L’amicizia
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L'amicizia è uno dei sentimenti più belli da vivere perchè dà ricchezza, emozioni, complicità e perchè è assolutamente gratuita.
Ad un tratto ci si vede, ci si sceglie, si costruisce una sorta di intimità;
si puo' camminare accanto e crescere insieme pur percorrendo strade differenti,
pur essendo distanti, come noi due, centinaia di migliaia di chilometri.
Susanna Tamaro
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Postato da: giacabi a 17:07 |
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amicizia, tamaro
Caro Gesù bambino, ti prego
riportaci presto
il senso del peccato
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di Susanna Tamaro
Lettera
per un Natale diverso. Le nostre trasgressioni sono un "mancare il
bersaglio" della vita, della consapevolezza dell’esistere. Perché crescere non è altro che imparare a distinguere il bene dal male
Caro
Gesù bambino, mi permetto di disturbarti perché so che ormai non
saranno in molti a farlo. Un esercito di tripponi vestiti di rosso e con
barbe posticce ha invaso il tempo a te dedicato e - con il e di renne
volanti - ha offuscato la straordinaria umiltà della tua nascita. Questa
folla vociante di buontemponi dagli occhi sbarrati in un’espressione di
perenne felicità si cala dalle finestre dei condomini, staziona davanti
ai negozi e nelle strade più commerciali delle città.
Sono
loro ormai a raccogliere i desideri dei nostri bambini. Come non
provare simpatia per questi arzilli nonnetti? Non c’è malizia nei loro
occhi né traccia di rughe sulle loro guance, dai loro sacchi non esce
mai carbone. La loro presenza ci parla di un mondo privo di ombre, un
mondo dove tutti si vogliono bene, si fanno regali uniti da una eccitata
felicità. C’è del male a essere felici, a desiderare l’armonia?
Naturalmente no, forse per questo la schiera di amabili tripponi sono
diventati così popolari.
Però, caro Gesù bambino,
un mondo in cui non esiste l’ombra mi lascia vagamente inquieta. Ci
sono tante cose che vorrei chiederti, ma forse la prima - e la più
importante - è proprio questa. Riporta la coscienza dell’ombra nei
nostri cuori, restituisci a tutti noi questa dimensione così umana. Che
cos’è infatti l’uomo, senza la consapevolezza del male?
Dai tempi di Rousseau ci viene ripetuto che l’uomo nasce naturalmente
buono e questa ossessiva ripetizione ha finito con il dare i suoi
frutti. La
colpa del male che ci circonda, ci viene detto, non è mai in noi, ma
sempre al di fuori: è colpa della società, delle ingiustizie, della
corruzione, dei nostri genitori, della parte politica avversa, ma non
dipende mai da una nostra precisa responsabilità. Sono state edificate
grandi dittature su quest’idea - dittature che hanno causato decine e
decine di milioni di morti innocenti - ma ciononostante continua ad
essere radicata. Cambiando le condizioni esterne, si continua a
ripetere, l’uomo cambierà e sarà in grado di rendere la società più
giusta, più tollerante. E se invece la priorità fosse quella di cambiare
l’interno?
Nelle ultime pagine di Va’ dove ti porta il cuore la nonna scriveva alla nipote: «Ricordati che la prima rivoluzione da fare è quella dentro se stessi,
la prima e la più importante. Lottare per un’idea senza avere un’idea
di sé è una delle cose più pericolose che si possano fare ». Riporta,
dunque, nei nostri cuori, caro Gesù bambino, il senso di quella cosa
ormai così ridicola, sorpassata e oscurantista che si chiama senso del
peccato. Lo
so, questo termine suscita nella maggior parte dei nostri contemporanei
dei moti di fastidio o di ilarità: cosa c’entra il peccato con gli
uomini moderni che dominano ogni cosa sotto la chiara luce della
ragione? Sono convinti, penso, che il peccato sia un anacronistico
sistema di controllo delle coscienze imposto dai vari fanatismi
religiosi. Ma se
invece il peccato fosse, come dice una delle sue etimologie ebraiche
più frequenti, prima di tutto un «mancare il bersaglio», uno smarrire la
strada, una deviazione di percorso? Deviazione dal nostro cammino di
crescita. Che cos’altro è la vita dell’uomo se non un faticoso,
affascinante, meraviglioso cammino verso il bersaglio, cioè la piena
consapevolezza dell’esistere?
