Il benefattore che fa
acqua da tutte le parti del mondo
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Non ha mai rifiutato elettropompe e generatori di corrente a chi muore di sete: 2 milioni di poveri in 47 Paesi bevono grazie a lui
Mi mostra la lettera che padre Liberatus Mwenda gli ha scritto dalla parrocchia di Nyakipambo, provincia di Iringa, Tanzania: «L’acqua che beviamo è sporca, ci ammaliamo spesso. Vogliamo vivere». La rimette nella busta: «Che cosa gli rispondevo? Portate pazienza e continuate a bere quel liquido puzzolente color marrone?». Silvano Pedrollo ha risposto a modo suo: elettropompa, pozzo e generatore. «Hanno festeggiato per un mese: non avevano mai visto l’acqua corrente e la luce elettrica.
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Di lettere così il proprietario del gruppo Pedrollo, leader mondiale delle pompe idrauliche per uso domestico con sede a San Bonifacio (Verona), 7 aziende, 7 consociate estere, 600 dipendenti, 200 milioni di fatturato annuo, 6 lauree honoris causa (due in Albania, le altre in Russia, Georgia, Ucraina e Macedonia), ne riceve una, tre, dieci a settimana e a tutte risponde nello stesso modo: «Sì, vi aiuto». Nemmeno una volta ha risposto: «No, non posso». Oppure: «Vedremo». Dall’Angola all’Ecuador, dall’India al Brasile, dal Kosovo al Nicaragua, dalla Lituania al Burundi, oltre 2 milioni di persone di 47 Paesi del mondo - ho dovuto contarli io, perché lui non l’aveva mai fatto - bevono, ma sarebbe più esatto dire vivono, grazie ai 1.200 pozzi che sono stati scavati per merito suo.
Pedrollo, che in 37 anni d’attività non ha mai chiuso un bilancio in rosso, mai licenziato un dipendente, mai chiesto un’ora di cassa integrazione, sa bene che cosa significhi aver sete. «Nel 1974 mi presentai alla filiale della Banca Cattolica del mio paese a chiedere un mutuo per aprire la mia prima azienda. “Che garanzie può offrire?”, mi domandò il direttore. Solo i miei 29 anni e la voglia di fare, gli risposi. “Non bastano”. Qualche giorno dopo lessi sul giornale che negli Emirati arabi uniti l’acqua costava più della benzina. Salii su un aereo. Mi feci a piedi tutto il Dubai col prototipo di una delle mie elettropompe sulle spalle, 48 gradi all’ombra, un’arsura terrificante. Negozietto per negozietto. Mi chiedevano: “Marelli?”. Era l’unico marchio italiano che conoscevano. No, Pedrollo, replicavo io. L’assonanza fu la mia fortuna. Tornai a casa con una valigiata di lettere di credito e l’anno dopo mi feci tutti i Paesi del Golfo, dall’Arabia Saudita all’Iran».
Oggi vende i suoi prodotti in 160 dei 202 Stati del mondo, «anche in Abkhazia e in Transnistria, lei sa dove si trova la Transnistria?», a dire il vero no, «è una repubblica separata della Moldavia». Elettropompe (ne produce 2 milioni l’anno) capaci di estrarre fino a 10.000 litri di acqua al minuto. Alternatori in grado di far marciare una fabbrica o di dare elettricità a 2.000 case, «però funzionano col motore a scoppio e siccome il gasolio nel Terzo mondo spesso è più introvabile e più caro dell’acqua abbiamo appena messo a punto un generatore di corrente a pannelli solari». È diventata l’azienda più copiata del pianeta: «Perdo dal 30 al 40 per cento del mercato per colpa della contraffazione. I cinesi hanno creato centinaia di imitazioni: Pedrolloo, Pedrolo, Pierollo, Petrollo, Pedroso, Pedrolla, Petrolla, Peddrola, Pedrolle, Pedro, Pero, solo per citare le più comuni. Ogni innovazione me la copiano nel giro di tre mesi e io devo ricominciare daccapo. Ci salva l’estetica. Un prodotto italiano dev’essere innanzitutto bello. È la lezione che imparai a una fiera nel 1974. Avevamo uno stand bruttarello. Nel 1975 lo feci ridisegnare a Silvano Bellintani, un architetto che ha esposto al Moma di New York e che a 86 anni gira ancora per l’azienda. I clienti mi dicevano: “Si vede che avete fatto un salto di qualità”. Eppure i prodotti erano gli stessi dell’anno precedente».
Ma è per il suo prodotto migliore, la beneficenza, che l’industriale veronese s’è fatto conoscere nei cinque continenti, al punto che a Chittagong, capitale economica del Bangladesh, gli hanno intitolato una Pedrollo Plaza. «Però fuori dal country club dov’era stato organizzato il banchetto in mio onore un vecchio affamato grattava con le unghie i vetri dell’auto per implorare l’elemosina e io, una volta a tavola, non me la sono sentita di mangiare».
La sensibilità verso i diseredati l’ha imparata in famiglia. Suo padre Zimerio, un modesto meccanico ed elettrauto, aveva uno zio, morto in odore di santità, che si chiamava don Luigi Pedrollo. Il quale era stato il braccio destro e poi il successore di don Giovanni Calabria alla guida dei Poveri Servi della Divina Provvidenza e come il suo maestro, l’unico santo della Chiesa cattolica sottoposto a quattro sedute di elettroshock, era un prete carismatico che aveva dedicato la vita agli ultimi. «Andavo a trovarlo tutte le domeniche. C’erano giorni in cui doveva dire a don Calabria: “Padre, non abbiamo niente da mettere in pentola per i nostri 200 orfani”, e il futuro santo gli rispondeva: “Allora andiamo in chiesa a pregare”, e puntualmente la provvidenza mandava prima di mezzogiorno o un camioncino di cibo o un benefattore con un assegno. Mia sorella Loretta stava morendo di difterite. Corsi da don Calabria, che mi disse solo: “Torna a casa, è tutto a posto”. Loretta è ancora viva e i medici non hanno mai capito come abbia fatto a guarire. Solo oggi riesco a spiegarmi la frase che don Luigi pronunciò quando, da giovane squattrinato, lo informai che avevo in animo di fondare una fabbrica di elettropompe: “Vedrai quanto bene farai con quegli attrezzi lì”».
Che quota di bilancio destina in beneficenza?
«Mah! Di sicuro il 2 per cento dell’imponibile, che gode dell’esenzione fiscale. E poi il doppio o il triplo, anche se ci pago sopra le tasse. Più il mio stipendio. Sono occasioni che non mi faccio scappare. Nella vita ho avuto troppa fortuna, e vedo le miserie del mondo. L’azienda appartiene a chi ci lavora. Non ho mai ripartito gli utili: li ho sempre reinvestiti in sviluppo e innovazione. Alla fine del mese mi consegnano la busta paga, come se fossi un dipendente. Non fumo, non bevo, non ho né amanti né barche da mantenere e più di una settimana di ferie non riesco a farla perché già al secondo giorno mi gira la testa».
