - circa 1400 lettere - che
occupano complessivamente 2544 fogli dattiloscritti. Anche questi sono
sottoposti al giudizio della santa Chiesa.
Sono moltissimi ad augurarsi di vedere frate Ave Maria
decorato dell'onore degli altari.
Si segnalano grazie speciali e miracoli ottenuti mediante la
sua intercessione.
IL "MIRACOLO" DI FRATE AVE MARIA
Rievocazione pronunciata a Sant'Alberto di Butrio da don
Andrea Gemma nel maggio 1983
È frate Ave Maria stesso che si definisce un miracolo.
Scrisse: «Vedete, io sono il più ignorante di tutti gli uomini della terra.
Tutti sanno molte cose, ed io so una cosa sola: so soltanto essere felice! Tutti
posseggono più oggetti; io invece non posseggo che una cosa: la vera
felicità (...). Vi sono delle persone che non credono ai miracoli? Ecco uno
stupendo miracolo che compie il Signore. Un miracolo stragrande e continuato!
Un cieco, grande peccatore, perdonato da Dio, in abito di
penitente, chiuso tra le quattro mura d'un eremo, ch'è felice; tanto felice
d'aver grande compassione dei più ricchi, dei più potenti, dei più sapienti
di questo mondo, ma che non han fede, ma che non hanno amor di Dio. Questo
cieco, questo ammalato, questo solitario è felice d'una felicità non
egoistica; perché piange per l'infelicità altrui e prega il suo Dio e la sua
Madre celeste, affinché il numero degli infelici sia ridotto a più pochi ch'è
possibile...».
Conviene penetrare un po' questo "miracolo", il
miracolo di frate Ave Maria. In che cosa consiste?
Nel buio della carne...
Bisogna partire dalla "disgrazia" (qui le
virgolette sono d'obbligo!) della cecità che colpi Cesare Pisano - il nome
anagrafico di frate Ave Maria - quando aveva dodici anni, per un banale
incidente di ragazzi.
Perdere irrimediabilmente la luce degli occhi - bellissimi!
- a quella età: chi non si sarebbe disperato? E tale minaccia fu avvertita
dal nostro, per un non breve periodo - frate Ave Maria lo chiamerà il periodo
del suo traviamento, del suo vero buio! - ma, pensiamo, nel disegno di Dio
doveva essere proprio questo buio a far risaltare la luce successiva...
La grazia di Dio - che si servì tra l'altro di un'umile
suora e di don Orione - trionfò in maniera superlativa di questa oscura
minaccia. Ed ecco il miracolo: la "disgrazia" fu vista, e avvertita e
amata come una inestimabile fortuna, come una folgorazione interiore di luce
vivissima che trasfigurerà tutta la vita dell'umile religioso e diverrà
irraggiamento e fascino indiscutibile su quanti l'accosteranno assetati della
medesima luce, della medesima felicità. È il fascino che continua a
sprigionarsi dall'arca di frate Ave Maria, vegliata dai pii eremiti suoi
confratelli e suoi emuli nello stesso cammino di preghiera, di lavoro, di
solitudine popolata di alti pensieri.
La vicenda di frate Ave Maria - dalla cecità materiale, alla
luce interiore della fede, attraverso la scoperta della vocazione religiosa,
corrisposta in maniera eccezionale, a un irraggiamento di grazia su quanti lo
accostarono - è una delle più belle documentazioni dell'effato biblico: - Per
chi ama Dio tutto coopera al bene (Rom. 8,28).
Naturalmente, nemmeno per lui la scoperta fu facile:
l'itinerario della fede - è un'altra lezione che egli continua ad impartirci
- è sempre faticoso e impegnativo. L una conquista dura.
E questa conquista, in Cesare Pisano, passò attraverso la
tentazione della disperazione e della chiusura, dell'oblio di Dio e della
ribellione. Fu una lotta di diversi anni. Ma alla fine la luce trionfò.
... Ha vissuto nella luce di Dio
Don Orione, quando comprese - misteriose intuizioni dei
santi! - la stoffa che aveva davanti in quel giovane avvilito e disperato,
chiuso e insoddisfatto, lo abbordò con queste parole, che Cesare stampò bene
in mente per riferirle poi: "Oh, stordito, tu desideri beni che poi
dovresti abbandonare; di quello che avresti nelle tue mani, forse, te ne
serviresti per diventare colpevole. Tu devi vedere la luce, per non correre il
pericolo di andarti a fracassare; tu devi avere la sapienza dell'uomo giusto,
e sta certo che non ti annoierai". Tu devi vedere la luce...
Era segnato il programma di frate Ave Maria. Era
anticipatamente riassunta tutta la sua stupenda avventura, il suo miracolo
appunto.
In quella luce che cominciò a inondarlo Cesare Pisano fu
portato a reinterpretare la sua "disgrazia". La vide non solo come un
fatto provvidenziale, ma addirittura come la chiave di volta di tutta la sua
esistenza: "Frate Ave Maria - così fece scrivere su un'immaginetta ricordo
delle sue nozze d'oro con la cecità corporale - invita tutti quanti gli
vogliono bene ad unirsi spiritualmente a lui per cantare nell'intimo del cuore
un solenne inno di ringraziamento a Gesù benedetto che così mirabilmente - per
quelli che lo amano - sempre può, sa e vuole volgere ogni cosa in bene".
Nella stessa luce, poi, si appressò a Dio gustandone, con
infinita dolcezza, la vicinanza. Di qui quella miracolosa serenità, anzi la
incontenibile felicità che gli traspariva da tutta la vita. Fu un'anima
inondata di luce superiore. Fu un "veggente" nel pieno senso della
parola, un mistico autentico. In una parola, fu una di quelle anime che
lasciano trasparire Dio da tutto il loro essere, dalle loro espressioni, anche
più semplici, dai loro gesti, dalla loro vita...
Doni straordinari - a comune testimonianza - facilitarono
questa immersione nel divino.
Ciò che documentava all'esterno questa situazione
spirituale era la fame e la sete di preghiera del pio eremita. Continuava a
dire, quasi ironizzando su se stesso, su questo suo incessante dedicarsi alla
orazione: - Io non so far altro che pregare...
La sua menomazione fisica gli permetteva di estraniarsi
completamente dall'esterno e permetteva agli estranei di poterlo contemplare
senza disturbare la sua concentrazione e la sua umiltà. Fu così che, per tanti
anni, lo spettacolo preferito a cui potevano assistere i visitatori
dell'antico eremo di Sant'Alberto era quello di frate Ave Maria in preghiera. Da
questa preghiera egli attingeva quella mirabile saggezza soprannaturale che gli
si riconosceva, che resta a noi nei suoi scritti e che a schiere andavano a
cercare da lui chiedendogli consigli e incoraggiamenti. Chi fu a contatto con
questa soprannaturale illuminazione ne benedice ancor oggi il Signore...
...Per essere anche adesso luce agli uomini
Frate Ave Maria fu un mirabile diffusore di luce. Si
rinnovò in lui il prodigio di tanti santi del passato che, avendo cercato
avidamente la solitudine e l'isolamento per basso sentire di sé e per gustare
esclusivamente le cose di Dio, furono letteralmente gettati tra le folle
assetate di condividere il banchetto di luce e di grazia a cui apparivano
così doviziosamente ammessi.
Quanti son saliti a Sant'Alberto per vedere lui, per
ascoltare lui, per raccomandarsi alla sua preghiera! A quanti egli ridonò la
fiducia e la serenità! Alcune testimonianze autorevoli restano, ma la più
parte dovrebbero essere raccolte. Ma forse è impossibile, perché fanno parte
del segreto di Dio. In questo dono di luce e di grazia, attraverso
l'umilissima azione del fraticello laico e indotto, s'è realizzato uno dei
più ardenti desideri di Cesare Pisano: essere sacerdote.
Se sacerdote vuol dire intermediario tra Dio e gli uomini, se
sacerdote significa impegno per servire e salvare, se sacerdote è chi
trascina i fratelli sulle vie di Dio per arricchirli dei suoi doni di grazia,
bisognerà dire che frate Ave Maria fu sacerdote nel senso profondo del termine.
Non certo attraverso l'azione sacerdotale, ma sì attraverso la sua parola, la
sua preghiera, la sua semplice testimonianza egli fu un mediatore, un
salvatore, un apostolo. Lo riconoscono quanti sono stati raggiunti dalla sua
indefessa opera.
C'è da aggiungere che questa continua tuttora, anzi in
maniera più profonda e misteriosa - è il miracolo di frate Ave Maria che
continua -. Lo testimoniano, tra l'altro, quei semplici messaggi vergati con
mano trepida e che stazionano in continuazione sulla sua tomba. Lo testimoniano
i pellegrinaggi alla sua arca semplicissima di fredda pietra disadorna. Lo
testimonia il gaudio di moltissimi, espresso in occasione dell'inizio del
processo per la sua beatificazione. Lo testimonia anche la nostra presenza
oggi qui nel luogo che fu suo e che ora è colmo del suo spirito che continua a
parlare più forte che mai.
Ascoltiamone docili il messaggio.
"Fa risplendere su di noi la luce del tuo volto" (Sal.
4)
Frate Ave Maria ci invita a percorrere il suo stesso
cammino di luce, alla scoperta del Sole divino che dà ragione di tutto.
Quante volte - è un suo pensiero rimarcato spesso - vedenti negli occhi del
corpo, siamo ciechi nell'anima, perché non vediamo il bene, non riconosciamo
la strada di Dio, non sappiamo compiere le scelte utili alla nostra vera gioia!
Quante volte il dolore, la prova ci oscura lo spirito: e Dio
resta il lontanissimo, l'accusato, chiamato in causa come cagione dei nostri
mali. E siamo tentati di rifiutarlo, ribelli e superbi!
Quante volte, viceversa, tronfi dei nostri successi, fieri di
quanto doviziosamente ci propina la nostra civiltà progredita, camminiamo
come se Dio non esistesse - ciechi dello spirito, immersi totalmente nella
terra e nell'unica dimensione orizzontale, dimentichi e ignari, salvo poi a
prendercela con Dio la prima volta che qualcosa ci va male!
Occorre luce, la luce vera, quella che viene dalla fede,
sostenuta dalla parola di Dio e conservata con la preghiera. Finché non
ritroveremo un giusto equilibrio tra azione e contemplazione, tra vita esteriore
e vita interiore, tra attivismo e preghiera, saremo sempre delle personalità
disarmoniche, incomplete, insoddisfatte.
