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Cleuza Ramos e la teologia della felicità
di Aldo Trento
Da
sempre cattolica e attivista per i diritti dei senza terra, trovò pace
solo quando scoprì che era il suo impegno ad aver bisogno di una
“liberazione”. L’altro mondo possibile della donna che ha dato una casa a
centomila brasiliani
Cleuza Ramos è nata il 5 marzo 1954 nell’entroterra dello Stato di San Paolo, nella città di Espírito Santo do Pinhal. Viveva con i genitori e altri sei fratelli in una casa molto semplice, in campagna. Non avevano luce elettrica né acqua corrente, ma vivevano felici, vicino a un fiumiciattolo e lavorando la terra con la famiglia. Non avevano molti vestiti né scarpe, ma il cibo era abbondante: frutta, legumi e verdure. La vita era semplice, ma suo padre, un umile lavoratore, aveva un sogno: voleva che tutti i suoi figli studiassero. Aveva un fratello che viveva a San Paolo e decise di portare tutta la famiglia nella grande città, alla ricerca di un futuro migliore. Così, a dieci anni, Cleuza salì su un vecchio camion insieme con la sua famiglia. Fecero un viaggio di 300 chilometri fino alla capitale paulista. Tutti cantavano allegri, ma Cleuza piangeva, perché non voleva lasciare la sua terra.
Nella loro città, i Ramos erano una famiglia molto religiosa. La domenica facevano un bel pezzo di strada a piedi per non perdere la Messa e, in casa, recitavano abitualmente il Rosario tutti insieme. Ma arrivati a San Paolo non lo fecero più. Soltanto Cleuza continuò a cercare la Chiesa, e la sua battaglia cominciò proprio in quel periodo. «Andai a vivere in un quartiere poverissimo», racconta. «Non c’era nemmeno una chiesa vera e propria, era solo un capannone. A dieci anni mi unii alle “vecchie” della comunità per costruire la chiesa. Facevamo chermes, feijoadas, vendevamo vestiti, tutto per costruire la chiesa». Presto Cleuza si trovò sempre più coinvolta nell’attività della parrocchia di San Antonio. Ma la situazione della famiglia diventava sempre più difficile. Suo padre guadagnava pochissimo e avevano molta fame. Per questo Cleuza, che aveva frequentato la scuola fino alla quarta, cominciò giovanissima a lavorare come domestica. Di fronte a tutta questa povertà, iniziò a desiderare di trovare un uomo ricco, così sarebbe uscita da quella situazione. E a sedici anni, proprio davanti alla chiesa, incontrò il suo futuro primo marito. Juan, laureato in ingegneria, era un imprenditore nel campo dei compressori. La sua auto ebbe un guasto proprio in quella zona, e così i due si conobbero. Cleuza si sposò giovane e andò ad abitare in una casa di campagna, vicino a quella dove viveva con i genitori. Continuava ad aiutare in parrocchia, poi suo marito cominciò a proibirglielo e lei si sentì quasi prigioniera, ma non trascurò mai il lavoro, perché voleva servire. A proposito di quell’epoca, Cleuza dice: «Partecipavo alla catechesi, all’incontro con le coppie, a tutto quello che implicava un incontro, nella Chiesa. Nel 1980 lavoravo con chi viveva per strada e una volta alla settimana, la sera, distribuivamo brodo caldo. Al sabato andavo nella baraccopoli per fare lavoro di assistenza, distribuire cibi indispensabili e vestiti, aiutare a denunciare le nascite dei bambini, eccetera». Al marito non piaceva questo suo coinvolgimento con i poveri. Cleuza e Juan, nei primi anni di matrimonio, avevano avuto due figlie, Adriana e Amanda, e in casa non si smetteva di litigare. Suo marito la rimproverava di stare sempre fuori e con il passare del tempo i contrasti si aggravarono.
L’incontro con Zerbini
Nel 1986 la situazione familiare di Cleuza non era buona. Quell’anno il tema della Campagna di Fraternità (iniziativa di solidarietà e di evangelizzazione organizzata in tempo quaresimale dalla Conferenza episcopale brasiliana, ndr) era “Terra di Dio, terra di fratelli”. In parrocchia cercavano leader che aiutassero nella pastorale della terra. Cleuza non si candidò, ma dopo alcuni appelli rimasti senza risposta, il padre la convocò personalmente. E lei rispose prontamente di sì. Da allora Cleuza passò dal lavoro con le famiglie al lavoro con un movimento popolare. Divenne una leader del movimento dei lavoratori senza terra nella città di San Paolo. Le riunioni erano sempre più frequenti. Al marito non piacque vederla col microfono in mano, fare rivendicazioni di fronte alla municipalità, organizzare manifestazioni ovunque. Le liti si fecero sempre più frequenti, finché, nel 1989, Juan le chiese di scegliere: o il matrimonio o il movimento popolare. Cleuza scelse il movimento: «Quando mi sono sposata, lui era ricco e io povera, così non mi sono portata via niente. Volevo essere libera».
A questo punto, nel 1989, la storia di Cleuza Ramos si unisce con quella di Marcos Zerbini. I due si conoscevano già, dato che erano compagni di lotta nel movimento dei senza terra, e anche lui si era appena separato dalla moglie, la quale voleva che rinunciasse a tutto per una vita tranquilla. Cleuza e Marcos erano solo amici, ma di fronte alla situazione che stavano vivendo decisero di andare a stare insieme per costruire il movimento popolare. Così, in conflitto con le tradizioni che aveva seguito fino a quel momento, Cleuza andò a vivere con il quasi sconosciuto Marcos, in un’umile casa della baraccopoli.
In seguito compresero che un movimento fatto solo di rivendicazioni non dava nessun risultato. Allora diedero inizio all’esperienza dell’acquisto della terra per sistemare le famiglie. Così Cleuza racconta come nacque l’Associazione dei lavoratori senza terra (Atst): «Comprammo la prima terra in una grande area. Ogni lotto costava pochissimo, ma in questa terra servivano infrastrutture: acqua, luce… che però erano più care della terra stessa. Allora cominciammo a fare pressioni sul governo. E finalmente, dopo aver ricevuto da noi quarantamila lettere, il governatore Fleury ci fissò un’udienza. Poi lui stesso venne a visitare la nostra comunità: arrivando, si entusiasmò vedendo tante persone e fece installare acqua, luce e tutto il resto. Dopo quell’episodio abbiamo cominciato a fare meglio le lottizzazioni: compravamo il terreno, aspettavamo l’autorizzazione e costruivamo. A quel punto avevamo bisogno di scuole, e questa è stata un’altra battaglia, ma ci siamo riusciti. Così poco a poco il quartiere, pur essendo in periferia, è diventato proprio bello: aveva una scuola, acqua, luce, strade asfaltate. Ma vedevamo che mancava ancora qualcosa».
A un passo dal mollare tutto
Nel 2001, Cleuza arrivò a pensare di lasciar perdere tutto. Aveva ottenuto molto, ma sentiva sempre un vuoto dentro di sé. Gli unici ricordi gioiosi risalivano alla sua infanzia in campagna. Non era felice. «Piangevo sempre per quello che mancava e non ero soddisfatta di quello che già avevo. C’era una scuola, ma ne servivano dieci. Ed ero triste. Credevo che non ne valesse più la pena». Così rimuginava Cleuza, finché fece un certo incontro. Nell’agosto di quell’anno il dottor Alexandre Ferrari, medico pediatra, fece richiesta all’Università federale di San Paolo di essere mandato a lavorare in una delle aree dell’Atst. Cleuza racconta questo inizio: «Il dottor Ferrari voleva lavorare nella nostra scuola, perché lì avevamo molte adolescenti di 13-14 anni incinte. E i giovani avevano problemi di droga. Cominciò a fare un lavoro all’interno dell’istituto, insieme con i professori. E io non capivo molto bene quello che stava facendo, ma sapevo che era una persona diversa. Diceva che dovevo andare a conoscere i suoi amici. Parlava sempre di uno che si chiamava Giussani. Abbiamo iniziato così a diventare amici». Nel 2003, Alexandre invitò Cleuza a partecipare a un incontro latinoamericano della Compagnia delle Opere, a Rio de Janeiro. «In questo incontro ci si scambiavano esperienze: andava proprio bene per me. È lì che ho conosciuto il movimento di Comunione e liberazione. E non sarei più mancata a un appuntamento: tutto andava proprio bene per me. Nel movimento ho ritrovato la gioia che avevo perso, perché ho incontrato qualcosa di più. Ho veramente trovato la felicità, ho trovato la risposta alle mie domande». La grande novità in cui Cleuza e Marcos si sono imbattuti quando hanno incontrato il carisma di don Giussani, è stata il fatto di poter dare un nome e identificare la sete di infinito che li aveva sempre caratterizzati, perché, come dice Cleuza, «non basta avere solo la casa». Tutti i mesi all’Atst si organizzano riunioni per discutere di formazione, sicurezza, educazione civica. E la gente è accolta in una comunità in cui la maggior preoccupazione è la persona. Così Cleuza e Marcos sono sempre stimolati a cercare ulteriori benefici per l’Associazione, che oggi è riuscita a dotarsi di un posto di polizia, un centro per la salute e un ambulatorio medico a prezzi accessibili, oltre alle convenzioni con le università per ottenere borse di studio.
Quella conferenza di Carrón
Cleuza spiega che aver incontrato Alexandre e i nuovi amici di Cl è stato decisivo per affrontare la vita in un modo nuovo. E seguendo questo cammino, nel 2004, Cleuza ha incontrato don Julián Carrón, il successore di Giussani alla guida del movimento. Quando lo ha sentito per la prima volta si è trovata in totale sintonia. Alla fine del seminario è andata da lui per congratularsi: aveva parlato delle sue domande, di tutto ciò che lei sentiva. «Per tutta la vita sono stata cattolica, e in quel momento ho compreso l’incontro di Giovanni e Andrea con Cristo. Da allora la mia vita è completamente cambiata. Ho capito che i miei capelli sono contati, ho capito che tutto quello che era accaduto rientrava nei piani di Dio, a partire da quell’interesse quasi inconsapevole per il movimento dei senza terra. Oggi faccio le stesse cose che facevo prima, lo stesso movimento popolare, ma non mi aspetto risultati. Cl mi ha insegnato che sono padrona del mio “sì” e che però il risultato non dipende da me. Cristo sa fare molto bene il suo mestiere. Io lavoro e do tutta me stessa, ma il risultato non dipende da me. Oggi festeggio tutte le vittorie e ringrazio Dio perché manca ancora qualcosa: è questa mancanza ad alimentare la speranza».