Ma davvero accontenta tutti?
«Per l’acqua sì, immediatamente. Idem per i container da 24 tonnellate di cibo, che spediamo regolarmente. Altri interventi più impegnativi, come la costruzione di scuole, ospedali, istituti professionali e orfanotrofi, devo un po’ dilazionarli. Ma non respingo mai nessuno. Un giorno all’aeroporto di Fortaleza, in Brasile, conobbi un ginecologo camilliano, padre Adolfo Serripierro, il quale mi disse: “Pensi che le bimbe costrette a vendersi sono così affamate da chiedermi di pregare Dio affinché gli mandi tanti clienti”. Una di loro aveva 11 anni. Era stata abusata dal patrigno e aveva partorito un figlio: laggiù nessuna prostituta abortisce, tanto è intenso il suo desiderio di dare l’amore che non ha ricevuto in famiglia. Poi le avevano amputato una gamba in gangrena ed era morta. Avvertii un moto di ribellione interiore. È nato così il centro d’accoglienza con dispensario per le 600 ragazze che padre Serripierro ha tolto dalla strada».
L’acqua si trova sempre?
«Sì, anche nel deserto. Dipende dalla profondità dello scavo. Le canossiane di Luanda prima dovevano pagare in dollari le autobotti per poter dare un bicchiere d’acqua al giorno, non di più, a ciascun bambino. Oggi ne hanno gratis persino per la doccia. Il presidente della Banca mondiale commentò: “Abbiamo stanziato miliardi di dollari per dissetare l’Angola, senza riuscirci, e guardate adesso che cosa sanno fare gli italiani con i soldi di una pizza”».
E se a chiederle la pompa idraulica è una comunità musulmana, che fa?
«La mando lo stesso, ci mancherebbe altro. Per me i bambini sono bambini. È già avvenuto, sia nei Paesi arabi che nel Bangladesh, dove con le nuove condotte idriche siamo riusciti a passare da due a tre raccolti di riso l’anno e finanziamo gli interventi chirurgici contro il labbro leporino».
Come mai in tutti i suoi progetti umanitari non manca mai l’Albania?
«Tutto nacque alla caduta del regime comunista di Enver Hoxha. Un amico del Rotary mi disse: “Lo sai che in Albania non hanno neppure la carta per stampare i giornali democratici?”. Mandai giù un bilico di bobine. Diventai amico dell’attuale premier Sali Berisha. Ora in Albania costruiamo chiese e pubblichiamo gratis i testi per le facoltà universitarie di ingegneria e agricoltura».
Ai suoi corregionali gli albanesi non sono simpatici. Li considerano rapinatori di ville e sfruttatori di prostitute.
«Certo, se li lasci per strada... Alle mie dipendenze ne ho 10, fra impiegati e operai, e non mi hanno mai creato problemi. Se faticano a trovare casa, gli firmo io la fidejussione. Un nostro ingegnere ha sposato un’albanese che lavora qui».
Il mondialismo in azienda.
«La prima volta che andai nell’Unione Sovietica, portai con me il dottor Roberto Reggiani. Parla così bene il russo che fece da interprete a Leonid Breznev. Reggiani trattava col potenziale cliente in inglese, per agevolarmi, ma io non avvertivo alcun calore umano in quella conversazione. A un certo punto passò al russo. Non le dico l’entusiasmo del nostro interlocutore: “Ma lei conosce la mia lingua?”. Finimmo a concludere affari fra canti e vodka nella sua dacia a 20 chilometri da Mosca».
Questo spiega perché nel suo ufficio esteri vi siano funzionari provenienti da Libia, Algeria, Messico, India, Argentina, Albania, Moldavia, Georgia...
«Il primo, Moustapha Tounkara, un senegalese, lo assunsi dopo averlo visto in televisione, al Maurizio Costanzo show. Laureato in economia commercio a Verona, era costretto a fare il vu cumprà».
Nel suo curriculum ho contato circa 40 fra incarichi diplomatici, premi, commende, cavalierati, inclusa la Gran Croce dell’Ordine di San Gregorio Magno, conferitale da Benedetto XVI.
«Se mi dicono: “Venga a prendere una medaglia”...».
Non sa dir di no.
«Non bisogna mai dir di no. Fare o non fare il bene non è una cosa che possiamo decidere noi: si fa e basta».
Però il Vangelo prescrive: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra».
«Tutta colpa del cardinale Ersilio Tonini. “Quello che fai, si deve sapere”, mi ha ordinato. Aveva ragione, non c’è altro modo per arrivare a chi ha bisogno. Ho la fortuna di ricevere tante richieste e di poterle soddisfare».
Voleva persino regalare al suo paese una statua di Alberto da Giussano.
«Le cose non stanno così. Il Comune mi ha permesso di costruire una passerella aerea che collega due capannoni. In cambio mi sono impegnato a finanziare due opere di arredo urbano. Dal municipio mi hanno comunicato che la scelta era caduta su due sculture: una dedicata alla Madonna e una a Papa Wojtyla. Ho dato l’assenso. Poi, a mia insaputa, la delibera è stata modificata su pressione dei leghisti ed è saltato fuori il monumento al difensore del Carroccio. È evidente che una convenzione del genere non l’avrei mai firmata: un’azienda deve rimanere estranea alla politica. Ora il Comune opterà per altre opere di pubblica utilità».
Andrebbe a scavare pozzi in Cina?
«Ci sto provando su richiesta dei salesiani».
I cinesi non sono suoi acerrimi nemici?
«Una spina nel fianco. Vendono le imitazioni dei nostri prodotti a un prezzo che a noi non consentirebbe neppure l’acquisto della materia prima per farli. Il sindaco di Qingdao, un’ex colonia tedesca che fa quasi 4 milioni di abitanti, mi ha proposto: “Se porta la produzione qui da noi, blocchiamo le contraffazioni”. Allora è un ricatto, gli ho risposto. Ha ammesso che oltre 100 milioni di suoi connazionali sono dediti all’industria del falso. Ho provato a far causa al governo di Pechino. A un certo punto l’avvocato di Shanghai che mi assisteva in giudizio mi ha detto: “È sicuro di poter vincere contro lo Stato cinese con giudici cinesi pagati dallo Stato cinese?”. Ho lasciato perdere».
Com’è possibile che un imprenditore generoso abbia fatto fortuna? Non serve il pelo sullo stomaco negli affari?
«No, anzi c’è bisogno di tornare all’etica, negli affari. Se agisci correttamente, il mercato ti ripaga con gli interessi».
Secondo lei, l’acqua è destinata a finire come il petrolio?