Frate Ave Maria ci offre la ricetta della felicità, della
"sua" felicità: la ricerca coraggiosa della luce di Dio anche a costo
di diventare ciechi su altri fronti. Forse è proprio questa la preghiera che
dovremmo avere il coraggio di fare: che ci sia tolta un po' di luce terrena e ci
sia abbondantemente riversata in cuore la luce celeste.
Alcuni voti da affidare a frate Ave Maria
Siamo, infine, sicuri che la intercessione del caro nostro
fratello può molto presso il Signore. Allora gli affidiamo con semplicità
alcuni voti che ci stanno sommamente a cuore. Eccoli:
1 - che riusciamo, come lui, a vedere nella luce del
Signore, la vera luce: "in lumine tuo, Domine, videmus et videbimus
lucem";
2 - che frate Ave Maria, più conosciuto e amato - lo
merita - si faccia maestro di molti in questo itinerario verso la luce e che
perciò da Sant'Alberto - il "suo" luogo benedetto - il richiamo
della sua santità, delle sue virtù, il suo messaggio semplice e sublime,
sempre più attuale, si diffonda nel mondo come un richiamo di speranza, come
un approdo di anime desiderose di vita e di gioia;
3 - che i suoi eredi, gli eremiti della Piccola Opera della
Divina Provvidenza - qui a Sant'Alberto e altrove - emulando le imprese e le
virtù del loro antesignano - ne riproducano il fascino e questo diventi voce
possente a chiamare tanti tanti altri a seguire le sue orme, la sua stessa
vocazione di solitudine, di preghiera, di lavoro, di silenzioso efficacissimo
apostolato;
4 - che i figli di don Orione, eredi fortunati di santi,
ritrovino, in quest'ora della storia del mondo e della Chiesa, segnata per
tanti rispetti di incertezza, di titubanze, di infedeltà, di interiori
smarrimenti, la strada del sacrificio accettato e cercato, della
contemplazione assidua, del dono totale di sé alla causa di Dio e della
salvezza dei fratelli.
Tanto ci ottenga da Dio e dal beato Fondatore il nostro santo
e carissimo fratello.
APPENDICE
PENSIERI DI FRATE AVE MARIA
a cura di: Don ANDREA GEMMA
Don GIULIO FLORIAN
La raccolta degli scritti di frate Ave Maria é appena
iniziata. La piccola antologia che qui offriamo non può quindi avere
nessuna pretesa critica. Vuole soltanto offrire un necessario complemento alla
biografia, per una più profonda penetrazione dell'animo del biografato. Buona
parte dei testi sono tolti dalla più volte menzionata biografia «La luminosa
notte di un cieco (sigla: L. N.), gli altri da lettere tuttora inedite.
Manteniamo generalmente - salvo evidente errore - la grafia e la punteggiatura
dell'Autore, anche per quanto riguarda l'abbondante uso delle maiuscole.
IO NON SONO CIECO
Vedete, dicono che sono cieco. Ma io affermo, con tanta
compassione per gli altri: "Io non sono veramente cieco; i veri ciechi sono
quelli che guidano alla perdizione le anime; i veri ciechi sono quelli che non
vedono Gesù, e Gesù si vede con la luce della fede. Chi è che non vede Gesù?
Chi non crede che in Gesù è la luce del mondo, la luce che guida le anime alla
salvezza. La luce di Dio è la luce della verità. Così un cieco che vede Gesù,
non è più cieco, è un grande sapiente, uno che vede lontano, tanto
lontano... Chi, al contrario, non vede Gesù, è un povero cieco, che non vede
niente!
La Divina Provvidenza per mezzo di don Orione mi condusse
nel nascondimento per farmi disperare di me stesso, di tutto, affine di poter
sperare più pienamente d'Iddio. E don Orione mi diceva: "Umiliarci, sì!
Ma scoraggiarci, no! Umiliarci, sempre, sempre più! Ma avvilirci,
demoralizzarci, mai! mai!". Eppure, essendo cieco, quanta luce! Eppure,
essendo sordo, quanta armonia! Eppure, avendo una mente sì ristretta, una sì
piccola anima, un sì piccolo cuore, che pensiero luminoso di verità! Che
desiderio ardente di Cielo! Che amore di vero bene per tutti! Eppure, avendo
una voce rauca, con la quale mi faccio a stento intendere dai miei simili, che
gioia parlare di tutti al Creatore, implorando per tutti la sua misericordia e
disperatamente sperando in essa!
Ah, come è bello, santo, per chi non ha da fare tantissime
cose, perfette cose, per chi, come me, non sa fare altro, vivere nella
solitudine, ubbidendo al Divino Comandamento: "Ama Iddio con tutte le
forze e il prossimo come te stesso!". Come è bello pregare per la
perseveranza dei buoni e per il ravvedimento dei cattivi! Come è bello pregare
con Gesù per i suoi crocifissori di ogni tempo: "Padre, perdonali! Non
sanno quello che si fanno!". E pregare in modo da prepararci noi pure a
morire con Gesù, come Gesù sulla nostra Croce, pregando per quelli per cui il
Signore ce l'ha presentata.
Mamma, sapete che io non sono più cieco? Sapete perché
non sono più cieco? Lo sapete? Perché io chiamo ciechi soltanto quelli che
non hanno fede. Dunque, abbiamo fede, tanta fede da restare persuasi, convinti
che l'essere ciechi non è affatto una disgrazia. Anzi, quella che non
impedisce di andare in Cielo, non si dovrebbe neppure chiamare cecità; la
vera disgrazia, la vera cecità è quella che non ci lascia andare nel santo
Paradiso: è l'essere senza fede, senza amore di Dio e del prossimo... Solo di
luce e di forza noi abbiamo bisogno per essere felici: luce di celeste
sapienza e forza di buona volontà per fare sempre quello che è da farsi e
fuggire quello che è da fuggirsi. Luce, per aver sempre presente che siamo in
esilio; e forza, per non stancarci mai di correre verso la Patria. Luce, per
riconoscere che l'unico male è il peccato; forza, per non stancarci mai di
fuggirlo...
Oh mamma, come sarebbe meno brutto il mondo, meno triste
questo esilio, se le creature cercassero la loro pace, la loro gioia dove la
promette il Signore! Mamma cara, questo mondo è un mondo d'infelici, perché, o
assai o poco, tutti disobbediamo alla volontà del Signore, cerchiamo il
nostro bene dalla parte opposta di dove vuole farci correre il buon Dio...
Preghiamo che il Signore doni un po' di buon senso a tutti che ne sono scarsi e
che abbia misericordia di tutti... La maggior parte delle creature di questo
mondo credono che la vera felicità consista nell'essere molto ricchi,
nell'essere sani e robusti, nell'essere conosciuti e rispettati da molti. Ma
essi si ingannano, perché vi sono molti, ricchi ed onorati da tutti e pieni di
salute, eppure non sono affatto felici. Al contrario vi sono dei poveri,
infermi e quasi da tutti sconosciuti, che godono grande pace e serenità,
perché amano tanto il Signore e sanno di essere cari a Dio...
Che valgono le buone parole, quando non sono accompagnate
da una vita sinceramente crocifissa per amor di Dio e di tutte le anime ancora
suscettibili di salvezza? Che vale il mio consigliare gli affamati ad avere
pazienza per amore di Gesù e per meritare un bel posto nel regno dei cieli, se
io sono satollo? Che vale il mio consigliare gli infelici a ricevere
amorosamente ogni tribolazione dalle mani di Dio senza incolparne il prossimo,
se io, anziché infliggermi volontariamente tanta penitenza, sono sempre
preparato ad incolpare gli altri per le pene che già mi affliggono?! Oh,
almeno mi sia concesso di vivere la verità, giacché non ho abbastanza
eloquenza di predicarla! Ma quand'anche sapessi predicare con lingua angelica la
verità, qual gloria ne darei a Dio? Quale beneficio ne risulterebbe all'anima
mia od altrui, se non pensassi a vivere la verità? Le mie buone parole
sarebbero troppo simili a quelle che certi nemici di Gesù gli rivolsero nel
tempo della santa sua Passione. Dunque, la verità, primieramente viverla!
Secondariamente viverla! In terzo luogo viverla ancora! Poi, se mi avanzerà
tempo, dovrò predicarla; però, senza mai cessare di viverla intensamente. (Lettera
alla sua mamma)
UMILE CONFFESSIONE
... Se, oltre la Divina Provvidenza, si volesse lodare
qualcuno, penso che dovrebbero essere quelli che, nelle mani della Divina
Provvidenza, furono docili strumenti per far sì che quest'essere meschino, qual
io sono, si umiliasse ognor più, ma uscisse una buona volta dallo stato
dannoso dell'avvilimento in cui si trovava: una Figlia della Carità e un
Sacerdote.
Quanto a me, sono sempre quello che ero, perché il bene, che
ora godo, non lo ricevo da Dio per mercede, ma per elemosina. È bene che mi
viene dal Datore d'ogni bene e deve in me fruttare gratitudine verso il
Donatore. Il mio debito è grande e mi spinge a non lasciar passare occasione
alcuna, senza chiedere la carità di chiunque può aiutarmi. Ma a me conviene
più parlare col Dio del mio cuore, che coi compagni di viaggio verso la Casa
del Padre comune.
Se parlo coi miei simili, presto li annoio, perché non
faccio che ripetere lo stesso concetto con le stesse parole; ma il nostro
Padre celeste non si annoia mai di sentirsi dire che lo si ama, sia pure dalla
più inutile delle creature, quella che glielo dice e ripete, perché il Signore
non guarda l'arte con cui gli si dice che l'amiamo, ma la umiltà, ma la
sincerità del nostro cuore, anzi, mi correggo, del nostro amore. Gesù non si
stanca di darci udienza; anzi, ha tanto più care le nostre visite, quanto
più vede che con gusto viviamo alla sua divina presenza.
