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mercoledì 3 novembre 2021

Padre Damiano

 Per sapere cos’è il cattolicesimo leggete come l’ateo Stevenson difese padre Damiano, il “santo lebbroso”


«In molti, non solo credenti, pensano che i loro eroi debbano essere infallibili». Una formidabile testimonianza scritta dall’agnostico Stevenson. «Padre Damiano era mio padre»

Emanuele Boffi

 

 2 Novembre 2013


A chi pensa che un santo sia una brava persona, questa storia risulterà indigesta. A chi cerca la salvezza nella linearità dei comportamenti, questa vicenda apparirà scandalosa. A chi agogna la risposta immediata per dirimere le infinite contraddizioni del quotidiano, questo racconto sarà d’inciampo, e velocemente da dimenticare. Ma a chi, solo per una volta, sarà capitato l’accidente di riflettere che questa nostra esistenza è impasto di stelle e letame, cui nemmeno un Dio disdegnò di partecipare, la storia di padre Damiano e Robert Louis Stevenson parrà conferma e conforto che nulla è impossibile sul terzo pianeta del sistema solare.

Quando padre Damiano giunse sull’isola di Molokai il 10 maggio 1873 vi trovò la Geenna. Nessuna legge, nessun Dio, nessun padrone. Solo l’inferno violento di anime sfigurate dalla lebbra, corpi scartavetrati da un male orribile e ripugnante, selvagge lotte per ottenere l’immediato, fosse esso un pasto o un preteso amplesso. Padre Damiano giunse in questo scantinato del mondo seguendo la sua vocazione, come un folle di Dio che «sceglie di chiudere con le proprie mani le porte del suo sepolcro».

Sull’isola lazzaretto trascorse notti posando il capo su guanciali di pietra e aspirando brezze pestilenziali dalle narici, passò giorni a edificare chiese e villaggi, lottando – anche con la forza dei pugni e la testardaggine dei caproni – contro uomini disperati a rimanere diavoli. Sedici anni. In sedici anni padre Damiano trasformò l’isola prigione di Molokai in un posto degno di essere chiamato “casa”. Lebbrosi che parevano gorgoni e chimere e la cui scorza immonda faceva ribrezzo al mondo diventarono il trionfo della testardaggine di Dio, che non lascia intentata nemmeno l’impresa più oscena. Qui, nel maggio 1889, un mese dopo la morte di Damiano, inizia la nostra storia.





Visto «cose che non si possono dire»
Il reverendo H. B. Gage, pastore presbiteriano di Riverside (California), aveva scritto al collega Charles McEwen Hyde, uomo colto e perbene, missionario americano a Honolulu, per chiedergli chiarimenti sulla figura di padre Damiano, il sacerdote cattolico d’origine belga scomparso il 15 aprile 1889. Gage chiedeva a Hyde qualche notizia su quell’uomo la cui fama aveva travalicato i confini delle Hawaii per trovare risonanza in tutto il mondo civilizzato d’allora. Persino il re delle isole, dopo anni in cui aveva lasciato marcire a Molokai le persone infette, colpito dai notevoli risultati del sacerdote, gli aveva conferito una medaglia.

Grazie alla fama di santità, Damiano, dopo anni di stenti, aveva ricevuto aiuti da ogni dove e si diceva che quel lazzaretto fosse diventato un piccolo tesoro di luogo, con una chiesa, degli edifici, un orfanotrofio, un cimitero chiamato «il giardino dei morti». La risposta di Hyde fu biliosa: in realtà padre Damiano era un uomo «volgare, sporco, cocciuto e bigotto»; «la lebbra di cui morì fu la conseguenza dei suoi vizi e della sua noncuranza»; e, accusa falsa ma infamante, «non fu un uomo puro nelle sue relazioni con le donne».

Nel dicembre 1889, Gage fece pubblicare la lettera sui quotidiani per mettere in cattiva luce la “propaganda cattolica”. Lo scandalo fu enorme e la costruzione sull’isola del monumento in onore di padre Damiano fu bloccata. Fu allora che Stevenson, il grande scrittore autore de L’isola del tesoro e Lo strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde, l’agnostico ma figlio di un integerrimo presbiteriano come Hyde, prese carta e penna per difendere l’onore di padre Damiano, sacerdote di un Chiesa a lui del tutto estranea, se non ostile.
Stevenson, infatti, con la famiglia e per motivi di salute (aveva la tbc), aveva girovagato mesi per le isole della Polinesia. Ed era stato, un mese dopo la morte del prete, anche a Molokai. Aveva visto «cose che non si possono dire, e ascoltato storie che non possono essere ripetute: non ho mai ammirato così tanto la mia povera razza (per quanto strano possa sembrare) e amato la vita più che in quel lebbrosario».