«Sì, è in pericolo. Già ora il 70 per cento dell’acqua potabile è localizzata nel 30 per cento del mondo civile. In Germania e in Gran Bretagna sono costretti a bersi l’acqua degli scarichi filtrata tre volte. In Italia un tempo bastava scavare nel sottosuolo per 7 metri. Adesso la seconda falda, a 40 metri, spesso è inquinata e bisogna scendere a 80-100 metri per trovare qualcosa di bevibile».
L’uomo s’è dimenticato d’essere fatto più d’acqua che di terra.
«Sotto il cielo nulla è più importante dell’acqua. Non dimenticherò mai che cosa mi ha detto un capotribù novantenne di un villaggio vicino a Dekamere, in Eritrea, dove abbiamo scavato un pozzo per 1.000 abitanti: “Ora posso anche morire. Ho visto tutto”».
(569. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
Postato da: giacabi a 10:24 |
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testimonianza
Discorso di Steve Jobs
all’università di Stanford
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Questo
è il testo del celeberrimo discorso di Steve Jobs all’università di
Stanford, l’università che fu costretto a lasciare perché non aveva
soldi a sufficienza per permettersi i corsi che frequentava. Sono parole
che passeranno allo storia, che danno prova della sua straordinaria
determinazione.all’università di Stanford
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Sono onorato di essere qui con voi oggi, nel giorno della vostra laurea presso una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A dir la verità, questa è l’occasione in cui mi sono di più avvicinato ad un conferimento di titolo accademico. Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale. Solo tre storie.
La prima storia parla di “unire i puntini”.
Ho abbandonato gli studi al Reed College dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come imbucato per altri diciotto mesi, prima di lasciarlo definitivamente. Allora perchè ho smesso?
Tutto è cominciato prima che io nascessi. La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All’ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei “veri” genitori, che allora si trovavano in una lista d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non previsto’; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia madre biologica venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all’università.
Infine, diciassette anni dopo ci andai. Ingenuamente scelsi un’università che era costosa quanto Stanford, così tutti i risparmi dei miei genitori sarebbero stati spesi per la mia istruzione accademica. Dopo sei mesi, non riuscivo a comprenderne il valore: non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo idea di come l’università mi avrebbe aiutato a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo spendendo i soldi che i miei genitori avevano risparmiato per tutta la vita, così decisi di abbandonare, avendo fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. OK, ero piuttosto terrorizzato all’epoca, ma guardandomi indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’istante in cui abbandonai potei smettere di assistere alle lezioni obbligatorie e cominciai a seguire quelle che mi sembravano interessanti.
Non era tutto così romantico al tempo. Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più avanti. Lasciate che vi faccia un esempio:
il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese. Nel campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto, erano scritti in splendida calligrafia. Siccome avevo abbandonato i miei studi ‘ufficiali’e pertanto non dovevo seguire le classi da piano studi, decisi di seguire un corso di calligrafia per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno. Ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante.
Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun personal computer ora le avrebbe. Se non avessi abbandonato, se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono. Certamente non era possibile all’epoca ‘unire i puntini’e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo.
Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.
La mia seconda storia parla di amore e di perdita.
Fui molto fortunato – ho trovato cosa mi piacesse fare nella vita piuttosto in fretta. Io e Woz fondammo la Apple nel garage dei miei genitori quando avevo appena vent’anni. Abbiamo lavorato duro, e in dieci anni Apple è cresciuta da noi due soli in un garage sino ad una compagnia da due miliardi di dollari con oltre quattromila dipendenti. Avevamo appena rilasciato la nostra migliore creazione – il Macintosh – un anno prima, e avevo appena compiuto trent’anni… quando venni licenziato. Come può una persona essere licenziata da una Società che ha fondato? Beh, quando Apple si sviluppò assumemmo una persona – che pensavamo fosse di grande talento – per dirigere la compagnia con me, e per il primo anno le cose andarono bene. In seguito però le nostre visioni sul futuro cominciarono a divergere finché non ci scontrammo. Quando successe, il nostro Consiglio di Amministrazione si schierò con lui. Così a trent’anni ero a spasso. E in maniera plateale. Ciò che aveva focalizzato la mia intera vita adulta non c’era più, e tutto questo fu devastante.
Non avevo la benché minima idea di cosa avrei fatto, per qualche mese. Sentivo di aver tradito la precedente generazione di imprenditori, che avevo lasciato cadere il testimone che mi era stato passato. Mi incontrai con David Packard e Bob Noyce e provai a scusarmi per aver mandato all’aria tutto così malamente: era stato un vero fallimento pubblico, e arrivai addirittura a pensare di andarmene dalla Silicon Valley. Ma qualcosa cominciò a farsi strada dentro me: amavo ancora quello che avevo fatto, e ciò che era successo alla Apple non aveva cambiato questo di un nulla. Ero stato rifiutato, ma ero ancora innamorato. Così decisi di ricominciare.
Non potevo accorgermene allora, ma venne fuori che essere licenziato dalla Apple era la cosa migliore che mi sarebbe potuta capitare. La pesantezza del successo fu sostituita dalla soavità di essere di nuovo un iniziatore, mi rese libero di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.
Nei cinque anni successivi fondai una Società chiamata NeXT, un’altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una splendida ragazza che sarebbe diventata mia moglie. La Pixar produsse il primo film di animazione interamente creato al computer, Toy Story, ed è ora lo studio di animazione di maggior successo nel mondo. In una mirabile successione di accadimenti, Apple comprò NeXT, ritornai in Apple e la tecnologia che sviluppammo alla NeXT è nel cuore dell’attuale rinascimento di Apple. E io e Laurene abbiamo una splendida famiglia insieme.
Sono abbastanza sicuro che niente di tutto questo mi sarebbe accaduto se non fossi stato licenziato dalla Apple. Fu una medicina con un saporaccio, ma presumo che ‘il paziente’ne avesse bisogno. Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha aiutato ad andare avanti sia stato l’amore per ciò che facevo. Dovete trovare le vostre passioni, e questo è vero tanto per il/la vostro/a findanzato/a che per il vostro lavoro. Il vostro lavoro occuperà una parte rilevante delle vostre vite, e l’unico modo per esserne davvero soddisfatti sarà fare un gran bel lavoro. E l’unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi.
La mia terza storia parla della morte.
Quando avevo diciassette anni, ho letto una citazione che recitava: “Se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, uno di questi c’avrai azzeccato”. Mi fece una gran impressione, e da quel momento, per i successivi trentatrè anni, mi sono guardato allo specchio ogni giorno e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta era “No” per troppi giorni consecutivi, sapevo di dover cambiare qualcosa.
Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile che abbia mai trovato per aiutarmi nel fare le scelte importanti nella vita. Perché quasi tutto – tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio, la paura e l’imbarazzo per il fallimento – sono cose che scivolano via di fronte alla morte, lasciando solamente ciò che è davvero importante. Ricordarvi che state per morire è il miglior modo per evitare la trappola rappresentata dalla convinzione che abbiate qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione perché non seguiate il vostro cuore.
