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sabato 4 febbraio 2012

benedettoXVI, 2

Dio si è mostrato in Gesù Cristo
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Per noi Dio non è un’ipotesi distante,
non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il “big bang”. Dio si è mostrato in Gesù Cristo.
Nel volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio.
Nelle sue parole sentiamo Dio stesso parlare con noi.

Benedetto XVI ai seminaristi
18 ottobre 2010, Festa di San Luca, Evangelista.

Postato da: giacabi a 22:22 | link | commenti
benedettoxvi

mercoledì, 10 novembre 2010
La bellezza
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http://www.rinascimentosacro.org/wp-content/uploads/2010/11/Sagrada-Familia-di-Barcellona-veduta-dinterno.jpg
 
la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo”.
“Gaudí, con la sua opera, ci mostra che Dio è la vera misura dell'uomo, che il segreto della vera originalità consiste, come egli diceva, nel tornare all'origine che è Dio. Lui stesso, aprendo in questo modo il suo spirito a Dio, è stato capace di creare in questa città uno spazio di bellezza, di fede e di speranza, che conduce l'uomo all'incontro con colui che è la verità e la bellezza stessa”.
BENEDETTO XVI

Postato da: giacabi a 19:12 | link | commenti
bellezza, benedettoxvi

lunedì, 04 ottobre 2010
LA VERA ATTRATIVA
«Una Chiesa che cerca soprattutto di essere attrattiva sarebbe già su una strada sbagliata. Perché la Chiesa non lavora per sé, non lavora per aumentare i propri numeri e così il proprio potere. La Chiesa è al servizio di un Altro, serve non per sé, per essere un corpo forte, ma serve per rendere accessibile l’annuncio di Gesù Cristo, le grandi verità e le grandi forze di amore, di riconciliazione apparse in questa figura e che sempre vengono dalla presenza di Gesù Cristo. In questo senso la Chiesa non cerca la propria attrattività, ma deve essere trasparente per Gesù Cristo».
BENEDETTO XVI

Postato da: giacabi a 17:16 | link | commenti
chiesa, benedettoxvi

domenica, 03 ottobre 2010
Abbiamo bisogno del perdono
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La verità è che tutti noi abbiamo bisogno di Lui, quale Scultore divino che rimuove gli strati di polvere e d'immondizia che si sono posati sull'immagine di Dio iscritta in noi. Abbiamo bisogno del perdono, che costituisce il fulcro di ogni vera riforma: rinnovando la persona nel suo intimo, diviene anche il centro del rinnovamento della comunità
(Benedetto XVI).

Postato da: giacabi a 14:28 | link | commenti
benedettoxvi

domenica, 19 settembre 2010

Il Papa ai giovani inglesi

Cari giovani amici,
grazie per il vostro caloroso saluto! "Il cuore parla al cuore" – cor ad cor loquitur – come sapete. Ho scelto queste parole così care al Cardinal Newman come tema della mia visita. In questi pochi momenti in cui stiamo insieme desidero parlarvi dal cuore e chiedervi di aprire il vostro a ciò che vi dirò.
Chiedo ad ognuno di voi, prima di tutto, di guardare dentro al proprio cuore. Pensate a tutto l’amore, per ricevere il quale il vostro cuore è stato creato e a tutto l’amore che esso è chiamato a donare. In fin dei conti, siamo stati fatti per amare. Questo è ciò che la Bibbia intende quando afferma che siamo stati creati ad immagine e somiglianza di Dio: siamo stati fatti per conoscere il Dio dell’amore, il Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo, e per trovare la nostra piena realizzazione in quel divino amore che non conosce né inizio né fine.
Siamo stati fatti per ricevere amore e di fatto ne abbiamo. Ogni giorno dovremmo ringraziare Dio per l’amore che abbiamo già ricevuto, per l’amore che ci ha resi ciò che siamo, l’amore che ci ha mostrato cosa è davvero importante nella vita. Dobbiamo ringraziare il Signore per l’amore che abbiamo ricevuto dalle nostre famiglie, amici, insegnanti, e da tutte quelle persone che nella vita ci hanno aiutato a comprendere quanto siamo preziosi, ai loro occhi e agli occhi di Dio.
Siamo stati fatti anche per donare amore, per fare dell’amore l’ispirazione di ogni nostra attività, la realtà più solida della nostra vita. A volte ciò sembra tanto naturale, specialmente quando sentiamo l’euforia dell’amore, quando i nostri cuori sono ricolmi di generosità, di idealismo, del desiderio di aiutare gli altri, di costruire un mondo migliore. Ma allo stesso tempo ci rendiamo conto che amare è difficile: i nostri cuori possono facilmente essere induriti dall’egoismo, dall’invidia e dall’orgoglio. La Beata Madre Teresa di Calcutta, la grande Missionaria della Carità, ci ricordava che dare amore, amore puro e generoso, è il frutto di una decisione quotidiana. Ogni giorno dobbiamo scegliere di amare e ciò richiede un aiuto, l’aiuto che proviene da Cristo, dalla preghiera, dalla saggezza che si trova nella sua parola e dalla grazia che egli effonde su di noi nei sacramenti della sua Chiesa.
Questo è il messaggio che desidero condividere con voi oggi. Vi chiedo di guardare dentro il vostro cuore ogni giorno, per trovare la sorgente di ogni amore autentico. Gesù è sempre là, aspettando tranquillamente che possiamo raccoglierci con lui ed ascoltare la sua voce. Nel profondo del vostro cuore egli vi chiama a trascorrere del tempo con lui nella preghiera. Ma questo tipo di preghiera, la vera preghiera, richiede disciplina: richiede di trovare dei momenti di silenzio ogni giorno. Spesso ciò significa attendere che il Signore parli. Anche fra le occupazioni e lo stress della nostra vita quotidiana abbiamo bisogno di dare spazio al silenzio, perché è nel silenzio che troviamo Dio, ed è nel silenzio che scopriamo chi siamo veramente. E con ciò, scopriamo la vocazione particolare che Dio ci ha dato per l’edificazione della sua Chiesa e la redenzione del nostro mondo.
Il cuore parla al cuore. Con queste parole pronunciate dal mio cuore, cari giovani amici, assicuro le mie preghiere per voi affinché le vostre vite portino frutti abbondanti per la crescita della civiltà dell’amore. Vi chiedo anche di pregare per me, per il mio ministero di successore di Pietro, e per le necessità della Chiesa nel mondo. Su di voi, sulle vostre famiglie ed i vostri amici, di cuore invoco da Dio benedizioni di sapienza, gioia e pace.

Postato da: giacabi a 19:28 | link | commenti
benedettoxvi, amore

sabato, 04 settembre 2010
Alle sorgenti delle vostre più grandi aspirazioni

Cari amici,
ripenso spesso alla Giornata Mondiale della Gioventù di Sydney del 2008. Là abbiamo vissuto una grande festa della fede, durante la quale lo Spirito di Dio ha agito con forza, creando un'intensa comunione tra i partecipanti, venuti da ogni parte del mondo. Quel raduno, come i precedenti, ha portato frutti abbondanti nella vita di numerosi giovani e della Chiesa intera. Ora, il nostro sguardo si rivolge alla prossima Giornata Mondiale della Gioventù, che avrà luogo a Madrid nell'agosto 2011. Già nel 1989, qualche mese prima della storica caduta del Muro di Berlino, il pellegrinaggio dei giovani fece tappa in Spagna, a Santiago de Compostela. Adesso, in un momento in cui l'Europa ha grande bisogno di ritrovare le sue radici cristiane, ci siamo dati appuntamento a Madrid, con il tema:  "Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede" (cfr. Col 2, 7). Vi invito pertanto a questo evento così importante per la Chiesa in Europa e per la Chiesa universale. E vorrei che tutti i giovani, sia coloro che condividono la nostra fede in Gesù Cristo, sia quanti esitano, sono dubbiosi o non credono in Lui, potessero vivere questa esperienza, che può essere decisiva per la vita:  l'esperienza del Signore Gesù risorto e vivo e del suo amore per ciascuno di noi.

1. In ogni epoca, anche ai nostri giorni, numerosi giovani sentono il profondo desiderio che le relazioni tra le persone siano vissute nella verità e nella solidarietà. Molti manifestano l'aspirazione a costruire rapporti autentici di amicizia, a conoscere il vero amore, a fondare una famiglia unita, a raggiungere una stabilità personale e una reale sicurezza, che possano garantire un futuro sereno e felice.Certamente, ricordando la mia giovinezza, so che stabilità e sicurezza non sono le questioni che occupano di più la mente dei giovani. Sì, la domanda del posto di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l'età in cui si è alla ricerca della vita più grande. Se penso ai miei anni di allora:  semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa nella sua vastità e bellezza. Certamente, ciò dipendeva anche dalla nostra situazione. Durante la dittatura nazionalsocialista e nella guerra noi siamo stati, per così dire, "rinchiusi" dal potere dominante. Quindi, volevamo uscire all'aperto per entrare nell'ampiezza delle possibilità dell'essere uomo. Ma credo che, in un certo senso, questo impulso di andare oltre all'abituale ci sia in ogni generazione. È parte dell'essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare di un impiego sicuro e sentire l'anelito per ciò che è realmente grande. Si tratta solo di un sogno vuoto che svanisce quando si diventa adulti? No, l'uomo è veramente creato per ciò che è grande, per l'infinito. Qualsiasi altra cosa è insufficiente. Sant'Agostino aveva ragione:  il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te. Il desiderio della vita più grande è un segno del fatto che ci ha creati Lui, che portiamo la sua "impronta". Dio è vita, e per questo ogni creatura tende alla vita; in modo unico e speciale la persona umana, fatta ad immagine di Dio, aspira all'amore, alla gioia e alla pace. Allora comprendiamo che è un controsenso pretendere di eliminare Dio per far vivere l'uomo! Dio è la sorgente della vita; eliminarlo equivale a separarsi da questa fonte e, inevitabilmente, privarsi della pienezza e della gioia:  "la creatura, infatti, senza il Creatore svanisce" (Con. Ecum. Vat. ii, Cost. Gaudium et spes, 36). La cultura attuale, in alcune aree del mondo, soprattutto in Occidente, tende ad escludere Dio, o a considerare la fede come un fatto privato, senza alcuna rilevanza nella vita sociale. Mentre l'insieme dei valori che sono alla base della società proviene dal Vangelo - come il senso della dignità della persona, della solidarietà, del lavoro e della famiglia -, si constata una sorta di "eclissi di Dio", una certa amnesia, se non un vero rifiuto del Cristianesimo e una negazione del tesoro della fede ricevuta, col rischio di perdere la propria identità profonda.
Per questo motivo, cari amici, vi invito a intensificare il vostro cammino di fede in Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Voi siete il futuro della società e della Chiesa! Come scriveva l'apostolo Paolo ai cristiani della città di Colossi, è vitale avere delle radici, della basi solide! E questo è particolarmente vero oggi, quando molti non hanno punti di riferimento stabili per costruire la loro vita, diventando così profondamente insicuri. Il relativismo diffuso, secondo il quale tutto si equivale e non esiste alcuna verità, né alcun punto di riferimento assoluto, non genera la vera libertà, ma instabilità, smarrimento, conformismo alle mode del momento.Voi giovani avete il diritto di ricevere dalle generazioni che vi precedono punti fermi per fare le vostre scelte e costruire la vostra vita, come una giovane pianta ha bisogno di un solido sostegno finché crescono le radici, per diventare, poi, un albero robusto, capace di portare frutto.
Radicati e fondati in Cristo
2. Per mettere in luce l'importanza della fede nella vita dei credenti, vorrei soffermarmi su ciascuno dei tre termini che san Paolo utilizza in questa sua espressione:  "Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede" (cfr. Col 2, 7). Vi possiamo scorgere tre immagini:  "radicato" evoca l'albero e le radici che lo alimentano; "fondato" si riferisce alla costruzione di una casa; "saldo" rimanda alla crescita della forza fisica o morale. Si tratta di immagini molto eloquenti. Prima di commentarle, va notato semplicemente che nel testo originale i tre termini, dal punto di vista grammaticale, sono dei passivi:  ciò significa che è Cristo stesso che prende l'iniziativa di radicare, fondare e rendere saldi i credenti.
La prima immagine è quella dell'albero, fermamente piantato al suolo tramite le radici, che lo rendono stabile e lo alimentano. Senza radici, sarebbe trascinato via dal vento, e morirebbe. Quali sono le nostre radici? Naturalmente i genitori, la famiglia e la cultura del nostro Paese, che sono una componente molto importante della nostra identità.La Bibbia ne svela un'altra. Il profeta Geremia scrive:  "Benedetto l'uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d'acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell'anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti" (Ger 17, 7-8). Stendere le radici, per il profeta, significa riporre la propria fiducia in Dio. Da Lui attingiamo la nostra vita; senza di Lui non potremmo vivere veramente. "Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio" (1 Gv 5, 11). Gesù stesso si presenta come nostra vita (cfr. Gv 14, 6). Perciò la fede cristiana non è solo credere a delle verità, ma è anzitutto una relazione personale con Gesù Cristo, è l'incontro con il Figlio di Dio, che dà a tutta l'esistenza un dinamismo nuovo. Quando entriamo in rapporto personale con Lui, Cristo ci rivela la nostra identità, e, nella sua amicizia, la vita cresce e si realizza in pienezza. C'è un momento, da giovani, in cui ognuno di noi si domanda:  che senso ha la mia vita, quale scopo, quale direzione dovrei darle? È una fase fondamentale, che può turbare l'animo, a volte anche a lungo. Si pensa al tipo di lavoro da intraprendere, a quali relazioni sociali stabilire, a quali affetti sviluppare... In questo contesto, ripenso alla mia giovinezza. In qualche modo ho avuto ben presto la consapevolezza che il Signore mi voleva sacerdote. Ma poi, dopo la Guerra, quando in seminario e all'università ero in cammino verso questa meta, ho dovuto riconquistare questa certezza. Ho dovuto chiedermi:  è questa veramente la mia strada? È veramente questa la volontà del Signore per me? Sarò capace di rimanere fedele a Lui e di essere totalmente disponibile per Lui, al Suo servizio? Una tale decisione deve anche essere sofferta. Non può essere diversamente. Ma poi è sorta la certezza:  è bene così! Sì, il Signore mi vuole, pertanto mi darà anche la forza. Nell'ascoltarLo, nell'andare insieme con Lui divento veramente me stesso. Non conta la realizzazione dei miei propri desideri, ma la Sua volontà. Così la vita diventa autentica.
Come le radici dell'albero lo tengono saldamente piantato nel terreno, così le fondamenta danno alla casa una stabilità duratura. Mediante la fede, noi siamo fondati in Cristo (cfr. Col 2, 7), come una casa è costruita sulle fondamenta. Nella storia sacra abbiamo numerosi esempi di santi che hanno edificato la loro vita sulla Parola di Dio. Il primo è Abramo. Il nostro padre nella fede obbedì a Dio che gli chiedeva di lasciare la casa paterna per incamminarsi verso un Paese sconosciuto. "Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio" (Gc 2, 23). Essere fondati in Cristo significa rispondere concretamente alla chiamata di Dio, fidandosi di Lui e mettendo in pratica la sua Parola. Gesù stesso ammonisce i suoi discepoli:  "Perché mi invocate:  "Signore, Signore!" e non fate quello che dico?" (Lc 6, 46). E, ricorrendo all'immagine della costruzione della casa, aggiunge:  "Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica... è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene" (Lc 6, 47-48).
Cari amici, costruite la vostra casa sulla roccia, come l'uomo che "ha scavato molto profondo". Cercate anche voi, tutti i giorni, di seguire la Parola di Cristo. Sentitelo come il vero Amico con cui condividere il cammino della vostra vita. Con Lui accanto sarete capaci di affrontare con coraggio e speranza le difficoltà, i problemi, anche le delusioni e le sconfitte
. Vi vengono presentate continuamente proposte più facili, ma voi stessi vi accorgete che si rivelano ingannevoli, non vi danno serenità e gioia. Solo la Parola di Dio ci indica la via autentica, solo la fede che ci è stata trasmessa è la luce che illumina il cammino.Accogliete con gratitudine questo dono spirituale che avete ricevuto dalle vostre famiglie e impegnatevi a rispondere con responsabilità alla chiamata di Dio, diventando adulti nella fede. Non credete a coloro che vi dicono che non avete bisogno degli altri per costruire la vostra vita! Appoggiatevi, invece, alla fede dei vostri cari, alla fede della Chiesa, e ringraziate il Signore di averla ricevuta e di averla fatta vostra!
Saldi nella fede
3. Siate "radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede" (cfr. Col 2, 7).La Lettera da cui è tratto questo invito, è stata scritta da san Paolo per rispondere a un bisogno preciso dei cristiani della città di Colossi. Quella comunità, infatti, era minacciata dall'influsso di certe tendenze culturali dell'epoca, che distoglievano i fedeli dal Vangelo. Il nostro contesto culturale, cari giovani, ha numerose analogie con quello dei Colossesi di allora. Infatti, c'è una forte corrente di pensiero laicista che vuole emarginare Dio dalla vita delle persone e della società, prospettando e tentando di creare un "paradiso" senza di Lui. Ma l'esperienza insegna che il mondo senza Dio diventa un "inferno":  prevalgono gli egoismi, le divisioni nelle famiglie, l'odio tra le persone e tra i popoli, la mancanza di amore, di gioia e di speranza. Al contrario, là dove le persone e i popoli accolgono la presenza di Dio, lo adorano nella verità e ascoltano la sua voce, si costruisce concretamente la civiltà dell'amore, in cui ciascuno viene rispettato nella sua dignità, cresce la comunione, con i frutti che essa porta. Vi sono però dei cristiani che si lasciano sedurre dal modo di pensare laicista, oppure sono attratti da correnti religiose che allontanano dalla fede in Gesù Cristo. Altri, senza aderire a questi richiami, hanno semplicemente lasciato raffreddare la loro fede, con inevitabili conseguenze negative sul piano morale.
Ai fratelli contagiati da idee estranee al Vangelo, l'apostolo Paolo ricorda la potenza di Cristo morto e risorto. Questo mistero è il fondamento della nostra vita, il centro della fede cristiana. Tutte le filosofie che lo ignorano, considerandolo "stoltezza" (1 Cor 1, 23), mostrano i loro limiti davanti alle grandi domande che abitano il cuore dell'uomo. Per questo anch'io, come Successore dell'apostolo Pietro, desidero confermarvi nella fede (cfr. Lc 22, 32). Noi crediamo fermamente che Gesù Cristo si è offerto sulla Croce per donarci il suo amore; nella sua passione, ha portato le nostre sofferenze, ha preso su di sé i nostri peccati, ci ha ottenuto il perdono e ci ha riconciliati con Dio Padre, aprendoci la via della vita eterna. In questo modo siamo stati liberati da ciò che più intralcia la nostra vita:  la schiavitù del peccato, e possiamo amare tutti, persino i nemici, e condividere questo amore con i fratelli più poveri e in difficoltà.
Cari amici, spesso la Croce ci fa paura, perché sembra essere la negazione della vita. In realtà, è il contrario! Essa è il "sì" di Dio all'uomo, l'espressione massima del suo amore e la sorgente da cui sgorga la vita eterna. Infatti, dal cuore di Gesù aperto sulla croce è sgorgata questa vita divina, sempre disponibile per chi accetta di alzare gli occhi verso il Crocifisso. Dunque, non posso che invitarvi ad accogliere la Croce di Gesù, segno dell'amore di Dio, come fonte di vita nuova. Al di fuori di Cristo morto e risorto, non vi è salvezza! Lui solo può liberare il mondo dal male e far crescere il Regno di giustizia, di pace e di amore al quale tutti aspiriamo.