Una vita totalmente cambiata
In questa amicizia con don Carrón, Cleuza si è sentita abbracciata come mai le era accaduto. E da questo abbraccio è nato il desiderio di sposarsi con Marcos. «Nessuno mi aveva mai detto che dovevo sposarmi, ma ho capito che non stavo vivendo la mia vita in modo serio. Il movimento mi ha fatto capire che non stavo insieme a Marcos per costruire un movimento popolare: ho capito che Cristo mi aveva dato Marcos per costruire il cammino della mia vita, non soltanto per essere il mio sostegno. Allora in un primo momento ci siamo sposati soltanto civilmente. In seguito, però, dato che io ero diventata vedova e lui aveva ottenuto l’annullamento del suo primo matrimonio, abbiamo avuto la grazia di sposarci in Italia, nella chiesa di San Francesco, ad Assisi».
Oggi Cleuza rende grazie ogni giorno per questa storia che ha cambiato totalmente la sua vita. E la sua prima preoccupazione è comunicare alle persone la bellezza dell’incontro che l’ha trasformata. Per questo, nelle riunioni dell’Associazione, si leggono brani delle conversazioni di Carrón e proposte di un cammino educativo per tutti gli associati. «Ciò che ha salvato la mia vita è stato l’incontro che ho fatto», dice Cleuza. «In questo incontro ho trovato persone che mi hanno aiutato a capire quello che Cristo vuole da me. E oggi ho la grazia di tornare bambina, di provare la gioia di quando vivevo in campagna. Oggi, a 56 anni, sono felice e libera. Ma non è una libertà ingenua, ignara di tutti i problemi. La mia sicurezza è che Cristo mi ama molto. Non mi imporrà mai una croce più pesante di quella che posso portare. Capisco molto bene che il Padre non ha risparmiato la croce a suo figlio, quindi non risparmierà a me i miei drammi. Ma sono sicura di essere amata, e questa certezza mi rende felice. È in compagnia dei miei amici, di Carrón, di Marcos, di tutta la gente dell’Associazione, che questa fiducia cresce sempre più. Oggi non ho dubbi: Cristo ha scritto questo progetto per me. E sono contenta perché mi rendo conto che non sono io ad avere la capacità di fare quello che faccio, ma è Cristo che me lo ha chiesto e io do il meglio di me, sapendo che non sono in grado di far niente. E mi stupisce vedere come Cristo usa me, il mio nulla, per costruire un’opera così grande, che coinvolge più di centomila persone».
Cleuza continua ad affrontare i problemi della quotidianità dell’Atst, organizzando riunioni con le autorità per chiedere scuole, giardini d’infanzia. Partecipa agli incontri nelle facoltà e assiste ogni giorno decine di persone che la cercano per condividere la loro vita, chiedere un consiglio. Cleuza conclude: «Quando esco di casa penso: Signore, qual è l’avventura che mi prepari per oggi? Così vengo qui contenta e la giornata passa in un lampo».
***
Cleuza Ramos è nata il 5 marzo 1954 nell’entroterra dello Stato di San Paolo, nella città di Espírito Santo do Pinhal. Viveva con i genitori e altri sei fratelli in una casa molto semplice, in campagna. Non avevano luce elettrica né acqua corrente, ma vivevano felici, vicino a un fiumiciattolo e lavorando la terra con la famiglia. Non avevano molti vestiti né scarpe, ma il cibo era abbondante: frutta, legumi e verdure. La vita era semplice, ma suo padre, un umile lavoratore, aveva un sogno: voleva che tutti i suoi figli studiassero. Aveva un fratello che viveva a San Paolo e decise di portare tutta la famiglia nella grande città, alla ricerca di un futuro migliore. Così, a dieci anni, Cleuza salì su un vecchio camion insieme con la sua famiglia. Fecero un viaggio di 300 chilometri fino alla capitale paulista. Tutti cantavano allegri, ma Cleuza piangeva, perché non voleva lasciare la sua terra.
Nella loro città, i Ramos erano una famiglia molto religiosa. La domenica facevano un bel pezzo di strada a piedi per non perdere la Messa e, in casa, recitavano abitualmente il Rosario tutti insieme. Ma arrivati a San Paolo non lo fecero più. Soltanto Cleuza continuò a cercare la Chiesa, e la sua battaglia cominciò proprio in quel periodo. «Andai a vivere in un quartiere poverissimo», racconta. «Non c’era nemmeno una chiesa vera e propria, era solo un capannone. A dieci anni mi unii alle “vecchie” della comunità per costruire la chiesa. Facevamo chermes, feijoadas, vendevamo vestiti, tutto per costruire la chiesa». Presto Cleuza si trovò sempre più coinvolta nell’attività della parrocchia di San Antonio. Ma la situazione della famiglia diventava sempre più difficile. Suo padre guadagnava pochissimo e avevano molta fame. Per questo Cleuza, che aveva frequentato la scuola fino alla quarta, cominciò giovanissima a lavorare come domestica. Di fronte a tutta questa povertà, iniziò a desiderare di trovare un uomo ricco, così sarebbe uscita da quella situazione. E a sedici anni, proprio davanti alla chiesa, incontrò il suo futuro primo marito. Juan, laureato in ingegneria, era un imprenditore nel campo dei compressori. La sua auto ebbe un guasto proprio in quella zona, e così i due si conobbero. Cleuza si sposò giovane e andò ad abitare in una casa di campagna, vicino a quella dove viveva con i genitori. Continuava ad aiutare in parrocchia, poi suo marito cominciò a proibirglielo e lei si sentì quasi prigioniera, ma non trascurò mai il lavoro, perché voleva servire. A proposito di quell’epoca, Cleuza dice: «Partecipavo alla catechesi, all’incontro con le coppie, a tutto quello che implicava un incontro, nella Chiesa. Nel 1980 lavoravo con chi viveva per strada e una volta alla settimana, la sera, distribuivamo brodo caldo. Al sabato andavo nella baraccopoli per fare lavoro di assistenza, distribuire cibi indispensabili e vestiti, aiutare a denunciare le nascite dei bambini, eccetera». Al marito non piaceva questo suo coinvolgimento con i poveri. Cleuza e Juan, nei primi anni di matrimonio, avevano avuto due figlie, Adriana e Amanda, e in casa non si smetteva di litigare. Suo marito la rimproverava di stare sempre fuori e con il passare del tempo i contrasti si aggravarono.
L’incontro con Zerbini
Nel 1986 la situazione familiare di Cleuza non era buona. Quell’anno il tema della Campagna di Fraternità (iniziativa di solidarietà e di evangelizzazione organizzata in tempo quaresimale dalla Conferenza episcopale brasiliana, ndr) era “Terra di Dio, terra di fratelli”. In parrocchia cercavano leader che aiutassero nella pastorale della terra. Cleuza non si candidò, ma dopo alcuni appelli rimasti senza risposta, il padre la convocò personalmente. E lei rispose prontamente di sì. Da allora Cleuza passò dal lavoro con le famiglie al lavoro con un movimento popolare. Divenne una leader del movimento dei lavoratori senza terra nella città di San Paolo. Le riunioni erano sempre più frequenti. Al marito non piacque vederla col microfono in mano, fare rivendicazioni di fronte alla municipalità, organizzare manifestazioni ovunque. Le liti si fecero sempre più frequenti, finché, nel 1989, Juan le chiese di scegliere: o il matrimonio o il movimento popolare. Cleuza scelse il movimento: «Quando mi sono sposata, lui era ricco e io povera, così non mi sono portata via niente. Volevo essere libera».
A questo punto, nel 1989, la storia di Cleuza Ramos si unisce con quella di Marcos Zerbini. I due si conoscevano già, dato che erano compagni di lotta nel movimento dei senza terra, e anche lui si era appena separato dalla moglie, la quale voleva che rinunciasse a tutto per una vita tranquilla. Cleuza e Marcos erano solo amici, ma di fronte alla situazione che stavano vivendo decisero di andare a stare insieme per costruire il movimento popolare. Così, in conflitto con le tradizioni che aveva seguito fino a quel momento, Cleuza andò a vivere con il quasi sconosciuto Marcos, in un’umile casa della baraccopoli.
In seguito compresero che un movimento fatto solo di rivendicazioni non dava nessun risultato. Allora diedero inizio all’esperienza dell’acquisto della terra per sistemare le famiglie. Così Cleuza racconta come nacque l’Associazione dei lavoratori senza terra (Atst): «Comprammo la prima terra in una grande area. Ogni lotto costava pochissimo, ma in questa terra servivano infrastrutture: acqua, luce… che però erano più care della terra stessa. Allora cominciammo a fare pressioni sul governo. E finalmente, dopo aver ricevuto da noi quarantamila lettere, il governatore Fleury ci fissò un’udienza. Poi lui stesso venne a visitare la nostra comunità: arrivando, si entusiasmò vedendo tante persone e fece installare acqua, luce e tutto il resto. Dopo quell’episodio abbiamo cominciato a fare meglio le lottizzazioni: compravamo il terreno, aspettavamo l’autorizzazione e costruivamo. A quel punto avevamo bisogno di scuole, e questa è stata un’altra battaglia, ma ci siamo riusciti. Così poco a poco il quartiere, pur essendo in periferia, è diventato proprio bello: aveva una scuola, acqua, luce, strade asfaltate. Ma vedevamo che mancava ancora qualcosa».