Un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Effettuai una scansione alle sette e trenta del mattino, e mostrava chiaramente un tumore nel mio pancreas. Fino ad allora non sapevo nemmeno cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che con ogni probabilità era un tipo di cancro incurabile, e avevo un’aspettativa di vita non superiore ai tre-sei mesi. Il mio dottore mi consigliò di tornare a casa ‘a sistemare i miei affari’, che è un modo per i medici di dirti di prepararti a morire. Significa che devi cercare di dire ai tuoi figli tutto quello che avresti potuto nei successivi dieci anni in pochi mesi. Significa che devi fare in modo che tutto sia a posto, così da rendere la cosa più semplice per la tua famiglia. Significa che devi pronunciare i tuoi ‘addio’.
Ho vissuto con quella spada di Damocle per tutto il giorno. In seguito quella sera ho fatto una biopsia, dove mi infilarono una sonda nella gola, attraverso il mio stomaco fin dentro l’intestino, inserirono una sonda nel pancreas e prelevarono alcune cellule del tumore. Ero in anestesia totale, ma mia moglie, che era lì, mi disse che quando videro le cellule al microscopio, i dottori cominciarono a gridare perché venne fuori che si trattava una forma molto rara di cancro curabile attraverso la chirurgia. Così mi sono operato e ora sto bene.
Questa è stata la volta in cui mi sono trovato più vicino alla morte, e spero lo sia per molti decenni ancora. Essendoci passato, posso dirvi ora qualcosa con maggiore certezza rispetto a quando la morte per me era solo un puro concetto intellettuale:
Nessuno vuole morire. Anche le persone che desiderano andare in paradiso non vogliono morire per andarci. E nonostante tutto la morte rappresenta l’unica destinazione che noi tutti condividiamo, nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo perché è come dovrebbe essere: la Morte è la migliore invenzione della Vita. E’ l’agente di cambio della Vita: fa piazza pulita del vecchio per aprire la strada al nuovo. Ora come ora ‘il nuovo’ siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, gradualmente diventerete ‘il vecchio’e sarete messi da parte. Mi dispiace essere così drammatico, ma è pressappoco la verità.
Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario.
Quando ero giovane, c’era una pubblicazione splendida che si chiamava The whole Earth catalog, che è stata una delle bibbie della mia generazione. Fu creata da Steward Brand, non molto distante da qui, a Menlo Park, e costui apportò ad essa il suo senso poetico della vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer, ed era fatto tutto con le macchine da scrivere, le forbici e le fotocamere polaroid: era una specie di Google formato volume, trentacinque anni prima che Google venisse fuori. Era idealista, e pieno di concetti chiari e nozioni speciali.
Steward e il suo team pubblicarono diversi numeri di The whole Earth catalog, e quando concluse il suo tempo, fecero uscire il numero finale. Era la metà degli anni Settanta e io avevo pressappoco la vostra età. Nella quarta di copertina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: “Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi.
Siate affamati. Siate folli.
Leggi tutto: http://www.cronacalive.it/
Postato da: giacabi a 14:30 |
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testimonianza, padre busa internet
A Milano si trova la fede... di Giacomino Poretti
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Venerdì, 30 settembre 2011 - 16:00:55
Giacomino Poretti, detto Giacomo (Villa Cortese, 26 aprile 1956), è un attore, comico e regista italiano componente del noto trio comico Aldo, Giovanni & Giacomo. Durante l'incontro di Scola con il mondo della "cultura e della comunicazione sociale " Giacomo Poretti ha letto un discorso molto toccante, che Affaritaliani.it può pubblicare integralmente |
Discorso al Sindaco delle anime
A Milano si trova la fede
di Giacomo Poretti
Eminenza,
nel rivolgerle il mio più caloroso saluto le devo anche porgere le mie scuse perchè il mio non sarà un racconto fedele né tanto meno realistico sulla città, quanto piuttosto la confessione di un innamorato, spero quindi che Lei vorrà perdonare i sentimentalismi e gli eccessi di fantasia, ma forse l’amore e la fantasia, anzichè aggiungere e deformare la realtà, la denudano nella sua semplice bellezza.
Ecco l'I-Perr Reportage
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Tra me e Milano è stato un amore a prima vista. Con i preti invece...ci ho messo un pò di più.
La prima volta che sono venuto a Milano avevo 5 anni ed ero alto 90 cm, ero in compagnia del mio papà, che benchè ne avesse 30 di anni, superava di poco il metro; siamo entrati nello stadio di San Siro per vedere una partita di calcio e siccome all’epoca si stava in piedi ( era il 1960 !), né io né il mio papà riuscivamo a vedere niente, allora il papà mi ha messo sulle sue spalle ed io dovevo raccontargli che cosa succedeva, solo che non conoscevo le regole del gioco e nemmeno i nome dei giocatori, allora il papà mi ha preso in braccio e mi ha detto” va bene ci tornerai quando sarai più grande, ma almeno ti è piaciuto qualche cosa? “si, ho risposto, mi è piaciuta quella squadra con le maglie nere e azzurre”!
Quando siamo arrivati a casa il papà ha detto alla mamma “ oggi a Milano questo bambino ha scoperto la fede!”
Poi sentivo a tavola che i miei genitori dicevano che la fede andava coltivata, e per far questo mia madre mi mandava in chiesa e all’oratorio del paese, il mio papà invece mi portava a vedere l’Inter a San Siro.
All’oratorio ci andavo tutti i giorni, allo stadio una domenica sì e una no.
C’è stato un periodo che la mia squadra vinceva molti scudetti e allora il mio papà mi portava in piazza Duomo a festeggiare. Quando tornavamo a casa alla sera la mamma ci chiedeva dove eravamo stati, il papà diceva... siamo stati in Duomo perchè il bimbo voleva dire una preghiera di ringraziamento alla Madonnina...
la mamma commossa aggiungeva: vista la sua devozione questo bambino bisognerà mandarlo in seminario!
Non saprei dire se malauguratamente o per fortuna, la mia squadra a un certo punto ha smesso di vincere, io ci rimanevo male, ed anche la mamma non si dava pace di come io avevo smesso di pregare e ringraziare la Madonnina.
Nel
frattempo continuavo a frequentare l’oratorio del paese; un giorno il
prete, don Giancarlo, che amava Pirandello e Shakespeare, almeno quanto i
santi Pietro e Paolo, decise di allestire uno spettacolo teatrale e
siccome il cast prevedeva oltre agli adulti tre bambini, uno
grassissimo, uno altissimo e uno bassissimo, io saltai direttamente il
provino ed esordii a teatro come l’attore più basso che avesse mai
calcato le scene.
