«In lotta contro la morte nel mattatoio comunista» ***
di Harry Wu*
La
mia storia ha inizio, inesorabilmente, nel 1937, quando nacqui a
Shangai in una famiglia di classe elevata, fattore decisivo poiché il
relativo benessere e la ricchezza in cui ero nato avrebbero gravato
pesantemente sul mio futuro destino. Mio padre era un banchiere e mia
madre discendeva da una famiglia di proprietari terrieri. Poco dopo la
morte di mia madre, mio padre si risposò con una donna dolce e gentile
che divenne la mia matrigna. (...)
Nel
1949 i comunisti giunsero al potere in Cina. Inizialmente ci sentimmo
sollevati dal fatto che l’ordine fosse stato ristabilito nel Paese dopo
decenni di guerra civile e occupazione straniera. Poi, un giorno del 1952, mio padre non rientrò più a casa dal lavoro.
Non fece ritorno per un mese intero. La mia matrigna faceva
diligentemente mettere ogni sera dai nostri domestici un posto a tavola
anche per lui, benché lei stessa mangiasse a stento. Quando mio padre
fece ritorno a casa il mese successivo, ci raccontò di essere stato
fermato dal governo. Era stato trattenuto in una stanza della sua banca e
interrogato riguardo i presunti reati finanziari del suo direttore. I
funzionari incaricati dell’interrogatorio cercarono di indurre mio padre
a fornire false informazioni sul suo direttore, ma mio padre rifiutò.
Nel 1954 il governo costrinse mio padre a lasciare la banca,
assegnandolo a una scuola media dove insegnò inglese per molti anni.
(...) Andavo bene a scuola, e nel 1955, all’età di diciotto anni, mi
recai a Pechino dove cominciai i miei studi alla Facoltà di Geologia,
lasciando Meihua, la mia fidanzata del liceo, con la promessa che
saremmo rimasti insieme. Restai sorpreso nello scoprire quanto fosse
politicizzato il nostro campus. In quanto figlio di un ex banchiere, fui
oggetto di molta attenzione indesiderata. Mi fu detto di «alzare il
livello della mia coscienza politica». (...)
Nel
febbraio del 1957 ebbe inizio la “Campagna dei cento fiori”. I nostri
leader studenteschi ci dissero di criticare il partito per aiutarlo a
correggere i propri errori e migliorare le sue linee politiche. Mio
padre mi aveva raccomandato di restare fuori della politica, così
inizialmente ero restìo a dire ciò che pensavo.
In
aprile la pressione a prendere parte a dibattiti e discussioni andava
crescendo. Infine, il 2 maggio, mi dissero che dovevo partecipare alla
riunione politica che si sarebbe tenuta quella sera. A questa riunione
venni aspramente rimproverato di non sostenere la “Campagna dei cento
fiori” non muovendo alcuna critica al partito. Sottoposto a un’enorme
pressione dai miei compagni di università, elencai una serie di critiche
alla linea politica del partito. Allora non sapevo minimamente che
queste critiche, dieci in tutto, avrebbero inciso tremendamente sul mio
futuro.
Il
fervore politico nel nostro campus si protrasse per tutto maggio, e i
nostri corsi vennero cancellati per promuovere i giganteschi raduni
politici e le numerose riunioni studentesche che vi si svolgevano. Io
ero inquieto e turbato perché, all’incirca nello stesso periodo, avevo
smesso di ricevere lettere da Meihua, la mia fidanzata. Ricevetti infine
una sua lettera in cui mi diceva di dimenticare tutto ciò che era
successo tra noi. (...) Passati alcuni giorni difficili, tornai
all’università solo per scoprire che erano in corso severi provvedimenti
nei confronti dei “critici” politici. I leader studenteschi avevano
notato la mia assenza da scuola. Il giorno dopo il mio rientro, fui
messo a tema di una riunione politica. In una assemblea durata tre ore
fui accusato di essere borghese e di aver lasciato il campus per
sottrarmi alle critiche; mi fu inoltre detto che le critiche da me mosse
in precedenza, che erano state sollecitate da un’enorme pressione
sociale, erano “velenose”. Mi dissero di scrivere un’autocritica e fui
sollevato quando il semestre giunse al termine.