Così, questo poveretto, che si pensò infelicissimo solo
perché non possessore delle vili ricchezze, e non vedente la luce del sole, e
incapace di fare acquisto dell'umana sapienza, fu da don Orione spinto alla
conquista delle ricchezze eterne, della vera luce, della sapienza divina, che
lasciandolo disperato - graziosa disperazione -, gli riempì il cuore di
gioconda e luminosa speranza e certezza nella possibilità e facilità di
conseguire anche lui la vera felicità nella vera vita immortale, a cui ogni
cuore umano aspira e si sente attratto. Così, quella che sino allora giudicavo,
e mi affliggeva, come una minorazione umiliante, incominciai a stimare come un
grandissimo privilegio concessomi gratuitamente dall'Altissimo; incominciare in
questo esilio a non avere altra occupazione che quella che gli eletti hanno in
cielo; adorare, amare, ringraziare eternamente Iddio, nella luce rivelatrice che
Iddio ci ama, e vuole essere da noi amato, e che tutto ciò che ne comanda non
è che efficacissimo rimedio a tutti i nostri veri mali, che ci impediscono di
compiere perfettamente ciò che il Signore vuole da noi, come cooperatori alla
sua divina e umana redenzione: divina, perché operata da Lui; umana, perché fu
compiuta a salvezza dell'umanità.
IL MIO FORTE È PREGARE
... II mio forte è pregare e non parlare e non scrivere,
perché pregando bastano poche parole ripetute sentitamente; invece, se si
dicono e si scrivono le stesse cose, si finisce con l'annoiare la gente...
Dunque, io prego tanto e prego non soltanto per quelli che sono vicini al
Signore e sentono il bisogno del divino aiuto; ma prego pure per quelli che sono
lontani dalla Verità, tanto lontani che si credono dalla parte della ragione
e sono dalla parte del torto; tanto lontani che si credono saggi e invece sono
sciocchi; tanto lontani da non capire più quanto le loro idee siano storte.
Anch'io ho delle idee storte e non so raddrizzarle; ma il Signore mi compatisce
e mi perdona, perché umilmente gli chiedo perdono per me e per tutti i
bisognosi del suo Perdono Divino. E veramente, ogni idea che mi fa scordare la
Vita Eterna, che m'impedisce di meditare sui dolori sofferti da Gesù per
l'umana Redenzione, che mi fa rallentare il passo sulla via del Cielo, è
veramente un'idea storta che mi fa dire e ripetere per me e per quanti come me
ne hanno bisogno: "Padre Eterno, perdonaci! Gesù buono, perdonaci, perché
quando bramiamo altro che il Cielo, quando ci affatichiamo per altro che per il
Cielo, quando non corriamo verso il Cielo, non sappiamo veramente quello che
pensiamo, né quello che bramiamo, né quello di cui ragioniamo, né dove
andiamo...".
Questa preghiera, più la ripeto al Signore, più faccio il
mio dovere da povero frate, da povero figliuolo di Iddio, ed a me riesce dolce,
consolante il ripeterla, perché sono certo che il Signore non si annoia mai di
sentirla, anzi, desidera ch'io gliela ripeta ininterrottamente, sino a
sembrare un pazzerello per quelli che non hanno fede. Spesso me la sento nelle
orecchie, questa parola: "Oh, se in questo momento ti vedesse il tale! Che
cosa direbbe! Direbbe che sei un pazzo!". Ed un'altra voce subitamente
soggiunge:
"Prega, prega anche per lui, perché, se non si risolve
a cambiar sentimenti, se non si decide a mettere giudizio, arrischia di essere
tra quelli che un giorno confesseranno, ma troppo tardi, che gli insensati
sono stati loro".
Anche a me che non so fare niente, il Signore ha trovato
ottimo impiego. Pregare è la migliore opera che creatura possa fare! Eppure,
anche uno che non sappia far altro, posso, devo e voglio, più che molti altri,
essere uomo d'orazione, facendo mia gioia il trattenermi in dolci colloqui
con l'Altissimo Iddio, che parla al cuore e che ci legge nel cuore, vincendo le
nostre tenebre con la sua luce, fugando ogni nostra malinconia con la sua
gioia, sciogliendo il ghiaccio d'ogni nostra freddezza col dolcissimo fuoco
della sua divina carità...
Quanto a ciò che mi dite intorno al mio pregare, rispondo
che io non so far altro e, almeno quanto so fare, lo dovrei fare
perfettamente; invece sono molto imperfetto. Tuttavia, pregando si impara a
pregare ed io, per esempio, quando prego la Madonna, non la prego pensandola
in Paradiso, ma me la penso, me la sento spiritualmente presente come Mamma
amorosissima, sì, ma pure come Madre d'Iddio, che da Gesù suo Figlio può
ottenere tutto quello che è meglio per me. Per me la Santa Madonna è la grande
rivelazione della Divina Tenerezza, non soltanto verso di me ma verso tutti i
redenti, ed è per questo che, pregando Maria, mi sento portato a chiedere
grazie per tutti, perché tutti abbiamo pace, perché tutti arrivino alla Mèta
eternamente beata per cui fummo tutti creati. Perciò, quando prego, io non
curo affatto la espressione della voce, bensì soltanto la posizione, la
compostezza dell'anima, della mente. Cerco di non dimenticare i corporalmente
presenti, mi studio di non scordarmi degli spiritualmente presenti, ma
soprattutto m'ingegno di parlare a Maria, non come ad un'assente, ma come a
presente in atto di dispensatrice dei divini tesori...
Il Signore mi fa sempre più intendere che sono chiamato a
pregare Lui e non a predicare agli uomini, perché, a pregare Lui basta la buona
volontà di fare ciò che a Lui piace, ma, per parlare di Dio agli uomini,
bisogna saperlo fare, e non a tutti è ciò concesso...
ESTASI
Quanto al cinquantesimo di mia corporale sorella cecità,
sarebbe troppo angusto il posto, accordato in un periodico, per narrare come
la Divina Provvidenza servendosi di don Orione riuscì a persuadermi, a
convincermi, che non erano le ricchezze, la luce, la sapienza di quaggiù, i
beni che mi avrebbero potuto fare veramente felice e che, anzi, l'avermi
recisamente negati questi beni, fu un segno di benevolenza squisita, per niun
verso da me meritata, ma dalla Divina Provvidenza dimostratami. Difatti, io
sono, naturalmente, superficiale; che, se fossi stato ricco dei beni di
quaggiù, non avrei cercato altro bene; se avessi potuto godere la luce del
sole, non avrei cercato altra luce e, se fossi riuscito ad essere sapiente,
della sapienza mondana, della sapienza degli uomini, non avrei cercato altra
sapienza, la vera sapienza, la sapienza d'Iddio. Nel mio gran cervellaccio avrei
pigiate tante vane notizie ed avrei espulse le notizie vere di felicità.
Invece, la Divina Provvidenza, col farmi disperare dei beni passeggeri e col
farmi incontrare con l'Uomo, col Sacerdote provvidenziale, mi indusse
clementissimamente a disperare dei falsi beni e a sperare nei veri beni, di modo
che, nella mia minuscola mente, regnasse la fulgida idea di Dio e, nel minuscolo
mio cuore, ardesse il salvifico amor di Dio, e la minuscola anima mia
vivamente sperasse nelle delizie eterne, da Gesù promesse e meritate ai suoi
redenti, così da pregustarne un saggio, anche lungo la via di questo esilio
terreno.
D'altra parte, la Divina Sapienza annacqua il Suo vino
secondo le mie capacità, ed io sento in esso ogni squisitezza; ma non dice a
me di distribuirlo ai miei fratelli; bensì dice: pregami per i tuoi fratelli,
perché vadano dietro a ciò che è veramente bello, buono, durevole. Un tempo,
con profonda umiltà che talora sfociava nello scoraggiamento, dicevo a me
stesso: non sai fare altro che pregare; al presente, e ancora frequentemente,
dico: non sai far altro che pregare; poi, pensando chi fui, chi sono io che
prego, chi è Colui ch'io prego, la mia piccola mente è piena di luminosa
meraviglia, il mio cuore è pieno di dolcissima tenerezza.
Oh Signore, che è questo ch'io godo? è estasi? è
rapimento? È l'amoroso abbracciamento dell'infinitamente grande con
l'infinitamente piccolo...
GESÙ
Quando era ad Albenga a fare la IV elementare, passavo,
ogni volta che mi recavo a scuola, davanti all'episcopio e, sullo stemma posto
sulla porta, leggevo sempre senza intendere: "Christus vere scit...".
Quando seppi che quelle parole volevano dire: "Cristo veramente sa"
ero già cieco, e furono la mia luce. Gesù è veramente il Maestro di Verità,
di quella verità che resta in eterno... Lasciamoci illuminare, confortare,
consolare da questa verissima ed importantissima verità. Anche noi veniamo da
Dio e dobbiamo ritornare a Dio; e allora sarà dolce la presente vita, e ci
sarà pur dolce la morte perché la sapremo riguardare come porta della Vita
eterna.
La nostra vera salvezza è Gesù, Gesù imitato, Gesù
ascoltato, Gesù seguito, Gesù vissuto. Ascoltiamo Gesù e lo conosceremo, lo
ameremo, lo imiteremo e lo seguiremo e di lui vivremo e non saremo più
ciechi, ma vedremo la vera luce che è la verità; e non saremo più schiavi, ma
godremo la vera libertà anche chiusi in una cella, anche tra le mani dei nemici
di Dio, e non saremo più morti ambulanti, ma vivremo la vera vita che è il
trionfo dello spirito sulla materia. Gesù, nostro Dio, nostra vita, nostra
verità, nostra luce, a tutti, ma soprattutto a noi, dice: "Chi vuol venire
dietro a me, rinneghi se medesimo, prenda la sua croce e mi segua".
Non occultiamo Gesù sotto la nostra immagine da
caricatura; ma rivestiamoci della divina immagine di Gesù Salvatore; ma
lasciamoci penetrare, muovere, dominare dallo spirito redentore di Gesù
Crocifisso! Scomparisca lo strumento sotto la mano di Gesù che divinamente lo
vuole adoperare...
Gesù è il buon Pastore disceso dal Cielo in terra per
rintracciare la pecorella smarrita, la povera umanità. Gesù vuol tutti salvi
e felici. Gesù tutti troverà, eccetto quelli che non vogliono lasciarsi da Lui
trovare, e si mantengono in tale cattiva volontà ostinati sino alla fine...
Chi si lamenta di Dio si può paragonare ad un cieco
irrequieto, precipitato in un burrone per non avere ascoltata la sua guida
saggia e pietosa; questa poi la raggiunge nel precipizio per trarnelo fuori;
ma la strada è angusta e spinosa, e la clementissima guida sceglie per sé la
parte più disagevole, affinché il povero cieco ponga i suoi piedi dove le
spine sono più rare e men pungenti. Ma il cieco sente solo le spine che lo
pungono e non vede le spine da cui si fa pungere la sua guida, e perciò la
rimprovera quale persona crudele, senza cuore. Questo cieco si lagna, così,
ingiustamente della sua pietosissima guida.