All’epoca ero affetto da un complesso di inferiorità per cui era una tragedia quando entravo in scena, mi collocavo di fianco al bimbo altissimo, e la gente rideva. Il prete mi disse che dovevo sfruttare i talenti che mi aveva regalato il Signore. A me sembrava crudele sia il Signore sia don Giancarlo. Ma il don insisteva: la tua bassezza ti regalerà un sacco di soddisfazioni. Che cosa!? quel corpicino che non si decideva a crescere? io intanto non mi fidavo del don e continuavo a chiedere nelle mie preghiere al Signore di portarmi un pallone di cuoio e di farmi diventare alto 1metro e 85. Lei lo confermerà Eminenza, il Signore ti ascolta sempre ed esaudisce tutte le cose che chiedi, solo che devi essere abile nel distinguere la differenza tra alto e grande..... finalmente un giorno ho capito, aveva ragione don Giancarlo, il teatro era il gioco più bello del mondo.
Mi ricordo di essermi detto: io voglio fare l’attore. Solo che per fare certi mestieri ti tocca venire a Milano: per fare l’attore e l’Arcivescovo bisogna venire a Milano.
Milano è molto diversa da quella degli anni 60 ma è pur sempre bellissima e stranissima. Per esempio è una città dove ci sono più semafori che alberi, più discoteche che licei classici, più ritrovi per happy hours che librerie, i telefonini invece sono pari con le automobili: 2 per ogni milanese; se per caso le capiterà di andare a fare un giro di sera per la città nei mesi invernali non le sarà difficile incontrare dei cani con il piumino e degli uomini in canottiera. Milano è strana.
All’epoca ero affetto da un complesso di inferiorità per cui era una tragedia quando entravo in scena, mi collocavo di fianco al bimbo altissimo, e la gente rideva. Il prete mi disse che dovevo sfruttare i talenti che mi aveva regalato il Signore. A me sembrava crudele sia il Signore sia don Giancarlo. Ma il don insisteva: la tua bassezza ti regalerà un sacco di soddisfazioni. Che cosa!? quel corpicino che non si decideva a crescere? io intanto non mi fidavo del don e continuavo a chiedere nelle mie preghiere al Signore di portarmi un pallone di cuoio e di farmi diventare alto 1metro e 85. Lei lo confermerà Eminenza, il Signore ti ascolta sempre ed esaudisce tutte le cose che chiedi, solo che devi essere abile nel distinguere la differenza tra alto e grande..... finalmente un giorno ho capito, aveva ragione don Giancarlo, il teatro era il gioco più bello del mondo.
Mi ricordo di essermi detto: io voglio fare l’attore. Solo che per fare certi mestieri ti tocca venire a Milano: per fare l’attore e l’Arcivescovo bisogna venire a Milano.
Milano è molto diversa da quella degli anni 60 ma è pur sempre bellissima e stranissima. Per esempio è una città dove ci sono più semafori che alberi, più discoteche che licei classici, più ritrovi per happy hours che librerie, i telefonini invece sono pari con le automobili: 2 per ogni milanese; se per caso le capiterà di andare a fare un giro di sera per la città nei mesi invernali non le sarà difficile incontrare dei cani con il piumino e degli uomini in canottiera. Milano è strana.
A Milano i parchi sono merce rara e perciò affollattissimi: nonni che accompagnano i nipotini, badanti che accompagnano i nonni, tate che accompagnano i nipotini, amiche delle tate che fanno compagnia alle badanti, insomma, senza contare i genitori che sono da qualche parte della città ad alzare il pil della nazione, ogni nucleo famigliare è composto da almeno 10 o12 elementi, questo spiega , forse, l’enorme impulso dell’edilizia che ha avuto la nostra città recentemente.
Milano è una città tutto sommato ordinata, non vedrà mai code, tranne che per i saldi in Via Montenapoleone o fuori dalla Caritas per il pane quotidiano, si rassicuri Eminenza c’è più gente in coda per il pane che non per il pret a portè, anche se a Milano, si tappi le orecchie,... si vendono più maglioni di cachemire che non copie della Bibbia......A Milano poi c’è un’aria particolare: invece dell’ossigeno noi a Milano abbiamo il pm10, i tecnici assicurano che a Milano l’aria è sempre stata così, probabilmente fin dai tempi del pleistocele...A parole tutti dicono che Milano è brutta e invivibile , che l’aria è irrespirabile, ma alla fine vengono tutti qua: han cominciato i barbari, gli spagnoli, i francesi, gli austriaci, i meridionali, adesso addirittura vengono da paesi lontanissimi con lingue e dialetti difficilissimi, ma alla fine mi creda se riamo riusciti a capire i pugliesi e quelli della basilicata riusciremo a comprendere anche quelli che vengono dalla Tunisia o dalle Filippine, dopotutto non credo che il cous cous sia più difficile da digerire della caponata con le melanzane fritte. L’unica pericolo è che stando a Milano si diventa un pò bauscia, ci si sente superiori rispetto agli altri. Mio papà quando mia sorella ha detto che aveva un fidanzato, lui le ha chiesto
“Sarà minga un terun?”, dopo una settimana di broncio gli è passata; ora ho saputo che mio cognato, il terun, quando sua figlia di 16 anni si è messa a frequentare un ragazzo, lui preoccupato le ha chiesto” sarà mica un extra comunitario?”, c’è sempre qualcuno più a sud di noi da farci sentire superiori; capita anche a quelli di Helsinki che considerano terroni quelli di Copenaghen, la stessa cosa capita tra quelli di Chiavenna e quelli di Malgrate. ( vero Eminenza?)
A Milano chiude un cinema all’anno e ogni anno sorgono 10 sushi bar, anche i teatri non se la passano tanto bene: li abbattono per costruirci dei parcheggi o dei supermercati, poi prendono l’insegna e la mettono sopra un tendone di plastica, un teatro dentro un involucro di plastica si sente provvisorio, i teatri a Milano sono a rischio un po come la michetta, la nebbia e la caseula.......ma Lei lo sa Eminenza che nella sua enorme parrocchia, nei suoi oratori, ci sono circa 120 sale per proiettare film e fare spettacoli teatrali? Io le prometto di non perdere di vista Dio, ma Lei cerchi di non perdere di vista gli oratori, raccomandi ai suoi preti di avere a cuore sant’Ambrogio, san Carlo, ma anche Shakespeare, Pirandello, Dostoevskij, Clint Eastwood e Diego Milito, Lei non immagina che regalo che può fare ai ragazzi : uscire dall’oratorio con la consapevolezza di aver imparato i giochi più belli del mondo: il calcio, il cinema e il teatro!