La punizione per i destrorsi
L’anno
seguente l’atmosfera politica divenne ancora più opprimente. Mi dissero
che la mia precedente autocritica era inaccettabile e mi fu ordinato di
riscriverla. Il 20 ottobre 1957, fuori della mensa universitaria,
comparve uno striscione dal titolo “I crimini controrivoluzionari di Wu
Hongda”, che elencava i miei presunti crimini. Il mio nome era stato
cancellato con una riga rossa a indicare che ero stato bandito dalla
comunità. Ero diventato un destrorso. Nel febbraio del 1958 tutti i
destrorsi vennero puniti. Mi fu concesso di restare all’università, ma
ero sempre seguito da due compagni di classe, persino al bagno. Oltre ai
miei corsi e al mio ravvedimento politico, dovevo ora accollarmi altri
lavori, come catturare le mosche e i topi. In aprile partecipai a una
riunione indetta al solo scopo di criticarmi, durante la quale ognuno
dei miei compagni di classe, a turno, sottolineò le mie presunte
violazioni. Dopo venti minuti fu dichiarata la mia espulsione
dall’università. Un funzionario della Pubblica Sicurezza in divisa entrò
e annunciò ai presenti che ero stato condannato alla rieducazione
attraverso il lavoro. Dissi: «Voglio vedere le accuse contro di me. È un
mio diritto essere informato dei miei reati». Non venni mai informato.
(...) Senza dire addio a
nessuno, io e i miei effetti personali fummo caricati su una jeep e
portati al Centro di detenzione di Beiyuan. Avevo ventitré anni.
Dopo
un’iniziale resistenza, mi arresi riconoscendomi colpevole dei miei
crimini. Questo atto di obbedienza mi permise di venire assegnato al
lavoro nello stabilimento chimico di Beiyuan. Ne fui grato poiché ciò
significava che ora avrei ricevuto tre miseri pasti al giorno invece di
due. Questo incarico significava inoltre che mi era concesso scrivere
alla mia famiglia, la quale, per un mese intero, non aveva saputo dove
mi trovassi. Scelsi con cura le parole cosicché la mia famiglia non si
preoccupasse, ma non ricevetti alcuna risposta.
Un
mese più tardi mi fece visita mio fratello, il quale era furioso con
me. Mi rimproverò per aver offeso la mia famiglia, il partito e il Paese
e mi disse di lavorare sodo e ravvedermi. Mi disse inoltre che tutta la
mia famiglia mi aveva denunciato. Sconvolto e ferito dalle sue parole,
gli domandai come stessero i nostri genitori. Mi rispose che non avevo
alcun diritto di chiedere di loro, aggiungendo che si augurava che
morissi in prigione. Fui distrutto dalla sua visita. Solo diciannove
anni dopo avrei appreso che la nostra matrigna si era tolta la vita dopo
aver ricevuto la mia lettera. (...) Non passò molto tempo prima che
fossi nuovamente trasferito, questa volta alla Fattoria Qinghe, un
enorme complesso carcerario fuori Pechino. Ormai
tutti i prigionieri erano deboli ed emaciati a causa della
denutrizione. I segni della fame erano diffusi in tutto il campo e
morirono numerosi prigionieri. Un giorno, i funzionari della prigione
fecero esaminare i prigionieri da una serie di dottori. Quando giunse il
mio turno scoprii di pesare solo trentotto chili e mezzo. (...) Sebbene
ci avessero detto che eravamo stati mandati laggiù per rimetterci in
forze, divenne ben presto evidente che eravamo stati mandati lì per
morire.
Vidi
un caro amico spegnersi di fianco a me sul letto gigantesco che tutti
quanti dividevamo. Dopo essere stato portato in un capanno dove venivano
tenuti i cadaveri prima della sepoltura, si risvegliò e cominciò a
bussare alla porta - era ancora vivo! Venne riportato nel nostro letto
e, sua mia richiesta, il cuoco preparò un pranzo sostanzioso a base di
focaccine di mais. Erano mesi che non vedevamo un cibo simile. Il mio
amico mangiò rapidamente il suo pasto con l’energia di un uomo molto più
giovane di quello che era. Qualche minuto dopo il suo organismo
collassò ed egli morì proprio accanto a me.
(...)Nell’aprile
del 1962 cominciai a nutrire la speranza che i prigionieri accusati di
essere di destra sarebbero stati presto rilasciati, poiché ci stavamo
avvicinando alla scadenza del nostro terzo anni di prigionia nei campi
di lavoro, e tre anni era considerata la pena massima per un destrorso.
