L'atteggiamento di fronte alla realtà Redazione María Zambrano nasce a Vélez- Màlaga il 22 aprile 1904. Nel 1927 frequenta all’università di Madrid i corsi di Ortega y Gasset, di Manuel Garcia Morente e di Javier Zubiri. Inizia nel 1928 a esercitare attivamente la politica, scrivendo su periodici quali El liberal e La libertad. Pubblica il suo primo libro nel 1930 e l’anno successivo diviene assistente di Storia della Filosofia alla Universidad Central. Nel 1936, con il marito, si trasferisce in Cile. Nel 1937 rientra in Spagna e si stabilisce a Valencia, dove fonda la rivista Hora de España. La rivista viene chiusa nel 1938 e nel 1939 María Zambrano inizia un esilio che dura 45 anni, tra l’Avana, Puerto Rico, il Messico e Parigi. In questo periodo pubblica alcuni tra i suoi libri più importanti: Il pensiero vivo di Seneca, L’agonia dell’Europa,Verso un sapere dell’anima. Tra il 1953 e il 1964 si stabilisce a Roma, entrando in contatto con Cristina Campo e Elémire Zolla, intellettuali di spicco italiani. Pubblica in questi anni testi fondamentali, quali L’uomo e il Divino, Persona e democrazia, La Spagna di Galdos. Si trasferisce a La Pièce, presso il lago di Ginevra e pubblica altri testi: Spagna sogno e verità, Il sogno creatore, La tomba di Antigone. A partire dal 1966 J. L. Aranguren impone all’attenzione spagnola l’importanza dell’opera della Zambrano, tanto che cinque anni dopo viene pubblicato il primo volume delle sue opere e riceve riconoscimenti di alto livello. Nel 1984 ritorna in Spagna, a Madrid. Riceve nel 1988 il premio Cervantes. Muore a Madrid il 6 febbraio 1991. Tra le sue opere pubblicate in Italia ricordiamo: Chiari del bosco (1991), I Beati (1992), La tomba di Antigone (1995), Verso un sapere dell’anima (1996), La confessione come genere letterario (1997), Filosofia e poesia (1998), L’agonia dell’Europa (1999), Persona e democrazia (2000), Dell’Aurora (2000), L’uomo e il divino (2001), Le parole del ritorno (2003), Spagna. Pensiero, poesia e una città (2004),Dante specchio umano (2007).
In quest’epoca moderna, che si può definire l’epoca di crisi della realtà, non si è tenuto conto dell’atteggiamento di fronte a essa. E l’atteggiamento di fronte alla realtà è una cosa diversa rispetto alle condizioni che, a partire dalla semplice percezione della realtà, la conoscenza richiede. Vogliamo così enunciare, in un modo radicale - almeno quanto le condizioni per percepire la realtà - che esiste nell’essere umano una disposizione verso la realtà, metafisica e pratica a un tempo, unitaria; una necessità che è una vocazione, ossia una necessità totale; vocazione in virtù della quale unicamente si possono realizzare le potenzialità dell’essere umano. E così, fra le tante definizioni che sono state date dell’uomo, si potrebbe dare anche questa: l’uomo è la creatura che deve realizzare il suo essere attraverso la realtà; la creatura predestinata alla realtà. E dunque, in questo senso, la vocazione implica le condizioni sensibili, intellettuali, di qualsiasi ordine, che la percezione e perfino il semplice “contatto” con la realtà - la sensazione che ci troviamo di fronte a essa - richiede. Se le cose stanno così, la “teoria della conoscenza” non significa offrire le prime e primarie considerazioni rispetto a ciò che, nell’epoca moderna, si è definito come «il problema della realtà»; la Teoria della conoscenza deve venire dopo la previa conoscenza della situazione, dell’atteggiamento dell’uomo di fronte alla realtà, di ciò che all’uomo è congeniale nel suo rapporto con essa, del fatto che essa sia, in qualsiasi momento storico, in qualsiasi situazione personale, ciò che conta di più, e che conta più inesorabilmente, ossia che nella sua specifica situazione di fronte alla realtà - di fronte, tra, con... - l’uomo scopre la sua condizione propriamente umana e personale e, modulandola, la situazione concreta in cui l’uomo di una determinata epoca, e perfino un determinato individuo, scopre se stesso, in modo inevitabile e rivelatore. Se fosse possibile esprimere, in termini matematici, situazione, atteggiamento e attitudine dell’uomo di fronte alla realtà, avremmo la cifra del grado di umanizzazione o di onestà raggiunto da un’epoca storica, da un uomo nel suo sviluppo individuale. Siamo lontani da una conoscenza di questo genere, ma ciò non toglie il fatto che la cifra di una persona sia il suo atteggiamento e la sua attitudine verso la realtà, il grado di realizzazione della vocazione: una vocazione che non si limiti a essere tale, ma che implichi anche la realizzazione. Quello che definiamo realtà ci si manifesta sempre come in un lampo, ossia in modo intermittente. E