A un passo dal mollare tutto
Nel 2001, Cleuza arrivò a pensare di lasciar perdere tutto. Aveva ottenuto molto, ma sentiva sempre un vuoto dentro di sé. Gli unici ricordi gioiosi risalivano alla sua infanzia in campagna. Non era felice. «Piangevo sempre per quello che mancava e non ero soddisfatta di quello che già avevo. C’era una scuola, ma ne servivano dieci. Ed ero triste. Credevo che non ne valesse più la pena». Così rimuginava Cleuza, finché fece un certo incontro. Nell’agosto di quell’anno il dottor Alexandre Ferrari, medico pediatra, fece richiesta all’Università federale di San Paolo di essere mandato a lavorare in una delle aree dell’Atst. Cleuza racconta questo inizio: «Il dottor Ferrari voleva lavorare nella nostra scuola, perché lì avevamo molte adolescenti di 13-14 anni incinte. E i giovani avevano problemi di droga. Cominciò a fare un lavoro all’interno dell’istituto, insieme con i professori. E io non capivo molto bene quello che stava facendo, ma sapevo che era una persona diversa. Diceva che dovevo andare a conoscere i suoi amici. Parlava sempre di uno che si chiamava Giussani. Abbiamo iniziato così a diventare amici». Nel 2003, Alexandre invitò Cleuza a partecipare a un incontro latinoamericano della Compagnia delle Opere, a Rio de Janeiro. «In questo incontro ci si scambiavano esperienze: andava proprio bene per me. È lì che ho conosciuto il movimento di Comunione e liberazione. E non sarei più mancata a un appuntamento: tutto andava proprio bene per me. Nel movimento ho ritrovato la gioia che avevo perso, perché ho incontrato qualcosa di più. Ho veramente trovato la felicità, ho trovato la risposta alle mie domande». La grande novità in cui Cleuza e Marcos si sono imbattuti quando hanno incontrato il carisma di don Giussani, è stata il fatto di poter dare un nome e identificare la sete di infinito che li aveva sempre caratterizzati, perché, come dice Cleuza, «non basta avere solo la casa». Tutti i mesi all’Atst si organizzano riunioni per discutere di formazione, sicurezza, educazione civica. E la gente è accolta in una comunità in cui la maggior preoccupazione è la persona. Così Cleuza e Marcos sono sempre stimolati a cercare ulteriori benefici per l’Associazione, che oggi è riuscita a dotarsi di un posto di polizia, un centro per la salute e un ambulatorio medico a prezzi accessibili, oltre alle convenzioni con le università per ottenere borse di studio.
Quella conferenza di Carrón
Cleuza spiega che aver incontrato Alexandre e i nuovi amici di Cl è stato decisivo per affrontare la vita in un modo nuovo. E seguendo questo cammino, nel 2004, Cleuza ha incontrato don Julián Carrón, il successore di Giussani alla guida del movimento. Quando lo ha sentito per la prima volta si è trovata in totale sintonia. Alla fine del seminario è andata da lui per congratularsi: aveva parlato delle sue domande, di tutto ciò che lei sentiva. «Per tutta la vita sono stata cattolica, e in quel momento ho compreso l’incontro di Giovanni e Andrea con Cristo. Da allora la mia vita è completamente cambiata. Ho capito che i miei capelli sono contati, ho capito che tutto quello che era accaduto rientrava nei piani di Dio, a partire da quell’interesse quasi inconsapevole per il movimento dei senza terra. Oggi faccio le stesse cose che facevo prima, lo stesso movimento popolare, ma non mi aspetto risultati. Cl mi ha insegnato che sono padrona del mio “sì” e che però il risultato non dipende da me. Cristo sa fare molto bene il suo mestiere. Io lavoro e do tutta me stessa, ma il risultato non dipende da me. Oggi festeggio tutte le vittorie e ringrazio Dio perché manca ancora qualcosa: è questa mancanza ad alimentare la speranza».
Una vita totalmente cambiata
In questa amicizia con don Carrón, Cleuza si è sentita abbracciata come mai le era accaduto. E da questo abbraccio è nato il desiderio di sposarsi con Marcos. «Nessuno mi aveva mai detto che dovevo sposarmi, ma ho capito che non stavo vivendo la mia vita in modo serio. Il movimento mi ha fatto capire che non stavo insieme a Marcos per costruire un movimento popolare: ho capito che Cristo mi aveva dato Marcos per costruire il cammino della mia vita, non soltanto per essere il mio sostegno. Allora in un primo momento ci siamo sposati soltanto civilmente. In seguito, però, dato che io ero diventata vedova e lui aveva ottenuto l’annullamento del suo primo matrimonio, abbiamo avuto la grazia di sposarci in Italia, nella chiesa di San Francesco, ad Assisi».
Oggi Cleuza rende grazie ogni giorno per questa storia che ha cambiato totalmente la sua vita. E la sua prima preoccupazione è comunicare alle persone la bellezza dell’incontro che l’ha trasformata. Per questo, nelle riunioni dell’Associazione, si leggono brani delle conversazioni di Carrón e proposte di un cammino educativo per tutti gli associati. «Ciò che ha salvato la mia vita è stato l’incontro che ho fatto», dice Cleuza. «In questo incontro ho trovato persone che mi hanno aiutato a capire quello che Cristo vuole da me. E oggi ho la grazia di tornare bambina, di provare la gioia di quando vivevo in campagna. Oggi, a 56 anni, sono felice e libera. Ma non è una libertà ingenua, ignara di tutti i problemi. La mia sicurezza è che Cristo mi ama molto. Non mi imporrà mai una croce più pesante di quella che posso portare. Capisco molto bene che il Padre non ha risparmiato la croce a suo figlio, quindi non risparmierà a me i miei drammi. Ma sono sicura di essere amata, e questa certezza mi rende felice. È in compagnia dei miei amici, di Carrón, di Marcos, di tutta la gente dell’Associazione, che questa fiducia cresce sempre più. Oggi non ho dubbi: Cristo ha scritto questo progetto per me. E sono contenta perché mi rendo conto che non sono io ad avere la capacità di fare quello che faccio, ma è Cristo che me lo ha chiesto e io do il meglio di me, sapendo che non sono in grado di far niente. E mi stupisce vedere come Cristo usa me, il mio nulla, per costruire un’opera così grande, che coinvolge più di centomila persone».
Cleuza continua ad affrontare i problemi della quotidianità dell’Atst, organizzando riunioni con le autorità per chiedere scuole, giardini d’infanzia. Partecipa agli incontri nelle facoltà e assiste ogni giorno decine di persone che la cercano per condividere la loro vita, chiedere un consiglio. Cleuza conclude: «Quando esco di casa penso: Signore, qual è l’avventura che mi prepari per oggi? Così vengo qui contenta e la giornata passa in un lampo».
Postato da: giacabi a 06:02 |
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zerbini
Marcos y Cleuza
Grazie Signore della loro testimonianza
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Postato da: giacabi a 07:49 |
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testimonianza, zerbini, avvenimento
Una casa para todos
***
I
volti di rame risaltano impassibili sotto la luce fredda del neon.
Fredda come l’aria di questo inverno paulista e australe che non vuol
finire e cinge di felpe multicolori uomini, donne e bambini. Tutti in
piedi qui nel salone del centro comunitario del quartiere di interesse
sociale Sol Nascente, alle falde del Pico di Aguajù, la montagna
verdeggiante che sovrasta San Paolo e di notte manda baleni
intermittenti dalla cima dell’antenna di radio e tv lì innalzata.