Se talora ci sentiamo pungere dalle inevitabili spine di cui
è disseminata la nostra vita, per la quale la Divina Provvidenza ci vuole
guidare alla radiosa meta anche a noi fissata - al convegno eterno e senza
fine beato, al santo Paradiso -, ricordiamoci con grandissima gratitudine delle
assai più numerose e ben più pungenti spine sopportate da Gesù, nostra vera
guida, per amor nostro ed invogliamoci ognor più ad accettare le nostre per
amore suo... I Santi assicurano che è cosa senza confronto migliore il
soffrire con Gesù e per amore di Gesù, che il godere tutte le delizie del
mondo vivendo in disgrazia di Dio, nemici di Gesù. Vivendo accanto a Gesù,
amici di Gesù, facendo la santa volontà di Gesù, quanta gioia godremo,
sconosciuta agli empi; quante pene, che continuamente straziano l'animo dei
malvagi, ci saranno per sempre ignote! Stiamocene sempre vicini a Gesù, tanto
nelle ore gaie, quanto nelle ore meste; da Gesù, il quale dalla sua Croce
ebbe compassione di tutti, anche di quelli che sembrano i più felici del mondo,
perché davanti a Gesù siamo tutti poveretti, tutti bisognosi d'essere da Lui
guardati con uno sguardo tutto di compassione; tutti abbiamo bisogno del suo
grande perdono, delle sue grazie, del suo aiuto; perché senza di Gesù nessuno
può essere veramente e stabilmente felice...
LA VERA LUCE
In alto i cuori, o carissimi, sempre in alto: per
distinguere, tra molte luci apparenti, la vera luce che illumina l'umana
intelligenza rendendola non più carnale ma spirituale! In alto, per
ravvivare, tra mille effimere bellezze, quella che è il vero fonte d'ogni
bellezza e di cui ogni creatura è chiamata a rivestirsi! In alto, per scorgere
ed eleggere la vera ricchezza, la vera gloria, la vera pace, la vera
felicità, per cui ogni creatura viene posta da Dio in questo terreno
vestibolo della vera vita, della vita eterna!
Oh, fratellini miei, ringraziamo sempre il Signore per averci
donato la vita! Amiamolo tanto, questo gran dono di Dio, ma non amiamolo troppo.
Noi lo ameremo troppo, se il timore della morte ci farà indietreggiare di
fronte al dovere da compiere. Noi non lo ameremo abbastanza e disprezzeremo
colpevolmente, questo prezioso dono di Dio, se la previsione delle difficoltà
da superare, dei dolori da sopportare, ci farà desiderare la morte
contrariamente alla divina volontà. Non l'amiamo troppo la vita, dunque, né
sia scarso il nostro amore per essa: amiamola tanto quanto merita. Un sì gran
bene da Dio non ci viene tolto se non per mutarcelo in un bene maggiore e più
durevole. La vita di un giovinetto, che si immola nel compimento del proprio
dovere, è una giovinezza che si eterna. La lunga esistenza, invece, trascorsa
tutta nelle delizie, è un istante di velenosa dolcezza, che precede uno spasimo
senza fine. Pensiamo spesso ai beni e ai mali futuri, é diverremo forti per
resistere alle lusinghe del mondo e sostenere ogni fatica, ogni dolore presente.
La vera pace e libertà non solo non le godono, ma nemmeno
le conoscono i superbi che, con forza e con astuzia, riescono ad imporre agli
altri la propria volontà, mentre essi sono schiavi dei loro vizi e del loro
stolto modo di pensare. La pace e la libertà non le godono gli avari che le
cercano affannandosi miseramente nell'inutile sforzo di estinguere la loro sete
di oro. Pace e libertà non godranno gli impuri sinché le cercheranno dove
Dio non le promette. Pace e libertà non avranno gli iracondi e golosi sinché
si lasceranno vincere dall'iracondia e dalla gola. Pace e libertà non
gusteranno i rosi dall'invidia, invischiati nell'ozio.
Ricordiamoci che nel vero amore - quaggiù - non si può
vivere senza dolore. Così nell'amor di Dio come nell'amor patrio, la pietra
di paragone per distinguere l'oro puro dall'orpello è la croce, sicché non sa
amare chi non sa soffrire, e chi più sa soffrire, è quegli che più ama. È
meglio vivere una giornata sola, ma nell'amore fiorito di sacrificio, che cento
anni da gaudenti. Chi si sacrifica per amore, giova santamente a se stesso ed
edifica il prossimo; il gaudiente, al contrario, danneggia se medesimo ed è
l'inciampo per molti deboli o poco illuminati.
Oh, carissimi, amiamo! amiamo! amiamo! Amiamo la nostra
famiglia, amiamo la nostra patria, che è una famiglia più grande... Amiamo
tutta l'umanità. Amiamo la Santa Madre Chiesa, amiamo il Santo Padre, amiamo
Maria nostra Madre celeste, amiamo Gesù nostro Dio Salvatore! Amiamo tutto
ciò che è bene, tutto ciò che è bello, tutto ciò che è prezioso! Amiamo
tutto ciò che è grande, che è giusto, che è buono! Amiamo tanto da non
temere più la fatica, il sacrificio, la morte.
Allora godremo una imperturbabile pace, godremo la libertà
dei figli di Dio ed ogni cosa il Signore per noi volgerà in bene e
l'aspettazione nostra sarà sempre lieta! E tutti quelli verso cui abbiamo
obbligazioni otterranno da noi più soddisfazione che non desiderino, poiché
sarà più dolce a noi il dare che a loro il ricevere, mossi sempre da quella
buona volontà che, per essere leale, non può che conformarsi alla divina.
Dio solo è libero, e chi fa la volontà di Dio, chi elegge per propria la
divina volontà è partecipe alla divina libertà, è libero quanto Dio!
Ciò che Dio comanda è per i suoi amici via di scampo verso
la felicità. Solo gli amici di Dio conoscono questa consolante verità e
perciò liberamente vogliono quello che Dio vuole!
Vogliamo anche noi così, buoni fratelli!
IL VERO BENE
Noi non sempre conosciamo il nostro vero bene; noi spesso
desideriamo e chiediamo per bene ciò che invece sarebbe un male per noi; ma
Gesù e Maria sanno ciò che ci abbisogna, ci danno talora ciò che ci amareggia
per un istante il cuore, perché sanno che quella momentanea amarezza
frutterà per noi e per i nostri cari una dolcezza immensa ed eterna...
II diavolo e gli amici del diavolo fanno proseliti
promettendo la cuccagna in questa vita. Cristo e i suoi Apostoli e i suoi
Martiri, con l'esempio di tutta la loro vita e con le parole, ci hanno convinti
che il Paradiso vero ed eterno, e d'immenso gaudio, è dopo questa vita
passeggera; ma per raggiungerlo, occorrono umiliazioni e amore disinteressato,
che tutt'insieme formano la nostra croce, la croce benedetta di cui Gesù ci
vuole far dono, ed è dono preziosissimo, dopo che, se è amato e tenuto caro,
è quaggiù l'unica sorgente d'ogni vera consolazione. Perché la croce di
Gesù amata da noi, ed amata col farla nostra, è unica fonte di giocondissima e
verace speranza...
Se noi saremo scansafatiche, se a noi dispiacerà sporcare
le mani nel lavoro, se a noi piacerà avere le scarpe sempre lucide e il vestito
elegante, se noi useremo i profumi, se noi ci facessimo sentire profumati di
sigarette, se noi saremo amanti di buoni bicchieri e buoni bocconcini, se noi
perderemo il tempo davanti alla radio, se noi sprecheremo la benzina coi soldi
dati a noi per dar da mangiare agli affamati, adoperandola per fare viaggi
inutili, per andare ad assistere a gare sportive, per fare gite di piacere, se
noi leggeremo più volentieri i giornali che la vita dei Santi, se noi vorremo
convertire il mondo coi partiti politici, anziché col dare al mondo esempi
sinceri di vita mortificata, di vita crocifissa, queste sì che sono cause da
togliere per non dare motivo di credere che, sotto la palese rilassatezza, vi
sia qualche cosa di peggio...
LA FEDE
Come è bella, sublime, benefica, redentrice la fede che ci
fa venire persuasi, convinti, che quaggiù è cosa migliore essere buoni e
soccombere, fare il bene ed avere dei male, che essere cattivi e trionfare, fare
del male ed avere molti beni, di questi che sì prestissimamente passano!...
Questa fede è la materia prima che scarseggia in questo
misero mondo ed è questa la causa, e non altre, per cui vi è tanta
infelicità, per cui il mondo va tanto male, perché disperatamente si godono i
miserabili beni di quaggiù e si è invece insofferenti di quei mali momentanei
e leggeri, coi quali Iddio vuole dare ad ogni sua creature il diritto di sperare
i veri ed eterni beni..
Giusta, santa, bella, divina è la nostra Religione; è
l'unica vera, che insegna ad amare Dio come padre e tutti gli uomini come
fratelli! Insegna essere un'ombra la vita presente, paragonata alla Vita Futura
che ne attende! Oh, quanto è bella anche la vita terrena, se si guarda nella
luce di questa verità! Come divien sopportabile anche il dolore, quando si
pensa che ci sarà rimunerato con una eterna gioia! Come dolce, desiderabile
anche l'ora della morte, quando si è convinti della convinzione dei Santi, che,
cioé, sorella nostra morte corporale altro non è, per i buoni, che un felice
passaggio alla vera Vita, beatissima, eterna, dove ritroveremo tutti quelli
che ne precedettero, dove raggiungeremo tutti queli che seguimmo nella via della
vera pace, della giustizia, della misericordia, della verità, della carità.
... In questa vita terrena ogni giornata lieta ha la sua
sera. Anche le giornate dolorose hanno la loro sera; ma, siccome noi
vogliamo sempre godere e mai soffrire, perciò le giornate gioconde sembrano
sempre troppo brevi, mentre le giornate meste a noi pare siano interminabili.