Credere in Gesù Cristo senza vederlo
4. Nel Vangelo ci viene descritta l'esperienza di fede dell'apostolo Tommaso nell'accogliere il mistero della Croce e Risurrezione di Cristo. Tommaso fa parte dei Dodici apostoli; ha seguito Gesù; è testimone diretto delle sue guarigioni, dei miracoli; ha ascoltato le sue parole; ha vissuto lo smarrimento davanti alla sua morte. La sera di Pasqua il Signore appare ai discepoli, ma Tommaso non è presente, e quando gli viene riferito che Gesù è vivo e si è mostrato, dichiara:  "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo" (Gv 20, 25).
Noi pure vorremmo poter vedere Gesù, poter  parlare con Lui, sentire ancora più fortemente la sua presenza. Oggi per molti, l'accesso a Gesù si è fatto difficile. Circolano così tante immagini di Gesù che si spacciano per scientifiche e Gli tolgono la sua grandezza, la singolarità della Sua persona. Pertanto, durante lunghi anni di studio e meditazione, maturò in me il pensiero di trasmettere un po' del mio personale incontro con Gesù in un libro:  quasi per aiutare a vedere, udire, toccare il Signore, nel quale Dio ci è venuto incontro per farsi conoscere. Gesù stesso, infatti, apparendo nuovamente dopo otto giorni ai discepoli, dice a Tommaso:  "Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!" (Gv 20, 27). Anche a noi è possibile avere un contatto sensibile con Gesù, mettere, per così dire, la mano sui segni della sua Passione, i segni del suo amore:  nei Sacramenti Egli si fa particolarmente vicino a noi, si dona a noi.
Cari giovani, imparate a "vedere", a "incontrare" Gesù nell'Eucaristia, dove è presente e vicino fino a farsi cibo per il nostro cammino; nel Sacramento della Penitenza, in cui il Signore manifesta la sua misericordia nell'offrirci sempre il suo perdono. Riconoscete e servite Gesù anche nei poveri, nei malati, nei fratelli che sono in difficoltà e hanno bisogno di aiuto.
Aprite e coltivate un dialogo personale con Gesù Cristo, nella fede. Conoscetelo mediante la lettura dei Vangeli e del Catechismo della Chiesa Cattolica; entrate in colloquio con Lui nella preghiera, dategli la vostra fiducia:  non la tradirà mai! "La fede è innanzitutto un'adesione personale dell'uomo a Dio; al tempo stesso ed inseparabilmente, è l'assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato"
(Catechismo della Chiesa Cattolica, 150). Così potrete acquisire una fede matura, solida, che non sarà fondata unicamente su un sentimento religioso o su un vago ricordo del catechismo della vostra infanzia. Potrete conoscere Dio e vivere autenticamente di Lui, come l'apostolo Tommaso, quando manifesta con forza la sua fede in Gesù:  "Mio Signore e mio Dio!".
Sorretti dalla fede della Chiesa, per essere testimoni
5. In quel momento Gesù esclama:  "Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!" (Gv 20, 29). Egli pensa al cammino della Chiesa, fondata sulla fede dei testimoni oculari:  gli Apostoli. Comprendiamo allora che la nostra fede personale in Cristo, nata dal dialogo con Lui, è legata alla fede della Chiesa:  non siamo credenti isolati, ma, mediante il Battesimo, siamo membri di questa grande famiglia, ed è la fede professata dalla Chiesa che dona sicurezza alla nostra fede personale. Il Credo che proclamiamo nella Messa domenicale ci protegge proprio dal pericolo di credere in un Dio che non è quello che Gesù ci ha rivelato:  "Ogni credente è come un anello nella grande catena dei credenti. Io non posso credere senza essere sorretto dalla fede degli altri, e, con la mia fede, contribuisco a sostenere la fede degli altri" (Catechismo della Chiesa Cattolica, 166). Ringraziamo sempre il Signore per il dono della Chiesa; essa ci fa progredire con sicurezza nella fede, che ci dà la vera vita (cfr. Gv 20, 31).
Nella storia della Chiesa, i santi e i martiri hanno attinto dalla Croce gloriosa di Cristo la forza per essere fedeli a Dio fino al dono di se stessi; nella fede hanno trovato la forza per vincere le proprie debolezze e superare ogni avversità. Infatti, come dice l'apostolo Giovanni, "chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?" (1 Gv 5, 5).
E la vittoria che nasce dalla fede è quella dell'amore. Quanti cristiani sono stati e sono una testimonianza vivente della forza della fede che si esprime nella carità:  sono stati artigiani di pace, promotori di giustizia, animatori di un mondo più umano, un mondo secondo Dio; si sono impegnati nei vari ambiti della vita sociale, con competenza e professionalità, contribuendo efficacemente al bene di tutti. La carità che scaturisce dalla fede li ha condotti ad una testimonianza molto concreta, negli atti e nelle parole:  Cristo non è un bene solo per noi stessi, è il bene più prezioso che abbiamo da condividere con gli altri. Nell'era della globalizzazione, siate testimoni della speranza cristiana nel mondo intero:  sono molti coloro che desiderano ricevere questa speranza! Davanti al sepolcro dell'amico Lazzaro, morto da quattro giorni, Gesù, prima di richiamarlo alla vita, disse a sua sorella Marta:  "Se crederai, vedrai la gloria di Dio" (cfr. Gv 11, 40). Anche voi, se crederete, se saprete vivere e testimoniare la vostra fede ogni giorno, diventerete strumento per far ritrovare ad altri giovani come voi il senso e la gioia della vita, che nasce dall'incontro con Cristo!
Verso la Giornata Mondiale di Madrid

6. Cari amici, vi rinnovo l'invito a venire alla Giornata Mondiale della Gioventù a Madrid. Con gioia profonda, attendo ciascuno di voi personalmente:  Cristo vuole rendervi saldi nella fede mediante la Chiesa. La scelta di credere in Cristo e di seguirlo non è facile; è ostacolata dalle nostre infedeltà personali e da tante voci che indicano vie più facili. Non lasciatevi scoraggiare, cercate piuttosto il sostegno della Comunità cristiana, il sostegno della Chiesa! Nel corso di quest'anno preparatevi intensamente all'appuntamento di Madrid con i vostri Vescovi, i vostri sacerdoti e i responsabili di pastorale giovanile nelle diocesi, nelle comunità parrocchiali, nelle associazioni e nei movimenti. La qualità del nostro incontro dipenderà soprattutto dalla preparazione spirituale, dalla preghiera, dall'ascolto comune della Parola di Dio e dal sostegno reciproco.
Cari giovani, la Chiesa conta su di voi! Ha bisogno della vostra fede viva, della vostra carità creativa e del dinamismo della vostra speranza. La vostra presenza rinnova la Chiesa, la ringiovanisce e le dona nuovo slancio. Per questo le Giornate Mondiali della Gioventù sono una grazia non solo per voi, ma per tutto il Popolo di Dio. La Chiesa in Spagna si sta preparando attivamente per accogliervi e vivere insieme l'esperienza gioiosa della fede. Ringrazio le diocesi, le parrocchie, i santuari, le comunità religiose, le associazioni e i movimenti ecclesiali, che lavorano con generosità alla preparazione di questo evento. Il Signore non mancherà di benedirli. La Vergine Maria accompagni questo cammino di preparazione. Ella, all'annuncio dell'Angelo, accolse con fede la Parola di Dio; con fede acconsentì all'opera che Dio stava compiendo in lei. Pronunciando il suo "fiat", il suo "sì", ricevette il dono di una carità immensa, che la spinse a donare tutta se stessa a Dio. Interceda per ciascuno e ciascuna di voi, affinché nella prossima Giornata Mondiale possiate crescere nella fede e nell'amore. Vi assicuro il mio paterno ricordo nella preghiera e vi benedico di cuore.

Dal Vaticano, 6 agosto 2010, Festa della Trasfigurazione del Signore.


(©L'Osservatore Romano - 4 settembre 2010)