la consideriamo come qualcosa «che era già lì prima che io lo percepissi», e mai in un altro modo. Il che significa che abbiamo l’impressione della realtà in istanti privilegiati, e che, in tutti gli altri, la realtà si dà per scontata; non si dubita della sua esistenza, del fatto che si trova lì, anche prima e dopo l’istante in cui la percepiamo come realtà. La realtà ci risveglia e così in ogni quotidiano risveglio dalla profondità del sonno, in ogni ritorno dall’assenza in cui il sonno ci avvolge, ci risvegliamo proprio quando sentiamo che la realtà e il tempo sono allo stesso livello. Il tempo come libertà; in modo da lasciarci liberi di muoverci nella realtà, facendolo passare; altrimenti, senza il flusso temporale, l’intera realtà, immobilizzata davanti ai nostri occhi, ci riporterebbe allo stato di sonno, con o senza sogni. Il tempo rende possibile che la realtà nella sua interezza si frammenti, e che, di conseguenza, noi possiamo occuparcene, che tra essa e la coscienza umana esista una comunicazione, un contatto e una distanza; il tempo ci libera dalla realtà rendendo possibile che con essa si abbia un rapporto, e, per l’uomo, avere un rapporto significa conoscere e agire. Realtà-tempo-libertà è l’equazione del risveglio, la sua cifra. L’equazione che mostra l’equivalenza tra l’essere umano e la realtà che lo circonda in virtù del tempo che fa da mediatore, del tempo nel suo aspetto successivo: ossia il tempo della coscienza - del discernimento. Inoltre, la realtà si lascia docilmente colonizzare dall’abitudine, dalle abitudini che l’uomo acquisisce nella vita quotidiana. E quasi scompare. Nel reticolo delle abitudini, la realtà non si realizza, si nasconde, svanisce e allo stesso tempo si consolida. La coscienza non rimane più sveglia e si occupa soltanto di quello che ha davanti, di quello che capta sul momento. Il tempo si contrae, si divide e il suo fluire diventa impercettibile, o tende a diventare tale. La libertà si addormenta. Infatti la realtà e l’essere che le sta davanti - l’uomo - sono legati, e si potrebbe dire che hanno la stessa sorte: se la realtà sfuggente si nasconde, la coscienza si spegne, perde intensità, e l’essere stesso, l’essere a cui questa coscienza appartiene, come una lampada, si nasconde altrettanto, o ancor più, della realtà. E così la vita quotidiana, regolata dalla consuetudine, dalla tranquillizzante abitudine che dà sicurezza, eclissa la realtà e l’essere che è in rapporto con essa. La suddetta equazione continua a essere valida, ma tutti i suoi elementi sono diminuiti, e lo stato di veglia, a poco a poco, si avvicina al sonno. E nello stato di sonno l’immaginazione lavora: all’inizio lentamente. Poi le percezioni reali vengono sostituite con altre, che sono la loro ombra; vi si inseriscono sentimenti strani che danno origine a figurazioni fantastiche, benché spesso contengano elementi della realtà, e talvolta la realtà completa. Quando finisce lo stato di veglia e la coscienza scivola verso la realtà, si insinua lo stato di sonno; è allora che si commettono i grandi sbagli, prodotti dalla distrazione: quella distrazione che è soprattutto disattenzione, abbandono, mancanza di contatto con la realtà. In questi casi l’errore si installa, a volte senza essere notato, nella coscienza, e, ancor più, diventa un presupposto da cui poi si dipartono giudizi, convinzioni, ottenebramenti che prendono il posto della realtà e dei giudizi che su di essa si fondano, delle convinzioni acquisite nel rapporto con essa. La coscienza ha a poco a poco abdicato alla sua funzione di guida, di direttrice. E come quando non si ha una guida, il cammino si chiude, la mente trova una pseudo libertà come sostitutivo della vera libertà; la libertà di vagare per suo conto fuori delle mura della cittadella rappresentata dal reale. E in questa situazione il tempo fatalmente si perde, se ne va inutilmente; ed è un fatto grave, perché da una parte il tempo non è servito a nulla, ma dall’altra niente di umano si può perdere in questo modo senza avere conseguenze se non negative, che si collocano nel vuoto di ciò che non è servito, di ciò che non è stato usato: analogamente a quel che succede nel vuoto di ciò di cui non ci si è occupati. Infatti, perfino un oggetto, quando si perde, lascia un vuoto che può essere colmato da un altro che non lo equivale, e lascia un dispiacere nell’animo del suo proprietario, che ha permesso che si perdesse. Il tempo passato inutilmente non è una cosa che si perde, ossia le cose che si sono perse con esso, quello che non si è percepito, che non si è pensato o non si è fatto, il che è già gravissimo, bensì, prima e dopo di