Noi non ci stanchiamo mai di godere e, in quanto al dolore, vorremmo stesse
ognora lontano da casa nostra. Eppure è impossibile in questa terra d'esilio
vivere sempre felici. Ma quand'anche potessimo essere ognora contenti, sarebbe
una grande disgrazia. Perché arriveremmo alla morte senza alcun merito per il
Cielo... II patire quaggiù per amore di Gesù e di Maria è grande fortuna, è
vera fortuna; ma il godere lontano da Gesù e da Maria è grande sciagura, è
vera sciagura, è la maggiore sventura che possa toccare ad un mortale.
Nuotando nei falsi e non durevoli beni di quaggiù, di essi talmente si sazia,
da non saper più pensare che ve ne siano altri, da deridere quelli che altri
beni sperano; e sono questi a cui Gesù disse: "Guai a voi, satolli...
Guai a voi, ricchi... Guai a voi, che ora ridete...".
Convinciamoci che un grande ignorante, se ubbidisce alla
fede, vive sapientemente; mentre un gran sapiente che disubbidisca alla fede,
vive da grande ignorante...
LA VIA DELLA SANTA CROCE
La via del santo Paradiso è la via della santa croce, è la
via delle sofferenze da noi serenamente accettate per amore di Dio e di tutto
ciò che in Dio dobbiamo amare. Sofferenze però, non scelte da noi, ma a noi
donate da Dio direttamente o per mezzo dei suoi amici ed anche dei suoi nemici,
ma sempre dolcissimi servi suoi, o con loro grande merito, o con grande loro
demerito...
...Abbracciamo, dunque, volonterosamente questa benefica
croce, e quantunque talora ne sembri alquanto pesante, non scrolliamola dalle
nostra spalle; non lamentiamoci mai col Signore dicendogli che ce l'ha data
troppo gravosa; ma benediciamo con essa il buon Dio che ce l'ha donata, non
perché ci vuol male, bensì per trattare noi pure, come tratta con le anime a
lui più care...
Se però in noi è quella luce di verità che Gesù
benedetto venne dal Cielo a portare sopra la terra, dobbiamo essere sempre
persuasi e convinti che a noi torna più conto soffrire che godere, quaggiù,
perché se godiamo ci rendiamo sempre più debitori al Signore; ma se
soffriamo per amore di Gesù, è Gesù che si rende debitore verso di noi...
Gesù visse e morì povero, perseguitato e perdonando ai suoi persecutori e
chiamò beati i poveri, i perseguitati ed i misericordiosi; e minacciò guai a
quelli che ora ridono, ai ricchi, ai satolli, a quelli che al presente trionfano
con la prepotenza e con la ingiustizia...
II mio dovere è di fare penitenza, e quanto più ne
faccio, tanto più adempio al mio dovere. Per premio tutta la vita sul
Calvario, ma per castigo né tutta la vita e nemmeno un solo istante sul Tabor.
Dite a quel bravo ragazzo che se vuole stare sempre in piedi
non deve aggravare il suo corpo con soverchio cibo e bevanda. Vi sono dei
vecchi che mangiano e bevono più che la loro gola chiede, e poi si sentono
tentati come quando erano giovani ed anche più, e vanno dicendo: "Se io
che sono vecchio sono così tentato, chissà i giovani!".
Preghiamo ed affatichiamoci assai, e nutriamo il nostro corpo
con vivande poco sostanziose, poco ghiotte, e consigliamo di fare così tutti
quelli che con le armi dello spirito vogliono soggiogare la propria carne.
Cooperiamo con Cristo alla salvezza del mondo, usando le stesse armi usate da
Cristo...
IL PAPA
Carissimi, il Papa è un sacrificato da Dio al nostro
servizio. Noi abbiamo bisogno di essere guidati ai pascoli della verità e
guardati dai lupi; il Papa è il Successore di Pietro, è il Vicario di Cristo.
Anche al Papa, come a San Pietro, Gesù dice: "Pasci i miei agnelli".
E Gesù, come agli Apostoli, a noi pure dice: "Ecco, vi mando come pecore
in mezzo ai lupi". I lupi sono i seguaci dell'errore, i quali, non
potranno giammai divorarci, se avremo buona volontà, pur essendo essi armati di
voracissimi denti e noi apparentemente disarmati, indifesi, improtetti.
Dobbiamo, però, essere sempre forti nella fede in Gesù... Egli ognora ne
incoraggia a non temere coloro che uccidono il corpo e non possono fare altro,
ma a temere solo il peccato, perché è l'offesa d'Iddio, ed essa soltanto, che
può mandarci in perdizione e anima e corpo.
Ah, preghiamo, preghiamo sempre secondo le intenzioni del
Santo Padre, il quale ha sempre gli occhi rivolti al Cielo dove vuole giungere,
dove vuole farci giungere, dove vuole far giungere, anche aiutato dalle nostre
preghiere, quelli che ancora corrono per opposta via! Che è la via della
superbia, dell'ingordigia, della dissolutezza, dell'errore, dell'empietà,
dell'eterna rovina...
Non diffidiamo mai degli insegnamenti di santa Madre Chiesa,
perché essi sono i soli degni di tutta la nostra fede. Essi soli ascoltiamo e
avremo vita e pace...
LA VOCAZIONE AL SACERDOZIO
lo dico, a quelli chiamati alla vocazione, che la più
bella gioia che posso ricevere da uno di loro è di sentire che ha detto la
Messa, è arrivato al sacerdozio, o che è chiamato tra poco tra i promossi al
sacerdozio.
Ecco: se uno di voi vuol darmi questa consolazione - e io la
desidero tanto volentieri - sarà quando sentirò dire: il tale ha ricevuto la
santa Messa, l'Ordine sacerdotale. Quanta gioia proverò! Perché anch'io
tanto desiderai d'essere sacerdote, ma erano velleità, perché, per il
Signore, non basta sentire il desiderio, bisogna avere tutte le qualità
necessarie. II Signore mi fece capire che io posso aiutare i sacerdoti e anche
quelli chiamati alla vita religiosa e sacerdotale, pregando per loro.
E quest'oggi appunto, giacché è l'assistente vostro che ha
fatto i santi Voti, ecco, è lui che m'ha dato una grande consolazione; è la
Madonna che quest'oggi mi ha dato questa grande consolazione, perché, il suo,
è un passo verso la vita religiosa, verso il sacerdozio... La mia
consolazione, di fronte a un sacerdote novello, è questa: poter baciargli
la mano; pensare che poco tempo fa era un ragazzetto come tutti gli altri, e ora
è sacerdote, ed è un sacerdote che fa tanto bene alle anime, come don Orione
voleva: Anime e Anime!
Vedete, questo è il grido di ogni sacerdote di Dio. Anzi è
il grido di Dio. È Gesù Cristo che grida: Anime e Anime! Dalla croce Egli
grida: - Ho sete. Gesù disse: ho sete di anime, e anche don Orione disse: Anime
e Anime!, perché don Orione ricevette la fede di Gesù, capì che cuore
ardente era quello di Gesù. Anime, anime da salvare! Questa è la vera
felicità! Vedete, don Orione voleva la beatitudine ed era già beato in terra
- sì, era già beato in terra -, perché era sulla via della beatitudine, della
beatitudine propria e della beatitudine per gli altri; aveva scelto la via
migliore, più potente, più saggia: far sentire che salvare le anime vuol
dire fare il maggior bene possibile, e non c'è felicità se non in questo:
salvare le anime. Come non c'è maggior disgrazia, maggiore infelicità, che
dannare le anime, che perdere le anime, che guidare le anime alla perdizione.
Voi siete chiamati a guidare le anime a Dio. lo, di qui,
pregherò per voi! Don Orione mi diede questa consolazione... Don Orione mi
fece capire che, dicendo Ave Maria, posso fare tutto per tutti, posso parlare
persino ai chierici... E la dirò anche per voi I'Ave Maria, perché la
Madonna vi guidi sulla via della pace, sulla via dell'ubbidienza, e, ubbidendo
voi ai superiori, vi conduca a far del bene, ad essere felici.
lo pregherò per voi; e voi scusatemi, se chiedo qualche
cosa: ricordatevi d'aver coraggio, coraggio e avanti! Ave Maria e avanti! E poi
non soli in Paradiso, ma con tante anime, che voi avrete salvate col vostro
ministero, con la predicazione, col vostro buon esempio sacerdotale! Ave Maria!...
IL MINISTERO DELLA PREDICAZIONE
Che bellezza, che bellezza saper predicare! poter
predicare! dire tutto ciò che è bene, spingere verso il bello, verso il
buono, verso il vero, verso la via diritta! Attirare alla Confessione e alla
Comunione.
Le prediche devono essere ben preparate. Non si deve dire:
Tanto son contadini che ascoltano! Perché i contadini hanno buon gusto, come
le persone istruite: le parole ben dette piacciono anche a loro.
Una volta passò di qui un confratello nostro, buon
predicatore. Alla predica era presente uno che non veniva mai in chiesa.
Andando poi a casa, si rivolge alla maestra e le dice: - Se fosse sempre qui
quel predicatore, non è che io verrei sempre in chiesa, ma verrei tutte le
volte che lui parla!...
Bisogna rendere desiderabile la parola di Dio. È
difficile, ma l'impegno del Sacerdote ci sia! Rendere amabile la parola di
Dio, perché la fede viene dall'udito.
Che bellezza saper predicare, poter predicare!... lo,
invece, non posso predicare! Prima avevo paura anche a scrivere, perché
temevo sempre di sbagliare. Ma ora non ho più paura. Anche se scrivo qualche
sproposito, il senso lo capiscono lo stesso! Scrivo, mettendoci il tempo che ci
vuole; poi rileggo, aggiungo quello che non ho detto... Ma, parlare è
un'altra cosa!
Cerco, comunque, di dire qualche cosa, in privato, a quelli
che vengono. Ed ecco quello che mi può capitare. Una volta, una signora, fece
il commento alle mie parole così: - Ma quello lì ha perduto un po' la testa!
Dice che è contento di stare al buio, che è una grazia fattagli dal Signore!
Ha perduto la testa!...
SI PUÒ ESSERE FELICI
Prendo la forza a parlare dall'obbedienza, perché non
bisogna essere solamente obbedienti ai superiori, ma - in ciò che non è male,
in ciò che può essere bene - si deve anche essere obbedienti agli eguali.
Ecco: io però non sono eguale a voi, che mi ascoltate, perché io in voi non
voglio vedere altro che i futuri ministri del Signore, e perciò il minore, in
questo momento, non parlerà ai maggiori, se non perché i maggiori lo
desiderano.