Postato da: giacabi a 07:51 | link | commenti
benedettoxvi

lunedì, 28 giugno 2010

Attaccano il Papa perché segue Gesù

27 giugno 2010 / In Articoli
 
Uno dei più acuti osservatori, leader intellettuale dei cosiddetti ratzingeriani, Giuliano Ferrara, con doverosa autoironia, giorni fa, ha amabilmente rimproverato il pontefice di essere “fuori linea”, sulla storia dei preti pedofili, per (a suo avviso) eccessiva arrendevolezza.
Poi il direttore del Foglio è tornato a lanciare l’allarme.
Ha scritto infatti che “le autorità ecclesiastiche responsabili e i laici liberali, che dovrebbero avere a cuore la libertà della Chiesa (come pegno generale delle autonomie civili), non vogliono capire che la ‘trasparenza’, cioè la resa senza condizioni alla ossessiva campagna secolarista sulla pedofilia del clero, genera le condizioni per un vulnus simbolico drammatico nel corpo dell’istituzione”.
Ferrara ritiene che dal Belgio sia arrivata la conferma di questa sua tesi. Là infatti sono giunti fino a perquisire la casa del cardinale Daneels, primate emerito accusato “di non aver denunciato per tempo il vescovo di Bruges dimissionario a gennaio con l’accusa di abusi su minori”.
Nelle stesse ore addirittura “le tombe di uno dei padri teologici del Concilio Vaticano II, Léon-Joseph Suenens, e dell’arcivescovo Joseph- Ernest Van Roey, sono state sventrate con il martello pneumatico alla ricerca di chissà quali documenti inquisitori”.
Ferrara ha ragione quando denuncia questi eccessi inauditi, ma non sono d’accordo che essi trovino cittadinanza per l’atteggiamento (a suo avviso) rinunciatario del Pontefice.
Al contrario, è proprio la limpidissima scelta del papa per la trasparenza e per la pulizia nella Chiesa che fa apparire gli atti dell’inquisizione belga in tutta la loro ingiustificata assurdità.
Peraltro proprio l’accorato schierarsi di Pietro dalla parte delle vittime ha fatto ammutolire le campagne più anticlericali, inducendo anche giornali estremamente polemici come il New York Times a “togliersi il cappello” di fronte al coraggio del Santo Padre.
Il Papa è l’unico che non abbia parlato di complotti, ma anzi che abbia definito una “grazia” questa provvidenziale tempesta mediatica la quale impone una purificazione alla Chiesa.
Bisogna riconoscere che quello che sta dicendo e facendo è così alto e profetico che lo stesso mondo clericale non capisce e fa resistenza. Ratzinger ha spiazzato sia i ratzingeriani che gli avversari.
Ha capovolto il vecchio e sciocco stereotipo del “panzerkardinal”. E ha mostrato a tutti la grandezza e la forza dell’umiltà. Ha fatto vedere cos’è un padre che sa piangere con i suoi figli violati e sofferenti, abbracciandoli a nome del Nazareno.
Ha spiazzato anche l’idea che del suo pontificato si erano fatti Ferrara e tanti altri, secondo cui egli sarebbe il Nemico del relativismo che corrode e dissolve l’Occidente e capeggerebbe una Chiesa virilmente identitaria capace di far ritrovare all’Occidente solide radici ideologiche.
A mio avviso basta aver letto i libri del cardinal Ratzinger e tanto più i testi di papa Ratzinger per capire che era un’idea infondata. Ma il problema non è anzitutto culturale.
Il “fattore” che Ferrara elude (ovviamente ne ha tutto il diritto) e che per Benedetto XVI invece è determinante, totalmente decisivo, non è culturale: si chiama Gesù Cristo. La sua presenza viva.
E’ Lui che spiega tutto, che fa comprendere tutte le scelte di papa Ratzinger, tutto quello che dice e che fa. Senza considerare Lui si rischia di fraintendere completamente questo pontificato.
Perché, infatti, un simpatizzante come Ferrara può arrivare a vedere nella posizione del Papa addirittura una “resa senza condizioni alla ossessiva campagna secolarista sulla pedofilia del clero” ?
Esattamente per questo. Perché per Ferrara la battaglia si combatte al cospetto dell’opinione pubblica ed ha come oggetto la reputazione della Chiesa, mentre per papa Ratzinger si è al cospetto di Gesù Cristo, unico giudice, e il contenuto della discussione è la verità.
Se si toglie di mezzo Gesù Cristo – e mi pare l’idea di Ferrara – la Chiesa diventa una realtà umana antica e nobilissima, da millenni civilizzatrice, depositaria di valori e identità, e non può farsi processare – per un numero limitatissimo di colpe di suoi esponenti – da un mondo moderno che sprofonda nella depravazione e nell’amoralità.
Ma Benedetto XVI rifiuta radicalmente una simile riduzione. La Chiesa non è la somma dei suoi membri, né dei suoi meriti storici, non è un insieme di antichi e nobili valori umani, né è al mondo per rivendicare la sua reputazione.
La Chiesa è definita soltanto dalla misteriosa presenza di Gesù, presenza vera e operante, fra i suoi. Davanti a Lui, il santo, tutti noi cristiani siamo come panni luridi. E’ Lui e solo Lui che la Chiesa indica, Lui è la salvezza degli uomini, Lui la pace e la felicità. La Chiesa esiste solo per indicare al mondo il suo volto.
Cosicché la Chiesa è l’unica realtà che – diversamente da partiti, da stati, da qualunque altra associazione umana – non ha bisogno di esaltare la propria reputazione, perché, pur avendo al suo interno tanta santità, non predica se stessa, non vuol convincere di aver ragione.
E’ l’innamorata di Lui ed esalta solo Lui.
Infatti la Chiesa è entrata nel mondo con quattro Evangeli nei quali i pilastri della Chiesa stessa, gli apostoli, venivano rappresentati in tutta la loro miseria umana, meschinità e perfino nei loro peccati e crimini.
Com’è stato osservato pure da nemici della Chiesa, nessuno che abbia voluto fondare una religione o un partito o uno stato, ha mai fatto una cosa simile. Sarebbe stata un’autodelegittimazione assai prossima al suicidio.
Solo la Chiesa ha potuto farlo. Sebbene quegli apostoli, in realtà, siano diventati poi autentici eroi, morendo inermi come martiri.
Solo la Chiesa, sul finire del XX secolo che aveva visto i cristiani vittime (a milioni) di tutti i diversi regimi, a tutte le latitudini, con Giovanni Paolo II ha varcato il millennio non con un atto d’accusa, ma al contrario con un “mea culpa”.
Solo la Chiesa – che pure aveva tutti i diritti di puntare il dito su ideologie e partiti – ha saputo chiedere perdono. Mentre non lo hanno fatto i carnefici. E’ un segno di debolezza e cedevolezza o di (umanamente) inspiegabile forza?
Solo la Chiesa può porre la verità al di sopra dell’interesse di fazione e quindi non averne paura neanche quando è dolorosa e umiliante. Come nel caso dei preti pedofili. Neanche quando fa scandalo: “oportet ut scandala eveniant”, disse Gesù, Signore della storia.
La Chiesa non si difende con la menzogna. Così semmai la si distrugge. Immaginare che Dio abbia bisogno delle nostre menzogne per salvaguardare la sua opera è un sacrilegio.
La Santa Chiesa, spiega il Papa, non è una cosca mafiosa che vive sull’omertà. Le menzogne servono solo ai colpevoli che non vogliono emendarsi o a coloro che vogliono salvaguardare un potere terreno. La Chiesa invece vive della verità. E la verità non fa calcoli di convenienza.
La menzogna rende ricattabili. “La verità vi farà liberi”, ha detto Colui che è la verità fatta carne.
Il mondo dice invece “la verità vi farà deboli”. Ma quello che il mondo non capisce, per il Papa, è che  “la debolezza di Dio è più forte degli uomini”. Duemila anni fa aspettavano un giustiziere, un sovrano forte che avrebbe assoggettato il mondo. Ed è nato un bambino inerme.
Poi, diventato grande, perfino gli apostoli pensavano che Gesù sarebbe diventato re. E lui ha scelto invece il trono della croce e la corona di spine. Perché – ha spiegato Benedetto XVI – ha voluto salvare il mondo non con la forza, ma con l’amore. L’amore è più forte di tutto.
E’ per lui, vittima salvatrice, che il papa ha fatto capire a tutti, anzitutto agli ecclesiastici, che le vittime di preti pedofili non sono avversari, ma sono il volto di Cristo crocifisso.
Sono la Chiesa perseguitata. Mentre i persecutori della Chiesa sono semmai i loro violentatori. Tutto questo è grandioso e commovente. E’ divino.

Antonio Socci

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mercoledì, 09 giugno 2010


OSSERVATORE ROMANO/ Carron: prima di tutto autenticamente uomini


 

mercoledì 9 giugno 2010

Non dimenticherò mai il contraccolpo avuto durante il ritiro spirituale con alcuni sacerdoti in America latina. Avevo appena terminato di dire che spesso alla nostra fede manca l’umano, che un sacerdote mi avvicinò. Mi disse che all’epoca in cui era in seminario gli avevano insegnato che era meglio nascondere la sua umanità concreta, non averla davanti agli occhi «perché disturbava il cammino della fede».
Questo episodio mi ha reso più consapevole di come può essere ridotto il cristianesimo e dello stato di confusione in cui siamo chiamati a vivere la nostra vocazione sacerdotale. Una volta domandarono a don Giussani che cosa avrebbe raccomandato a un giovane prete: «Che sia innanzitutto un uomo», rispose, suscitando la reazione stupefatta dei presenti.
Ci troviamo agli antipodi dell’indicazione data al seminarista: da una parte, il distogliere gli occhi dalla propria umanità, dall’altra, uno sguardo pieno di simpatia per se stessi. Che cosa risulta dunque decisivo per la nostra fede e la nostra vocazione? Di che cosa abbiamo bisogno?
Don Giussani ha più volte indicato nella «trascuratezza dell’io», nell’assenza di un autentico interesse per la propria persona, «il supremo ostacolo al nostro cammino umano» (Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, p. 9). Invece è il vero amore a se stessi, la vera affezione a sé quella che ci porta a riscoprire le nostre esigenze costitutive, i nostri bisogni originali nella loro nudità e vastità, così da riconoscerci rapporto col Mistero, domanda di infinito, attesa strutturale.
Solo un uomo così «ferito» dal reale, così seriamente impegnato con la propria umanità può aprirsi totalmente all’incontro con il Signore. «Cristo infatti - afferma don Giussani - si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome» (All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 3).
«Non c’è risposta più assurda di quella a una domanda che non si pone», ha scritto Reinhold Niebuhr. Può valere anche per noi quando acriticamente subiamo l’influsso della cultura in cui siamo immersi, che sembra favorire la riduzione dell’uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici e sociologici. Ma se l’uomo è davvero ridotto a questo, quale è allora il nostro compito di sacerdoti? A che cosa serviamo? Quale è il senso della nostra vocazione? Come resistere a una fuga dal reale rifugiandoci nello spiritualismo, nel formalismo, cercando alternative che rendano sopportabile la vita? Oppure non sarebbe meglio, obbedendo al clima culturale, diventare assistente sociale, psicologo, operatore culturale o politico?
Come ha ricordato Benedetto XVI a Lisbona, «spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?» (Omelia della Santa Messa al Terreiro do Paço di Lisboa, 11 maggio 2010).
 
Tutto dipende dunque dalla percezione, innanzitutto per noi, di che cosa sia l’uomo e di che cosa corrisponda realmente al suo desiderio infinito. La decisione con cui viviamo la nostra vocazione deriva perciò dalla decisione con cui viviamo il nostro essere uomini. Solo dentro una vibrazione umana autentica possiamo conoscere Cristo e lasciarci affascinare da Lui, fino a darGli la vita per farLo incontrare agli altri.
«Come mai la fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo?», si chiedeva pochi anni fa l’allora cardinale Ratzinger e rispondeva: «Dirci perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. (...) Nell’uomo vi è una inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l’uomo» (Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, pp. 142-143).

Questa certezza che Benedetto XVI testimonia di continuo anche davanti a tutto il male che ci procuriamo o che causiamo agli altri - pensiamo alla vicenda della pedofilia - ci invita a un cammino per la riscoperta e l’approfondirsi della ragionevolezza della fede: «La nostra fede ha fondamenta, ma c’è bisogno che questa fede diventi vita in ognuno di noi (...): soltanto Cristo può soddisfare pienamente i profondi aneliti di ogni cuore umano e dare risposte ai suoi interrogativi più inquietanti circa la sofferenza, l’ingiustizia e il male, sulla morte e la vita nell’Aldilà» (Omelia della Santa Messa al Terreiro do Paço di Lisboa, 11 maggio 2010).
Solo se sperimentiamo la verità di Cristo nella nostra vita, avremo il coraggio di comunicarla e l’audacia di sfidare il cuore delle persone che incontriamo. Così il sacerdozio continuerà a essere un’avventura per ciascuno dì noi e quindi l’occasione per testimoniare ai fratelli uomini la risposta che solo Cristo è al «misterio dell’esser nostro» (G. Leopardi).
 
(Tratto da L’Osservatore Romano del 9 giugno 2010)

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giovedì, 03 giugno 2010
«Tommaso d’Aquino: tra fede e ragione naturale armonia»
 Benedetto XVI ricorda la figura del santo
***

Benedetto XVI mentre passa tra i fedeli riuniti in piazza San Pietro per l’udienza generale di ieri (foto Ansa)



l’udienza del mercoledì
 C ari fratelli e sorelle, dopo alcune ca­techesi sul sacerdozio e i miei ultimi viaggi, ritorniamo oggi al nostro tema principale, alla meditazione cioè di alcuni grandi pensatori del Medio Evo. Avevamo visto ultimamente la grande figura di san Bonaventura, francescano, e oggi vorrei par­lare di colui che la Chiesa chiama il Doctor communis: cioè san Tommaso d’Aquino. Il mio venerato predecessore, il papa Giovan­ni Paolo II, nella sua enciclica Fides et ratio
 ha ricordato che san Tommaso «è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fa­re teologia» (n. 43). Non sorprende che, do­po sant’Agostino, tra gli scrittori ecclesiasti­ci menzionati nel Catechismo della Chiesa Cattolica , san Tommaso venga citato più di ogni altro, per ben sessantuno volte! Egli è stato chiamato anche il Doctor Angelicus,
 forse per le sue virtù, in particolare la subli­mità del pensiero e la purezza della vita.
 
T ommaso nacque tra il 1224 e il 1225 nel castello che la sua famiglia, nobi­le e facoltosa, possedeva a Roccasec­ca, nei pressi di Aquino, vicino alla celebre abbazia di Montecassino, dove fu inviato dai genitori per ricevere i primi elementi della sua istruzione. Qualche anno dopo si tra­sferì nella capitale del Regno di Sicilia, Na­poli, dove Federico II aveva fondato una pre­stigiosa Università. In essa veniva insegna­to, senza le limitazioni vigenti altrove, il pen­siero del filosofo greco Aristotele, al quale il giovane Tommaso venne introdotto, e di cui intuì subito il grande valore. Ma soprattut­to, in quegli anni trascorsi a Napoli, nacque la sua vocazione domenicana. Tommaso fu infatti attratto dall’ideale dell’Ordine fon­dato non molti anni prima da san Domeni­co. Tuttavia, quando rivestì l’abito domeni­cano, la sua famiglia si oppose a questa scel­ta, ed egli fu costretto a lasciare il convento e a trascorrere qualche tempo in famiglia.
 
N el 1245, ormai maggiorenne, poté riprendere il suo cammino di ri­sposta alla chiamata di Dio. Fu in­viato a Parigi per studiare teologia sotto la guida di un altro santo, Alberto Magno, sul quale ho parlato recentemente. Alberto e Tommaso strinsero una vera e profonda a­micizia e impararono a stimarsi e a volersi bene, al punto che Alberto volle che il suo discepolo lo seguisse anche a Colonia, do­ve egli era stato inviato dai superiori del­l’Ordine a fondare uno studio teologico. Tommaso prese allora contatto con tutte le opere di Aristotele e dei suoi commentato­ri arabi, che Alberto illustrava e spiegava.
  In quel periodo, la cultura del mondo lati­no era stata profondamente stimolata dal­l’incontro con le opere di Aristotele, che e­rano rimaste ignote per molto tempo. Si trat­tava di scritti sulla natura della conoscenza, sulle scienze naturali, sulla metafisica, sul­l’anima e sull’etica, ricchi di informazioni e
di intuizioni che apparivano valide e con­vincenti. Era tutta una visione completa del mondo sviluppata senza e prima di Cristo, con la pura ragione, e sembrava imporsi al­la ragione come «la» visione stessa; era, quindi, un incredibile fascino per i giovani vedere e conoscere questa filosofia. Molti accolsero con entusiasmo, anzi con entu­siasmo acritico, questo enorme bagaglio del sapere antico, che sembrava poter rinnova­re vantaggiosamente la cultura, aprire to­talmente nuovi orizzonti. Altri, però, teme­vano che il pensiero pagano di Aristotele fosse in opposizione alla fede cristiana, e si rifiutavano di studiarlo. Si incontrarono due culture: la cultura pre-cristiana di Aristote­le, con la sua radicale razionalità, e la clas­sica cultura cristia­na. Certi ambienti erano condotti al ri­fiuto di Aristotele anche dalla presen­tazione che di tale filosofo era stata fat­ta dai commentato­ri arabi Avicenna e Averroè. Infatti, fu­rono essi ad aver trasmesso al mondo latino la filosofia a­ristotelica. Per e­sempio, questi
 Nella sua catechesi il Papa ha ricordato che l’autore della «Summa» teologica «svolse un’operazione di fondamentale importanza per la storia della filosofia e della teologia» in un’epoca di forte scontro tra culture
 commentatori avevano insegnato che gli uomini non dispongono di un’intelligenza personale, ma che vi è un unico intelletto u­niversale, una sostanza spirituale comune a tutti, che opera in tutti come «unica»: quin­di una depersonalizzazione dell’uomo. Un altro punto discutibile veicolato dai com­mentatori arabi era quello secondo il quale il mondo è eterno come Dio. Si scatenaro­no comprensibilmente dispute a non finire nel mondo universitario e in quello eccle­siastico. La filosofia aristotelica si andava diffondendo addirittura tra la gente sem­plice.
 
T ommaso d’Aquino, alla scuola di Al­berto Magno, svolse un’operazione di fondamentale importanza per la sto­ria della filosofia e della teologia, direi per la storia della cultura: studiò a fondo Aristote­le e i suoi interpreti, procurandosi nuove tra­duzioni latine dei testi originali in greco. Co­sì non si appoggiava più solo ai com­mentatori arabi, ma poteva leggere per­sonalmente i testi o­riginali, e com­mentò gran parte delle opere aristote­liche, distinguendo­vi ciò che era valido da ciò che era dub­bio o da rifiutare del tutto, mostrando la consonanza con i dati della Rivelazio­ne cristiana e utilizzando largamente e a­cutamente il pensiero aristotelico nell’e­sposizione degli scritti teologici che com­pose. In definitiva, Tommaso d’Aquino mo­strò che tra fede cristiana e ragione sussiste una naturale armonia. E questa è stata la grande opera di Tommaso, che in quel mo­mento di scontro tra due culture - quel mo­mento nel quale sembrava che la fede do­vesse arrendersi davanti alla ragione - ha mostrato che esse vanno insieme, che quan­to appariva ragione non compatibile con la fede non era ragione, e quanto appariva fede non era fede, in quanto opposta alla ve­ra razionalità; così egli ha creato una nuova sintesi, che ha formato la cultura dei secoli seguenti.
 P er le sue eccellenti doti intellettuali, Tommaso fu richiamato a Parigi come professore di teologia sulla cattedra domenicana. Qui iniziò anche la sua pro­duzione letteraria, che proseguì fino alla morte, e che ha del prodigioso: commenti alla Sacra Scrittura, perché il professore di teologia era soprattutto interprete della Scrittura, commenti agli scritti di Aristote­le, opere sistematiche poderose, tra cui ec­celle la
Summa Theologiae , trattati e discorsi su vari argomenti. Per la composizione dei suoi scritti, era coadiuvato da alcuni segre­tari, tra i quali il confratello Reginaldo di Pi­perno, che lo seguì fedelmente e al quale fu legato da fraterna e sincera amicizia, carat­terizzata da una grande confidenza e fidu­cia. È questa una caratteristica dei santi: col­tivano l’amicizia, perché essa è una delle manifestazioni più nobili del cuore umano e ha in sé qualche cosa di divino, come Tom­maso stesso ha spiegato in alcune quae­stiones della Summa Theologiae, in cui scri­ve: «La carità è l’amicizia dell’uomo con Dio principalmente, e con gli esseri che a Lui appartengono» (II, q. 23, a.1).
 