Il momento è storico: Marcos Zerbini sta per consegnare ai titolari delle case del quartiere (uno dei primi creati grazie all’impegno dell’Atst) il bollettino dell’Iptu, Imposto Predial e Territorial Urbano. Sarebbe l’Ici brasiliana, eppure l’atmosfera è quella di un’austera ma solenne celebrazione. Intanto perché i residenti di qui sono esenti, trattandosi come detto di un’area di interesse sociale. Ma soprattutto perché il bollettino attesta incontrovertibilmente che le case sono perfettamente legali, il catasto le conserva registrate e i servizi comunali pure. Ora manca solo la “escritura registrada” e il lungo cammino dei senza terra verso la terra promessa – sono passati 12 anni dalle prime lottizzazioni – sarà compiuto. «Questa storia è bella perché non è la storia di un eroe solitario, ma di tanti eroi, gli eroi che siete voi», esordisce Zerbini. «Grazie al movimento di Cl la vostra storia è conosciuta in 72 paesi del mondo. Quest’anno Cleuza ed io l’abbiamo presentata al più grande incontro sociale d’Europa, il Meeting di Rimini. Ora in tutto il mondo conoscono il vostro coraggio, la vostra determinazione. Voi non avete solo costruito la vostra casa e il vostro quartiere, ma la storia della vostra vita. Voi siete i protagonisti della storia della vostra vita. E io vi ringrazio, perché siete la strada attraverso la quale ho incontrato Gesù Cristo». Eccesso di retorica? Proprio per niente. L’Associação dos Trabalhadores Sem-Terra e le 17.500 famiglie che dal 1986 ad oggi si sono ad essa associate per poter avere una casa sono veramente un miracolo, a fronte di una tradizione di politiche sociali assistenzialiste e clientelari che in Brasile accomuna da sempre i governi di destra e di sinistra. Spiega Enzo Fraschini, italiano, volontario geometra dell’ufficio tecnico dell’Atst da due anni: «Questa gente non ragiona come i favelados. I favelados invadono le terre di loro iniziativa o sostenuti da un partito politico, costruiscono abusivamente la loro casa e poi chiedono alle autorità di fornire loro un’abitazione migliore a spese dell’ente pubblico. A volte tornano nella loro casa in favela e subaffittano l’appartamento di edilizia popolare che il Comune gli assegna. Gli associati dell’Atst, invece, acquistano legalmente i terreni sui quali sorgerà il loro quartiere dopo attese di 3-4 anni. Grazie al fatto che l’acquisto viene fatto collettivamente per superfici molto vaste, il prezzo pagato riesce ad essere il 20 per cento appena del prezzo del mercato. Poi cominciano i sacrifici: costruiscono a proprie spese la casa in muratura mentre continuano a vivere in affitto da qualche parte; quando l’edificio è minimamente abitabile vanno a viverci, ma sono costretti a collegarsi abusivamente all’elettricità e all’acqua, perché finché la maggior parte della lottizzazione non è edificata il Comune non fornisce i servizi. Quando cominciano a pagare le bollette per l’energia elettrica e la provvista idrica, il quartiere è ancora privo di strade asfaltate, fognature e scuole. Per averle devono impegnarsi in lunghe lotte». Da notare che grazie a questo metodo nelle aree urbane dell’Atst sono assenti le bande di narcos, fatto assai raro in Brasile. L’ostilità di Lula La strada della legalità, del sacrificio e della responsabilizzazione dei “moradores” (gli aspiranti proprietari di casa) non è meno accidentata di quella degli invasori di terre che non intendono spendere un real per la propria regolarizzazione, in una città di 12 milioni di abitanti (20 se si considera l’area metropolitana) dove i favelados sono 2 milioni di persone e il 40 per cento di tutte le abitazioni risultano irregolari per una ragione o per un’altra. Anzitutto all’Atst non è giovato rompere col Pt di Lula alla fine degli anni Ottanta: le amministrazioni di sinistra hanno sempre creato problemi e negato gli interventi di urbanizzazione (atti dovuti) nei quartieri dell’associazione. Particolarmente malevola è stata l’ex sindaco del Pt Marta Suplicy, che alle prossime amministrative di ottobre rischia di riconquistare la poltrona, persa nel 2004. Poi c’è la storica ostilità dei quartieri borghesi adiacenti ai nuovi quartieri dell’Atst. I dirimpettai dell’area Estrada Turistica do Jaraguá, per esempio, convinti che le loro proprietà si sarebbero svalutate con la costruzione di edilizia economica nelle vicinanze, hanno trascinato in giudizio quattro volte Marcos e Cleuza con le accuse più strabilianti, come danni alla flora e alla fauna e associazione a delinquere. Sempre i processi si sono conclusi con assoluzioni piene, e in un caso il pubblico ministero è diventato amico personale della coppia. Altre volte i moradores sono dovuti ricorrere a forme di protesta estreme quando le promesse delle amministrazioni sono state troppe volte disattese: nel 1996 bloccarono per un’ora e un quarto la Marginal Tiete, una delle arterie di scorrimento di San Paolo. Come se a Milano qualcuno bloccasse la Tangenziale Ovest… Da subito a Marcos e Cleuza è stato chiaro che per difendere la loro opera e promuovere politiche della casa migliori per tutti i cittadini di San Paolo dovevano impegnarsi in politica. Marcos è stato consigliere comunale per due legislature e oggi è deputato dello Stato di San Paolo. Alle amministrative l’associazione appoggia le candidature di due suoi membri storici, che hanno buone probabilità di riuscita. Due settimane fa il movimento di Cl in Brasile ha preparato un volantino in vista delle elezioni amministrative intitolato “A política é para todos”. Nel testo si legge fra l’altro: «La politica è uno dei modi più efficaci di coinvolgerci con la realtà e di costruirci una nuova società. Se non ci interessiamo alla politica, essa finisce per essere usata da persone che non si preoccupano del bene comune ma dei propri interessi particolari, il che inevitabilmente genera corruzione». Le comunità delle diverse città brasiliane ne hanno chieste chi mille, chi duemila copie da distribuire. L’Atst ne ha chieste due milioni. «Fra 10-15 anni in Brasile non ci saranno più movimenti popolari», profetizza Zerbini. «Resteranno solo individui isolati e partiti e governi che continueranno a praticare l’assistenzialismo. Noi ci saremo ancora per la forza dell’incontro che abbiamo fatto». «Nella Chiesa cattolica brasiliana ci sono movimenti e gruppi che propongono il cristianesimo come incontro personale con Cristo, e così pure nelle Chiese evangeliche, ma in termini sentimentali», interviene Cleuza. «Sono come la Coca Cola: all’inizio è deliziosa, ma si sgasa subito e quel che resta non ha più un buon sapore». Ha appena inflitto una “bronca”, cioè una sgridata, ai coordinatori che non hanno saputo mantenere un clima d’ascolto nel salone durante l’ultima delle sei assemblee degli studenti, che vanno avanti dalle 8 del mattino. «Noi siamo questi, gente umile e senza preparazione per guidare una cosa così grande: io ho studiato solo fino alla quarta elementare. Fuori per la strada ce ne sono di più bravi e più intelligenti di noi, ma non posso chiamarli qui perché a loro di Cristo non importa. Tutto quello che Dio mi ha dato è qui». |
Postato da: giacabi a 20:47 |
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cristianesimo, zerbini
TESTIMONIANZA
DI CLEUZA E MARCOS ZERBINI
***
testimonianza,
offerta la sera di sabato 10 maggio, durante gli Esercizi spirituali
dei lavoratori di Comunione e Liberazione, che si sono svolti a Rimini
dal 9 all’11 maggio 2008.
Marcos Zerbini. Perché possiate capire il contesto della nostra storia, voglio raccontarvi alcuni fatti.La
nostra origine sono le pastorali sociali della Chiesa cattolica in
Brasile. Nel 1986 la Chiesa, che tutti gli anni in occasione della
Quaresima fa la campagna della fraternità, lanciò come tema «Terra di
Dio, terra dei fratelli», ponendoci una domanda: voi fate qualcosa
perché la gente abbia la terra o semplicemente pregate perché il Signore
risponda a questa situazione?
Questa
provocazione ci ha fatto invitare gente di una parrocchia della
periferia di San Paolo per discutere il problema della casa.
In quindici giorni avevamo radunato duecento persone, in due mesi erano
diventate duemila. L’unica cosa che sapevamo fare era fare pressione
sui governi (quello della città e quello nazionale) perché rispondessero
a questa situazione.Passati due anni, non è successo niente. Allora ci
siamo organizzati con altri movimenti sociali della città di San Paolo
ed è venuta fuori una proposta comune: fare occupazione di terra in
tutta la città.Abbiamo parlato alla gente del movimento di cui noi
eravamo i responsabili, abbiamo spiegato i problemi che avrebbe potuto
implicare e loro hanno deciso di non partecipare all’occupazione. Però
il movimento sociale vicino alla nostra regione ha fatto cinque
occupazioni di terra, e siccome eravamo leader di un movimento sociale
siamo andati ad appoggiarli: erano in tutto ottocento famiglie. Il
proprietario di queste aree è andato dai giudici e pochi mesi dopo la
giustizia ha sfrattato queste famiglie. Metà di loro non avevano
più dove andare e allora quattrocento di queste famiglie sono state
accolte nei saloni parrocchiali delle chiese. Abbiamo domandato loro: «Perché
avete partecipato a una cosa così pericolosa?». Ci hanno
risposto:«Abbiamo partecipato perché il nostro leader ci ha spiegato che
se avessimo fatto questa occupazione di terra, il proprietario ce
l’avrebbe venduta a un prezzo più basso». Questo non è successo, quel
leader è scomparso, però tutto questo ci ha fatto venire un’idea che
sembrava come l’uovo di Colombo: abbiamo cominciato a cercare gente che volesse vendere la terra. Così abbiamo
trovato una donna a cui abbiamo raccontato la storia, lei si è
commossa, ci ha fatto un prezzo a buon mercato e diciotto famiglie hanno
comprato il pezzo di terra;subito ognuno nel suo terreno ha costruito
una baracca e progressivamente ha cominciato a costruirsi la casa.
Allora abbiamo pensato: se questo ha
funzionato con questo gruppetto che non aveva dove abitare, perché non
farlo anche con quelli che già vivono in affitto e che partecipano ai
nostri gruppi?Così abbiamo incominciato a riprodurre questa esperienza. Abbiamo comprato una, due, tre… oggi sono ventisei le aree, dove abitano17.500 famiglie.
Però il problema non finiva con l’acquisto della terra: dovevano farsi
la casa e subito dopo c’era il problema dell’acqua, delle fogne,
dell’elettricità… c’era sempre un nuovo problema che si poneva, e così
il nostro movimento è incominciato a crescere.
Cleuza Ramos.
Grazie per l’accoglienza che ci avete fatto. Sono felice di essere qui
con voi e di condividere con voi questo momento di gioia.
La
lotta che abbiamo fatto nel movimento, negli anni, ci ha insegnato come
organizzarci per acquistare le case. Gli anni sono passati e le cose
andavano avanti. Nell’anno
2000 i quartieri erano pronti, c’era acqua, luce, c’erano le scuole,
però io non ero felice, non riuscivo a vedere la gente felice. Io
pensavo che chi non aveva una casa, quando fosse riuscito ad averla,
sarebbe stato felice. E invece vedevamo le famiglie che facevano mura
sempre più alte per non guardare il proprio vicino, e questo mi lasciava
sempre più triste. Mi ponevo la questione che forse era arrivato il
momento di non lavorare più, di fermare tutto, di smettere quel lavoro.
Però io fin da piccola ho sempre pregato e allora chiedevo: «Signore,
fammi capire la strada».A quel punto è successo un
fatto: dei nostri amici ci hanno detto che volevano un pezzo di terra,
che apparteneva alla scuola dell’Università di Medicina, perché volevano
costruire lì una parrocchia. Io non volevo andare, non ne avevo alcuna
voglia, ma Marcos insisteva: «Andiamo, andiamo», e alla fine sono
andata. Abbiamo parlato col Rettore, gli abbiamo spiegato il problema e
lui ha detto: «Va bene, facciamo un contratto, io vi concedo il
terreno», però ha insistito con me: «Ma chiedimi qualcos’altro, chiedimi
una cosa in più». C’era un fattore che mi lasciava un po’ triste:
abitavamo lontani dall’ospedale. Allora ho domandato: «Questa è una
scuola di Medicina, ci saranno tanti medici; lei potrebbe darci un
medico?», e lui: «Sì,ho tanti medici». Ci ha destinato un medico, ma il
medico in verità non è venuto, e allora ne ha mandato un altro,
Alexandre (che ci sta traducendo), che è arrivato e ci ha detto: «Io
voglio conoscere i vostri quartieri». Gli ho fatto conoscere tutti i
nostri quartieri. Ogni nostro quartiere ha un centro comunitario,
Alexandre chiedeva e io domandavo a lui: «Dove vuoi restare?». E lui:
«Voglio restare nella scuola».