Sette anni terribili tra pugni e ribellione
Fui invece trasferito in un altro campo, la fattoria Tuanhe. Nel
corso dei successivi sette anni avrei sofferto moltissimo: sopportai un
periodo di reclusione in cella di isolamento; fui sottoposto ad
alimentazione forzata attraverso il naso in risposta allo sciopero della
fame che avevo intrapreso; fui picchiato dalle guardie carcerarie e mi
ruppi un braccio durante un pestaggio organizzato contro di me durante
la Rivoluzione culturale. Ho visto uomini impazzire a causa della
prigionia, e ne ho visti altri togliersi la vita. Per tutto il tempo
sono rimasto aggrappato all’istinto di sopravvivenza nella speranza che
un giorno avrei riacquistato la mia libertà, un traguardo che sembrava
svanire giorno dopo giorno. Poi, nel dicembre del 1969, senza alcun
preavviso o spiegazione, fui “rilasciato” dalla prigione e assegnato a
un lavoro coatto al campo Laogai numero 4 nello Shanxi. Per quanto,
tecnicamente, non fossi più un prigioniero, non ero nemmeno un uomo
libero. Non potevo lasciare la miniera per cercarmi un
altro lavoro, non mi venivano concessi né permessi di lavoro né buoni
pasto e dovevo ancora partecipare alle riunioni obbligatorie di lotta
politica. Ero alienato dalla società locale e mi avrebbero trattenuto
laggiù indefinitamente.
Nel
1979, alcuni anni dopo la morte di Mao, Deng Xiaoping si disfò di molti
prigionieri “condannati” come controrivoluzionari e destrorsi. Io ero
fra di loro, e finalmente riacquistai parte della mia libertà. In
seguito mi fu affidata una cattedra alla Facoltà di economia e finanza
nello Shanxi, dove molti insegnanti continuavano a tenersi a distanza da
me a causa dei miei precedenti politici.
Una
volta liberato potei finalmente far visita a mio padre. Una delle
ultime cose che mi disse prima di morire fu che non sarei mai stato
veramente libero in Cina, e mi esortò a partire. Così nel 1982 feci
domanda per il permesso di espatrio e, infine, nel 1985 ebbi la mia
occasione. Giunsi negli Stati Uniti come “visiting professor” con 40
dollari in tasca. Dormivo sulla mia scrivania all’Università di Berkeley
in California finché non ebbi risparmiato abbastanza denaro con il mio
lavoro part-time da permettermi un appartamento.
Il primo discorso negli Stati Uniti
Nel
1986 parlai per la prima volta in pubblico delle mie esperienze nel
Laogai cinese. (...) Da allora, sono tornato spesso in Cina per
denunciare il sistema brutale del Laogai. (...) Spacciandomi per un uomo
d’affari ottenni di visitare le fabbriche in cui lavoravano i
prigionieri e potei fotografare le strutture. I direttori delle carceri
mi raccontarono come i prodotti fabbricati nel Laogai venissero
esportati in tutto il mondo. Al mio ritorno portai la mia testimonianza
davanti al Congresso degli Stati Uniti e riferii ciò che avevo scoperto
ai media americani. Nel 1993 tornai in Cina con Sue Lloyd-Roberts della
BBC. Insieme scoprimmo prove sull’industria del traffico di organi, dove
gli organi dei prigionieri giustiziati vengono venduti a vantaggio del
governo comunista. Nel 1995 venni fermato alla frontiera mentre mi stavo
recando nella provincia cinese dello Xinjiang. Fui trattenuto,
processato e dichiarato colpevole dopo sessanta giorni di prigionia. Ma
ormai ero un cittadino statunitense e così, invece di essere rispedito
nuovamente ai lavori forzati nel Laogai, fui espulso dalla Cina e mi fu
proibito per sempre di tornare nella mia madrepatria.
Anche
se mi piacerebbe molto andarmene tranquillamente in pensione, il mio
lavoro non si fermerà fino a quando il Laogai non esisterà più. Ogni
volta che chiudo gli occhi sono perseguitato dalle immagini del Laogai.
Il ricordo delle percosse, della fame e dell’umiliazione resterà in me
per sempre. Tuttavia, ciò che più mi sconvolge è che tale sistema esista
ancora oggi. A differenza del Gulag sovietico, sul cui modello fu
creato, il Laogai non è stato relegato negli annali della storia. Al
contrario, il sistema prospera grazie ai milioni di prigionieri che sono
venuti a prendere il posto mio e di quelli della mia generazione che in
passato ne sono stati vittime.
*Presidente Laogai Research Foundation
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sabato 25 febbraio 2012
wu harry
Postato da: giacabi a 15:00 | link | commenti
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