Un
cammino di continua lotta contro le tenebre che cercano di sopraffarci,
dove le tenebre non sono un dispetto fatto al Papa, ma quella forza
oscura che costantemente agisce dentro di noi portandoci verso la
chiusura, l’egoismo, l’odio per sé e per gli altri mascherato da mille
suadenti volti. Il cammino dell’uomo non è altro che un processo di
unificazione. Si nasce divisi, ci sono tante pulsioni in noi in lotta
tra loro per predominare. Crescere vuol dire appunto discernere,
imparare a distinguere ciò che è bene da ciò che non lo è. Il criterio
per la distinzione è estremamente semplice: è bene tutto ciò che
costruisce, tutto ciò che l’uomo fa per l’uomo nella dimensione
dell’apertura e dell’amore; è male tutto ciò che, nel tempo, si dimostra
portatore di divisione e di distruzione, anche se all’inizio è apparso
benevolo.
Ogni
mattina, quando mi sveglio e comincio la giornata, so che dentro di me
sonnecchia un potenziale assassino, sento perfettamente viva la grande
scimmia che c’è in me, una scimmia pronta a difendere il suo territorio a
morsi e a colpi di randello, incapace di elaborare pensieri molto più
complessi di quelli legati alla propria sopravvivenza. Sono però
cosciente che invece quello che mi divide dalle grandi scimmie - quel
due per cento di diversità genetica - è proprio la possibilità di
scegliere e di costruire la mia vita sulla base di questa capacità. Ogni
scelta naturalmente è una rinuncia: è rinunciando a delle cose che
imparo a riconoscere la parte di me che vuole crescere da quella che,
invece, vuole mantenermi ferma. In una società bulimica come la nostra,
il discorso della rinuncia suona sinistro, eppure senza questo percorso non si potrà mai raggiungere la saggezza e la sapienza, vero scopo della vita dell’uomo.
Che
senso ha invecchiare, inseguendo il simulacro dell’eterna giovinezza,
gonfiandosi le labbra, le guance? Una società che non accetta il
cambiamento, che non riconosce il principio del male è inerme davanti ai
mostri che lei stessa produce. È una società che, per anestetizzare la
propria coscienza, ha bisogno di alzare sempre più alte le bandiere
dell’umanitarismo, della tolleranza, del pacifismo. Sente i demoni
salire dentro di sé, ma non sa come tenerli a bada, così usa i
surrogati: per non parlare del bene, ci fa indossare gli osceni abiti
del buonismo volendo farci credere che indossare la pelle della pecora
sia la stessa cosa che diventare agnelli.
Come
dormiamo sereni con le nostre bandiere della pace alla finestra, con le
petizioni che firmiamo, con le indignazioni che si susseguono giorno
dopo giorno seguendo l’orchestrazione emotiva dei mass media. Com’è
bello sentirsi buoni e giusti mentre il mondo intorno a noi è popolato
di ottusi, di fanatici, di malvagi. Lottare per la giustizia sulla terra
è una cosa importantissima, come tu sai, ma per farlo bisogna avere un
cuore indiviso, capace di mettere sempre il mistero della persona in
primo piano e non l’abito disonesto del pregiudizio e dell’ideologia.
Ci
sono tante altre cosa che vorrei chiederti, caro Gesù bambino. Vorrei
chiederti, ad esempio, di far sparire il cinismo dalle nostre menti e
dai nostri pensieri, di riportare in noi la capacità di accogliere con
stupore l’arrivo di un nuovo giorno, sapendo che qualsiasi cosa ci
accadrà sarà comunque importante perché ci servirà per imparare.
Cancella tutti gli «ismi» dai nostri cuori e riempili di compassione.
Compassione per le persone, per gli animali, per le piante, per tutto il
mondo che vive assieme a noi e, con noi, condivide il mistero del male.
Rendi di nuovo innocenti i nostri bambini che abbiamo trattato come
cassonetti della spazzatura buttando loro addosso ogni sorta di
porcheria pretendendo poi che diventino delle belle persone e dei bravi
cittadini. Ridona ai genitori la capacità di educare e di guardare a
ogni figlio come un essere delicato e prezioso da trattare con fermezza e
con amore, proteggendolo dalle oscenità del mondo circostante.