Così abbiamo organizzato nella nostra scuola uno spazio per lui:
«Questa
è la sua sala, troveremo anche un lettino per lei». Non aveva uno
stetoscopio, non aveva niente, e io mi domandavo: ma è veramente un
medico?! Andavo nella scuola e lo vedevo parlare coi professori; allora
ho pensato: non ho trovato una soluzione, ho trovato un problema in più!
Marcos mi diceva: «Il tuo strano amico ha già incominciato a
lavorare?». Tutti i giorni Alexandre parlava con la gente, parlava con
la gente… Dopo un po’ di tempo ho capito che nella scuola c’era un
grande problema: tante ragazze con la gravidanza durante l’adolescenza, e
lui stava facendo un lavoro di coscientizzazione dei professori. Era il
2001 e ancora oggi questo programma continua nelle nostre scuole.
È
stato in questa occasione che ho conosciuto il movimento di Comunione e
Liberazione. Io, che in quel momento non avevo animo e pensavo che la
lotta forse non valeva la pena, vedevo dentro il nostro movimento tante
cose, tanti problemi risolti, però anche tanti giovani che, finita la
scuola, dovevano lavorare, però senza grandi prospettive future.
Marcos.
Poco tempo dopo siamo stati invitati tutti e due al primo incontro
della Compagnia delle Opere, che ci sarebbe stato nella città di Rio de
Janeiro; esattamente in
quegli stessi giorni un gruppo di giovani dei nostri quartieri ci ha
cercati dicendo: «Abbiamo un grande desiderio di studiare, di fare
l’università». In Brasile l’università pubblica ha pochi posti e per
entrare è necessario sostenere un esame, che superano solo i figli dei
ricchi perché studiano in scuole private molto buone. Il povero in
Brasile può fare solo un’università privata, che costa tanto. I ragazzi
ci hanno cercato per questo e ci hanno detto: «Il movimento ci ha
aiutato ad avere delle case. Adesso vorremmo essere aiutati a studiare
in università».
Nell’incontro
della CdO a Rio de Janeiro abbiamo ascoltato due esperienze che ci
hanno colpiti. In una di queste, Oliva, un amico del Cile, ci raccontava
di un’università popolare che il movimento di CL aveva contribuito a
costruire in Perù e che costava molto di meno, perché il motivo non era
solo economico – fare soldi –, e dove tanti giovani della periferia di
Lima potevano studiare. Allora abbiamo pensato: se siamo stati capaci di
costruire dei quartieri, perché non dovremmo essere capaci di costruire
anche un’università?
Quell’incontro
della CdO è finito la domenica e già il lunedì ci stavamo informando su
che cosa si doveva fare per costruire un’università. Abbiamo scoperto
che era un processo molto lento, che ci sarebbe voluto molto tempo, però
abbiamo
anche scoperto che nelle università private a San Paolo almeno il 45
per cento dei posti non erano occupati dopo gli esami di ammissione.
Abbiamo pensato: quando ci organizziamo riusciamo a comprare terra più a
buon mercato; allora forse, organizzandoci, potremo avere anche borse
di studio in università. Abbiamo cercato un’università e il Rettore ci
ha detto: «Se voi mi portate cinquecento studenti, io vi faccio degli
sconti dal30 al 50 per cento». Abbiamo chiamato tutti i nostri giovani:
al primo test di ingresso ne sono entrati 1.800. Allora
abbiamo pensato: per ora abbiamo risolto il problema, al resto pensiamo
il prossimo anno, quando ci sarà un’altra generazione da aiutare. Era
un’illusione, perché dopo una settimana tanta gente ha incominciato a
dirci: «Senti, la mia fidanzata non appartiene alla nostra associazione,
però anche lei vuole fare l’università»; «Mio cugino non è
dell’associazione, ma anche lui vuole fare l’università»; «Il mio amico
non è dell’associazione, però anche lui…». Allora abbiamo deciso di fare
il movimento dei «senza università». Oggi abbiamo quarantamila studenti
in dodici università con cui abbiamo una convenzione.
Cleuza. Nel 2005 avevamo cinquemila universitari.
Io sono stata invitata a La Thuile, all’incontro dei responsabili del
movimento,dove ho domandato a Cesana: «Come si fa Scuola di comunità in
cinquemila?», e lui mi ha detto: «Tu troverai una risposta». Tornando in
Brasile ci domandavamo: «Come si può fare?», perché la Scuola di
comunità è con un gruppo più piccolo. Quello che avevo incontrato a La
Tulle, che mi faceva così felice, dovevo dirlo agli altri. Così ci è
venuta l’idea di fare un volantino: in quello dell’ultimo mese c’è un
riassunto del primo capitolo
sulla fede di Si può vivere così?, che è quello su cui stiamo lavorando a
Scuola di comunità; nell’ultima pagina c’è un giudizio culturale su un
fatto di cui oggi in Brasile si discute molto: la votazione in
parlamento sulle ricerche con le cellule staminali.
Abbiamo
quarantamila universitari che sono divisi in gruppi di duemila, i
raduni durano due ore, li facciamo in fretta e dobbiamo essere molto
oggettivi, perché mentre siamo con un gruppo c’è fuori già la coda per
l’incontro successivo. Alla fine ci sono gli avvisi sull’associazione,
sull’università. All’inizio presentiamo il testo; dopo la presentazione e
la lettura del testo, la gente si raduna a gruppetti di dieci persone,
discutono tra di loro il tema e dopo si apre un’assemblea, in cui la
gente viene spontaneamente davanti per parlare. E noi ci domandiamo
sempre: ma capiscono? Cosa capiscono?Sono quarantamila: come parlare con
ognuno di loro per domandargli che cosa ha capito? Questo
mi riempiva sempre di tristezza. Nella nostra associazione, come
organizzazione, tutti hanno una tesserina, e sia quelli dei “senza casa”
sia quelli dei “senza università” erano obbligati a venire ai nostri
raduni, alle assemblee: venivano perché li obbligavo, venivano solo
perché avevano paura di perdere il beneficio che ricevevano.
L’anno
scorso ci hanno invitato un’altra volta all’incontro di La Thuile. Dopo
cinque minuti di incontro, Carrón nella sua presentazione ci ha detto
così: «Cristo ci ha amato tanto che ha numerato tutti i capelli del nostro capo». Ho detto: «Marcos, possiamo andarcene perché ci è già stato detto tutto».
Marcos. Tornando a San Paolo ci siamo detti: «Dobbiamo,
come don Giussani diceva, scommettere sulla libertà della gente». Così
abbiamo detto a tutti: «Non è più un obbligo la presenza a questi nostri
raduni. Avete la garanzia che il beneficio sarà mantenuto, non siete
più obbligati a venire ai raduni, perché vogliamo che partecipino solo
quelli che veramente intendono fare una strada con noi». Questo è stato
fatto quando avevamo venticinquemila giovani, oltre anche a quelli delle
case. Dei venticinquemila giovani otto hanno deciso di andarsene , ma
dopo una settimana cinque di questi otto sono tornati e ci hanno
spiegato: «Vogliamo essere ricevuti nuovamente tra voi, perché abbiamo
capito che da soli non saremo capaci di finire l’università».
Perché, qual è la realtà dei nostri giovani? Loro lavorano tutto il
giorno e di sera vanno in università; la stragrande maggioranza dorme
quattro-cinque ore per notte e spende praticamente tutto lo stipendio
per pagarsi l’università, anche se ha lo sconto. Senza una compagnia non sono capaci di arrivare fino alla fine.
Cleuza.
Dopo questo ho pensato: d’ora in poi il movimento ha un’altra faccia,
ha un’altra strada. L’associazione ha imparato a fare grandi cose, come
una cooperativa. La salute pubblica in Brasile non va bene: abbiamo
fatto convenzioni con imprese private di salute, di servizio clinico;
convenzioni con scuole di lingue… tutte le scuole ora vengono
dall’associazione perché vogliono fare la convenzione. Però quello che
ha cambiato la gente non è stato l’aiutarli ad avere casa o servizio
medico; quello
che ha aiutato me, in primo luogo, è stato l’incontro che abbiamo fatto
con Comunione e Liberazione. E noi questo incontro lo abbiamo proposto a
loro e loro hanno detto di sì.
Per questo oggi non avrebbe senso che l’associazione non avesse come unico cammino la strada di Comunione e Liberazione. L’associazione
è nata per rispondere alla realtà e oggi la realtà, le persone hanno
fretta di incontrare Cristo. E noi abbiamo avuto il privilegio di
incontrarLo.
Io sono felice di poter portare queste cose a questi giovani. In dicembre abbiamo fatto questa proposta a loro: «L’associazione
ha i suoi servizi, questi sono cose nostre, ma il destino del movimento
vogliamo consegnarlo a Carrón. Andiamo in piazza, voglio farvi vedere
chi è quello che seguo io». Allora abbiamo fissato il giorno e l’invito è
stato fatto così: «Quelli che tra voi si sentono appartenenti a questa
storia, vengano in piazza con noi; quelli che non si sentono
appartenenti a questa storia, non vengano». Abbiamo preparato una bella
festa, abbiamo preparato tante cose: cantanti, striscioni, un mega show,
ma ha cominciato a piovere, e pioveva; c’è stata un’inondazione. Ho
pensato: è finito, non succederà niente. L’evento doveva cominciare alle
cinque del pomeriggio: c’erano palloni, cantanti, ma non smetteva di
piovere. La gente cominciava ad arrivare,arrivavano da ovunque, la
polizia ci ha detto: «Ma cosa significa questo? Questo non è un piccolo
incontro di Chiesa! Perché arriva tutta questa gente? Cosa ci sarà
qua?!». La piazza era strapiena, tutti erano con gli ombrelli, la cassa
stereo ha dovuto essere coperta per la pioggia, non si sentiva nulla.