N on rimase a lungo e stabilmente a Parigi. Nel 1259 partecipò al Capi­tolo generale dei Domenicani a Va­lenciennes dove fu membro di una com­missione che stabilì il programma di studi nell’Ordine. Dal 1261 al 1265, poi, Tomma­so era ad Orvieto. Il pontefice Urbano IV, che nutriva per lui una grande stima, gli com­missionò la composizione dei testi liturgici per la festa del Corpus Domini, che cele­briamo domani, istituita in seguito al mira­colo eucaristico di Bolsena. Tommaso ebbe un’anima squisitamente eucaristica. I bel­lissimi inni che la liturgia della Chiesa can­ta per celebrare il mistero della presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore nel­l’Eucaristia sono attribuiti alla sua fede e al­la sua sapienza teologica. Dal 1265 fino al 1268 Tommaso risiedette a Roma, dove, pro­babilmente, dirigeva uno Studium, cioè u­na Casa di studi dell’Ordine, e dove iniziò a scrivere la sua Summa Theologiae (cfr Jean­Pierre Torrell, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, Casale Monf., 1994, pp. 118-184).
 N el 1269 fu richiamato a Parigi per un secondo ciclo di insegnamento. Gli studenti - si può capire - erano en­tusiasti delle sue lezioni. Un suo ex-allievo dichiarò che una grandissima moltitudine di studenti seguiva i corsi di Tommaso, tan­to che le aule riuscivano a stento a contenerli e aggiungeva, con un’annotazione perso­nale, che «ascoltarlo era per lui una felicità profonda». L’interpretazione di Aristotele data da Tommaso non era accettata da tut­ti, ma persino i suoi avversari in campo ac­cademico, come Goffredo di Fontaines, ad esempio, ammettevano che la dottrina di frate Tommaso era superiore ad altre per u­tilità e valore e serviva da correttivo a quel­le di tutti gli altri dottori. Forse anche per sottrarlo alle vivaci discussioni in atto, i su­periori lo inviarono ancora una volta a Na­poli, per essere a disposizione del re Carlo I, che intendeva riorganizzare gli studi uni­versitari.
 
O ltre che allo studio e all’insegna­mento, Tommaso si dedicò pure al­la predicazione al popolo. E anche il popolo volentieri andava ad ascoltarlo. Di­rei che è veramente una grande grazia quan­do i teologi sanno parlare con semplicità e fervore ai fedeli. Il ministero della predica­zione, d’altra parte, aiuta gli stessi studiosi di teologia a un sano realismo pastorale, e arricchisce di vivaci stimoli la loro ricerca.
  G li ultimi mesi della vita terrena di Tommaso restano circondati da un’atmosfera particolare, misteriosa direi. Nel dicembre del 1273 chiamò il suo amico e segretario Reginaldo per comuni­cargli la decisione di interrompere ogni la­voro, perché, durante la celebrazione della Messa, aveva compreso, in seguito a una ri­velazione soprannaturale, che quanto ave­va scritto fino ad allora era solo «un mucchio di paglia». È un episodio misterioso, che ci aiuta a comprendere non solo l’umiltà per­sonale di Tommaso, ma anche il fatto che tutto ciò che riusciamo a pensare e a dire sulla fede, per quanto elevato e puro, è infi­nitamente superato dalla grandezza e dalla bellezza di Dio, che ci sarà rivelata in pie­nezza nel Paradiso. Qualche mese dopo, sempre più assorto in una pensosa medita­zione, Tommaso morì mentre era in viaggio verso Lione, dove si stava recando per pren­dere parte al Concilio ecumenico indetto dal Papa Gregorio X. Si spense nell’Abbazia cistercense di Fossanova, dopo aver ricevu­to il Viatico con sentimenti di grande pietà. L a vita e l’insegnamento di san Tom­maso d’Aquino si potrebbero riassu­mere in un episodio tramandato dagli antichi biografi. Mentre il Santo, come suo solito, era in preghiera davanti al Crocifisso, al mattino presto nella cappella di San Ni­cola, a Napoli, Domenico da Caserta, il sa­crestano della chiesa, sentì svolgersi un dia­logo. Tommaso chiedeva, preoccupato, se quanto aveva scritto sui misteri della fede cristiana era giusto. E il Crocifisso rispose: «Tu hai parlato bene di me, Tommaso. Qua­le sarà la tua ricompensa?». E la risposta che Tommaso diede è quella che anche noi, a­mici e discepoli di Gesù, vorremmo sempre dirgli: «Nient’altro che Te, Signore!» ( Ibid. , p.
 320).
 

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mercoledì, 26 maggio 2010

MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE DAVANTI ALLA SACRA SINDONE

Cari amici,

questo è per me un momento molto atteso. In un’altra occasione mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria Icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come Successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”.

Si può dire che la Sindone sia l’Icona di questo mistero, l’Icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio. Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota.

Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.

Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.

Cari fratelli, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.

E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini.

Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale.

In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio.

E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.

Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati - “Passio Christi. Passio hominis” - promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio.

Come parla la Sindone?

Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.

Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità. Grazie.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

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benedettoxvi, sindone

domenica, 04 aprile 2010

BUONA SANTA PASQUA
A TUTTI VOI

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benedettoxvi, giussani

sabato, 09 gennaio 2010

Nell’altro il volto di Dio
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«Meditare sul mistero del volto di Dio e dell’uomo è una via privilegiata che conduce alla pace. Questa, infatti, incomincia da uno sguardo rispettoso, che riconosce nel volto dell’altro una persona, qualunque sia il colore della sua pelle, la sua nazionalità, la sua lingua, la sua religione. Ma chi, se non Dio, può garantire, per così dire, la “profondità” del volto dell’uomo? In realtà, solo se abbiamo Dio nel cuore, siamo in grado di cogliere nel volto dell’altro un fratello in umanità, non un mezzo ma un fine, non un rivale o un nemico, ma un altro me stesso, una sfaccettatura dell’infinito mistero dell’essere umano. La nostra percezione del mondo e, in particolare, dei nostri simili, dipende essenzialmente dalla presenza in noi dello Spirito di Dio».

«Fin da piccoli, è importante essere educati al rispetto dell’altro, anche quando è differente da noi. Ormai è sempre più comune l’esperienza di classi scolastiche composte da bambini di varie nazionalità, ma anche quando ciò non avviene, i loro volti sono una profezia dell’umanità che siamo chiamati a formare: una famiglia di famiglie e di popoli. Più sono piccoli questi bambini, e più suscitano in noi la tenerezza e la gioia per un’innocenza e una fratellanza che ci appaiono evidenti: malgrado le loro differenze, piangono e ridono nello stesso modo, hanno gli stessi bisogni, comunicano spontaneamente, giocano insieme… I volti dei bambini sono come un riflesso della visione di Dio sul mondo. Perché allora spegnere i loro sorrisi? Perché avvelenare i loro cuori? Purtroppo, l’icona della Madre di Dio della tenerezza trova il suo tragico contrario nelle dolorose immagini di tanti bambini e delle loro madri in balia di guerre e violenze: profughi, rifugiati, migranti forzati. Volti scavati dalla fame e dalle malattie, volti sfigurati dal dolore e dalla disperazione. I volti dei piccoli innocenti sono un appello silenzioso alla nostra responsabilità: di fronte alla loro condizione inerme, crollano tutte le false giustificazioni della guerra e della violenza. Dobbiamo semplicemente convertirci a progetti di pace, deporre le armi di ogni tipo e impegnarci tutti insieme a costruire un mondo più degno dell’uomo».
 Benedetto XVI omelia 01.01.2010

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domenica, 03 gennaio 2010

L’augurio del Papa per l’anno nuovo
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Vi auguro che l’amicizia di Nostro Signore Gesù Cristo vi accompagni ogni giorno di questo anno che sta per iniziare. Possa questa amicizia di Cristo essere nostra luce e guida, aiutandoci ad essere uomini di pace, della sua pace. Buon anno a tutti voi!
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 30 dicembre 2009
 

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venerdì, 01 gennaio 2010

L' amore nella conoscenza
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«Il desiderio e l'attesa della verità nella sua interezza sono amore nella conoscenza. Questo amore nella conoscenza è il vero ispiratore e motore della ricerca di tutte le verità particolari e della loro trasmissione; è questo amore a far sapere che queste verità particolari non racchiudono la verità e spingono a rimettersi in marcia. Proprio come leggiamo al paragrafo 30 dell'Enciclica: “C'è sempre bisogno di spingersi più in là: lo richiede la carità nella verità. Andare oltre, però, non significa mai prescindere dalle conclusioni della ragione né contraddire i suoi risultati. Non c'è l'intelligenza e poi l'amore:ci sono l'amore ricco di intelligenza e l'intelligenza piena di amore”».
 Laurent Lafforgue             

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sabato, 26 dicembre 2009

L’incontro con la bellezza ***
L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima e in questo modo le apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei criteri di giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti. Resta per me un’esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera, dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al Vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’uno all’altro e, altrettanto spontaneamente, ci dicemmo «Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera». In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di Realtà presente da rendersi conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della Verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore
(Messaggio del Cardinale Joseph Ratzinger al Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini del 2002, dedicato alla via pulchritudinis)

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giovedì, 24 dicembre 2009

Natale 2009
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Il volantone di Natale di Cl.
La fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo?... perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo. Nell'uomo vi é un'inestinguibile aspirazione nostalgica verso l'infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate é sufficiente: solo il Dio che si é reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell'ampiezza della sua infinità, é in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l'uomo.

Benedetto XVI


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Ora, con questi muscoli che non tengono, con questa stanchezza, con questa facilità alla malinconia, con questo masochismo strano che la vita di oggi tende a favorire o con questa indifferenza e questo cinismo che la vita di oggi rende, come rimedio, necessario per non subire una fatica eccessiva e non voluta, come si fa ad accettare sé e gli altri in nome di un discorso?
Non si può rimanere nell'amore a se stessi senza che Cristo sia una presenza come é una presenza una madre per il bambino. Senza che Cristo sia presenza ora -ora!-, io non posso amarmi ora e non posso amare te ora.

Luigi Giussani

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mercoledì, 23 dicembre 2009

Il presepe raccontato dal papa
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di Benedetto XVI


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Cari fratelli e sorelle, con la novena di Natale, che stiamo celebrando in questi giorni, la Chiesa ci invita a vivere in modo intenso e profondo la preparazione alla Nascita del Salvatore, ormai imminente. Il desiderio, che tutti portiamo nel cuore, è che la prossima festa del Natale ci doni, in mezzo all’attività frenetica dei nostri giorni, serena e profonda gioia per farci toccare con mano la bontà del nostro Dio e infonderci nuovo coraggio.

Per comprendere meglio il significato del Natale del Signore vorrei fare un breve cenno all’origine storica di questa solennità. Infatti,
l’anno liturgico della Chiesa non si è sviluppato inizialmente partendo dalla nascita di Cristo, ma dalla fede nella sua risurrezione. Perciò la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma è la Pasqua; la risurrezione di Cristo fonda la fede cristiana, è alla base dell’annuncio del Vangelo e fa nascere la Chiesa. Quindi essere cristiani significa vivere in maniera pasquale, facendoci coinvolgere nel dinamismo che è originato dal Battesimo e che porta a morire al peccato per vivere con Dio (cfr. Romani 6, 4).

Il primo ad affermare con chiarezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma, nel suo commento al libro del profeta Daniele, scritto verso il 204. Qualche esegeta nota, poi, che in quel giorno si celebrava la festa della dedicazione del tempio di Gerusalemme, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 avanti Cristo. La coincidenza di date verrebbe allora a significare che con Gesù, apparso come luce di Dio nella notte, si realizza veramente la consacrazione del tempio, l’Avvento di Dio su questa terra.

Nella cristianità la festa del Natale ha assunto una forma definita nel IV secolo, quando essa prese il posto della festa romana del "Sol invictus", il sole invincibile; si mise così in evidenza che la nascita di Cristo è la vittoria della vera luce sulle tenebre del male e del peccato.

Tuttavia, la particolare e intensa atmosfera spirituale che circonda il Natale si è sviluppata nel Medioevo, grazie a san Francesco d’Assisi, che era profondamente innamorato dell’uomo Gesù, del Dio-con-noi. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, nella "Vita seconda" racconta che san Francesco "al di sopra di tutte le altre solennità celebrava con ineffabile premura il Natale del Bambino Gesù, e chiamava festa delle feste il giorno in cui Dio, fatto piccolo infante, aveva succhiato a un seno umano" (Fonti Francescane, 199, p. 492).

Da questa particolare devozione al mistero dell’incarnazione ebbe
origine la famosa celebrazione del Natale a Greccio. Essa, probabilmente, fu ispirata a san Francesco dal suo pellegrinaggio in Terra Santa e dal presepe di Santa Maria Maggiore in Roma. Ciò che animava il Poverello di Assisi era il desiderio di sperimentare in maniera concreta, viva e attuale l’umile grandezza dell’evento della nascita del Bambino Gesù e di comunicarne la gioia a tutti.

Nella prima biografia, Tommaso da Celano parla della notte del presepe di Greccio in un modo vivo e toccante, offrendo un contributo decisivo alla diffusione della tradizione natalizia più bella, quella del presepe. La notte di Greccio, infatti
, ha ridonato alla cristianità l’intensità e la bellezza della festa del Natale, e ha educato il popolo di Dio a coglierne il messaggio più autentico, il particolare calore, e ad amare ed adorare l’umanità di Cristo.

Tale particolare approccio al Natale ha offerto alla fede cristiana una nuova dimensione
. La Pasqua aveva concentrato l’attenzione sulla potenza di Dio che vince la morte, inaugura la vita nuova e insegna a sperare nel mondo che verrà. Con san Francesco e il suo presepe venivano messi in evidenza l’amore inerme di Dio, la sua umiltà e la sua benignità, che nell’incarnazione del Verbo si manifesta agli uomini per insegnare un nuovo modo di vivere e di amare.

Il Celano racconta che, in quella notte di Natale, fu concessa a Francesco la grazia di una visione meravigliosa. Vide giacere immobile nella mangiatoia un piccolo bambino, che fu risvegliato dal sonno proprio dalla vicinanza di Francesco. E aggiunge: "Né questa visione discordava dai fatti perché, a opera della sua grazia che agiva per
mezzo del suo santo servo Francesco, il fanciullo Gesù fu risuscitato nel cuore di molti, che l’avevano dimenticato, e fu impresso profondamente nella loro memoria amorosa" (Vita prima, Fonti Francescane, 86, p. 307).

Questo quadro descrive con molta precisione quanto la fede viva e l’amore di Francesco per l’umanità di Cristo hanno trasmesso alla festa cristiana del Natale: la scoperta che Dio si rivela nelle tenere membra del Bambino Gesù.
Grazie a san Francesco, il popolo cristiano ha potuto percepire che a Natale Dio è davvero diventato l'"Emmanuele", il Dio-con-noi, dal quale non ci separa alcuna barriera e alcuna lontananza. In quel Bambino, Dio è diventato così prossimo a ciascuno di noi, così vicino, che possiamo dargli del tu e intrattenere con lui un rapporto confidenziale di profondo affetto, così come facciamo con un neonato.