E infine
porta un grande carico di vergogna a tutte le persone che occupano un
posto di potere e non agiscono per il bene della comunità. Fai arrossire
i corrotti, gli evasori, gli ipocriti, i demagoghi e tutti coloro che
vivono proni davanti agli idoli del potere e del denaro. Caro Gesù
bambino, fa’ che noi continuiamo a sentirci creature fragili, dal
destino misterioso, dal compito affascinante e non automi docilmente
succubi del fracasso dei media. Fa’
che siamo capaci di ribellarci a questa oscurità che ci viene fatta
passare per luce, alle luci finte, alle barbe finte, alla pance finte,
ai pensieri e ai sentimenti finti, alle finte eterne giovinezze. Fa’ che
in ognuno di noi torni a radicarsi l’idea che non c’è altro senso del
cammino della vita che la costruzione e la ricerca dell’amore.
Susanna Tamaro
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Postato da: giacabi a 09:07 |
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natale, tamaro
Eluana, che sgomento la vita decisa nei tribunali
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I progressi della scienza ci portano ad affrontare problemi etici fino a pochi anni fa impensabili. Se
avessi detto a mio nonno, nato nell’Ottocento e sopravvissuto a due
guerre mondiali, che avrebbe potuto decidere, con l’aiuto di un atto
notarile, in che modo morire penso onestamente che sarebbe inorridito. Come
si fa a decidere prima una cosa di una gravità e di una complessità del
genere? Certo, nessun essere umano sano di mente augura a se stesso e
ai suoi cari di vivere in stato di incoscienza per anni o di dipendere
dal funzionamento di una macchina. Ma una cosa è avere un timore,
un’altra affrontare la realtà, quando si presenta.
Se
capitasse a me, ad esempio, magari in quel momento vedrò lo sguardo
della persona che amo e capirò che voglio continuare a vederlo o forse
proverò curiosità per questa nuova fase della mia vita che si sta
aprendo, un po’ come se visitassi una terra inesplorata. Oppure sarò
sola, disperata, nessuno risponderà alla mia tristezza allora, certo,
vorrò porre fine ai miei giorni. Ma come faccio a saperlo adesso, a
decidere in un momento così lontano e così diverso? E se poi questa mia
scelta autorizzasse qualcun altro a decidere per me? Contrariamente
a quanto ci viene continuamente ripetuto, io penso che sappiamo ancora
pochissimo sulla vita, su quello che c’è nella nostra mente, nel nostro
corpo e che questo senso di ignoranza debba condurre al massimo timore,
al massimo rispetto.
Nessuno
di noi sa cosa provi veramente Eluana, nella sua attuale condizione,
come non sappiamo perché le sia successo questo incidente, che senso
abbia nella sua vita e in quella dei suoi genitori né perché il suo
corpo continui ad essere così straordinariamente vitale. Questa
vicenda provoca in me un senso di dolorosa compassione. Compassione per
la sofferenza dei genitori, per quanto abbia dovuto soffrire - e per
quanto ancora avrà da soffrire - la loro figlia; compassione
per le suore che, per tanti anni e con tanto amore, si sono prese cura
di lei. Ma oltre alla compassione, provo anche un senso di gelo e di
sgomento perché l’idea che un tribunale non penale possa decidere della
vita di un essere umano è qualcosa che esula dalla mia visione del
mondo.
Sono
profondamente contraria all’accanimento terapeutico, quando ci sono
delle malattie devastanti e progressive, ma un tumore o una malattia
metabolica sono ben diverse da uno stato vegetativo. Una delle cose che
più mi sorprende, di questi nostri tempi, è la grande quantità di
certezze che ci vengono proposte come verità assolute. L’uomo,
ci viene ripetuto da più parti, ha una sola dimensione - quella
razionale - e tramite questa razionalità è in grado di determinare ogni
istante della sua vita in modo che l’imprevisto, quest’ospite scomodo e
inquietante, scompaia definitivamente dall’orizzonte.
La
vita che ci preparano i devoti della razionalità è una vita di estrema
tristezza, dominata dall’ansia e dalla paura, una vita segnata dal
continuo ricorso ai tribunali per avere una qualche certezza di essere
nel giusto. Una vita, insomma, in cui l’uomo non è che una cosa tra le
cose.
Se vado in un negozio, infatti, non compro certo un oggetto guasto o
scaduto e, se per caso mi capita di farlo, lo porto indietro, chiedendo
un rimborso. L’essere
cosa tra le cose ci porta a chiedere la perfezione, a bandire dal
nostro orizzonte l’imprevisto della malattia, del dolore, lo spettro
della morte. Sgombrato infatti il campo dalla necessità di
interrogarsi sul mistero che avvolge le cose - perché il mistero non
esiste, in quanto non provabile scientificamente - non rimane che
appellarsi alla legge degli uomini, invocare una sentenza che confermi la correttezza del nostro sentire. Il
tribunale è diventato il cuore attorno a cui ruota la nostra civiltà.