Marcos ha avuto l’idea di parlare con il Cardinale di San Paolo, che
avrebbe partecipato all’evento, però in quel momento conversava con
Carrón; non sapevamo cosa fare, c’era una confusione generalizzata. Ho
detto: Oddio, cosa succederà adesso?Marcos ha chiesto al Cardinale se
potevamo fare l’incontro non in piazza, ma dentro la chiesa, però nella
cattedrale ci stavano solo ottomila persone. Siamo entrati in chiesa,
però fuori c’erano cinquantamila persone e la gente voleva assolutamente
entrare e io dicevo loro:«Per favore, andate a casa vostra, andate a
casa vostra!». «No, io appartengo a questo e voglio partecipare
anch’io», ma non era possibile. Ho detto: «O Gesù, in Italia è Comunione e Liberazione, in Brasile è Comunione e Confusione!».
Marcos. Tanti ci domandano: «Va bene, ma voi eravate già abituati a fare quello che fate: cosa
è cambiato nell’incontro con Comunione e Liberazione?». Quello che è
cambiato è che cinque anni fa non ce la facevamo più a fare il nostro
lavoro; era grande la quantità di problemi e noi ci concepivamo come
responsabili della risposta, avevamo la presunzione di pensare che
dovevamo noi rispondere ai problemi. La prima cosa che abbiamo imparato
nell’incontro con Comunione e Liberazione è che a noi tocca dire di sì,
ma il risultato non appartiene a noi: il risultato appartiene a Cristo.
Quando abbiamo capito questo è come se duecento chili fossero stati
tolti dalle nostre spalle. In questi ultimi cinque anni il movimento è
triplicato e il suo peso è molto più leggero.
L’altra cosa che abbiamo capito con molta chiarezza è che
la nostra era un’esperienza di dolore, di tristezza, perché la gente
aveva tanti problemi e noi non riuscivamo a rispondere. Avevamo solo
un’intuizione: che dovevamo dare la nostra vita a quell’opera, però era
un compito triste, pesante. Quando abbiamo cominciato a capire che
facevamo le cose non per le persone, ma per Cristo, abbiamo cominciato a
farlo con allegria, è come se tutta l’allegria, la gioia del mondo
avesse inondato il nostro cuore. La gente ci dice: «Voi siete cambiati tanto:
avevate uno sguardo triste, oggi siete allegri». Anche il rapporto tra
noi due è cambiato. Diciotto anni fa ci siamo messi insieme, abbiamo
cominciato a vivere insieme non perché eravamo innamorati l’uno
dell’altra, ma perché eravamo sicuri che avevamo una missione, dovevamo
fare un lavoro. E quanto più difficile diventava questo lavoro, tanto
più davamo la colpa l’uno all’altra, fino al punto che ci siamo detti:
abbiamo costruito l’associazione, adesso è arrivato il momento che
ognuno di noi faccia la sua vita. Ma l’incontro con CL ci ha aiutato a
capire un’altra cosa: noi non eravamo insieme solo perché dovevamo
costruire qualcosa, noi eravamo insieme perché Cristo ci aveva regalato
l’uno all’altra, e non per fare un’opera, ma per fare insieme una
strada, perché uno potesse aiutare la strada dell’altro.
L’innamoramento
che ora sentiamo l’uno verso l’altra è una cosa che prima non esisteva.
Due anni fa ci siamo sposati con rito civile, non potevamo sposarci in
chiesa perché io avevo già un matrimonio alle spalle; due mesi fa è
arrivata la dichiarazione di nullità del mio matrimonio e in agosto, se
Dio vorrà, ci
sposeremo in chiesa. Perché questo è importante? Perché ho imparato con
don Giussani che dobbiamo essere un esempio, perché noi non insegnamo
agli altri con la parola, ma con l’esempio. Come posso chiedere a tutti
quelli che ci seguono di essere serio nella vita, se io stesso non sono
serio con la mia? Come posso dire a loro che la moglie o il marito è una
cosa definitiva nella vita, se nella mia non lo è? Perfino questo è
opera di Giussani e di ognuno di voi.Quando abbiamo consegnato il
movimento a Carrón abbiamo ripetuto lo stesso gesto che lui stesso ha
fatto con don Giussani, perché moltissimi sono quelli che oggi ci
seguono, ma devono sapere che noi seguiamo una persona, un Altro. Come
ha detto Venza: «Non ha senso che ci sono due strade». Se ho incontrato
una cosa che è così vera e bella nella mia vita, devo portarla a quelli
che mi seguono. Forse voi non ne avete idea, però avete in mano un
tesoro grande: siete nati o cresciuti in un luogo dove esisteva già
questo carisma che don Gius ci ha regalato, e non sono sicuro che
riusciate a capirne l’importanza. Per noi è stato l’incontro con una
cosa che abbiamo aspettato tutta la vita e voi non avete l’idea di
quanto questo è stato importante, per la nostra vita. Io mi sento molto
piccolo quando Carrón parla della nostra esperienza come se fosse una
cosa grande e bella, perché non so se lui si rende conto che se non ci
fosse stato questo incontro, la nostra storia probabilmente non ci
sarebbe più. Se poniamo su una bilancia chi deve qualcosa a chi, il
nostro debito nei vostri confronti è molto più grande del vostro per
noi.
Cleuza.
I giovani sono normalmente curiosi e mi domandano: «Lenza, tu vedi
Cristo in tutto. Come faccio per vedere anch’io Cristo in tutto?».
Normalmente non so come rispondere. Io non ho studiato, ho finito il
quarto anno delle elementari, non sono capace, non ho imparato a leggere
e a riflettere su un testo: sento una parola, come quella storia dei
capelli, e la ripeto a tutti. In piazza quel giorno Carrón ha detto
un’altra cosa che mi ha colpito: ci ha detto che quando Giovanni ha
visto Cristo per la prima volta aveva sedici anni; avevo già sentito
questa storia, però quello che mi ha colpito è che lui ha detto che
Giovanni ha visto Cristo quando aveva sedici anni e ha scritto il
Vangelo quando ne aveva circa ottanta, e si ricordava l’ora in cui aveva
incontrato Cristo. Allora ho pensato: forse ho capito che cosa dire a
questi giovani quando mi chiedono: «Come si fa a vedere Cristo?»; «Come
sento, come so dove è Cristo?». Devi fare come Giovanni: tutto quello
di cui ti ricordi il giorno e l’ora è perché c’era Cristo. Pensateci e
poi venite a dirmi. «Io mi ricordo il giorno che ho conosciuto
l’associazione». Allora in questo c’è Cristo. «Io mi ricordo quando mio
figlio è nato». E così l’un l’altro ci aiutiamo a ricordare quando
abbiamo incontrato Cristo. Se vivessi duecento anni, come sarebbe
possibile dimenticare il momento in cui ho conosciuto voi? È
impossibile. Questo è Cristo. Non ho dubbio che qui c’è Cristo. Nessuna
foglia cade dall’albero, se Dio non lo vuole. Perché ci siete tutti voi
qui? Non c’è una spiegazione: l’unica spiegazione è perché c’è Cristo.
Io, allora, tornando in Brasile, quando devo raccontare a loro questo
incontro, dirò: «Erano circa le dieci di sera».
Marcos.
Vorrei finire ringraziando per l’opportunità di essere qua e
sottolineare una preoccupazione: dipende da ognuno di noi che fra
cinquant’anni altre persone incontrino la bellezza che abbiamo
incontrato noi.
Javier
Prades, il responsabile di CL in Spagna, mi ha detto una cosa bella:
come sappiamo che una persona diventa santa? Quando, dopo la sua morte,
sempre di più la sua presenza cresce. Noi abbiamo conosciuto un santo, che è Giussani: dipende da ciascuno di noi che questa memoria non
sia cancellata, perché dobbiamo desiderare che i nostri nipoti
incontrino la bellezza che abbiamo incontrato noi. Abbiamo ricevuto
un’eredità di grande valore, non lasciate che questa eredità muoia,
aiutate le future generazioni a incontrare questa cosa grande che
abbiamo ricevuto come un regalo. Grazie.
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Postato da: giacabi a 21:59 |
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zerbini
***
Meeting 2008 - domenica 24 agosto 2008 - Ore: 14.00 Auditorium D7
foto da http://blog.cancaonova.com/
“La
pioggia caduta oggi rappresenta le lacrime di 20 anni di lotta per la
costruzione delle case e di tutto il nostro movimento. Questo è il
momento più importante della nostra storia. Carròn, anni fa, quando
incontrò don Giussani, consegnò il suo movimento nelle mani di don
Giussani. Oggi noi del Movimento Senza Terra di San Paolo, desideriamo
consegnare il nostro movimento nelle sue mani, perché incontrando
Comunione e Liberazione, abbiamo incontrato tutto quello che avevamo
bisogno di incontrare”. Sono le parole, ormai storiche e famose,
che Cleuza Ramon, responsabile del movimento “Trabalhadores Sem Terra”
ha pronunciato il 24 febbraio 2008 nella cattedrale di San Paolo di
fronte a cinquantamila persone fuori e dentro la chiesa. La
responsabilità del movimento sorto per dare una casa ai favelados di San
Paolo l’ha condivisa insieme al marito Marcos Zerbini che, dopo
l’incontro con Cl, ha ripreso a fare attività politica ed oggi è
deputato dello stato di San Paolo.