esso, è il declinare della stessa condizione trascendente dell’essere umano, vale a dire la condizione dell’essere umano nella sua essenza e nella sua funzione integrativa. Trascendere significa passare, andare attraverso i propri limiti, senza per questo abbandonarli; partire e, allo stesso tempo, rimanere; un movimento che appartiene esclusivamente all’essere, che può possedere soltanto qualcosa che esiste. E tutto ciò che esiste, necessariamente possiede. Il trascendere, quindi, è l’azione più attiva e più costante di tutte: azione che si configura in azioni determinate, non sempre né necessariamente, ma che è il nucleo attivo, agente, di ogni vera azione. Un’azione privata del trascendere è semplicemente una caricatura o, cosa ancora più grave, una controfigura dell’azione. Questo inesorabile trascendere del soggetto segna, quasi come con un marchio, tutte le sue azioni e attività, a partire dalle più necessarie, da quelle che stabiliscono la continuità del sentire e dell’intendere, come le forme della sensibilità che, secondo Kant, stabiliscono “a priori” il tempo e lo spazio e, senza dubbio, i sensi stessi, diretti e guidati da esse; i sensi, che nell’uomo certamente sono già ragione. Tutto l’organismo umano - nell’uomo come organismo - è predisposto alla ragione, o configurato per essa. Soltanto lo squilibrio della persona fa sì che non sia così, inalterabilmente. E i sensi e le forme della sensibilità che stabiliscono lo spazio e il tempo sono vie di accesso alla realtà. Vie di accesso, ma non passive, come un cammino, che è qui e il cui invito a essere percorso può o non può essere accettato; un cammino che, allo stesso tempo, rappresenta la massima necessità: percorrerlo interamente designerà in ogni momento la situazione dell’uomo e la ricapitolazione finale; quella in cui in un modo o nell’altro si condensa qualsiasi vita. È tale cammino che decide che la vita si realizzi pienamente o a poco a poco svanisca man mano che trascorre, sparendo nell’irrealtà. Infatti non basta che qualcosa sembri reale, perché lo sia veramente. È una delle difficoltà -non certo l’unica - che si presentano davanti all’uomo in una questione così cruciale. E se il cammino della realtà deve essere inesorabilmente percorso dall’uomo, allora come è possibile che la realtà sia diventata il problema capitale del pensiero moderno? Come è possibile che esista un atteggiamento, e perfino un’attitudine verso la realtà, come abbiamo già detto? L’esistenza e la presenza della realtà e l’avvicinarsi a essa dovrebbero essere una costante della vita umana, qualunque sia la realtà, vale a dire anche se la realtà cambia. Tuttavia, se fosse così, se la realtà offrisse sempre la sua presenza all’uomo, ne conseguirebbe che l’atteggiamento di fronte alla realtà dovrebbe a sua volta essere invariabile, l’uomo sarebbe esattamente uguale a un animale, anche avendo una storia. Per il fatto di avere una storia, sarebbe un animale della storia, come gli animali lo sono della natura - sfiorando l’argomento, non sappiamo molto bene in che cosa consista questa natura in cui l’animale si trova come a casa, quali siano le sue profondità, i suoi limiti, il suo sfondo animico. L’uomo non sarebbe propriamente libero, come non lo è l’animale, e, come quest’ultimo, sarebbe perfettamente inserito, più che adattato, in un determinato mondo. Ma non essendolo in virtù della sua libertà, l’uomo può ritrarsi di fronte alla realtà, può eluderla, può confonderla e confondersi, perché può semplicemente modificarla, mentre l’animale non la modifica mai. L’animale non modifica mai la realtà, benché raccolga dai campi i rametti per fare il suo nido su un ramo, o scavi la sua tana in montagna o costruisca l’alveare, benché trasformi con la sua sola presenza la configurazione e la composizione chimica del suo ambiente: la vita infatti opera sempre una trasformazione. Ma tutto questo segue il suo corso, così come lo seguono il sole, la luna e le stelle; in tal senso, il sole sarebbe il primo animale nella vita della terra. Nelle culture anteriori al cristianesimo è sempre stato guardato come un dio; ma né il sole, né la luna, né le piante, né gli animali inventano nuovi modi di rapportarsi con la realtà che li circonda; e nemmeno cambiano la “scelta” che, nell’immensità del reale, operano con la loro azione, qualunque essa sia. Solamente l’uomo, nei limiti dello spazio- tempo, certamente cambia il suo modo di rapportarsi con la realtà, ne inventa e ne scopre altri, nuovi; solo lui apporta in essa vere modifiche e perfino trasformazioni. L’homo faber è già un tentativo di homo sapiens; ed entrambi lo sono dell’uomo trascendente, dell’uomo