E non sa dire altro che promettere di fare il suo dovere.
È il dovere di un fratellino minore, sebbene vecchio di anni, che deve
soddisfare verso i fratelli maggiori. Questo fratellino ha il dovere di pregare,
ed ha una cosa uguale a voi, che è questa: di stare nel posto dove la
Provvidenza vuole, e di sforzarsi di capire che questo posto è il migliore
per lui.
lo dunque in questa sera, e domani, pregherò insieme a voi,
qui in questa Casa ricca di tanti ricordi; e domani, se Dio mi concederà,
ritornerò a essere spiritualmente insieme con voi, unito a voi,
nell'obbedienza, nel dovere. Per voi ora il dovere è di studiare, di prepararvi
a predicare ai fratelli la buona parola evangelica. Ed io, direi quasi nel
nascondimento, pregherò Dio che mandi la pioggia sul vostro seme. II
"vostro" ho detto: ma per essere seme di Dio non deve essere vostro,
non deve venire da voi: ma è parola di Dio, che è potente, parola che voi
dovete concorrere a rendere onnipotente con la preghiera. Voi siete canali
della parola di Dio, che è potente, parola che voi dovete concorrere a rendere
onnipotente con la preghiera. Voi siete canali della parola di Dio, e voi
avete il dovere di rendere pieno questo canale, perché possa partire da voi e
darsi agli altri. Voi dovete santificare voi stessi, perché la parola di Dio
non sia frustrata.
E la vostra parola, la parola che uscirà da voi, sarà
quella della grande pace, che si può godere in questa vita. Perché in
questa vita, si può essere felici. Ricordate chi vi dice questa verità: in
questa vita si può essere felici! È un cieco da ventotto anni, e un
tubercolotico da 17 anni, che vi dice di essere felice! E chi ve lo dice sarebbe
un bugiardo, se non lo avesse provato. Perché non si può affermare, se non
ciò che si è provato.
E la più bella pace, la più bella felicità, in questo
mondo, è quella che si trova nel fare il proprio dovere, anche se sotto la
Croce del Signore, specialmente sotto la Croce, unicamente sotto la Croce:
perché la vera santità è sotto la Croce del Signore. Fuori della Croce siamo
nella carne, e non nello spirito! Per essere nello spirito bisogna essere tali,
che non resti qualche cosa alla carne. E, se non altro, la carne è la nostra
volontà: la nostra volontà è carne.
E, quando voi sarete preparati, e quando vi presenterete al
popolo crocifissi, allora le vostre parole saranno ascoltate. Voi riceverete
grandi frutti, quando vi presenterete al popolo crocifissi! Perché, guardate,
io sono un poveretto - forse dirò un'eresia, e non vale dirla - ma quello che
dico è questo: se una devozione non ha in sé lo spirito di Gesù Crocifisso,
è falsa, è diabolica e inganno del diavolo: la vita di passione è la vera
devozione. La predica di Gesù, la novella che ha portato al mondo, è appunto
la vita crocifissa, nella pace del Presepe, povero, e sul Calvario.
Ed io vi auguro questo: e l'augurio è piccola cosa, e vano,
se non è unito alla preghiera. E questo vi prometto: di pregare per questo
fine, perché siate santi successori dello spirito di don Orione, amici di Gesú
Crocifisso, predicatori di Gesù Crocifisso, eredi dello spirito di don
Orione, altrettanti don Orione, predicatori di Gesù Crocifisso, imitatori di
Gesù Crocifisso.
lo pregherò per voi, come è mio dovere: ma voi, per
carità, ricordatevi di me: di questo povero fratello, ultimo di tutti, ma che,
nella sua bassezza, è felice, perché mi pare finora di stare nella volontà di
Dio. E voi sarete felici, quando farete la volontà di Dio. La volontà di Dio
autentica si ha, quando ascoltiamo i superiori: la volontà di Dio è quando
parlano i superiori.
La Madonna Santissima ci benedica e renda fecondo quel poco
grano che io ho seminato! Sia lodato Gesù Cristo!
IN ALTO I CUORI!
...Coraggio, anime buone, sursum corda, in alto, in alto,
sempre più in alto dove ogni mestizia naufraga in un mare di gioia, in un mare
di luce, in un mare di giocondissimo amore, in un mare di purezza in uno
sconfinato oceano di Vita, d'Immortalità. Siamo in esilio. Siamo nella valle
del pianto; ma ogni nostra lagrima è di breve momento ed è seme di gioia senza
fine.
Ecco la scienza che ne venne ad insegnare Gesù. Ecco la
scienza a tutti necessaria per non essere miserabilmente ciechi, per non
ignorare il più importante. Gesù, lasciandosi vincere dai suoi nemici ha vinto
anche per noi; Gesù lasciandosi spogliare ci ha rivestiti di gloria e fatti
padroni di un incalcolabile tesoro. Oh, accostiamoci a Gesù! Lasciamoci
abbagliare dalla luce di Gesù e in questo oceano di luce e di gioia
svaniranno le nostre pene, le nostre tristezze, le nostre malinconie e
pregusteremo la celeste pace e nuoteremo nel gaudio Santo e ci sentiremo
vicinissimi a Lui, d'una vicinanza che ne fonderà nella calma, nella
serenità, in una Divina Allegrezza già da questo corridoio oscuro nel quale
nulla di buono si trova se non il fine, ossia, la meta radiosa che vuole
essere da noi sempre fissata onde non ci smarriamo né ci scoraggiamo, né
voltiamo ad essa il dorso, unica sciagura che potrebbe capitarne e che
sarebbe irreparabile.
Ma guardando la meta, anche il buio diventa luminoso, anche
la tristezza diviene gioconda, anche I'inquetudine si muta in confidenza in
Dio che genera grande pace e serenità...
SONO POVERO E PECCATORE
... Vi scrivo dalla vecchia cella di Sant'Alberto,
ventinovenne testimone della mia vita tiepida e dissipata, dalla quale la
Divina Provvidenza benignissi mamente mi allontanò onde più efficacemente
aiutarmi ad incominciare una vita più conforme al Santo Vangelo di Gesù
benedetto ed a ciò che don Orione si attendeva dei suoi Eremiti; ma purtroppo
l'albero è invecchiato e senza un miracolo di Sant'Alberto è impossibile
togliermi le invecchiate cattive pieghe. Speriamo e preghiamo in questo
miracolo.
Quanto a me cercherò di non accontentarmi più di sole
parole; ma di incominciare a sforzarmi per essere quale il Signore da tanti
anni attende invano ch'io sia. Pregate voi pure per me onde cessi d'esser
cattivo, perché il Signore non ascolta le preghiere dei cattivi e se io che
non so fare altro di buono al mondo che pregare, sono tale da non essere
esaudito che ci sto a fare al mondo?! In che modo posso addimostrarvi la mia
riconoscenza?!
Ma io so come devo fare? Imiterò il regolo (ufficiale
regio) del Santo Vangelo e dirò a Gesù: "Signore, io non sono degno
d'essere ascoltato; ma tu hai detto che senza di Te non possiamo far niente,
dunque, fammi degno!...
... lo sono un povero peccatore che prega tanto per voi e per
essere più facilmente esaudito mi sforzo di essere sempre meno peccatore, eppoi,
anche per voi come per molti, domando al Signore e alla Madre del Signore tante
consolazioni anche per questa vita che sì velocemente corre a suo termine.
Tutte le volte che invoco consolazioni per voi e per tutti
i vostri cari pare che Gesù mi dica in modo come volesse canzonarmi:
"Come? Disgraziato cieco qual sei che neppure sai distinguere il giorno
dalla notte, prigioniero in questa stanza che d'inverno a molti sembra orribile,
che devi mangiare non quello che piace a te ma quello che piace agli altri,
che devi fare non quello che a te piace ma quello che piace agli altri, che devi
essere sempre pronto a partire quando agli altri piace che tu parta, non hai
proprio nulla da chiedermi proprio per te o tanto poco da preferirgli queste
piccole bagatelle degli altri?". Ma io allora gli rispondo: "Signore,
ti chiederei il perdono di tutti i miei peccati, se non fossi certo che la tua
infinita misericordia me li ha perdonati, perciò, per tutto ringraziamento ti
dico: Signore, colei (') che tu ami è inferma e Tu pietoso guariscila,
confortala e la consola!...
L'AMICIZIA CON GESÙ
...Questa notte, prostrato dinanzi a Gesù eucaristico, gli
ho promesso a nome mio e a nome vostro, eterna amicizia. Che grande fortuna di
un'anima, quella di poter essere stretta con Gesù dai gloriosi vincoli d'una
sincera amicizia! Gesù è l'unico amico sincero! Tuttavia pochi sinceri amici
Ei trova tra quelli che hanno estrema necessità di Lui.
Gesù è morto per salvare dalla morte eterna ogni
peccatore, e il peccatore sa esporre la sua vita al pericolo, la sa pure
sacrificare per un bene passeggero, per una causa ingiusta, la sa pure
ciecamente abbandonare nelle mani di falsi amici incapaci di fare il minimo
sacrificio per Lui, e di Gesù diffida, e per Gesù non sa nemmeno alzare un
piede da terra per un istante.
Oh, preghiamo, preghiamo che Gesù benignamente si degni
togliere lo spirito di stupidità dal cuore della maggior parte degli uomini
sicché incomincino una buona volta a tesoreggiare non più per la terra, ma
per il cielo soltanto...
VICINO AL TABERNACOLO
... Tu dici: "Venite a me, tutti..."? Se non lo
dicessi Tu, o Signore, chi crederebbe che fosse vero? E se Tu non lo comandassi,
chi si attenderebbe di accostarsi a Te?
Noè, uomo giusto, lavorò cento anni nella fabbricazione
dell'arca per salvarsi con poche persone. Ed io, in che modo mi potrò
apparecchiare (in un'ora) a riceverti degnamente, o Creatore del mondo? Mosè,
Tuo gran servo e speciale amico, fece l'arca di legno incorruttibile e la
vestì d'oro purissimo, per riporvi le Tavole della Legge. Ed io, corrotta
creatura, avrò ardire di riceverti con tanta facilità, Tu datore della
vita?... Salomone, il sapientissimo re d'Israele, impegnò sette anni
nell'edificare - a gloria del Tuo nome - un magnifico Tempio, e per otto giorni
celebrò la festa della sua dedicazione, offerse in sacrificio mille ostie
pacifiche e pure, e pose l'arca del Testamento in luogo appositamente
preparato, con suoni di trombe e con giubili e canti solenni... Ed io, uomo
infelice e poverissimo..., in che modo Ti introdurrò nella mia casa, io che
appena so spendere divotamente una mezz'ora (e fosse pure, qualche volta,
anche più di mezz'ora? ... ).