In quel Bambino, infatti, si manifesta Dio-Amore: Dio viene senza armi, senza la forza, perché non intende conquistare, per così dire, dall’esterno, ma intende piuttosto essere accolto dall’uomo nella libertà; Dio si fa Bambino inerme per vincere la superbia, la violenza, la brama di possesso dell’uomo. In Gesù Dio ha assunto questa condizione povera e disarmante per vincerci con l’amore e condurci alla nostra vera identità. Non dobbiamo dimenticare che il titolo più grande di Gesù Cristo è proprio quello di "Figlio", Figlio di Dio; la dignità divina viene indicata con un termine che prolunga il riferimento all’umile condizione della mangiatoia di Betlemme, pur corrispondendo in maniera unica alla sua divinità, che è la divinità del "Figlio".

La sua condizione di Bambino ci indica, inoltre, come possiamo incontrare Dio e godere della sua presenza. È alla luce del Natale che possiamo comprendere le parole di Gesù: "Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli" (Matteo 18, 3). Chi non ha capito il mistero del Natale, non ha capito l’elemento decisivo dell’esistenza cristiana. Chi non accoglie Gesù con cuore di bambino, non può entrare nel regno dei cieli: questo è quanto Francesco ha voluto ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutti tempi, fino ad oggi.

Preghiamo il Padre perché conceda al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, proprio come fece Francesco a Greccio. Allora potrebbe succedere anche a noi quanto Tommaso da Celano – riferendosi all’esperienza dei pastori nella Notte Santa (cfr. Luca 2, 20) - racconta a proposito di quanti furono presenti all’evento di Greccio: "Ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia" (Vita prima, Fonti Francescane, 86, p. 479).

È questo l'augurio che formulo con affetto a tutti voi, alle vostre famiglie e a quanti vi sono cari. Buon Natale a voi tutti!

(Catechesi tenuta da Benedetto XVI all'udienza generale di mercoledì 23 dicembre 2009).

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giovedì, 29 ottobre 2009
I giovani nell'era di Nietzche
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di Matteo Lusso

"Ahimè! Sta per giungere il tempo in cui l'uomo non scoccherà più la freccia del suo desiderio oltre l'essere umano e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare"
 (Nietzche, Così parlò Zarathustra, 1885).

"Nei prossimi anni il mondo sarà sottosopra: dopo che il vecchio Dio è stato congedato, sarò io a reggere il mondo
"(Nietzche, lettera a Carl Fuchs, 18 dicembre 1888).

Verrebbe innanzitutto da dire che quel tempo è giunto, che la profezia di Nietzche/Zarathustra si è perfettamente avverata. Il mondo di oggi - anche quello dei giovani - è così: l'uomo ha disimparato a tendere l'arco del proprio desiderio, l'obiettivo della freccia è sempre a corto raggio e come il bambino si esalta quando riesce a superare una prova che gli viene facilitata, così l'uomo di oggi si accontenta ed è appagato di ciò che riempie facilmente la sua vita, dentro il perimetro ristretto del proprio desiderio. Siamo in fondo contenti così, va bene così, proprio perché non sappiamo reagire, non sapremmo far vibrare l'arco e scoccare la freccia verso orizzonti più lontani, perché abbiamo disimparato a desiderare. Avere il vestito firmato, trascorrere una settimana al mare con il proprio "tipo/a", un bel cellulare, andare bene a scuola e poter tornare all'ora in cui si vuole la notte: ecco la portata - ben identificabile - degli obiettivi della propria freccia. D'altra parte è così che ci vuole il mondo: rassegnati, impegnati, indaffarati, distratti: così siamo fedeli consumatori e perfetti cittadini. L'importante è non disturbare, non lasciarsi prendere dall'irrequietudine, non creare problemi, tanto non serve.... il mondo è un meccanismo troppo perfetto per essere inceppato. Un gioco, in cui i giocatori sanno già chi vince: ribellarsi un po' va bene, fa parte del gioco, è concesso all'adolescente questo margine di creatività ma anche lui stesso sa che presto o tardi il gioco finirà e per questo non si prenderà sul serio più di tanto. Chi non sa accettare il limite rischia grosso, chi non rientra in tempo, chi va oltre il prevedibile o il concesso.... Succede, soprattutto ai più sensibili o vivaci! Allora saranno guai davvero ed arriveranno schiere di esperti del disagio giovanile, della devianza, del recupero. Sono rischi previsti dalla società per chi non ha capito che si trattava di un gioco e che il ritorno alla realtà era inevitabile.

Forse per Nietzche più che una profezia si trattava di un auspicio: che l'uomo impari a non desiderare altro che l'essere umano, che l'arco del desiderio disimpari a vibrare significa accettare finalmente e sino in fondo la propria mortalità, imparare a cercare il senso della terra nel vivere stesso, scoprire il senso del proprio cammino umano giorno dopo giorno mentre si compie il cammino stesso. Non più ipotesi di senso assolute ed universali ma unicamente costruite, cercate, verificate nella propria ed irripetibile biografia. Ma il grande pensatore tedesco, se fosse presente oggi, credo dovrebbe lealmente constatare che, in luogo del superuomo, l'io nato dalla morte di Dio è un bambino smarrito in una foresta di giocattoli.

Ai giovani che incontro amo dire: dovete imparare a difendervi, dovete imparare a difendervi dai vostri padri (in senso generazionale), malgrado nessuno abbia intenzioni cattive, dovete difendervi dalla nostra confusione e dal nostro smarrimento. Dovete farlo perché la vita è vostra ed è terribilmente bella e voi avete diritto a goderne pienamente.
La cultura nichilista di oggi, che esalta la libertà individuale e rifiuta la sacralità della vita, è stata paragonata dal Papa alla follia hitleriana. «I lager nazisti, come ogni campo di sterminio, possono essere considerati simboli estremi del male, dell'inferno che si apre sulla terra quando l'uomo dimentica Dio e a Lui si sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di dare la vita e la morte», ha detto infatti Benedetto XVI all'Angelus, denunciando che «purtroppo questo triste fenomeno non è circoscritto ai lager. Essi sono piuttosto la punta culminante di una realtà ampia e diffusa, spesso dai confini sfuggenti».

«Bisogna riflettere sulle profonde divergenze che esistono tra l'umanesimo ateo e l'umanesimo cristiano; un'antitesi che attraversa tutta quanta la storia, ma che alla fine del secondo millennio, con il nichilismo contemporaneo, è giunta a un punto cruciale, come grandi letterati e pensatori hanno percepito, e come gli avvenimenti hanno ampiamente dimostrato». «Da una parte - ha rilevato il Pontefice - ci sono filosofie e ideologie, ma sempre più anche modi di pensare e di agire, che esaltano la libertà quale unico principio dell'uomo, in alternativa a Dio, e in tal modo trasformano l'uomo in un dio, che fa dell'arbitrarietà il proprio sistema di comportamento. Dall'altra - ha continuato - abbiamo i santi, che, praticando il Vangelo della carità, rendono ragione della loro speranza; essi mostrano il vero volto di Dio, che è Amore, e, al tempo stesso, il volto autentico dell'uomo, creato a immagine e somiglianza divina». (Angelus, 9 agosto 2009)


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nichilismo, nietzsche, benedettoxvi

venerdì, 23 ottobre 2009
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 “Quando si parla di tesori dell’Africa, il pensiero va subito alle risorse di cui è ricco il suo territorio e che purtroppo sono diventate e talora continuano ad essere motivo di sfruttamento, di conflitti e di corruzione. Invece la Parola di Dio ci fa guardare a un altro patrimonio: quello spirituale e culturale, di cui l’umanità ha bisogno ancor più che delle materie prime. “Infatti – direbbe Gesù – quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita?” (Mc 8,36). Da questo punto di vista, l’Africa rappresenta un immenso “polmone” spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza. Ma anche questo “polmone” può ammalarsi. E al momento almeno due pericolose patologie lo stanno intaccando: anzitutto, una malattia già diffusa nel mondo occidentale, cioè il materialismo pratico, combinato con il pensiero relativista e nichilista. Senza entrare nel merito della genesi di tali mali dello spirito, rimane tuttavia indiscutibile che il cosiddetto “primo” mondo talora ha esportato e sta esportando tossici rifiuti spirituali, che contagiano le popolazioni di altri continenti, tra cui in particolare quelle africane. In questo senso il colonialismo, finito sul piano politico, non è mai del tutto terminato. Ma, proprio in questa stessa prospettiva, va segnalato un secondo “virus” che potrebbe colpire anche l’Africa, cioè il fondamentalismo religioso, mischiato con interessi politici ed economici. Gruppi che si rifanno a diverse appartenenze religiose si stanno diffondendo nel continente africano; lo fanno nel nome di Dio, ma secondo una logica opposta a quella divina, cioè insegnando e praticando non l’amore e il rispetto della libertà, ma l’intolleranza e la violenza.”
Benedetto XVI
brano dell’omelia durante la messa per l’apertura del Sinodo sull’Africa

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domenica, 11 ottobre 2009
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Mi ricordo in questo momento di un'altra piccola storia che mi ha raccontato poco tempo fa un vescovo in visita "ad limina": c'era una donna non cristiana molto intelligente che cominciava a sentire la grande musica di Bach, Haendel, Mozart. Era affascinata e un giorno ha detto: "Devo trovare la fonte da dove poteva venire questa bellezza", e la donna si è convertita al Cristianesimo, alla fede cattolica, perché aveva trovato che questa bellezza ha una fonte, e la fonte è la presenza di Cristo nei cuori, è la rivelazione di Cristo in questo mondo.
 Benedetto XVI - Loreto 01/09/2007

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esperienza, benedettoxvi

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Mi ricordo in questo momento di una piccola storia che Giovanni Paolo II ha raccontato negli Esercizi da lui predicati in Vaticano quando non era ancora Papa. Ha raccontato che dopo la guerra è stato visitato da un ufficiale russo che era scienziato, il quale gli ha detto da scienziato: "Sono sicuro che Dio non esiste. Ma se mi trovo in montagna, davanti alla sua maestosa bellezza, davanti alla sua grandezza, sono ugualmente sicuro che il Creatore esiste e che Dio esiste".
 Benedetto XVI - 1 set 2007 - Piana di Montorso - Veglia di preghiera con i giovani

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venerdì, 02 ottobre 2009
I frutti della cultura secolarizzata
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È possibile individuare infatti due linee di fondo dell’attuale cultura secolarizzata, tra loro chiaramente interdipendenti, che spingono in direzione contraria all’annuncio cristiano e non possono non avere un’incidenza su coloro che stanno maturando i propri orientamenti e scelte di vita. Una di esse è quellagnosticismo che scaturisce dalla riduzione dell’intelligenza umana a semplice ragione calcolatrice e funzionale e che tende a soffocare il senso religioso iscritto nel profondo della nostra natura. L’altra è quel processo di relativizzazione e di sradicamento che corrode i legami più sacri e gli affetti più degni dell’uomo, col risultato di rendere fragili le persone, precarie e instabili le nostre reciproche relazioni.
BENEDETTO XVI
IN OCCASIONE DEL CONVEGNO ECCLESIALE
DELLA DIOCESI DI ROMA giugno 2006

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domenica, 20 settembre 2009

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“Simeone il Nuovo Teologo insiste sul fatto che la vera conoscenza di Dio non viene dai libri, ma dall’esperienza spirituale, dalla vita spirituale. La conoscenza di Dio nasce da un cammino di purificazione interiore, che ha inizio con la conversione del cuore, grazie alla forza della fede e dell’amore; passa attraverso un profondo pentimento e dolore sincero per i propri peccati, per giungere all’unione con Cristo, fonte di gioia e di pace, invasi dalla luce della sua presenza in noi. Per Simeone tale esperienza della grazia divina non costituisce un dono eccezionale per alcuni mistici, ma è il frutto del Battesimo nell’esistenza di ogni fedele seriamente impegnato.”
BenedettoXVI Udienza del mercoledì (16 settembre 2009)

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venerdì, 21 agosto 2009
Solo nella verità la carità risplende
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". Per questo stretto collegamento con la verità, la carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura pubblica. Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l'intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale. Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme « Agápe » e « Lógos »: Carità e Verità, Amore e Parola. “

Lettera enciclica, “Caritas in veritate” di Benedetto XVI 2009.

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venerdì, 17 luglio 2009
La “fede adulta”
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"Sul referendum sulla fecondazione assistita sono un cattolico adulto e andrò a votare. Mi sento tranquillo sui valori, non abbiamo da imparare da nessuno".
Romano Prodi  8 marzo 2005

"La parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo.

È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta”. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo.

Così fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo.

La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda. Sa che questi venti non sono il soffio dello Spirito Santo; sa che lo Spirito di Dio s’esprime e si manifesta nella comunione con Gesù Cristo.

Tuttavia, anche qui Paolo non si ferma alla negazione, ma ci conduce al grande “sì”. Descrive la fede matura, veramente adulta in maniera positiva con l’espressione: “agire secondo verità nella carità” (cfr. Efesini 4, 15). Il nuovo modo di pensare, donatoci dalla fede, si volge prima di tutto verso la verità. Il potere del male è la menzogna. Il potere della fede, il potere di Dio è la verità. La verità sul mondo e su noi stessi si rende visibile quando guardiamo a Dio. E Dio si rende visibile a noi nel volto di Gesù Cristo.

Guardando a Cristo riconosciamo un’ulteriore cosa: verità e carità sono inseparabili. In Dio, ambedue sono inscindibilmente una cosa sola: è proprio questa l’essenza di Dio. Per questo, per i cristiani verità e carità vanno insieme. La carità è la prova della verità. Sempre di nuovo dovremo essere misurati secondo questo criterio, che la verità diventi carità e la carità ci renda veritieri."

Benedetto XVI - 28.06.09

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domenica, 05 luglio 2009
Conoscenza attraverso la corrispondenza
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« Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al Fedro di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo "entusiasma" attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto. Nel discorso di Aristofane del Simposio si afferma che gli amanti non sanno ciò che veramente vogliono l’uno dall’altro. E’ al contrario evidente che le anime di entrambi sono assetate di qualcos’altro che non sia il piacere amoroso. Questo "altro" però l’anima non riesce a esprimerlo, "ha solamente una vaga percezione di ciò che veramente essa vuole e ne parla a se stessa come un enigma". Nel XIV secolo, nel libro sulla vita di Cristo del teologo bizantino Nicolas Kabasilas si ritrova questa esperienza di Platone, nella quale l’oggetto ultimo della nostalgia continua a rimanere senza nome, trasformato dalla nuova esperienza cristiana. Kabasilas afferma: "Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo".
La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo. Ciò che afferma Platone e, più di 1500 anni dopo, Kabasilas non ha nulla a che fare con l’estetismo superficiale e con l’irrazionalismo, con la fuga dalla chiarezza e dall’importanza della ragione. Bellezza è conoscenza, certamente, una forma superiore di conoscenza poiché colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità. In ciò Kabasilas è rimasto interamente greco, in quanto egli pone la conoscenza all’inizio. "Origine dell’amore è la conoscenza – egli afferma – la conoscenza genera l’amore". Occasionalmente –così prosegue – la conoscenza potrebbe essere talmente forte da sortire allo stesso tempo l’effetto di un filtro d’amore". Egli non lascia questa affermazione in termini generali. Com’è caratteristico del suo pensiero rigoroso, egli distingue due tipi di conoscenza: la conoscenza attraverso l’istruzione che rimane conoscenza, per così dire, "di seconda mano" e non implica alcun contatto diretto con la realtà stessa. Il secondo tipo, al contrario, è conoscenza attraverso la propria esperienza, attraverso il rapporto con le cose. "Quindi, fintanto che noi non abbiamo fatto esperienza di un essere concreto, non amiamo l’oggetto così come esso dovrebbe essere amato". La vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della bellezza che ferisce l’uomo, essere toccati dalla realtà, "dalla personale presenza di Cristo stesso" come egli dice. L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale. Non dobbiamo certo sottovalutare il significato della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e rigoroso: esso rimane assolutamente necessario. Ma da qui, disdegnare o respingere il colpo provocato dalla corrispondenza del cuore nell’incontro con la bellezza come vera forma della conoscenza, ci impoverisce e inaridisce la fede, così come la teologia. Noi dobbiamo ritrovare questa forma di conoscenza, è un’esigenza pressante del nostro tempo»
CARDINALE JOSEPH RATZINGER PER IL MEETING 2002.