La vita è, alla fine, un’avventura amara e, siccome non abbiamo chiesto
di venire al mondo e non ne capiamo il senso, abbiamo il diritto di
essere risarciti fino alle più piccole contrarietà che ci capitano.
Ricordo il caso di una ragazza che, avendo trovato un insetto in un
pacchetto di patatine fritte, ha fatto causa alla ditta produttrice
chiedendo i danni biologici per lo spavento provocato, danni che le sono
stati peraltro riconosciuti. O casi di genitori che hanno denunciato un
medico per un figlio nato con difetto di deambulazione. Ma
è davvero questo il senso della nostra vita? Vivere accerchiati da
pensieri ostili, da potenziali nemici, rivendicando continui danni
subiti? Lo
spirito del nostro tempo è quello del risentimento. Ma il risentimento è
come una potente erba infestante, ha radici profonde, invasive e con il
suo espandersi riduce fino ad eliminare la possibilità di provare un
sentimento.
Si
vuol far credere che il mistero - e dunque la domanda sulla
trascendenza - sia un obsoleto retaggio del mondo clericale, mentre
forse bisognerebbe dire che riguarda sempre e comunque ogni uomo, per la
complessità della sua natura, per la presenza delle tenebre, per
l’assoluta certezza della morte. Se contemplassimo con timore - altra grande parola scomparsa dal nostro orizzonte - questo mistero, forse
saremmo costretti a interrogarci, a metterci in cammino, a entrare
nell’idea che ogni cosa che accade nelle nostre vite ha un senso
profondo e che crescere come esseri umani vuol dire proprio riuscire a
capire questo senso, facendolo lievitare in qualcosa di più grande, di
più alto, di più luminoso. La vita non è uno status quo da difendere con
le unghie e con i denti, ma una condizione di continuo cambiamento, di
cui, solo in parte, siamo responsabili. Ogni mattina, quando apro gli
occhi, non so se arriverò alla sera o se ci arriveranno le persone a cui
voglio bene. Siamo continuamente esposti all’impatto devastante del
dolore, alla lacerazione del distacco, alla sofferenza delle persone
amate. Proprio per questo, bisogna essere grati per ogni istante che ci
viene donato, per tutte le cose, belle e meno belle, che avvengono nel
corso dei giorni perché nel loro insieme costituiscono l’unicità del
nostro cammino.
Sono
anche profondamente convinta che ogni vita abbia la sua morte e che
questi due eventi si illuminino di senso a vicenda. E che l’unicità della vita umana stia proprio nella capacità di creare rapporti d’amore. Qualche
tempo fa, sono andata a trovare un’amica molto anziana ormai esasperata
dall’essere ancora viva. «Dio si è dimenticato di me. Perché non
muoio?», mi chiedeva. «Forse non muori perché devi ancora capire
qualcosa», le ho risposto scherzosamente. «Forse
perché quella pianta che hai sul davanzale domani fiorirà e tu rimarrai
stupita dal suo colore, dalla bellezza che esploderà tra il grigiore
dei palazzi». «Ma dov’è la misericordia di Dio?», ha incalzato lei.
«Quella di Dio non lo so, ma so dove noi dobbiamo coltivarla. Nei nostri
cuori». www.susannatamaro. |
Postato da: giacabi a 14:42 |
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eutanasia, tamaro
L’uomo artificiale
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"Non
è forse proprio la perdita del timore che sta trasformando
l'artificiale presente nel mondo nel biglietto da visita
dell'apocalisse?