O Signore Iddio mio, quanto si studiarono di fare quelli
per poterTi piacere! Ma ahimè..., quanto è poco quello che io fò, e quanto
poco tempo occupo, quando mi dispongo alla Comunione!... Rare volte sono tutto
raccolto, rarissime, senza qualche distrazione. Eppure, dinanzi alla Tua
presenza, non mi dovrebbe venire nessun pensiero sconveniente, e niuna
creatura mi dovrebbe occupare, perché io debbo dare albergo al Signore degli
Angeli. È ben grande la differeza fra l'Arca d'Iddio, con le sue reliquie, e il
mondissimo Corpo di Lui, con le Sue ineffabili Virtù, fra i sacrifici della
Legge, che figuravano le cose future, ed il Sacrificio dei Tuo glorioso Corpo,
compimento di tutti i sacrifici antichi!
Oh! perché non mi accendo io tutto alla Tua adorabile
presenza... e perché non mi apparecchio io con maggiore sollecitudine a
ricevere tanto Sacramento, quando questi antichi santi Patriarchi e Profeti, Re
e Principi - in presenza di tutto il popolo - mostrarono tanto affetto di
devozione verso il culto divino?
Il divotissimo re Davide danzò a tutto suo potere, dinanzi
all'arca del Signore, rammentando i benefici già concessi ai suoi maggiori,
fece diversi strumenti di musica, compose salmi e ordinò che si cantassero con
allegrezza. Egli stesso di frequente sulla cetra, cantò ispirato dalla grazia
dello Spirito Santo, ed ammaestrò il popolo d'Israele a lodare Iddio con tutto
il cuore, e con voci accorate a benedirlo ed a ringraziarlo ogni giorno. Se
dinanzi all'Arca del Testamento si ebbe allora tanta divozione e s'innalzarono
sì vive lodi al Signore, quanta riverenza e divozione non dovrà ora essere in
me e in tutto il popolo cristiano, alla presenza del Sacramento e nel ricevere
I'augustissimo Corpo di Gesù Cristo!
Corrono molti, in vari paesi, per visitare le reliquie dei
Santi: e stupiscono nell'udirne le gesta, ammirano i maestosi edifici dei loro
Santuari, e baciano (ravvolte in panni di seta e d'oro) le loro sacre ossa. Ed
ecco che Tu sei qui, presente sull'Altare, vicino a me: Tu Dio mio, Santo dei
Santi, Creatore degli uomini e Signore degli Angeli. Spesso, in tali visite
c'entra la curiosità degli uomini, la novità degli oggetti da vedere, e si
ricava poco frutto di emendazione, massime quando (senza essere mossi da vera
contrizione) queste cose si fanno con troppa leggerezza.
Ma qui, nel Sacramento dell'Altare, sei Tu: tutto presente,
Dio mio e Uomo, Gesù Cristo! Qui, sempre, si raccoglie copioso frutto di
eterna salute, quando sei ricevuto degnamente e con divozione. A questo
Sacramento, non ci attira leggerezza alcuna, né curiosità, né compiacenza di
sensi: ma ferma Fede, divota Speranza e sincera Carità...
BEATITUDINE DELL'EREMO
...Eccoci, o dilettissimi fratelli, non per la prima volta a
voi tutto rivolto, per comunicarvi, piacesse al Signore concedermi questa
consolazione unica che ancora desidero e che ancora mi manca, tutte o almeno una
parte delle consolazioni che per pura grazia del Signore e della Madonna, e
nonostante i miei grandi demeriti, a me è dato ancora gustare in questa triste
terra d'esilio. A questa beata solitudine dove l'Abate Alberto si fece santo e
molti altri furono dai di lui esempi e consigli santificati, a quest'eremo
silenzioso dove sì fortemente e soavemente Dio parla all'anima divota e
l'anima parla al suo Dio; a questa oasi spirituale in cui il buon Dio ama ogni
giorno farsi dall'anima divorare per renderla ogni dì di Lui più famelica; a
questo asilo di pace in cui la santità, l'arte, la scienza, la potenza, la
ricchezza gareggiarono nel far opere ammirabili a lode perpetua della gran
Vergine Maria; a questo posto sicuro, dico, giunge purtroppo, di tanto in
tanto, il lontano e confuso rumore del mondo: voce di dolore e di pianto, strida
di disperati, funebri, sataniche; clamori d'ira, d'odio, d'invidia, grida e
canti di pazzi, voganti su mar tempestoso, stoltamente affidati alla falsa e
momentanea luce di stelle filanti. Quale cecità scambiare le lucciole per
stelle! Quale pazzia fuggire tanto lontano dal sole da abbisognar della lucerna!
Eppure questa fu, è, e sarà sempre, la cecità, la pazzia del mondo che si
perde...».
GESÙ È QUI VICINO
...E la vostra devozione a Maria vi dia sempre più Gesù.
E il sacerdote d'Iddio che offre il divin Sacrificio vi dia sacramentalmente
Gesù. E il ministro della divina Misericordia vi dia spiritualmente Gesù. Ed
ogni passo che fate su questa terra sia grandemente meritorio per ascendere tra
i primi posti nei Cieli.
Gesù compia queste e molte altre cose in vostro eterno
vantaggio. Gesù invogli tutti gli amatori del correre qua e là senza saper
dove, ai pii pellegrinaggi che hanno per meta il Cielo, per via la Pace, per
stella polare Maria, per missile modernissimo l'antichissima Croce di Gesù:
sicché, presto, tutti quelli che corrono, corrano verso la Verità, la
Carità, la Ricchezza, la Salvezza, l'Immortalità, la Felicità. E qualcuno
arrivi anche a Sant'Alberto, ma non per ritornare indietro, bensì per avanzare
ancora, per ascendere..., finché vita avanzi, per vivere di Fede e d'Amore
adorando il divin Prigioniero anche per quelli che Fede non hanno..., e
preparandosi a dire "ti amo..." anche a chi li metterà in croce.
E il vero dire "ti amo..." è di amare sempre,
ripetendolo rarissimamente, pronunciandolo lentissimamente, quasi sottovoce
piuttosto che gridare, più sentito che detto.
Se fossi soltanto cieco, mi sarebbe quasi impossibile lo star
fermo dove Iddio mi vuole. Ma Gesù mi favorì con alcuni speciali privilegi,
sicché corazzò la mia debolezza di Sua santissima ed amabilissima Volontà.
Uno di questi privilegi è una forte asma.
Se io dicessi: "Gesù, dispensami da questi privilegi
per una settimana, affinché io possa (assieme con i miei fratelli d'ombra)
pellegrinare alla Casa da Te abitata", sarebbe come se Giovanni, invece di
dire a Gesù: "Dove vuoi che prepariamo per mangiare la Pasqua?"
avesse detto: "Maestro, il tempo di cui sul Tabor hai parlato con Mosè
ed Elia è vicino, deh, concedimi licenza di recarmi a trascorrerlo su quella
santa montagna su cui Tu ce ne parlasti".
A me è più giovevole godermi il Gesù fattosi Pane per
essere (anche per me) quotidianamente sacrificato e da me adorato e divorato,
che invidiare la sorte dei Magi e dei pastori e del santo vecchio Simeone e
della profetessa Anna che se Lo strinsero tra le braccia, che desiderare di
recarmi nella sacra Casa di Loreto, dove visse il Verbo, dove fu annunciato da
Gabriele a Maria, e dove la sacra Famiglia visse in terra vita celestiale...
Vadano tutti quelli che non sanno star fermi... Vadano fino a stancarsi, fino a
cader sfiniti ai piedi della Madonna di Loreto, di Fatima o di Lourdes, o di
Siracusa, o della Misericordia di Savona; e ai piedi della Madonna dicano:
"Qui vivrò tutti i giorni della mia vita, amando il Signore
allegramente".
GESÙ NOSTRO GRANDE MAESTRO
...Cosa infinitamente meritoria è visitare la Regina dei
Cielo in una terrestre Sua sede, per dirle: "Noi crediamo all'infinito e
onnipotente Amore materno che Gesù benedetto pose in Te per noi".
O Maria, Tu sei la meraviglosa e provvidenziale invenzione
del divino Amore e della divina Misericordia per arrivare a tutti i cuori, a
tutti i cuori ancora suscettibili di Amore e di Misericordia, di Luce e di
Salvezza. O Maria, noi ci rifugiamo sotto il Tuo manto, come pulcini sotto le
piume della chioccia. È per mezzo Tuo che dobbiamo ritornare a Colui che è
l'Eterno, a Colui che è pure nostra origine e vuole pur essere nostro eterno
fine beato.
Perché visitare un misero mortale, tanto misero che ai suoi
fratelli nulla di buono ha da offrire di suo, nemmeno parole..., ma solo la
serena e fiduciosa e lieta e amorosa accettazione di ciò che a Dio più piace e
che all'uomo più ripugna...?
Oh, quanto è scoraggiante, per l'umano intelletto il
riconoscersi buono a nulla! Eppure, tra il massimo ed il minimo degli umani
è sì corto spazio che la gloria del superbo (a chi ben pensa) è motivo di
grande compassione, anziché d'invidia.
Oh, quanto rettamente bramava (`aquila d'Avita", la
serafica Teresa di Gesù, quando disse che avrebbe preferito essere un verme
per volontà d'Iddio piuttosto che un Angelo per volontà propria! Come questa
Santa sapeva bene usare il verbo preferire! E quanto invece, per la maggior
parte dei mortali, è facile usarlo a sproposito!
Questo povero cieco non sa far altro che pregare. E la sua
preghiera è molto eloquente: ma non all'orecchio delle creature, bensì al
Cuore del Creatore, che dall'eternità legge nell'intimo, e distingue le
disposizioni del fariseo superbo da quelle del pubblicano pentito ed umiliato.