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giovedì, 02 luglio 2009
Il relativismo in teologia:
 l'abolizione della cristologia
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L'identificazione di una singola figura storica, Gesù di Nazaret, con la "realtà" stessa, ossia con il Dio vivente, viene respinta come una ricaduta nel mito; Gesù viene espressamente relativizzato come uno dei tanti geni religiosi. Ciò che è assoluto, oppure Colui che è l'assoluto, non può darsi nella storia, dove si hanno solo modelli, solo figure ideali che ci rinviano al totalmente altro, il quale non si può afferrare come tale nella storia. È chiaro che anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono più avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere assoluto, considerarli anzi come un incontro reale con la verità, valida per tutti, del Dio che si rivela, significherebbe collocare su un piano assoluto ciò che è particolare e travisare perciò l'infinità del Dio totalmente altro.
In base a questa concezione, che ha assunto oggi una posizione rilevante, anche al di là delle teorie di Hick, il ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene ritenuto un fondamentalismo che si presenta come un autentico attentato contro lo spirito moderno e come una minaccia multiforme contro il suo bene principale, la tolleranza e la libertà. Anche il concetto di dialogo, che nella tradizione platonica e cristiana aveva acquisito una funzione significativa, assume ora un senso diverso. Diventa addirittura l'essenza del Credo relativista e l'opposto della "conversione" e della missione: in una concezione relativista dialogo significa porre su uno stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri, e in linea di principio non ritenerla più vera della posizione dell'altro. (...)
 Cardinal Ratzinger

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domenica, 07 giugno 2009
L'essere umano porta "nel proprio genoma" la "traccia profonda" dell'amore divino
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"La prova più forte che siamo fatti ad immagine della Trinità è questa: solo l'amore ci rende felici, perché viviamo per amare ed essere amati", ha detto Benedetto XVI all'Angelus domenicale in piazza San Pietro. "Usando un'analogia suggerita dalla biologia, diremmo che l'essere umano porta nel proprio 'genoma' la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore".
Affacciato alla finestra del suo studio nel palazzo apostolico, Papa Ratzinger ha affermato: "Dio è tutto e solo amore, amore purissimo, infinito ed eterno. Non vive in una splendida solitudine, ma è piuttosto fonte inesauribile di vita che incessantemente si dona e si comunica. Lo possiamo in qualche misura intuire osservando sia il macro-universo: la nostra terra, i pianeti, le stelle, le galassie, sia il micro-universo: le cellule, gli atomi, le particelle elementari. In tutto ciò - ha detto il Papa rivolgendosi alle migliaia di fedeli e pellegrini presenti all'interno del colonnato berninaiano - che esiste è impresso il 'nome' della Santissima Trinità, perché tutto proviene dall'amore, tende all'amore, e si muove spinto dall'amore, naturalmente - ha sottolineato - con gradi diversi di consapevolezza e di libertà". Oggi, nel calendario liturgico della Chiesa cattolica, si celebra la santissima Trinità.

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benedettoxvi

venerdì, 22 maggio 2009
Il senso di colpa
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Görres mostra che il senso di colpa, la capacità di riconoscere la colpa appartiene all’essenza stessa della struttura psicologica dell’uomo. Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può esser definito come una protesta della coscienza contro la mia esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo, che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo. Chi non è più capace di percepire la colpa è spiritualmente ammalato, è "un cadavere vivente, una maschera da teatro", come dice Görres. "Sono i mostri che, tra altri bruti, non hanno nessun senso di colpa. Forse ne erano totalmente sprovvisti Hitler o Himmler o Stalin. Forse non ne hanno nessuno i padrini della mafia, ma forse le loro spoglie sono solo ben nascoste in cantina. Anche i sensi di colpa abortiti... Tutti gli uomini hanno bisogno di sensi di colpa".
Del resto anche solo uno sguardo alla Sacra Scrittura avrebbe potuto preservare da simili diagnosi e da una simile teoria della giustificazione mediante la coscienza erronea. Nel salmo 19, 13 è contenuta quest’affermazione, sempre meritevole di ponderazione: "Chi si accorge dei propri errori? Liberami dalle colpe che non vedo!". Qui non si tratta di oggettivismo veterotestamentario, ma della più profonda saggezza umana; il non vedere più le colpe, l’ammutolirsi della voce della coscienza in così numerosi ambiti della vita è una malattia spirituale molto più pericolosa della colpa, che uno è ancora in grado di riconoscere come tale. Chi non è più in grado di riconoscere che uccidere è peccato, è caduto più profondamente di chi può ancora riconoscere la malizia del proprio comportamento, poiché si è allontanato maggiormente dalla verità e dalla conversione. Non per niente, nell’incontro con Gesù, chi si autogiustifica appare come colui che è veramente perduto. Se il pubblicano, con tutti i suoi innegabili peccati, sta davanti a Dio più giustificato del fariseo con tutte le sue opere veramente buone (Lc 18, 9-14), ciò avviene non perché in qualche modo i peccati del pubblicano non siano veramente peccati e le buone opere del fariseo non siano buone opere. Ciò non significa affatto che il bene che l’uomo compie non sia bene davanti a Dio e che il male non sia male davanti a Lui e neppure che ciò non sia poi in fondo così importante. La ragione vera di questo giudizio paradossale di Dio si mostra proprio a partire dalla nostra questione: il fariseo non sa più che anch’egli ha delle colpe. È completamente in pace con la sua coscienza. Ma questo silenzio della coscienza lo rende impenetrabile per Dio e per gli uomini. Invece il grido della coscienza, che non da tregua al pubblicano, lo fa capace di verità e di amore. Per questo Gesù può operare con successo nei peccatori, perché essi non sono diventati, dietro il paravento di una coscienza erronea, impermeabili a quel cambiamento, che Dio attende da essi, così come da ciascuno di noi. Egli non può invece avere successo con i "giusti", precisamente perché ad essi sembra di non aver bisogno di perdono e di conversione; infatti la loro coscienza non li accusa più, ma piuttosto li giustifica.
Joseph Card. Ratzinger
"Il Sabato", 16 marzo 1991

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benedettoxvi

domenica, 17 maggio 2009
Fede fra ragione e sentimento
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1. La crisi della fede nel mondo contemporaneo
Nei suoi dialoghi «sulla fìsica atomica» Werner Heisenberg racconta di un incontro che ebbe luogo nel 1927 a Bruxelles con alcuni giovani fisici, al quale oltre allo stesso Heisenberg partecipavano anche Wolfgang Pauli e Paul Dirac. Si venne a parlare del fatto che Einstein faccia spesso menzione di Dio e che Max Planck sia dell’idea che non esista nessun contrasto tra scienza e religione; entrambe sarebbero – ciò che allora era un concetto abbastanza sorprendente – molto ben conciliabili fra loro. Heisenberg interpretava questa nuova apertura dello scienziato alla religione a partire dalle esperienze della propria casa paterna. Al fondo vi è la concezione che nella scienza e nella religione si tratti di due sfere completamente diverse, senza interferenze reciproche: nella scienza si tratta del vero o del falso; nella religione del buono e del cattivo, di ciò che ha valore o non ha valore. I due ambiti vengono riferiti separatamente all’aspetto oggettivo e a quello soggettivo del mondo. «La scienza è per così dire il modo, con cui noi affrontiamo la dimensione obiettiva della realtà... La fede religiosa è invece l’espressione di una decisione soggettiva, con la quale stabiliamo per noi i valori, secondo i quali ci regoliamo nella vita»[1]. Questa decisione avrebbe naturalmente diversi presupposti nella storia e nella cultura, nell’educazione e nell’ambiente, ma sarebbe – Heisenberg descrive ancora sempre l’immagine del mondo dei suoi genitori e quella di Max Planck – in ultima analisi soggettiva e pertanto non esposta al criterio «vero o falso». Planck si sarebbe in questo modo deciso soggettivamente per il mondo dei valori cristiani; i due ambiti – aspetto oggettivo e soggettivo del mondo – rimanevano però accuratamente distinti. A questo punto Heisenberg aggiunge: «Devo confessare che a me questa separazione è causa di disagio. Dubito che comunità umane possano vivere a lungo con questa netta spaccatura fra scienza e fede»[2]. A questo punto prende la parola Wolfgang Pauli e rafforza il dubbio di Heisenberg, elevandolo addirittura a certezza: «La totale separazione fra scienza e fede è certamente un espediente per un tempo molto limitato. Nell’ambiente culturale occidentale ad esempio in un futuro non troppo lontano potrebbe giungere il momento, in cui le metafore e le immagini della religione finora dominante non avranno più nessuna forza di convinzione neppure per la gente semplice; allora, così temo, anche l’etica finora vigente crollerà in brevissimo tempo ed accadranno cose di un’atrocità, che oggi noi non ci possiamo ancora neppure immaginare» [3].
Nel frattempo il crollo delle antiche certezze religiose che allora, 70 anni fa, si stava solo preannunciando è divenuto ampiamente realtà, ed il timore di un crollo ad esso inevitabilmente connesso dell’etica intera diviene più forte e generale.
Non vorrei qui soffermarmi ulteriormente a descrivere come Heisenberg con i suoi amici tanto nel dialogo del 1927 come in uno analogo del 1952, tenti di aprire una via per uscire da questa schizofrenia della modernità, cerchi a partire da un pensiero scientifico che si interroga sui suoi fondamenti di giungere ad una visione generale ed organica, che divenga punto di riferimento del nostro agire e allo stesso tempo appartenga sia all’ambito soggettivo che oggettivo [4]. Infatti questo è il problema, che il tema di questa conferenza pone.
Cerchiamo pertanto innanzitutto di riassumere e di precisare che cosa è emerso fino ad ora. L’illuminismo aveva perseguito l’ideale della «religione all’interno dei confini della ragion pura». Ma questa religione della ragione pura si è presto sgretolata, e soprattutto non aveva nessuna forza che sostenesse la vita: una religione, che deve diventare la forza portante per tutta la vita, necessita infatti di una certa evidenza. La decadenza delle antiche religioni come la crisi del cristianesimo nell’epoca moderna rivelano questo: quando la religione non può più armonizzarsi con le certezze elementari di una determinata visione del mondo, essa si dissolve. Ma d’altra parte la religione ha bisogno di un’autorevolezza, che vada al di là di ciò che si può pensare da se stesso, infatti solo così è accettabile l’istanza assoluta, che essa pone agli uomini. Così dopo la fine dell’illuminismo a partire dalla consapevolezza dell’irrinunciabilità della dimensione religiosa si è andati alla ricerca di un nuovo spazio per la religione, nel quale essa al riparo per così dire dalle continue scoperte della ragione, doveva poter vivere in una costellazione non più raggiungibile, da quella non minacciata. Perciò le si era attribuito il «sentimento» come l’ambito dell’esistenza umana ad essa proprio. È divenuta classica la risposta di Faust alla domanda di Margherita sulla religione: «Il sentimento è tutto. Il nome è suono e fumo...». Ma la religione, per quanto sia anche necessaria la sua distinzione dal piano della scienza, non si può ridurre ad un ambito particolare. Essa esiste proprio per questo, per integrare l’uomo nella sua totalità, per unire reciprocamente in modo organico sentimento, ragione e volontà e per dare una risposta alla provocazione della totalità, alla sfida della vita e della morte, della comunità e dell’io, del presente e del futuro. Non deve avere la presunzione di risolvere quei problemi, che hanno le loro proprie leggi interne, ma deve rendere capaci di decisioni ultime, nelle quali è in gioco sempre la totalità dell’uomo e del mondo. E proprio di qui deriva in verità la nostra situazione di difficoltà, dal fatto che oggi dividiamo il mondo in modo settoriale e così in un modo finora mai visto possiamo disporne nel pensiero e nell’azione, ma gli interrogativi non rinviabili circa la verità ed i valori, circa la vita e la morte diventano così sempre più irresolubili.
La crisi dell’epoca presente deriva proprio dal fatto che è venuta meno la mediazione fra l’ambito soggettivo e quello oggettivo, ragione e sentimento si allontanano sempre più l’uno dall’altra e così perdono entrambi di vigore e di vitalità. Infatti la ragione settorialmente specializzata è sì incredibilmente forte e capace di risultati, ma a motivo della standardizzazione di un unico tipo di certezza e di ragionevolezza non permette più uno sguardo che penetri le questioni fondamentali dell’essere umano. Ne segue un’ipertrofia nell’ambito della conoscenza tecnico-pragmatica, alla quale si contrappone un’atrofizzazione nell’ambito delle questioni di fondo e così un disturbo dell’equilibrio generale, che può divenire mortale per l’umanità. Da parte sua per altro la religione oggi non è affatto scomparsa. Esiste anzi da molteplici punti di vista un aumento della richiesta religiosa, che però si sgretola nel particolarismo, si distacca dal suo grande contesto spirituale e, invece di innalzare l’uomo, gli promette un aumento di potere e una soddisfazione di bisogni. L’irrazionale, il superstizioso, il magico viene ricercato; incombe la minaccia di un ritorno a forme anarchico-distruttrici di interazione con potenze e forze occulte. Si potrebbe essere tentati di dire che oggi non vi è nessuna crisi della religione, ma piuttosto una crisi del cristianesimo. Io però non sarei d’accordo. Infatti il semplice diffondersi di fenomeni religiosi o parareligiosi non è ancora una fioritura della religione. Quando si assiste ad un aumento di forme morbose del fenomeno religioso, ciò dimostra sì che la religione non va scomparendo, ma rivela che essa è di fatto in una condizione di seria crisi. Anche il fenomeno apparente, secondo cui al posto del cristianesimo ormai allo stremo siano ora in ascesa le religioni asiatiche o l’Islam, inganna. È evidente che in Cina e in Giappone le grandi religioni tradizionali non riescono a fare fronte o solo in modo insufficiente alla pressione delle ideologie moderne. Ma anche la vitalità religiosa dell’India non toglie nulla al rilievo, che anche là non è finora riuscito un felice incontro fra i nuovi problemi e le antiche tradizioni. Quanto il nuovo slancio del mondo islamico sia nutrito da forze autenticamente religiose, resta ugualmente da chiederselo. Sotto molti aspetti – lo vediamo – è in agguato anche qui la minaccia di un’autonomizzazione patologica del sentimento, che rafforza soltanto la minaccia di quelle atrocità, di cui Pauli, Heisenberg ed altri ci hanno parlato.

Non c’è alternativa: ragione e religione devono ritornare insieme, senza dissolversi l’una nell’altra. Non è in questione la tutela degli interessi di antiche corporazioni religiose. È in questione l’uomo, è in questione il mondo. Ed entrambi non sono evidentemente salvabili, se Dio non si rende visibile in un modo convincente. Nessuno può avere la presunzione di conoscere una soluzione perfetta, per come risolvere questa situazione di difficoltà. Questo non è possibile già per il fatto che in una società libera la verità non può e non deve cercare altri mezzi per affermarsi se non la forza della convinzione, ma la convinzione si forma solo a fatica nella molteplicità delle impressioni e delle istanze che premono sugli uomini. Un tentativo di trovare la via d’uscita deve però essere fatto, anche per ridare plausibilità, attraverso convergenze che si manifestano, a ciò che per lo più si trova molto al di là dell’orizzonte dei nostri interessi.