E poi le do un consiglio: Milano è di una struggente bellezza o al mattino presto o la sera molto tardi, quando quasi tutti dormono; prenda, se può, una bicicletta,...( non ci scriva sopra proprietà dell’Arcivescovado, se no gliela fregano subito) una bici normale.... e vada in piazza dei Mercanti, si spinga fino nelle stradine del Carrobbio, passi davanto al palazzo degli Omenoni, continui fino davanti alla casa del Manzoni, faccia altre 2 pedalate fino piazza san Fedele, in quella Chiesa abbiamo battezzato nostro figlio, continui, continui a pedalare...e poi capirà perchè Milano ha affascinato Visconti, Olmi e perchè due tipi straordinari come Zavattini e De Sica hanno raccontato di un Miracolo a Milano, pedali e poi si fermi dietro al Duomo dove c’è quell’albero bellissimo, di fronte alla libreria san Paolo, si sieda per terra e legga pure un libro, le assicuro che in quel silenzio e in quella magica pace tante cose diventano comprensibili, persino i passaggi più oscuri di Heiddegger...e capirà che Milano le sarà entrata nel cuore.
Prima di rientrare a casa si ricordi di chiudere la bicicletta con il lucchetto.
E va bene noi cercheremo di non perdere di vista Dio, ma lei, che, se posso dirlo, è un po come il Sindaco delle anime, ci aiuti a non perder la strada per la Madonnina.
E che Dio non perda di vista il suo Vescovo e Milano!
da:
Postato da: giacabi a 09:59 |
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testimonianza, scola
miracoli
«Ciò che è accaduto in questi mesi è stato
più grande di quello che mi attendevo…»
Nato a Nova Siri (Matera) il 17 novembre 1948, don Tommaso Latronico è morto a Roma il 20 luglio 1993.
Pubblichiamo alcuni suoi appunti dell’ultimo anno di vita
Alcuni appunti di Tommaso Latronico
Don Tommaso Latronico
È unico perché inizia in modo inimmaginabile, imprevisto e interessante, ti corrisponde e poi – se si rimane, se lo si guarda – è destinato con il tempo a crescere: non sei tu che cresci; che anzi invecchi, sei fragile e pieno di peccati, ma è quell’avvenimento che cresce e, guardato attentamente, corrisponde, non censura, perdona.
L’unica condizione per essere cristiani è guardare a Cristo come si è fatto riconoscere.
Qui è tutta la differenza tra l’esperienza cristiana e le altre religioni: che il cristianesimo ti dice “guarda”.
Anche Giuda ha fatto un incontro vero («un giorno venne quest’uomo»), anche lui si è stupito di un accento unico, lo ha seguito, «ma poi passavano i giorni e il Regno suo non veniva».
Perché non veniva quel Regno?
Perché era già presente, era Lui presente; e invece in Giuda prevalevano immagini, pensieri, progetti. Non si stupiva più. Non si stupiva di Zaccheo, della Maddalena...
La differenza tra gli uomini non è allora tra chi è santo e chi è peccatore, ma tra coloro che Lo guardano e coloro che Lo tradiscono («con gli occhi scaltri a fuggire»).
***
Alla nostra incapacità fondamentale (siamo niente) ed esistenziale (il peccato) ha risposto Dio.
A una incapacità vera, la risposta non è nostra. La nostra è una risposta alla Risposta.
***
... E tutto inizia, tutto inizia portandoti altrove: un collegio (20 anni fa) o una clinica (oggi) e poi volti e parole e gesti che ti destano.
***
«Un po’ di fortuna ci vuole nella vita»: mi ha salutato così il medico nella camera sterile della clinica e ora anche tu mi dici lo stesso. La mia fortuna, Fabio – un segreto che il tempo svela –, è Roma e una casa.
***
«Oggi si sono compiute le cose promesse dall’angelo a Maria» (Antifona dell’Epifania).
La festa di oggi compie, è più importante della stessa nascita di Cristo. A che sarebbe valso che Dio si fosse fatto uomo, che avesse patito, fosse morto per noi... se non fosse incontrabile dall’uomo (dalle genti). Che sia incontrabile significa che diventi il contenuto della felicità presente. Se Natale parla di “grande gioia”, oggi si dice «provarono una grandissima gioia» (... gavisi sunt gaudio magno valde...).
Questo è il mistero di cui parla san Paolo: che questo fatto sia incontrabile dall’uomo normale, dal pagano che non ha né la fede né i comandamenti.
Che impressione! Basta un niente (preoccupazione, distrazione, salute) e non si è più nella posizione richiesta dalla memoria, non si domanda, non si comunica...
«L’unica gioia al mondo è ricominciare e questo è possibile solo se si è perdonati».
Un’altra tappa della malattia: il trapianto, altre visite, esami, reparti, medici, ammalati...
Continuo a chiedere alla Madonna che mi dia la salute e la fede. È così facile ripiegarsi, preoccuparsi. Mi meraviglio sempre di più di come abbia potuto fare con facilità questi tre mesi di terapia. «La Tua grazia Signore vale più della vita».
***
«Maestro, dove abiti?». Nel cristianesimo è più importante il «dove abiti?» della stessa domanda: «Chi sei?», avevo sentito dire da Giussani a La Thuile ad agosto quando già avevo la malattia addosso senza saperlo.
Poi i fatti: la decisione di ricoverarmi a Roma decisa con Giacomo, la clinica, i cicli di cura, la compagnia davanti agli occhi, la casa di Casalbertone e di nuovo dentro la vita: il rapporto pieno di tenerezza di Giacomo con i ragazzi, il suo e il loro cambiamento, le cose di don Giussani (è sempre una grazia, la continuità è data sempre da un nuovo inizio...).
Perché smarrirmi allora, se non si comprende, ma è tanto reale?
«La vita non la decidiamo noi», mi ha scritto Fabio.
La vita non la decidiamo noi: non solo come seguito di giorni, ma come inizio nuovo di grazia.
«Stare, guardare, dire di sì».
***
Dopo venti anni mi portano dove non vorrei, nei luoghi dove tutto è cominciato e dove tu rimani.
C’è una sola esperienza che col tempo cresce mentre le altre più belle si allontanano. Non mi aspettavo da vecchio di stupirmi quando sto con te a mangiare o parliamo di tutto o ti vedo stare con gli amici più giovani o giocare nel cortile con un bambino...
O giovinezza, non ti ho perduta...!
Se qualcosa riaccade, oggi, se gli occhi che faticano a seguire le lettere, pure scorgono volti e gesti, se non è il ricordo a rendere amici, ma una cosa nuova e viva che sta accadendo ora, o giovinezza, non ti ho perduta...!
Postato da: giacabi a 13:58 |
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testimonianza
Voglio un posto ai piedi di Gesù» Ecco il testamento di Bhatti
di Shahbaz Bhatti
04-03-2011
Quella
che segue è una testimonianza di Shahbaz Bhatti, il ministro pachistano
per le Minoranze religiose ucciso il 2 marzo da un commando di
fondamentalisti islamici che lo hanno "punito" perché cercava di
modificare la Legge sulla blasfemia che in 25 anni di applicazione è
costata la vita a centinaia di cristiani. Il testo è tratto da "Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza", Marcianum Press 2008.
"Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.
"Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.
Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».
Questa devozione mi rende felice.
Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un
posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie
azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale
desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora —
in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i
cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il
sacrificio della mia vita.
Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.
Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione.
Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo.
Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e
la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia
determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato
tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione
e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del
Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e
seguimi».
I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.
I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.
Per
cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare
assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.
Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna".
Postato da: giacabi a 20:24 |
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islam, testimonianza
Dolores Hart,
da Hollywood al chiostro
***
da Hollywood al chiostro
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di Alessandra Nucci
28-01-2011
In un’epoca come la nostra in cui bene e male si fanno coincidere con ciò che fa piacere e ciò che dispiace trovare un modello di vita imperniata sullo spirito di sacrificio che sia credibile agli occhi dei giovani sembrerebbe un’impresa impossibile. Ecco invece che lo Spirito Santo interviene quando il mondo meno se lo aspetta e riporta all’attenzione del mondo un’attrice di Hollywood che 47 anni fa, all’apice di una carriera di successo, abbandonò le gioie terrene che tutti le invidiavano per ritirarsi in un convento di clausura.
In un intervista televisiva trasmessa dal canale televisivo statunitense EWTN, Eternal Word Television Network, si è ripresentata al vasto pubblico Dolores Hart, l’attrice che nel 1963 aveva rinunciato a soldi, carriera, successo e onori per dedicare la vita soltanto a Dio.
Madre Dolores veste l’abito delle benedettine, ma a 73 anni i suoi lineamenti spiegano ancora perché al suo debutto fosse stata soprannominata “la nuova Grace Kelly”. L’intervista, disponibile sul canale YouTube dell'emittente EWTN (al 28esimo minuto della puntata del programma World Over, condotto da Raymond Arroyo, trasmessa il 20 agosto scorso), è punteggiata dagli spezzoni dei suoi film accanto a miti come Elvis Presley e Montgomery Clift.
Dolores Hart, oggi priora del monastero benedettino dove vive da quasi mezzo secolo, fu la prima attrice a dare un bacio cinematografico a Elvis. Di lui regala un ritratto non inedito ma poco conosciuto: era un “southern boy”, racconta, un ragazzo del Sud, allevato nella religione cristiana battista, e nei lunghi intervalli passati con lei fra una ripresa e l’altra leggeva la Bibbia. Le sottoponeva i versetti che lo colpivano e le chiedeva: «What do you think of this?»: “che te ne sembra?”.
Elvis era già l’idolo delle ragazzine, per girare le scene in cima a un grattacielo, racconta Madre Dolores, lo dovevano raggiungere passando per dei ponteggi da un palazzo all’altro perché le strade erano intasate dalle fan. Però, conclude la religiosa, «sono contenta di essere fra i pochi ancora al mondo che possono testimoniare di che persona perbene che era».
Toccante e di peso anche la testimonianza del fidanzato, abbandonato alle soglie del matrimonio per il convento. Don Robinson, benestante uomo d’affari, ancora adesso aitante, non si è mai sposato. Quando vide che la sua bellissima Dolores cominciava a essere assorta in pensieri che non lo includevano, fu lui a dirle di fare chiarezza dentro di sé. Ciononostante, l’annuncio della sua decisione lo colse alla sprovvista e non ha difficoltà a ricordare che scoppiò a piangere, dicendole subito però «questa cosa la devi fare, e io ti sarò accanto». Da allora è stato di parola, dalla California va a trovarla almeno due volte all’anno, nel Connecticut, dall’altra parte degli Stati Uniti, e quando occorre è di aiuto al convento. Dice: «non è detto che tutti gli amori debbano finire davanti all’altare».
Rovistando nella vita di Dolores Hart emergono ancora altre testimonianze di persone famose. Una è Patricia Neale, premio Oscar nel 1964 per il ruolo di protagonista accanto a Paul Newman nel film Hud il selvaggio. Quando entrò in crisi dopo il divorzio dallo scrittore di fiabe per bambini Roald Dahl, cercò conforto al convento benedettino da Madre Dolores. Ce la portò la figlia di Gary Cooper, Maria, nonostante la Neale fosse stata in anni passati l’amante di suo padre, del quale era rimasta incinta e aveva abortito. Madre Dolores chiosa così il gesto di Maria Cooper: «Se si è perdonato davvero, allora al perdono deve seguire l’azione, per questo Maria l’ha aiutata nel momento del bisogno».
Questo avveniva vent’anni fa. Successivamente Patricia Neale ha creato un teatro all’aperto adiacente al monastero e ha voluto essere sepolta sul terreno delle suore, essendosi convertita al cattolicesimo quattro mesi prima di morire.
Alla domanda se le manchino mai il mondo e le amicizie di Hollywood la religiosa sgrana gli occhi ed esclama: «Ovviamente! Fare l’attrice coronava il sogno che avevo avuto da quando avevo sette anni! Ero felicissima a Hollywood! La mia esperienza non facile fu una prova lunga e durissima. Ma lo Spirito Santo ci aiuta sempre a compiere quello che siamo chiamati a fare. E mi resi conto che la mia ricerca di Dio era una ricerca sponsale.
C’è una promessa legata a ogni vocazione che va al di là dei sogni più stravaganti. È un dono che il Signore ti offre, e il Signore è di parola. La mia vocazione mi ha gratificato completamente».
A chi deve decidere oggi della propria vita Madre Dolores spiega che «per ogni generazione la chiamata è diversa, perché i bisogni della Chiesa sono diversi. I giovani che cercano Dio al giorno d’oggi devono ascoltare il proprio cuore. Questa epoca deve avere la propria testimonianza».
potete ascoltare l'intervista a Dolores Hart dopo il 28 ° minuto
Postato da: giacabi a 09:55 |
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testimonianza
Rita Cutolo
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Ieri ho incontrato un informatore scientifico che ha ricevuto la guarigione del corpo e dello spirito ( lui aveva un epatite, un tumore al fegato, era cirrotico e diabetico in più era lontano dalla Chiesa)
grazie a Rita Cutolo
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Ieri ho incontrato un informatore scientifico che ha ricevuto la guarigione del corpo e dello spirito ( lui aveva un epatite, un tumore al fegato, era cirrotico e diabetico in più era lontano dalla Chiesa)
grazie a Rita Cutolo
Postato da: giacabi a 08:49 |
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testimonianza
«Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre». Non sembri fuori luogo questa pur sentimentale citazione del profeta Geremia riferita ad un convertito che di sensualità spinta e “dannata” ne ha dispensata a piene mani per decenni. Un uomo che ha scritto decine di film sexy e tutt’altro che edificanti e che oggi va a messa regolarmente. L’autore di alcune delle scene di sesso più celebri e celebrate di Hollywood, con protagonista la languida Sharon Stone, adesso elogia Benedetto XVI e vorrebbe fare un film su Giovanni Paolo II.