Com'è consolante pregare per quelli che già in Dio credono e sperano! Ma
com'è pure cosa grande e confortata di sovrumana Speranza il pregare per tutti
quelli che ancora non credono, né sperano, né sanno ancora pensare
all'esistenza di Cosa infinitamente maggiore e più preziosa e più nobile
della materia (nota pure ai grilli ed alle farfalle, agli orsi ed alle
scimmie...), pregare per tutti, anche per quelli che si vergognano di farsi
vedere inginocchiati con le mani giunte sul petto davanti ad un Altare luminoso
di Verità vitale, luminoso di Luce, invisibile soltanto ad occhio accecato di
sciocca superbia, e di inconsapevole crassa ignoranza e superstizione!...
L'uomo-Dio nacque a Betlemme (casa del pane) per essere il
Pane di Betlemme. Per essere Gesù, il Pane della vita, Gesù, il vivo Pane
del Cielo, disceso in terra per tutti salvare, tutti invitando a divorarlo con
Fede e Amore; Gesù, Maestro divino dal Ciel disceso per invogliarne delle
cose del Cielo, per elevarne la mente ed il cuore al Padre celeste, ed a
pregarlo umilmente adorando la Sua immensa Maestà, per scongiurare la Sua
infinita clemenza, per invocare la Sua inesauribile Provvidenza che
volentieri dona anche a chi non prega, ma tanto brama d'esser pregata perché
ciò tanta Luce e tanto conforto procura ai Suoi figli...!
Gesù vero Maestro, Gesù Maestro divino, Gesù unico
Maestro, ne insegna a pregare il Padre suo, ne invita ed invoglia a pregare non
con ostentazione (come i farisei), non con molte parole (come i gentili), non in
fretta (come quelli che non pensano a ciò che dicono), non sbadigliando (come
fanno gli annoiati), non sonnecchiando (come fanno gli svogliati): perché
questa sarebbe davvero un'azione indegna d'un essere ragionevole, quasi come
lo è il non pregare Iddio. Ma pregare come il figlio che parla con l'amatissimo
Padre suo, come amico al migliore degli amici, l'unico da cui possa sperare
soccorso, come infermo al suo pietosissimo medico, il solo che possa guarire
tutte le sue piaghe...
Impariamo da Gesù a pregare! Come Gesù, ritiriamoci dalla
turba scioperata, da Gesù lasciamoci condurre nel silenzio e nel nascondimento.
Gesù, allora, parlerà al nostro cuore, si rivelerà alla nostra mente,
diverrà la Gioia dell'anima nostra. Allora, avremo trovato quello che più
giova per la nostra Pace: Gesù! Gesù crocifisso a Gerusalemme e poi
eternamente glorioso!
Gesù, in questo esilio, si presenta in atto di offrire il
Suo giogo: pare che voglia spaventare quelli che vogliono seguirlo,
nascondendosi nella Sua Croce, nel Suo martirio. Ma chi ha Fede in Gesù, chi
ama Gesù con tutta sincerità, nel giogo da Gesù offerto scopre uno scrigno
niente affatto vistoso, ma che contiene la vera Libertà, e nella Croce da
Gesù suggerita la vera Felicità. Chi veramente conosce Gesù non può fare a
meno di amarlo: e chi ama sinceramente Gesù brama dargliene continuamente
prova.
Gesù è la grande manifestazione della Verità: conoscere
Gesù è conoscere la Verità, è essere nella Verità, nella Luce vera. La
Verita discese dal Cielo per esser crocifissa in terra ed essere rimedio alla
cecità degli stessi Suoi crocifissori...
VIENI, O MARIA!
Vieni, o Maria, vieni in questo nulla che ti brama! Dove sei
Tu è luce, dove Tu sei è virtù, o Maria. Prega il tuo Dio per questo niente,
che t'ama e che ti brama, che null'altro chiede che d'essere tutto
trasfigurato, tramutato tutto in Te.
Discendi in questa polvere ad ordinarvi il tuo regno;
distruggimi, sento che io sono deforme.
Fammi rinascere, e che, questa volta seconda, io nasca da
Te, o Vergine Immacolata, Madre dell'Uomo Dio e degli uomini puri. Fammi frutto
benedetto del tuo vergine seno. Generami tutto incorrotto e incorruttibile,
come ogni nato da Te.
Vieni in me. Accoglimi in Te.
Fa che io vegga con gli occhi tuoi. Fa che io tutto oda con
le tue caste orecchie. Concedimi che, d'ora in poi, solamente con l'umile tua
bocca io possa rivolgermi a Dio e agli uomini. Soltanto con le tue pure mani fa
che io sempre operi. Che le tue piante ovunque mi portino. Così non guarderò
mai oggetto, né ascolterò né pronuncierò parola né correrò ad operare
azione indegna di Te, indegna di Dio.
Madre, eccoti il mio piccolo, freddo cuore. Eccoti l'anima
mia imperfetta e incostante. Eccoti la mia mente, così ristretta e così poco
illuminata. Eccoti tutte le mie membra estremamente impotenti fiacche e vili.
Ohimè qual miserabile dono è mai il maggior dono ch'io possa presentare! O
Maria, dammi la tua persona, la mente, l'anima tua! O Maria, donami il tuo
cuore, perché io possa amarti, perché io possa amare Iddio, Padre e Figlio e
Sposo Tuo, perché io possa amarlo quanto io devo amare i miei fratelli e
figli tuoi con tutto quell'amore, sì fecondo di bene, con cui li amasti Tu.
O Maria, insegnami ad essere umile, insegnami quel che sono
io e quello che è Dio.
Partorisci, dentro di me, il Sole d'ogni giustizia e di ogni
verità e fa che Esso in me sempre risplenda, e rendi puro questo mio frale,
trasparente come purissimo cristallo, perché la verità rifulga davanti agli
occhi d'ogni mortale, in tal maniera che tutti finiscano con l'amarla e seguirla
fedelmente. L'umiltà è frutto della verità. Fin che la verità abiterà
dentro di me, l'umiltà sincera e profonda precederà e accompagnerà e
seguirà ciascuno dei miei pensieri, ogni mia parola ed opera.
O Maria, mia celeste Madre, deh fammi ricco col divino
tesoro della umiltà. Dove è questo bene v'è pure la sovrabbondanza di ogni
altro vero bene. Disadorno di tale virtù, come potrò ardire d'avvicinarmi a
Te, o delle donne la più umile e la più esaltata? Deh ottienimi, o Maria,
quella luce che ti svelò quel che Tu eri e quel che era Dio, onde, con mio
grande merito, null'altro mai abbia sotto lo sguardo mio, tranne l'estrema mia
fiacchezza e totale nullità e gli insondabili tesori della divina bontà e
longanimità e benignità e compassione.
Pace e gioia godrà inalterabilmente il mio cuore, quando
sarà ben fondato sull'umiltà. E nel centro di questa pace e di questa gioia,
come re dal proprio trono, regnerà Gesù. Su tanta intima letizia e
tranquillità passeranno ancora ondate di pia tristezza, di salutare timore e,
poscia, di maggiore gaudio santo; ma, passate che saranno, anche esteriormente
vedremo ristabilire la calma, la serenità, il giubilo, e noi ci sentiremo
fatti più capaci di goderne.
Oh come è dolce cosa, o Maria, conoscerti ed amarti! Chi ti
conosce, o Maria, non può fare a meno d'amarti, e chi davvero t'ama fa sua
delizia il pensare a Te, il parlare con Te, il ragionare di Te, il lavorare, il
soffrire, il vivere per Te, o Maria.
Quanto meglio ti conoscerò, tanto più il mio cuore
arderà d'amore per Te, perché Tu sei sovranamente adorna d'ogni vera
bellezza. La tua venustà è tutta intima; tuttavia mirabilmente traluce da
tutto il tuo sembiante, o Vergine divinamente amabile ed amante.
Non ti chieggo il dono delle visioni, bensì ti chieggo di
implorarmi da Gesù benedetto un accrescimento di fede. A Gesù, tuo Figlio,
dimanda per me non quel granello di fede che mi renderebbe soltanto capace, con
un semplice detto, a trasportare i monti da un luogo all'altro, bensì quel
tanto di fede che basti a mutare ogni mio atto, anche il più insignificante, in
opera meravigliosa dinanzi a Dio, di gran lunga maggiore di quelle giudicate
tali dagli uomini mondani.
Maria, voglio rallegrarti, facendo sì che Tu possa veder
ognora il mio cuore ardente. Amore per Te! Trascorrerò il restante di mia
vita meditando sulle tue eccelse virtù e adoperandomi, a tutto potere, affine
di ricopiarle fedelmente in me.
O Maria, Vergine Immacolata, siimi propizia. Fammi sempre
sentire posato sopra di me il materno tuo sguardo. Oh qual dolce cosa è mai
sentirsi amati da Te! Tu bella, Tu pura, Tu santa! Tu ardente d'amore per ogni
giusto, ancora pellegrino su questa terra, Tu altresì tutta compassionevole
verso i poveri peccatori!
Deh chiamami a partecipare il più possibile alla bellezza,
alla purezza, alla santità della tua dilezione e della tua misericordia.
Vivere di questa vita è pregustare le delizie del Paradiso
e fare che queste delizie siano da tutti gustate...
AVE MARIA
Ave, Maria! sempre! Ave, Maria! e avanti! Ave, Maria! e
sempre più in alto! Ave, Maria! con sempre più grazia! Ave, Maria! con sempre
più pace! Ave, Maria! con sempre più luce di vivida fede! Ave, Maria! con
sempre più giocondità di speranza! Ave, Maria! con sempre maggior ardore di
carità!
Quando ci vediamo nelle tenebre, apriamo i veri occhi, gli
occhi dello spirito alla vera luce, dicendo: Ave, Maria!
Quando ci sentiamo sconfortati e attendiamo verace ed
abbondante conforto, andiamo dicendo: Ave, Maria!
Quando ci vediamo debitori verso Iddio e verso gli uomini,
per pagare ogni nostro debito diciamo e ripetiamo instancabilmente: Ave, Maria!
Quando il diavolo o un mortale o la nostra superbia ci
glorierà per le nostre buone opere, mai ascoltiamo queste voci lusinghiere ma
umiliamoci e diamo gloria a Dio dicendo, senza mai stancarci, Ave, Maria!
Ave, Maria! sino alla morte!
Ave, Maria! per non precipitare all'inferno, quando ne sembra
d'essere sull'orlo!
Ave, Maria! per spiccare il volo verso il Paradiso! Ave,
Maria! sino al Cuore di Maria!
Ave, Maria! sino al Cuore di Gesù!
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