Il ritornello che ci viene ossessivamente proposto è quello altamente filantropico della felicità dell'uomo. Sembra che, nei vertici delle multinazionali, nel gotha dei media, negli asettici laboratori degli scienziati più spregiudicati, non si pensi ad altro. Lavoriamo per voi, per sconfiggere la fame, le malattie: non ci saranno più deformi, ritardati, sofferenti, paralitici perché la lungimiranza genetica ci permetterà di eliminarli ancor prima che sorgano. Non ci sarà più tristezza, insicurezza, malinconia, anche i timidi non arrossiranno più perché abbiamo trovato la pillola adatta anche per loro. Per ogni problema, c'è una soluzione; e se ancora non è stata trovata, lo sarà fra breve perché i nostri grandi e invisibili benefattori non risparmiano né tempo né mezzi per giungere ad un nuovo brevetto. Anche la morte non sarà molto diversa da una seduta dal dentista: basterà telefonare e prendere appuntamento per mettere così fine ai nostri giorni nel momento da noi stabilito. Non era questo forse il sogno dei sogni? Sapere finalmente quello che a nessuno sulla terra è dato mai sapere: il dove, il come e il quando? Dalla nascita alla morte, immerso nella luce azzurrina della benignità, l'artificio domina incontrastato nelle nostre vite. Ci hanno convinto che, meno incertezze ci sono nella vita, meglio è, che la capacità di domare gli imprevisti, in primis il mistero inquietante della morte, è il lasciapassare per vivere il paradiso in terra. Dato che il programma è già a un buon punto di attuazione, bisognerebbe cominciare a intravedere i segni di questa straordinaria rivoluzione riduzionista. Siamo macchine non perfette ma costantemente perfettibili: le strade, le case dovrebbero essere popolate di sorrisi, risate e passi di danza. È davvero così? Basta prendere l'autobus, la metropolitana o passare un pomeriggio in un centro commerciale per rendersi conto che di questa felicità non c'è alcun segno sulle persone che li popolano; anzi, aleggia su quei volti una sorta di inquietante cupezza. Più che volti sembrano maschere: ai lineamenti infatti sempre più uguali, sempre più angosciosamente perfetti, manca la profondità dello sguardo. Per contrasto vengono subito in mente gli occhi luminosi e le mani sempre pronte ad aprirsi in un saluto di quella folla povera che macina chilometri e chilometri in certe strade sterrate del Terzo Mondo. Com'è possibile? Non tornano i conti. Noi abbiamo ogni cosa sotto controllo, non sappiamo più cosa siano la fame e la sete, il nostro orizzonte è serenamente circoscritto dal motto: "dopo di me il diluvio". Sappiamo come nascere, fra poco sapremo anche quando morire eppure siamo devastati dalla depressione, dai suicidi, dalla violenza. I nostri giorni si trascinano noiosamente avanti in una catena di mediocri sofferenze, mentre loro, che possiedono solo lo straccio che hanno indosso e non sanno quando mangeranno e se berranno, camminano leggeri, come se la vita fosse una festa. Non sarà per caso che loro, dentro di sé, hanno ancora ben viva e precisa l'idea del destino? Non sarà che noi, lentamente e inesorabilmente, con un lavoro di finezza magistrale (che ha fatto leva sulla parte più fragile e inconsapevole di noi) abbiamo accettato di non essere altro che una cosa tra le cosa? E che, accettandolo, abbiamo abdicato alla nostra straordinaria responsabilità e unicità di uomini? Non sarà per caso che dando un calcio alla possibilità di scegliere abbiamo lasciato ad altri - potenti, invisibili e ingannevolmente benevoli - la costruzione/distruzione del nostro destino? Non sarà per caso che, a furia di avere risposte soddisfacenti, ci siamo dimenticati che la prerogativa dell'essere umano è proprio quella di lastricare la sua strada di domande? "La disposizione affettiva caratteristica dell'uomo moderno è il risentimento." Ha scritto Hanna Arendt, con lo spirito profetico che la contraddistingue. "Risentimento contro tutto ciò che è dato, anche contro la propria esistenza, contro il fatto che non è il creatore dell'umano, né di sé stesso." Risentimento. Esiste un termine più giusto per definire la cupezza dei volti, la protervia delle continue rivendicazioni, la corsa all'accumulo di cose, situazioni ed emozioni come a voler riempire quel bulimico vuoto che caratterizza i nostri giorni? Avendo rinunciato ad accettare la temporalità e a interrogarsi sul rapporto misterioso che a lei ci lega, cerchiamo di arraffare più cose possibili, di metterle nel carrello prima che la festa finisca, come se partecipassimo all'imprevisto saccheggio di un supermercato. Avendo rinunciato a capire, a ribellarci a ciò che ci viene imposto, avendo rinunciato