2. Il Dio di Abramo
Non è mia intenzione riprendere qui il tentativo di Heisenberg di trovare a partire dalla logica propria del pensiero scientifico l’autosuperamento della scienza e l’approdo ad una «visione generale ed organica», per quanto utile e indispensabile tale ricerca sia. Il mio tentativo in questa conferenza tende a mettere in luce, per così dire, l’interiore razionalità del fatto cristiano. Questo si realizzerà nel senso che ci chiederemo che cosa ha propriamente dato al cristianesimo nel crollo delle religioni del mondo antico quella forza di convinzione, per cui esso da una parte ha arrestato l’affondare di quel mondo e allo stesso tempo fu in grado di trasmettere in tal modo le sue risposte alle nuove forze che stavano entrando sulla scena della storia del mondo, i germani e gli slavi, che di qui nonostante molte trasformazioni e crolli è nata una forma di comprensione della realtà che è durata oltre un millennio e mezzo, nel quale antico e nuovo mondo poterono fondersi.
Cercherò quindi di mostrare brevemente l’interiore razionalità del cristianesimo. Ma la religione cristiana non è un sistema, è una storia, un cammino. L’essenza del cristianesimo appare solo nella logica del suo cammino storico. Perciò cercherò di mostrare la logica, che si dischiude nell’evolgersi storico della fede, sperando che così appaia una razionalità profonda, che ha il suo valore anche oggi, proprio oggi. Quel cammino che ebbe il suo inizio con Abramo. Naturalmente non posso e non intendo qui entrare nel groviglio delle molteplici ipotesi circa ciò che negli antichi racconti può essere considerato come storico e ciò che non può esserlo. Qui si tratta solo di chiedersi come vedono quel cammino quei testi stessi che alla fine sono stati decisivi per la storia.
Chi era quest’uomo Abramo, al quale si riferiscono ebrei, cristiani, musulmani? Qui vi è allora da dire che Abramo era un uomo, che aveva la consapevolezza di essere stato interpellato da un Dio e che conformò la sua vita a partire da questa parola. Si potrebbe pensare per qualcosa di simile a Socrate, al quale un «daimonion», una singolare forma di ispirazione, pur non rivelando di fatto niente di positivo, tuttavia sbarrava la strada, se egli voleva abbandonarsi solo alle sue proprie idee o accodarsi all’opinione generale [5]. Quale interesse può avere per noi questo Dio di Abramo? Questo Essere, che parla ad Abramo, non si presenta ancora con la precisa fisionomia monoteistica dell’unico Dio di tutti gli uomini e di tutto il mondo, ma ha però una fisionomia molto specifica. Questo Essere, questa voce non è il Dio di una determinata nazione, di un determinato territorio; non il Dio di un determinato ambito, ad esempio dell’aria o dell’acqua, ecc., che nel contesto religioso di allora erano alcune delle più importanti forme di manifestazione del divino. Egli è il Dio di una persona, e cioè di Abramo. Questa particolarità di non appartenere ad una terra, ad un popolo, ad un ambito vitale, ma di associarsi ad una persona, ha due conseguenze degne di menzione.

La prima conseguenza era che questo Essere, questo Dio può esercitare ovunque il suo potere in favore di colui che gli appartiene, della persona da lui eletta. Il suo potere non è vincolato a determinati limiti geografici o di altro tipo, ma egli può accompagnare, proteggere, guidare quella persona, ovunque egli vuole e ovunque questa persona si rechi. Anche la promessa della terra non lo rende il Dio di un territorio, che poi diverrebbe quello soltanto suo. Essa mostra piuttosto che egli può distribuire terre, come vuole. Possiamo quindi dire: II Dio-di-una-per-sona opera prescindendo dal luogo. A ciò si aggiunge come secondo elemento che egli opera anche transtemporalmente, anzi, la sua forma di parlare e di agire è essenzialmente il futuro. La sua dimensione sembra – a prima vista in ogni caso –principalmente essere il futuro, e meno il presente. Tutto l’essenziale è dato nella categoria della promessa di ciò che verrà – la benedizione, la terra. Ciò significa che manifestamente egli può disporre del futuro, del tempo. Per la persona interessata ciò comporta un atteggiamento di forma del tutto particolare. Essa deve sempre vivere al di là del presente, una vita verso qualcosa di altro, di più grande. Il presente viene relativizzato. Se infine – questo potrebbe essere un terzo elemento – si indica la proprietà particolare di un Dio, il suo essere altro rispetto agli altri e all’altro con il concetto di «santità», allora diviene visibile che questa sua santità, il suo essere stesso ha qualcosa a che fare con la dignità dell’uomo, con la sua integrità morale, come la storia di Sodoma e Gomorra mostra. In essa viene messa in luce da una parte la provvidenza, la bontà di questo Dio, che a motivo di alcuni buoni è disposto anche a risparmiare i cattivi; ma viene messo in luce anche il no alla distruzione della dignità umana, che si esprime proprio nel giudizio sulle due città.

3. Crisi e allargamento della fede di Israele nell’esilio
Nello sviluppo successivo fino all’alleanza delle dodici tribù, con l’occupazione della terra, la nascita della monarchia, la costruzione del tempio ed una legislazione cultuale ampiamente differenziata la religione di Israele sembra immergersi largamente nel modello religioso del vicino Oriente. Il Dio dei padri, il Dio del Sinai, è ora divenuto il Dio di un popolo, di una terra, di un determinato ordinamento di vita. Che questo non sia tutto, che qualcosa di specifico resti e che in tutti i mutamenti della vita religiosa in Israele la particolarità, la diversità della sua fede in Dio si apra un varco, anzi si ampli ulteriormente, si rivela nel momento dell’esilio. Normalmente un Dio che perde la sua terra, lascia il suo popolo sconfitto e non è stato in grado di difendere il suo santuario, è un Dio detronizzato. Non ha più nulla da dire. Scompare dalla storia. Nell’esilio di Israele sorprendentemente avviene il contrario. Emerge la grandezza di questo Dio, la sua totale alterità rispetto alle divinità delle altre religioni, la fede di Israele acquista soltanto ora la sua vera grandezza. Questo Dio può permettersi di lasciare ad altri la sua terra, perché non è legato a nessuna terra. Può lasciare che il suo popolo sia vinto, per risvegliarlo proprio così dai suoi falsi sogni religiosi. Non dipende da questo popolo, ma non lo lascia affondare nella sconfitta. Non dipende dal tempio e dal culto ivi celebrato, secondo quella che è la concezione comune: gli uomini nutrono gli dei, e gli dei sostengono il mondo. No, non ha bisogno di questo culto, che celava sotto un certo aspetto la sua essenza. Così insieme ad una approfondita immagine di Dio si fa luce anche una nuova idea di culto. Certamente già dal tempo di Salomone si era verificata l’equiparazione del Dio personale dei padri con il Dio di tutti, il creatore, che tutte le religioni conoscono, ma generalmente escludono dal culto come Dio non competente per le proprie necessità. Questa identificazione compiutasi in linea di principio, anche se fino allora nella coscienza verosimilmente poco efficace diviene ora la forza della sopravvivenza: Israele non ha un Dio particolare, ma adora semplicemente l’unico Dio esistente. Questo Dio ha parlato ad Abramo ed ha scelto Israele, ma in realtà egli è il Dio di tutti i popoli, il Dio comune, che guida tutta la storia. Ne consegue la purificazione dell’idea di culto. Dio non ha bisogno di nessun sacrificio, egli non deve essere mantenuto dagli uomini, perché tutto gli appartiene. Il vero sacrificio è l’uomo che è divenuto conforme al piano di Dio. 300 anni dopo l’esilio, nella crisi altrettanto grave della soppressione ellenistica del culto del tempio, il libro di Daniele così si esprime: «Ora non abbiamo più né principe né profeta..., né sacrificio, né oblazione... né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato» (Dn 3,38s). Con il venir meno di un presente conforme alla potenza e alla bontà di Dio emerge anche nuovamente in modo più forte la dimensione del futuro nella fede di Israele, ovvero diciamo forse meglio: si fa strada la relativizzazione del presente, che può essere correttamente padroneggiata e compresa solo in un orizzonte più ampio, che superi il momento attuale, anzi tutto quanto il mondo.

4. Il cammino verso la religione universale dopo l’esilio
I 500 anni dopo l’esilio fino all’arrivo di Cristo sono caratterizzati soprattutto da due fattori nuovi. Vi è innanzitutto il nascere della cosiddetta letteratura sapienziale e il movimento spirituale che è alla sua base. Accanto alla legge ed ai profeti, dai cui libri lentamente cominciò a formarsi un canone delle Scritture come normativo della religione di Israele, appare un terzo pilastro - appunto la sapienza [6]. Essa viene dapprima influenzata soprattutto dalle tradizioni sapienziali egiziane, ma poi lascia trasparire sempre più anche i contatti con la cultura greca. Qui viene soprattutto approfondita la fede in un solo Dio e radicalizzata la critica degli idoli, che già si manifestava presso i profeti. Il monoteismo viene ulteriormente chiarito e guadagna in forza razionale attraverso il collegamento con il tentativo di una comprensione razionale del mondo. L’elemento di unione fra la concezione di Dio e la spiegazione del mondo viene trovato nel concetto di sapienza. La razionalità, che si manifesta nella struttura del mondo, viene compresa come un riflesso della sapienza creatrice, dalla quale esso deriva. La visione della realtà, che ora si va formando, corrisponde press’a poco alla questione, che formula Heisenberg nei dialoghi sopramenzionati, quando dice: «È dunque completamente insensato pensare dietro alle strutture ordinanti del mondo nel suo insieme una "coscienza", di cui esso sarebbe lo "scopo"?» [7]. Nel dibattito contemporaneo sul rapporto fra natura e spirito, in particolare nell’uomo, viene sollevata la questione della unità della realtà e la questione delle origini. La scienza suppone oggi la priorità della materia come origine di tutto; rimane tuttavia la domanda: il fenomeno spirito è riducibile totalmente alla materia o si deve rilevare una sporgenza inspiegabile? [8] Se la priorità della materia determina oggi il modo di porre la questione, nella riflessione della sapienza biblica e greca si trova la posizione opposta: Si suppone la priorità dello spirito, che lo spirito sia in condizione di suscitare la materia e sia da considerare come il vero punto di partenza della realtà; resta quindi il problema inverso: Esiste eventualmente una sporgenza oscura, che non si lascia più ricondurre allo spirito creatore? La domanda deve essere ammessa se una tale visione ha di per sé meno verosimiglianza della visione moderna formulata in modo radicale da Monod, il quale dice: Tutto il concerto della natura è il risultato di stonature, non suppone nessuna razionalità precedente [9]. La visione dei libri sapienziali vede il mondo come riflesso della razionalità del creatore e permette così anche la connessione di cosmologia e antropologia, di comprensione del mondo e di moralità, perché la sapienza, che edifica la materia ed il mondo, è allo stesso tempo una sapienza morale, che indica le direzioni essenziali dell’esistenza. Tutta quanta la Torah, la legge di vita di Israele, viene ora concepita come autorappresentazione della sapienza, come la sua traduzione in discorso ed in indicazioni umane. Da tutto questo scaturisce una evidente vicinanza con la cultura greca, da una parte con i motivi del platonismo, dall’altra con la connessione stoica di spiegazione divina del mondo e morale.

La questione della sporgenza del non divino, dell’irrazionale nel mondo, che abbiamo prima toccato, assume nella letteratura sapienziale con la questione della teodicea la forma di una lotta drammatica: il grande tema diviene l’esperienza del dolore nel mondo - di un mondo, nel quale il diritto, il bene, la verità perdono continuamente di fronte alla mancanza di scrupoli dei potenti. Questo comporta a partire ora da un punto di vista totalmente altro un approfondimento della morale, che si distacca dal problema del successo e cerca un senso proprio nella sofferenza, nella sconfitta della giustizia. Alla fine appare in Giobbe al di fuori dei confini di Israele la figura del pio esemplare ed allo stesso tempo del sofferente esemplare [10].
All’avvicinamento inferiore al mondo culturale greco, al suo illuminismo ed alla sua filosofia, corrisponde quindi logicamente un secondo passo importante: il trapasso del giudaismo nel mondo greco, che si è compiuto soprattutto in Alessandria come luogo centrale dell’incontro delle culture. L’evento più importante in questo processo fu la traduzione dell’Antico Testamento in greco, il cui blocco fondamentale - i cinque libri di Mosè - era già completato nel terzo secolo avanti Cristo. Fino al primo secolo si formò quindi un canone greco dei libri sacri, che fu assunto dai cristiani come il loro canone dell’Antico Testamento [11]. La denominazione di questa traduzione greca della Bibbia veterotestamentaria come «Septuaginta» (libro dei 70) si fonda sull’antica leggenda, secondo cui la traduzione sarebbe stata l’opera di 70 sapienti. 70 secondo Dt 32,8 era il numero dei popoli del mondo. Così questa leggenda potrebbe significare che con questa traduzione l’Antico Testamento esce da Israele e giunge ai popoli della terra. Ciò fu di fatto l’effetto di questo libro, che nella sua traduzione sotto molti aspetti accentuò ulteriormente il tratto universalistico nella religione d’Israele - non da ultimo nell’immagine di Dio, se ora il nome divino JHWH non appare come tale, ma viene sostituito dalla parola Kyrios - Signore. Così la concezione spirituale di Dio dell’Antico Testamento viene ulteriormente approfondita, ciò che era del tutto conforme all’orientamento interno dello sviluppo sopra accennato.

La fede d’Israele, come si rispecchiava nei suoi libri sacri, ora tradotti in greco, divenne immediatamente elemento affascinante per lo spirito illuminato degli antichi, le cui religioni dopo la critica socratica avevano perduto sempre più la loro credibilità. Nel mondo ellenistico, accanto a correnti di cinismo o puro pragmatismo, era emersa la nostalgia di una religione compatibile con la nuova razionalità che nondimeno superasse le possibilità proprie della ragione. Così da una parte si va alla ricerca delle promesse dei culti misterici, che giungono dall’Oriente, dall’altra la fede giudaica appare come la risposta attesa. Qui, nella fede giudaica presentata nell’Antico Testamento, vi è infatti un collegamento fra Dio ed il mondo, fra razionalità e rivelazione, che rispondeva esattamente ai postulati della ragione ed al più profondo anelito religioso. Qui vi è il monoteismo, che non deriva da speculazione filosofica restando quindi religiosamente privo di efficacia, perché non si possono adorare le proprie ipotesi fìlosofiche. Questo monoteismo proviene da esperienze religiose originarie e conferma ora dall’alto, per così dire, ciò che il pensiero aveva cercato a tentoni. La religione di Israele deve aver avuto per i circoli più eletti della tarda antichità un fascino analogo a quello, che il mondo della Cina ebbe nel tempo dell’illuminismo per l’Europa occidentale, quando si pensava (a torto, come oggi sappiamo) di aver finalmente trovato una società senza rivelazione e misteri, una religione della morale e della ragione pura. Così si era formata in tutto il mondo antico una rete di cosiddetti timorati di Dio, che si appoggiavano alla Sinagoga ed al suo puro culto della Parola, consapevoli nell’appoggiarsi alla fede di Israele di essere in contatto con l’unico Dio. Questa rete di timorati di Dio secondo la fede di Israele divenuta greca fu il presupposto della missione cristiana: il cristianesimo fu quella figura del giudaismo allargatasi all’universale, nella quale era ora pienamente donato quanto l’Antico Testamento non era finora riuscito a dare.