L’amicizia che può affrontare tutto
Vando Valentini, Tracce n. 3 - marzo 2008 Un Fatto che abbraccia tutto Editoriale Tracce n. 3 - marzo 2008
Gli interventi di Marcos Zerbini e Cleuza Ramos il 24 febbraio 2008 nella Cattedrale di San Paolo, in Brasile.
foto da http://www.meetingrimini.org/
Marcos Zerbini:
Qualcuno, a volte, ci dice: «Grazie per tutto quello che state facendo per noi», «grazie per l’opportunità che ci date di frequentare l’università e di avere una casa». Ma voi non sapete che siamo noi a dovervi ringraziare, perché se noi vi abbiamo aiutato ad avere un’università, ad avere una casa, voi ci avete aiutato a trovare una cosa molto più grande, perché voi siete la strada del nostro incontro con Gesù Cristo. Grazie, dal profondo del mio cuore!
foto da http://www.meetingrimini.org/
Cleuza Ramos:
Gente! Che gioia essere qui oggi! Pensavo sarebbe stato diverso: che sarebbe stata una giornata di sole. Ma Dio ha voluto così: che piovesse, per aumentare la nostra gioia, in questo giorno così importante. Penso che la giornata di oggi rappresenti i vent’anni di sofferenze che abbiamo affrontato per costruire l’Associazione. Niente di più. La pioggia che è caduta oggi sono le lacrime che ho versato per costruire questa Associazione che, oggi, è per me motivo di orgoglio, per la casa, per l’università. Che momento! Siamo qui da mezzogiorno, sotto la pioggia, ma con il cuore pieno di gioia. Carrón, noi… qualche anno fa, avevi un movimento, Nuova Terra. Quando hai conosciuto don Giussani gli hai affdato il tuo movimento, perché non avevi più nulla da cercare; tutto ciò che dovevi trovare, lo avevi già trovato. E oggi stiamo per ripetere il tuo gesto. Con lo stesso coraggio con cui hai consegnato il tuo movimento, io consegno nelle tue mani il mio movimento, perché non ho più nulla da cercare, tutto quello che dovevo cercare, io l’ho già incontrato. Ho qui il libro dell’Associazione, che deve ancora essere lanciato, in cui si raccontano i vent’anni di storia del nostro Movimento. Così ti vogliamo consegnare questo libro sui vent’anni di costruzione dell’Associazione. Le gocce di pioggia cadute oggi sono le lacrime con cui è stata scritta ogni pagina di questo libro; per questo oggi ha piovuto. Carrón, noi vogliamo seguirti un’altra volta. La storia si ripete ancora una volta: hai generato questo popolo perché sei stato generato. L’Associazione ha lavorato una vita: è storia nostra. Ma io voglio seguire te, tutti i tuoi passi, i tuoi pensieri, le tue parole; io voglio seguirti. Perché, più che della casa, più che dell’università, questa gente ha bisogno di gioia e di speranza. E tu sei la nostra speranza. Io voglio seguirti, Carrón. Voglio ringraziare per questo giorno, una giornata storica per l’Associazione. Tutta la storia passata, e quella futura, voglio viverla nsieme a te, Carrón. Che Dio illumini la tua vita, i tuoi passi, perché percorriamo insieme questo cammino che Dio ci ha mostrato. Carrón, sono molto emozionata. Avremmo voluto che la festa si svolgesse in piazza: c’erano le foto, c’era il grande pallone con la critta pronto per decollare. Dio però ha disposto diversamente. Ma questa manifestazione, questa gioia… vorrei dirti che sono molto felice, che ho il cuore pieno di allegria, che sto piangendo non per la tristezza, ma per la gioia. Avrei voluto che questo incontro con te si svolgesse in piazza con le cinquantamila persone che stanno là fuori, perché vorrei che cinquantamila persone fossero testimoni di questo momento. Ma Dio non ha voluto, e avremo molte altre occasioni per testimoniarlo insieme. Ti ringrazio di essere qui! Ti sono grata per tutto: per l’affetto, per le persone del Movimento che mi hanno accolto così bene, gli amici che abbiamo incontrato, Don Filippo, Don Douglas, Don Vando, tutti; è diffcile ricordare tutti i nomi, si rischia di dimenticare qualcuno, tutti quelli che abbiamo incontrato in questo cammino. Dio benedica ognuno di voi. E oggi non ci sono due strade: ne esiste una sola. Oggi, Nuova Terra e i Senza Terra si uniscono al Movimento di Comunione e Liberazione. Grazie, Carrón!
Julián Carrón all’inizio degli Esercizi della Fraternità di Cl 2008:
… Cominciamo … guardando … l’opera più potente che il Mistero ha realizzato in mezzo a noi quest’anno. È successo il 24 febbraio scorso, in Brasile, nella Cattedrale di San Paolo e nella piazza antistante, dove davanti a cinquantamila persone e al cardinale di San Paolo, Sua Eminenza Odilo Scherer, i nostri amici Cleuza e Marcos Zerbini, insieme ai loro amici del movimento dei Senza Terra (Associaçao dos Trabalhadores Sem Terra), hanno confessato davanti a tutti il desiderio di appartenere alla nostra storia, perché hanno detto: «Incontrando Comunione e Liberazione abbiamo incontrato tutto quello che avevamo bisogno di incontrare». … Ho voluto cominciare guardando insieme quello che abbiamo appena visto [filmato di quanto avvenuto a San Paolo il 24/02/2008], prima di nessun’altra parola, come segno di un metodo tutto impostato sulla precedenza data a quello che Cristo fa in mezzo a noi, al «prima» di qualsiasi nostra mossa di cui parlavamo questa estate. Noi non desideriamo altro che seguire quello che Lui fa in mezzo a noi. Perciò quello che è capitato in Brasile è il primo dono che il Signore ci fa in questi Esercizi, che hanno per titolo «Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede». Ciò che abbiamo visto è un dono per rispondere all’urgenza più grande che abbiamo tra noi: la fede, la fede in Gesù Cristo vivo, presente qui e ora.
A servizio del popolo
Marcos Zerbini, Tracce n. 7 - luglio/agosto 2007 La fede ritrovata dei Senza Terra Giorgio Vittadini, Il Giornale, 10 maggio 2007 … Sta accadendo ora Paolo Perego e Paola Ronconi, Tracce n. 7 - luglio/agosto 2006 Carità, legge della vita Paola Ronconi, Tracce n. 8 - settembre 2005 Le dimensioni del mondo Roberto Fontolan, Tracce n. 8 - settembre 2005 «Mancava qualcosa…». Dalle case alla comunità Cleuza Ramos, Tracce n. 6 - giugno 2005 Lo sbarco dei mille. Una nuova vita Isabella S. Alberto, Tracce n. 1 - gennaio 2005 |
Postato da: giacabi a 19:15 |
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L’amicizia che può affrontare tutto
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Postato da: giacabi a 12:15 |
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La liberazione
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Tempi num.21 del 24/05/2007
«Cristo vale più di mille lotte sociali». Marcos Zerbini, ex leader catto-comunista racconta la Chiesa che ha rivoluzionato la sua vita. E il Papa che ha conquistato i suoi ragazzi di Alberto Isabella San Paolo (Brasile) «Molti dei nostri giovani sono andati all'incontro con Benedetto XVI allo stadio di Pacaembu e sono rimasti molto colpiti dalla sua persona. Tutti i media dicevano che il Papa era un uomo chiuso e introverso, invece quella che tutti hanno visto è stata una persona piena di amabilità. Un padre impegnato a educare con chiarezza e fermezza, ma che allo stesso tempo non perde la dolcezza e l'amore per i figli». Marcos Zerbini commenta soddisfatto la visita di Benedetto XVI a San Paolo, la sua città natale, e non è il commento di uno qualunque. «Per me il rapporto con questo Papa è un'esperienza molto nuova e interessante, perché io avevo certe idee sbagliate su di lui derivanti dalla mia originale formazione nella Chiesa, improntata alla teologia della liberazione. Oggi io vedo che il grande sbaglio della teologia della liberazione è ridurre Gesù Cristo a discussioni sui problemi politici e sociali. Ma Gesù Cristo è molto di più di questo». Attenzione, Marcos Zerbini non è un ex della Tdl come tanti. Siamo davanti a un vero leader popolare, che con la sua compagna Cleuza Ramos si è messo al servizio del popolo nelle Comunità di base negli anni Ottanta. Sotto il nome di Associazione dei lavoratori senza terra hanno iniziato un movimento popolare che ha permesso la costruzione di migliaia di case. Adottando un metodo di lotta diverso da quello allora dominante, delle occupazioni di terreni. Così racconta la sua storia. «Nel 1986 il tema della "Campagna di fraternità" della Quaresima promossa dalla Conferenza episcopale brasiliana era "Terra di Dio, terra di fratelli". Nel libretto per la riflessione c'era scritto: "State già aiutando chi non ha la casa, o state solo pregando Dio di aiutarli?". Mi dissi: "Questo è per me, devo fare qualcosa". Al nostro primo raduno vennero 200 persone, due settimane dopo ci trovammo in duemila in una chiesa. Facevamo manifestazioni, raccoglievamo firme e le portavamo al Comune e al governo dello Stato. Creammo l'Asociação dos Trabalhadores sem terra, che all'inizio non diede risultati perché era incentrata solo sulla rivendicazione. Dopo i primi due anni vedevo molte persone la cui unica speranza era un'invasione di proprietà, e intanto abitavano in tuguri, in affitto, in casa della suocera. Allora abbiamo cambiato metodo: anziché aspettare la risposta delle istituzioni o di trovare un terreno da invadere, ci siamo mossi. Con un gruppo di 18 famiglie abbiamo comprato un grande terreno e lo abbiamo diviso in lotti per la costruzione delle case. Poi, sempre organizzandoci in gruppi collettivi, abbiamo comprato altre terre per insediare le famiglie. Per l'acqua, luce e gli altri servizi ci sono voluti anni. E appena insediati ci accorgemmo che erano più costose della terra stessa. Così cominciammo a sollecitare il Comune e questa è stata una lotta di anni. Poi fu la volta della scuola, un'altra lotta vinta. I lotti comprati sono diventati 27, quelli edificati 14 e ospitano 12.500 famiglie. Così il quartiere, anche se di periferia, era diventato bello, con la scuola, l'acqua, la luce e l'asfalto. Ma non eravamo contenti». «Si erano accorti che erano diventati molto bravi nel costruire case per la gente, ma che non riuscivano a costruire la cosa a cui tenevano di più: una comunità solidale, una vera amicizia fra le persone», racconta Vando Valentini, responsabile di Comunione e liberazione e della pastorale universitaria alla Pontificia università cattolica di San Paolo. «Fra i vicini delle loro case, come dentro allo stesso gruppo dirigente, una quarantina di persone, c'erano tensioni e conflitti che non riuscivano a risolvere. L'incontro con noi li ha richiamati all'origine della loro storia: l'appartenenza alla Chiesa. Hanno chiesto di fare Scuola di comunità (momento di catechesi di Cl, ndr) con noi». 