a contemplare serenamente la precarietà e il mistero che si nasconde dietro ogni volto e ogni destino, per salvarci, non ci resta che la tesaurizzazione: tesaurizzare oggetti, energie, conoscenze. Teniamo tutto stretto intorno a noi per il terrore di perdere qualcosa, ed è proprio questo terrore a non farci accorgere che, alla fine, quello che abbiamo perso davvero è la vita: non il numero degli anni ma la sua qualità, la sua intensità, le ragioni che la rendono, comunque e sempre, degna di essere vissuta. Il punto di frattura, la genesi di questa situazione da dove viene se non da un indomito senso di orgoglio? Avendo inventato, con l'artificio della sua mente, un numero straordinariamente grande e importante di cose, alla fine l'uomo si è convinto di avere creato il tutto. La terra e il cielo non sono diventati qualcosa di molto diverso da un materasso e da una coperta: due funzioni unite dal criterio di utilità. Il cielo esiste come programma meteorologico per i nostri weekend, la terra come un parco giochi in cui scorazziamo alla ricerca di sempre nuove distrazioni. Ma il rapporto che lega la terra al cielo - e che in mezzo ci comprende - è di ben altra complessità: è il rapporto che lega la madre al figlio, la vita alla morte, il visibile all'invisibile, il temporaneo all'eternità. La nostra vita è vita davvero non quando conosciamo la data esatta della nostra morte, ma quando ne accettiamo l'esistenza come dato fondante della nostra complessità. La nostra vita è vita davvero non quando livelliamo la diversità nel nome di un malinteso bene comune, ma quando diventiamo consapevoli che la nostra verità non sta nell'avere ma nell'essere, nel costruire il nostro destino esercitando in modo vigile e continuo la possibilità di scelta. Scegliere la vita contro la morte, l'accoglienza invece del rifiuto, la compassione invece dell'intolleranza, la gratitudine al posto del risentimento. Per essere grati però dobbiamo rompere l'idolatrica maschera di coccio che ci siamo fatti mettere addosso, una maschera che genera sterilità e risentimento. Per essere grati dobbiamo fare un passo indietro e provare stupore per il puro fatto di esistere, fuori dal mistero dell'oscurità. Per essere grati dobbiamo imparare a purificare il nostro cuore da tutte le sozzure, da tutti gli idoli, liberarlo dall'ego onnipresente perché al suo posto si possa accasare la Sapienza. Per essere grati, dovremmo raggiungere quel punto in noi stessi in cui il finito tocca l'infinita e provare nostalgia per il bene racchiuso nell'alleanza. Per essere grati dobbiamo riconoscere la vita come dono e come immensa potenza del sacro presente del mondo. Lo sguardo della gratitudine è uno sguardo che non teme le emozioni più profonde, al contrario trova proprio nel viverle il suo vero compimento. Non c'è ritrosia, non c'è frigidità nella gratitudine ma piuttosto abbondanza di lacrime. Quanta bellezza abbiamo sprecato, quanta armonia abbiamo distrutto, quanta misericordia non abbiamo vissuto! Eppure era lì, davanti a noi, sarebbe bastato allungare la mano per afferrarla, sarebbe bastato aprire gli occhi, le orecchie, mettersi umilmente seduti in ascolto: ascoltare il silenzio e, con il silenzio, tutto ciò che al suo interno si nasconde. Così il mondo adesso non è poi molto diverso dai pascoli poco prima della Pasqua. Un camion è venuto e ha portato via, tra alte grida, tutti gli agnelli. Stipati, stupefatti, belanti sono scesi rapidamente dalle colline verso il macello. Le madri sono ancora lì e corrono in affanno, intrufolano il muso in una smagliatura della rete, lanciano richiami altissimi, strazianti. Cala la sera e non smettono di cercare i loro piccoli. La notte è attraversata dalle loro grida, dai campanacci in continuo movimento. I piccoli sono già sotto cellophan sui banchi del supermercato e loro continuano a invocarli. Soltanto il terzo giorno su ciò che rimane del gregge scende lo sfinimento, le madri finalmente si adagiano su un fianco, lo sguardo smarrito, annegato in una sofferenza incapace di esprimersi, le mammelle gonfie, turgide di un latte che non potrà più nutrire nessuno. L'impotenza dell'Onnipotente è questa: chiamare, chiamare e non avere risposta perché i suoi figli, convinti di fare una gita, sono già tutti pigiati sul carro che corre verso il mattatoio. L'impotenza dell'Onnipotente è non avere più alcuno a cui offrire la sapienza, il frutto di misericordia delle sue viscere. Per questo quando cammino o vado in bicicletta o quando prendo l'autobus o viaggio in treno io faccio una cosa soltanto: chiedo perdono." © Susanna Tamaro, 2006 |
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