Stevenson aveva visto e aveva scritto una lettera In difesa di padre Damiano che era un pamphlet iracondo, poderoso, accalorato. Rischiava molto a pubblicarlo. Consultando degli avvocati aveva scoperto che, se denunciato, avrebbe potuto perdere molti degli averi che s’era guadagnato tramite il suo talento. Sottoposto il testo a una casa editrice, se lo vide rifiutato. Perseverò e lo pubblicò a proprie spese: 25 copie. Poi il pamphlet fu di nuovo ristampato altre due volte, ma Stevenson rifiutò i diritti d’autore, che devolse a favore di un fondo per lebbrosi.

Alla sua intemerata, che ebbe eco mondiale, il reverendo Hyde rispose con un’alzata di spalle, definendo Stevenson come uno «strambo bohemien» della cui opinione «nessuno si interessa». Tuttavia, punto sul vivo, pubblicò anch’egli un dimenticabile libricino su padre Damiano e, per i dieci anni che rimase fra noi (morì nel 1899), cercò inutilmente altre prove sui lascivi costumi del missionario.

La lettera di Stevenson – l’ateo Stevenson, il figlio dei protestanti Stevenson, l’uomo di mondo Stevenson – è una formidabile testimonianza di cosa sia il cattolicesimo. Una setta – è lui stesso a scriverlo – di cui diffidava in sommo grado. Eppure solo vedendo e toccando quel che padre Damiano era riuscito a fare, egli colse la sostanza misteriosa e umana del cattolicesimo, che – si potrebbe dire – è la lebbra dell’anima. Come il male fisico contagia il corpo e lo imputridisce fino a scarnificarlo, così, all’inverso, la fede in un Dio umano contagia le nostre fibre fino a portarle a resurrezione. Ma ciò che è particolare nelle annotazioni di Stevenson in difesa di padre Damiano è che egli non lo presenta più santo di quel che fosse. Non ne edulcora la figura, non ne sconta i difetti, non s’inventa artifici per illuminarne le ombre. Anzi, al contrario, calca la mano, quasi fosse il suo spietato assassinio.



Rispondendo a Hyde, Stevenson lo informa di non aver voluto parlare coi cattolici di Molokai – apolegeti troppo inclini a incoronare con l’aureola il missionario –, ma coi nemici di padre Damiano. E di aver così scoperto che si trattava di un uomo «di origini contadine», «sporco, bigotto, infedele, scellerato, infido». Non solo: era così stupido che pensava di saperne più degli altri e invece si basava su «errati convincimenti» scientifici.
Aveva «abitudini trasandate» e un senso precario dell’igiene. Eppure sempre lui, sempre quest’uomo guasto, misero, impresentabile, era lo stesso che, anche a parere dei suoi avversari, aveva reso quelle «maschere di carne umana», quelle «spaventose creature» degli esseri felici. Sempre costui era «pronto a offrire la sua ultima camicia (non senza brontolare) così come a sacrificare la sua vita».

Come meritarsi la salvezza
«In molti, non solo cattolici, – scrive Stevenson – credono che i loro eroi e santi debbano essere infallibili». Qui è il nocciolo della questione, dice lo scrittore al pastore. «È questo a mio avviso il punto della nostra discordia: che voi siete tra coloro che si soffermano sui difetti e sui fallimenti; che provate un certo gusto a svelarli e a renderli pubblici; e che, una volta scoperti, vi dimenticate in fretta delle virtù predominanti e dei veri successi grazie ai quali siete venuto a conoscenza di tutto. È uno stato d’animo pericoloso». Pericoloso. Come pensare di poter meritare la salvezza senza immischiarsi con l’umano, anche nelle sue condizioni più abiette e sconce. Come accontentarsi di un Logos che si comunichi ai nostri pensieri e al nostro cuore, senza tener conto che, dal principio, s’annidò in sanguinolente viscere di donna.

E invece quel che fece padre Damiano fu essere santo, cioè secondo l’ammonimento evangelico, «perfetto come perfetto è il padre che è nei Cieli». Perché santità è fecondità, santità è paternità. «L’uomo che cercò di fare ciò che fece Damiano – conclude Stevenson – è mio padre, è il padre dell’uomo del bar di Apia, è il padre di tutti coloro che amano il bene; ed è stato anche vostro padre, se Dio vi avesse fatto la grazia di capirlo».

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