5. Cristianesimo come sintesi di fede e ragione
La fede di Israele rappresentata nella Settanta manifestava la consonanza di Dio e mondo, di ragione e mistero. Dava indicazioni morali, ma nondimeno qualcosa mancava: il Dio universale era pur sempre legato ad un determinato popolo; la morale universale era collegata con forme di vita molto particolari, che non potevano affatto essere vissute al di fuori di Israele; il culto spirituale era pur sempre legato a rituali del tempio, che si potevano interpretare in modo simbolico, ma che in fondo erano stati superati dalla critica profetica e non erano più appropriabili per lo spirito critico. Un non giudeo poteva sempre solo collocarsi in un cerchio esterno di questa religione. Rimaneva «proselita», perché la piena appartenenza era collegata alla discendenza di sangue da Abramo, ad una comunità etnica. Restava anche il dilemma di quanto ora in realtà lo specifico giudaico era necessario per poter servire questo Dio correttamente ed a chi spettava tracciare i confini fra l’irrinunciabile e ciò che era storicamente accidentale o superato. Una piena universalità non era possibile, perché non era possibile una piena appartenenza. Solo il cristianesimo ha portato qui il superamento delle frontiere, ha «abbattuto il muro» (Ef 2,14), e questo in un triplice senso: i legami di sangue con il padre della stirpe non sono più necessari, perché l’unione con Gesù opera la piena appartenenza, la vera parentela. Ognuno può ora appartenere totalmente a questo Dio, tutti gli uomini devono essere ammessi e poter diventare il suo popolo. Gli ordinamenti particolari del diritto e della morale non obbligano più; sono divenuti una prefigurazione storica, perché nella persona di Gesù Cristo tutto è stato riassunto e chi lo segue, porta ed adempie in sé tutta l’essenza della legge. L’antico culto è decaduto e superato nell’autodonazione di Gesù a Dio e agli uomini, che ora si manifesta come il vero sacrificio, come il culto spirituale, nel quale Dio e uomo si abbracciano e vengono riconciliati, e per tutto ciò sta come reale ed in ogni tempo presente certezza la Cena del Signore, l’Eucaristia. Così il movimento spirituale, che era riconoscibile nel cammino di Israele, era giunto al suo scopo, la universalità senza limitazioni era ora possibilità pratica. Ragione e mistero si incontravano; proprio l’unificazione del tutto in un’unica persona aveva aperto le porte per tutti: a partire dall’unico Dio tutti gli uomini possono essere fratelli. Ed anche il tema della speranza e del presente assume una nuova forma: il presente va verso il risorto, verso un mondo, nel quale Dio sarà tutto in tutti. Ma proprio a partire di qui anche come presente esso diviene significativo e importante, perché esso ora è già impregnato della vicinanza del risorto e la morte non ha più l’ultima parola.
6. Alla ricerca di una nuova evidenza
Può questa evidenza, che allora colpì in modo così profondo e trasformò il mondo antico, essere nuovamente ripristinata? Oppure essa è irrimediabilmente perduta? Che cosa le è di ostacolo? Vi sono molte cause della sua attuale decadenza, ma direi che la più importante consiste nell’autolimitazione della ragione, che paradossalmente si fonda sui suoi successi: le norme metodologiche, che hanno permesso il suo successo, con la loro generalizzazione sono divenute una prigione. Le scienze della natura, che hanno costruito il nuovo mondo, si fondano su di una base filosofica, che ultimamente è da ricercare presso Platone [12]. Copernico, Galilei, anche Newton erano platonici. Il loro presupposto di fondo era che il mondo è strutturato matematicamente, spiritualmente e che lo si può decifrare e rendere comprensibile e utilizzabile nell’esperimento a partire da questo presupposto. La novità consiste nell’unione di platonismo ed empiria, di idea ed esperimento. L’esperimento si fonda su di una precedente idea interpretativa, che poi nella prova pratica viene esplorata, corretta e dischiusa per ulteriori problemi. Solo questa anticipazione matematica permette poi generalizzazioni, la conoscenza di leggi, che rendono possibile un’adeguata azione. Tutto il pensiero scientifico e tutte le applicazioni tecniche si fondano sul presupposto che il mondo è ordinato secondo leggi spirituali, porta in sé uno spirito, che può essere riprodotto dal nostro spirito. Ma nello stesso tempo la sua percezione è collegata alla verifica tramite l’esperienza. Ogni pensiero, che non tenesse conto di questa connessione, e considerasse resistenza di uno spirito in se stesso o che preesiste al mondo presente, contraddice la disciplina metodica della scienza ed è pertanto ostracizzato come forma di pensiero prescientifica, non scientifica. Il Logos, la sapienza, della quale da una parte i Greci, dall’altra Israele hanno parlato, è ridotta nel mondo materiale e non più rintracciabile al di fuori di esso. All’interno del cammino specifico della scienza della natura questa limitazione è giusta e necessaria. Se però essa viene proclamata come forma insuperabile del pensiero umano, il fondamento stesso della scienza diviene contraddittorio. Infatti essa allo stesso tempo afferma e nega lo spirito. Soprattutto però una ragione così autolimitantesi è una ragione amputata. Se l’uomo non può più interrogarsi ragionevolmente sulle cose essenziali della sua vita, sulla sua origine e sul suo destino, su quello che deve e può fare, sulla vita e sulla morte, ma deve lasciare questi problemi decisivi ad un sentimento separato dalla ragione, allora egli non innalza la ragione, ma le toglie dignità. La disintegrazione dell’uomo, così introdotta, fa insorgere allo stesso tempo la patologia della religione e la patologia della scienza. Che oggi nella separazione della religione dalla responsabilità davanti alla ragione si producano in misura crescente forme patologiche di religione, è manifesto. Ma se si pensa a progetti scientifici spregiativi dell’uomo come la clonazione di uomini, la produzione di feti, cioè di esseri umani allo scopo di utilizzare gli organi per la produzione di prodotti farmaceutici o anche semplicemente per utilizzazioni commerciali o anche se ricordiamo la strumentalizzazione della scienza per la produzione di mezzi di distruzione dell’uomo e del mondo sempre più spaventosi, allora è evidente che esiste anche una scienza che è divenuta patologica: la scienza diviene patologica e pericolosa per la vita, laddove essa si distacca dal contesto dell’ordine morale dell’essere umano e riconosce soltanto ancora autonomamente le sue proprie possibilità come suo unico criterio ammissibile.

Questo vuol dire che il raggio della ragione deve di nuovo allargarsi. Dobbiamo nuovamente uscire dalla prigione che ci si è costruiti e riconoscere nuovamente altre forme di accertamento, nelle quali tutto l’uomo è in gioco. Ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa di analogo a quello che troviamo in Socrate: una disponibilità che attende, che si tiene aperta e guarda al di fuori di se stessi. Questa disponibilità ha a suo tempo unito insieme i due mondi culturali - Atene e Gerusalemme - ed ha reso possibile una nuova ora della storia. Abbiamo bisogno di una nuova disponibilità della ricerca ed anche l’umiltà, che si lascia trovare. Il rigore della disciplina metodologica non può essere solo volontà di risultati, essa deve essere anche volontà di verità, disponibilità per essa. Il rigore metodologico, continuamente necessario, nel sottomettersi a ciò che si va scoprendo e non nell’imporre i propri desideri, può formare una grande scuola dell’essere uomo e preparare uomini capaci di verità. L’umiltà, che si inchina alla scoperta e non la manipola, non può però divenire falsa modestia, che toglie il coraggio della verità. Tanto più essa deve contrapporsi alla ricerca di potere, che vuole soltanto dominare il mondo e non più scoprirne la logica interna propria, che pone limiti alla nostra volontà di dominio. Le catastrofi ecologiche potrebbero qui divenire un avvertimento per vedere dove la scienza non diviene più servizio alla verità, ma distruzione del mondo e dell’uomo. La capacità di mettersi in ascolto di tali avvertimenti, la volontà di lasciarsi purificare dalla verità, è indispensabile. E vorrei aggiungere: la capacità mistica dello spirito umano dovrebbe essere nuovamente rafforzata. La capacità di sapersi ritirare in se stessi, una maggiore apertura interiore, una disciplina, che si sottrae a ciò che è rumoroso ed appariscente, devono nuovamente apparirci come mete cui tendere, che appartengono alle nostre priorità. In Paolo si trova l’ammonizione secondo cui l’uomo interiore deve rafforzarsi (Ef 3,16). Dobbiamo essere onesti: esistono oggi una ipertrofia dell’uomo esteriore ed un preoccupante indebolimento della sua forza interiore.

Per non rimanere troppo astratto, vorrei a conclusione illustrare quanto sono venuto esponendo con una immagine, che è desunta da una esperienza storica. Papa Gregorio Magno (+ 604) racconta nei suoi dialoghi degli ultimi giorni di San Benedetto. Il fondatore dell’ordine benedettino si era coricato per dormire al piano superiore di una torre, alla quale conduceva dal basso «una scala diritta». Si era poi alzato prima del tempo della preghiera notturna, per un momento di veglia. «Stava alla finestra e supplicava Dio onnipotente. Mentre guardava fuori nel cuore della notte oscura, vide improvvisamente una luce, che si riversava dall’alto e dissipava tutta l’oscurità della notte... Qualcosa di meraviglioso si verificava in questa visione, come egli stesso più tardi raccontava: tutto quanto il mondo gli fu presentato davanti agli occhi, come raccolto in un unico raggio di sole»[13]. A questo racconto l’interlocutore di Gregorio fa obiezione, con la medesima domanda che si impone anche all’ascoltatore di oggi: «Ciò che tu hai detto, che Benedetto poté vedere avanti agli occhi tutto quanto il mondo raccolto in un unico raggio di sole, io non l’ho ancora mai sperimentato e non me lo posso neanche immaginare. Come infatti potrebbe mai un uomo vedere il mondo come un tutto?». La frase essenziale nella risposta del Papa suona: «Se egli... vide tutto quanto il mondo come unità davanti a sé, ciò non avvenne perché il cielo e la terra si erano ristretti, ma perché l’anima di colui che guardava si era dilatata...».[14]

In questa narrazione tutti i particolari sono significativi: la notte, la torre, la scala, la stanza al piano superiore, lo stare in piedi, la finestra. Tutto questo al di là della descrizione topografica e biografica ha una grande profondità simbolica: quest’uomo attraverso un cammino lungo e faticoso, che ebbe inizio in una grotta presso Subiaco, è salito sulla montagna e finalmente nella torre. La sua vita fu un’ascesa interiore, gradino dopo gradino sulla «scala diritta». Egli è giunto nella torre e più propriamente nella «stanza al piano superiore», che a partire dagli Atti degli Apostoli ha il valore di simbolo del raccoglimento verso l’alto, dell’uscire dal mondo dell’agire e del fare. Sta alla finestra - ha cercato il luogo per guardare fuori e lo ha trovato, ove il muro del mondo è rotto e lo sguardo si apre verso lo spazio aperto. Sta in piedi. Lo stare in piedi è nella tradizione monacale simbolo dell’uomo che si è raddrizzato dal suo ripiegamento, non più incurvato su se stesso può guardare solo per terra, ma ha recuperato la posizione eretta e così lo sguardo libero verso l’alto15. Così egli diventa un veggente. Non il mondo si restringe, ma la sua anima si dilata, perché egli non è più assorbito dal singolo oggetto, dagli alberi, che gli impediscono di vedere la foresta, ma ha acquisito lo sguardo verso la totalità. Ancor meglio: egli può vedere l’insieme, perché guarda dall’alto, ed a questo è giunto, perché si è dilatato interiormente. Sembra qui risuonare l’antica tradizione dell’uomo come microcosmo, che abbraccia il mondo intero. Ma l’essenziale è proprio questo: l’uomo deve imparare ad ascendere, egli deve dilatarsi. Egli deve stare in piedi davanti alla finestra. Egli deve cercare con gli occhi. E allora la luce di Dio può toccarlo, egli la può riconoscere e acquisire così il vero sguardo panoramico. Lo sguardo alla terra non può diventare così esclusivo, da divenire incapaci di ascendere, di assumere una posizione eretta. I grandi uomini, che con paziente ascesa e con sofferta purificazione della loro vita sono divenuti veggenti e quindi maestri di tutti i secoli, interessano anche noi oggi. Ci indicano come anche nella notte si può trovare la luce e come possiamo affrontare le minacce che salgono dall’abisso dell’esistenza umana e andare incontro con speranza al futuro.



Note
1. W. Heisenberg, Der Teil und das Ganze. Gespräche im Umkreis der Atomphysik, Műnchen 1969, p. 117
2. Ibid.,  p. 117
3. Ibid., p. 118, cf. p. 295
4. Loc. cit. pp. 288ss
5.Il carattere negativo di questa voce viene chiaramente sottolineato ad es. in Apologia 31d «foné tís  ghenoméne … aéi apotrépei … prostrépei de oudépote». Cf sulla configurazione di questa voce R. Guardini, Der Tod des Sokrates, Mainz-Paderborn 19875, pp. 87ss.
6. Fondamentale per la comprensione della letteratura sapienziale dell'Antico Testamento è ancora G. von Rad, Weisheit in Israel, Neukirchener Verlag 1970; cf anche L. Bouyer, Cosmos, Paris 1982, pp. 99-128
7. Loc. cit., 290
8. Una buona informazione sull'attuale dibattito du questo tema offre G. Beintrup, Das Leib-Seele-Problem. Eine Einführung, Stuttgart 1996. Cf anche O.B. Linke - M. Kurthen, Parallelität von Gehirn und Seele. Neurowissenschaft und Leib-Seele-Problem, Stuttgart 1998.
9. J. Monod, Zufall und Notwendigkeit. Philosphisce Fragen der modern Biologie (tradotto dal francese. Piper, Munchen 19735), p. 149; cf pp. 141s: «so folgtdaraus mit Notwendigkeit, daß einzig und allein der Zufall, jeglicher Neuerung, jeglicher Schopfung in der belebten Natur zugrunde liegt. Der Reine Zufall, nichts als der Zufall, die absolute, blinde Freiheit als Grundlage  des wunderbaren Gebäudes der Evolution - diese zentrale Erkenntnis der modernen Biologie ist heute nicht mehr nur eine unter möglichen oder wenigstens denkbaren Hypothesen; sie ist die einzig vorstellbare, da sie allein sich mit den Beobachtungs - und Erfahrungstatsachen deckt». Cf J. Ratzinger, Im Anfang schuf Gott, Einsiedeln - Freiburg 19962, pp. 53-59.
10. Su Giobbe si veda innanzitutto il grande Commentario, che approfondisce anche i mderni sviluppi filosofici e teologici di questa figura, di G. Ravasi, Giobbe. Traduzione e commento, Borla, Roma 19913.
11. Sul problema del rapporto fra canone ebraico e greco e sull'Antico Testamento dei Cristiani cf Chr.Dohmen, Der Biblische Kanon in der Diskussion, in  «Theol. Revue» 91 (1995) 451-460; A. Schenker, Septuaginta und christliche Bibel, ibidem 460-464.
12. Sull’origine platonica della scienza moderna cf N.Schiffers, Fragen der Physik an die Theologie, Düsseldorf 1968; W. Heinsenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Rowohlt, Hamburg 19597. Cf anche Monod, loc. cit. ad es. p. 133, ove egli presenta esplicitamente la moderna biologia come debitrice del platonismo: con le moderne scoperte, così egli dice, le speranze dei platonici più convinti furono più che realizzate. Una certa vicinanza della fisica moderna con le intuizioni di Platone e di Plotino riconosce anche B. D’Espagnat, La physique actuelle et la philosophie, in “Revue des sciences morales e politiques”, 1997, n. 3, pp. 29-45.
13. Gregorio Magno, Dialoghi II 35, 1-3. Utilizzo qui l’edizione latino-tedesca della conferenza degli abati di Salzburg: Gregor D. Gr. Der hl.Benedikt Buch II der Dialoge (St. Ottilien 1995). La mia interpretazione si basa largamente sull’eccellente introduzione, che ivi si trova, in particolare pp. 53-64.
14. II, 35, 5 e 7.
15. Cf l’interpretazione nel volume citato alla nota 16, in particolare pp. 60-63.

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