22 mila poveri all'università Dopo l'incontro con Cl Zerbini ha approfondito il suo impegno sociale e politico con una coscienza nuova. È rientrato in politica, dopo che aveva abbandonato il Pt del presidente Lula non apprezzandone più i metodi centralisti. «La mia esperienza politica nelle istituzioni è cominciata sei anni fa, quando gli amici dell'Associazione hanno deciso che era importante avere una persona che potesse dialogare con il Comune. Sono entrato a far politica per poter servire di più il popolo. Nel 2000 sono stato eletto consigliere comunale della città di San Paolo con 31.500 voti, nel 2004 sono stato rieletto per il mandato raccogliendo 41.500 voti e nel 2006 ho conquistato un posto di deputato dello stato di San Paolo con 94.082 voti». Marcos ha continuato a lavorare anche nel sociale, dandosi l'obiettivo di favorire l'accesso all'università per i figli delle persone che si erano costruite la casa grazie all'impegno dell'Associazione. «In Brasile l'università pubblica è a numero chiuso e, dal momento che l'esame di ammissione è difficile, riescono a entrare solo quelli che hanno fatto buone scuole private. Il ragazzo povero ha come unica possibilità quella di pagarsi l'università privata. Allora abbiamo provato a organizzare un grande gruppo di giovani e negoziare con le università private di San Paolo che avevano molti posti liberi. Anche lì ci sono esami di ammissione e il numero chiuso, ma hanno anche meno richieste. Così siamo riusciti a firmare convenzioni con diversi atenei privati per cui ai ragazzi sono concessi sconti dal 30 al 60 per cento sulle rate mensili. In questo modo sono entrati all'università quasi 22 mila ragazzi». «La preoccupazione - spiega Zerbini - non è solo l'università, ma un processo di educazione della vita; perciò facciamo incontri con questi ragazzi per parlare dei problemi del quotidiano, cioè dei problemi dell'università ma anche di quelli della propria vita». Di qui alla proposta di un incontro mensile sul libro Il senso religioso di Luigi Giussani il passo è stato breve. L'adesione è stata abbondante. Per Marcos «è stata una sorpresa. Molti di questi giovani rimangano colpiti dalla discussione che facciamo in questo corso e iniziano a capire l'importanza di prendere sul serio la vita, di guardare la propria esperienza umana elementare e imparare da essa, cercando nella vita qualcosa di più grande. I loro racconti sono commoventi. Molti ammettono che l'incontro con l'Assoziazione ha fatto cambiare direzione alla loro vita». Le aspettative intorno al Celam Sono questi i ragazzi che sono andati a vedere Benedetto XVI. «Tornati dall'incontro del Papa con i giovani erano contentissimi e molto colpiti. Mi ha sorpreso e meravigliato come abbiano capito in modo profondo la questione dei rapporti uomo-donna che era stata richiamata da Papa Benedetto. Si pensa che per un giovane dare retta a chi parla di verginità sia assurdo, ma loro hanno veramente capito che non era una questione di sesso soltanto, ma di rispetto per la persona umana. Il Papa non era qui per dire che cosa è proibito, ma per affermare la persona umana, e questo l'hanno inteso perfettamente». Le attese di Marcos Zerbini e dei suoi amici rispetto alla Conferenza organizzata dal Celam (in corso in questi giorni proprio ad Aparecida, in Brasile) recano l'impronta della loro esperienza. «Quando ci rendemmo conto che l'esperienza ecclesiale delle Comunità di base era stata ridotta all'attivismo politico-sociale, ci siamo allontanati della Chiesa e siamo stati guardati male dagli aderenti alla teologia della liberazione. Io penso che in questi ultimi anni la Chiesa sia maturata in Brasile e che stia maturando in tutta l'America Latina. Quello che ci attendiamo dalla Conferenza dei vescovi del continente si può riassumere così: desideriamo che i nostri pastori non lascino da parte la preoccupazione più profonda del cuore umano con discussioni sui problemi politici e sociali. C'è una preoccupazione più grande, che è quella di annunciare Gesù Cristo a tutti. Perché la missione della Chiesa consiste esattamente nell'annunciare Gesù Cristo. È giusto e naturale che ci sia una preoccupazione per i più poveri, per chi si trova ai margini della società, ma noi non possiamo perdere la prospettiva che Gesù Cristo è per tutti, poveri e ricchi. È per tutti perché Lui è molto di più delle questioni sociali e politiche». Lo dice Marcos Zerbini, uno che a guidare lotte per la giustizia sociale ci ha passato una vita intera. |
Postato da: giacabi a 20:44 |
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chiesa, zerbini
"LA REALTA' INVECE E' CRISTO"
MIRACOLO
A SAN PAOLO
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Tempi num.20 del 12/05/2005
IL PERCORSO DI UN'ASSOCIAZIONE POPOLARE BRASILIANA DI SENZA CASA: DALLE COMUNITÀ DI BASE ALLA SUBORDINAZIONE A LULA ALL'INCONTRO CON LA PRESENZA DI COMUNIONE E LIBERAZIONE di Casadei Rodolfo Comunione e Liberazione, teologia della liberazione. I nomi sono simili, ma le strade divergono, stando ad una lunga tradizione. Non così a San Paolo del Brasile: lì una realtà nata dalle Comunità di base cristiane, fiore all'occhiello della teologia della liberazione negli anni Settanta (benché essa non fosse la matrice di tutte), ha deciso di convergere sul cammino di Cl in forza di un incontro. Si tratta dell'Associazione dei lavoratori senza tetto di San Paolo guidata da Marcos Zerbini e Cleuza Ramos, i due leader popolari la cui storia abbiamo già raccontato (cfr. Tempi, n. 36/2004). Tra i fondatori del Pt, il Partito dei lavoratori del presidente Lula, hanno rotto col partito quando si sono resi conto che, salito al potere, stava irregimentando i movimenti popolari che aveva usato come strumenti per farsi strada. Nonostante l'isolamento politico, la loro associazione conta ancor oggi oltre 20 mila aderenti, ex senza tetto che oggi possiedono una casa perché hanno preso parte al loro movimento che ha privilegiato il metodo gradualista (acquistare i terreni, ottenere i permessi e costruire insieme le case) anziché il metodo massimalista (occupare con la forza le terre, da cui poi inevitabilmente la polizia e i tribunali li espellevano) preconizzato dal Pt prima di salire al governo. «Li abbiamo incontrati quasi tre anni fa», racconta padre Vando Valentini, responsabile della pastorale universitaria alla Pontificia università cattolica di San Paolo, arrivato in Brasile 31 anni fa come responsabile di Cl. «Avevano chiesto alla facoltà di medicina dell'università di aiutarli ad affrontare il problema delle gravidanze precoci in uno dei loro quartieri. è stato preparato un progetto, e il medico inviato sul posto era Alexandre Ferrari, un nostro memores (associazione laicale di Cl, ndr). Il progetto è riuscito molto bene, ed è nato un interesse reciproco. Sono venuti all'incontro latinoamericano della Compagnia delle Opere presieduto da Giorgio Vittadini, e hanno intuito che lì c'era la risposta al loro dramma». Dramma? Quale dramma? «Si erano accorti che erano diventati molto bravi nel costruire case per la gente, ma che non riuscivano a costruire la cosa a cui tenevano di più: una comunità solidale, una vera amicizia fra le persone. Fra i vicini delle loro case, come dentro allo stesso gruppo dirigente di una quarantina di persone, c'erano tensioni e conflitti che non riuscivano a risolvere. L'incontro con noi li ha richiamati all'origine della loro storia: l'appartenenza alla Chiesa». «Ci hanno chiesto di fare una Scuola di comunità (momento di catechesi di Cl, ndr) con loro, le 40 persone che seguono i gruppi nei quartieri. Ci vediamo tutti i sabati in un orario incredibile - le 7 di mattina - e studiamo insieme Tracce di esperienza cristiana di don Giussani per un paio di ore. Alcuni di loro si fanno un'ora di autobus per esserci. Poi durante la settimana si vedono fra loro per riprendere i temi che abbiamo affrontato. Adesso Marcos Zerbini dice: 'il nostro movimento è lo strumento perché la gente possa farsi la casa, ma il nostro obiettivo è che incontrino Cristo'. E la leadership è diventata un'altra. Cioè: sono sempre gli stessi - anzi le stesse, perché 30 di loro sono donne -, ma con un cuore diverso». Scuole di comunità alle 7 del mattino Oggi l'Associazione dei lavoratori senza tetto di San Paolo è diventata a tutti gli effetti un'opera di Cl, ovvero una delle realtà che aderiscono alla Compagnia delle Opere. Ogni due settimane il gruppo dei leader si incontra coi responsabili di Cl a San Paolo. Le donne lavorano in gran parte come domestiche, e per loro leggere e far proprio un testo scritto non è la più facile delle cose. Eppure ci tengono tantissimo. Alcune hanno pure creato un coro perché, ascoltando i canti introduttivi, si sono convinte che non si può far bene Scuola di comunità senza saper cantare più che bene. Si trovano il sabato sera fra le 23.30 e le 24.30. Avete mai visto tanta fede in Israele |
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