in quanto trascendente e libero. Fino a ora, tutto ciò che abbiamo segnalato circa la condizione trascendente dell’essere umano - una duplice trascendenza, per ciò che possiede di vitale e per ciò che deve essere - è il suo aspetto positivo. Ma vediamo che, in quanto libertà, comporta qualcosa di negativo: quel vuoto che proviene dalla non adeguatezza a un mezzo determinato, come succede all’animale e alla pianta, ossia la continua necessità di creare e ricreare un suo equilibrio, la tensione costante per sostenersi in questo mondo che gli si presenta come ambiente vitale, vuoto e pieno allo stesso tempo, e pertanto mutevole. L’uomo subisce dunque una duplice attrazione, quella della realtà visibile e dichiarata e quella di questa assenza o vuoto che la stessa realtà gli presenta. Necessariamente forzato a occuparsi di quello che lo circonda, di quel che è dato, di quello che trova già per il solo fatto di essere lì, e ugualmente forzato a fare, a sostenersi inventando, supplendo, compensando, e, in estremo, creando; creando dopo aver pensato. Infatti la realtà disuguale, che gli si presenta, deve essere innanzitutto smascherata, talvolta decifrata, portata alla chiarezza del pensiero, per intuizione istantanea o con il processo discorsivo della ragione. E anche questa deficienza - che è alterazione, modifica e maschera della realtà - che si presenta all’uomo, richiede che le sia rivolto un atteggiamento speciale. Un atteggiamento che è qualcosa di più di un semplice starle davanti, poiché se la realtà non sta, l’uomo non sta, né davanti a essa né in se stesso. Il verbo stare, così caratteristico della lingua spagnola, non esprime un modo spontaneo del vivere umano, primario, come talvolta hanno creduto certi pensatori. A stare si arriva attraverso una specie di totale conquista, oppure perché si acquieta la perenne inquietudine dell’anima, o perché la coscienza ha un trasalimento o, come abbiamo detto prima, per il decadere di una consuetudine, che si dimostra pericolosa. Raramente non ci si risveglia di soprassalto dallo stare, e perfino con un po’ di rimorso per aver prolungato qualcosa che normalmente si concede come premio; potremmo dire che lo stare è un residuo del paradiso. E se, dal punto di vista della finalità, il trascendere umano è un avanzare verso qualcosa per poter andare oltre, dopo aver assimilato, guardato fin dall’origine l’essere, tale trascendere assomiglia a una ferita che non si può rimarginare. Infatti è un’apertura alla realtà e poi, come vedremo, alla verità, dato che senza la verità la realtà non sta in piedi, e nemmeno riesce a essere reale. Un’apertura e un recinto dove la realtà viene accolta e alberga; dove viene trattenuta e anche assimilata. E perfino in questa sua nascita è come una sorgente: attenzione viva, attenzione che rinasce a ogni momento. E qualcosa che deve continuamente rinascere da se stesso richiama immediatamente l’immagine di un cuore, evocato anche da quello che abbiamo definito un recinto e che non può essere un luogo qualsiasi, ma un luogo privilegiato. E il luogo più privilegiato di tutti è il centro, il centro vivente, di qualsiasi cosa: nel caso dell’uomo è il cuore. L’atteggiamento che corrisponde al rapporto e alla comprensione della realtà è più radicale e profondo delle operazioni intellettuali necessarie per captarla, che sono soltanto lo strumento, il metodo, il modo, inevitabilmente condizionati dall’atteggiamento nei confronti della realtà. E l’atteggiamento di fronte alla realtà condiziona la sua conoscenza e addirittura la sua presenza effettiva, perché la libertà umana si manifesta, in questo come in tutto - perfino in questo - con la possibilità di dire di no, o di sì, di fronte a essa. Il che significa tra l’altro che la realtà bisogna scoprirla e che, prima di scoprirla, bisogna cercarla. La realtà che in un certo senso si presenta da sola, travolgente, inesorabile, data la condizione umana, richiede di essere cercata. La vita umana è un viaggio verso la realtà, come conoscenza. E ciò esige una morale, una morale che sostenga l’animo e orienti la verità verso di essa, che temperi il cuore e la sensibilità, come succede in qualsiasi vocazione. La vocazione, qualunque essa sia, procede da una fede e, per realizzarsi, richiede la formulazione di un voto; gli impegni si possono prendere in un momento di entusiasmo, ma devono essere rinnovati, sostenuti, ogni volta che il loro compimento si svigorisce. Un’attività tipicamente morale, nella quale l’educazione occupa un posto decisivo. (Traduzione a cura di Enrica Merlo. Ha collaborato Flora Crescini)
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