Classe 1944, nato in Ungheria, Joe Eszterhas è cresciuto in un campo di profughi gestito dagli Alleati, da bambino emigrò negli Stati Uniti e oggi risiede a Cleveland. Il suo nome ai più non dice granché. Pochi sanno che il ragazzino scappato dall’Europa è stato direttore della celebre rivista Rolling Stone e sceneggiatore di film quali Basic Instinct, Showgirls, Jagged Edge e oggi è un fervente cattolico. Un bel salto, quello dalla trasgressione alla fede, raccontato da Eszterhas in Crossbearer. A Memoir of Faith. CNon vi annoierete a leggerlo – scrive il liberal New York Times – anzi potreste anche commuovervi».
«Non mi sono precisamente convertito al cattolicesimo, visto che alla nascita ero stato battezzato come cattolico» spiega Eszterhas a Tempi .«La mia “conversione” ha a che fare con la scoperta di Dio nel mio cuore. Dalla primavera del 2001 ho iniziato a frequentare di nuovo la chiesa della mia infanzia». Paradosso vuole che la vicenda che allontanò tempo fa Eszterhas dalla fede sia la stessa che lo ha riavvicinato a Cristo. La sofferenza della madre – malata mentale e deceduta per un cancro – rese il giovane Joe alieno dal cristianesimo; a 12 anni inizia a fumare, a 14 a bere tequila e presto diventa un alcolizzato precoce. La professione di reporter di cronaca nera a Cleveland lo mette di fronte al lato più dark dell’umanità. L’abisso in cui sta precipitando si arricchisce tragicamente di un dato terribile quando scopre che il padre, direttore di un giornale cattolico ungherese, aveva fatto propaganda per i nazisti durante la Seconda guerra mondiale. «Non sono mai riuscito a perdonarlo davvero, se non quando Dio è entrato nel mio cuore» racconta Eszterhas.
L’incontro con l’Onnipotente ha una data precisa: 2001. Lo sceneggiatore di successo di Hollywood – 16 film scritti che hanno incassato in totale oltre 1 miliardo di dollari al botteghino – scopre di avere un tumore alla gola; in un’operazione chirurgica gli viene asportato l’80 per cento della laringe e gli viene imposto di smettere di bere e fumare. «I medici mi dissero che se non l’avessi fatto sarei morto. Ma io non volevo morire. Adoravo mia moglie e i miei figli (Joe ne ha 7, 4 avuti con l’attuale consorte Noemi, ndr). Gridai e chiesi a Dio di aiutarmi. Non avevo pregato da quando ero ragazzo: avevo ignorato Dio per quarant’anni e mi misi a chiedergli aiuto in quel momento. Mi ci volle un po’ di tempo per capire che Dio mi venne in aiuto perché mi ama. Perché, anche se non ci rendiamo conto che egli ci vuole bene, lui ci ama, ama tutti noi». Per Joe la scoperta di Dio prende provvidenzialmente i colori della guarigione improvvisa: «Dopo aver pregato 5 o 10 minuti, mi alzai e mi sentii meglio. Il chirurgo che mi aveva operato, Marshall Strome, mi disse che ero stato miracolato. I tessuti della mia gola si erano rigenerati in maniera così perfetta che nessun dottore, esaminandoli, avrebbe mai pensato che avessi avuto un tumore lì». Inizia una seconda vita per il creatore delle sceneggiature messe su pellicola dal regista Paul Verhoeven: «Ho grande rispetto per papa Benedetto XVI», svela Eszterhas a Tempi. «Credo sia un santo, un intellettuale, un uomo di pace e di buona volontà. Giovanni Paolo II? Prima di morire voglio scrivere un film su come ha sconfitto il comunismo e ha cambiato il mondo».
La svolta pro famiglia
Ma nel dorato mondo di Hollywood c’è spazio per Dio? «Certo! Adesso la mia più grande battaglia è convincerne gli studios», risponde lo scrittore magiaro-americano, che sta sponsorizzando prodotti «pro famiglia» e religiosamente orientati nel panorama cinematografico statunitense. Per Eszterhas guida spirituale in questo cammino di conversione è stato il monaco yankee Thomas Merton, un altro convertito dopo alcune esperienze comunistoidi: «Amo Merton perché quando scrive colpisce sempre il nostro punto debole. Egli conosce il mondo perché ha vissuto come un uomo tutto d’un pezzo. Il suo essere monaco non l’ha distanziato dal mondo reale». Cosa rende per lei il cattolicesimo così avvincente? «Sebbene abbia ancora alcune questione aperte con la Chiesa – la crisi per lo scandalo della pedofilia, il suo atteggiamento ipocrita verso l’omosessualità, il celibato dei preti, la mancanza di donne-prete – ebbene, è l’Eucaristia, il corpo e sangue di Cristo che qui si possono toccare, ciò che mi rende ogni giorno cattolico», spiega. «Credo poi che molti progressi sono stati fatti per risolvere il dramma della pedofilia che ha lordato la Chiesa».
Il passato ogni convertito se lo porta come bagaglio di esperienze e di trascorsi attraverso i quali ha (ri)scoperto la potenza di Dio: lei come vede la sua produzione hard così lontana dalla bellezza pura del Vangelo? Instinct è uno dei 16 film che ho scritto. È uno dei più«Basic cupi, altre mie produzioni sono molto più luminose. Lo scrissi in un periodo di grande buio nella mia vita e penso che rifletta molto bene tutto questo. Però sono orgoglioso di quel film e del grande divertimento che procurò a milioni e milioni di persone in giro per il mondo. Comunque, conosco così bene il buio e il male che non escludo di scriverne ancora nelle mie opere. Però non vedo l’ora di raccontare cose più belle e positive visto che oggi la mia mente è più serena e pacificata». Joe, talvolta, fa il chierichetto nella sua parrocchia, la chiesa dei Santi Angeli a Bainbridges, sobborgo di Cleveland: «Mi commuovo quando porto la croce perché mi sento onorato di farlo. È come se stessi portando Cristo sulla croce».
da: L'ultima seduzione di Joe www.tempi.it
Postato da: giacabi a 20:31 |
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testimonianza
L'ANGELO GOVINDO
***
Siete
venuti in tanti a onorare mio figlio e allora, sfidando le lacrime in
agguato e la voce malferma, voglio dirvi qualche parola al cospetto di
Govindo. Quella di Govindo è stata una storia avventurosa, drammatica,
bellissima e misteriosa. E interrogando questo mistero
in questi giorni mi si è fissata in cuore l’immagine, indelebile, di
venerdì scorso, il giorno della morte: tutta la mia famiglia in
ginocchio, in lacrime e in preghiera, attorno al letto di Govindo che ci
lasciava. Ecco dunque una prima risposta, un primo pezzo di quel
mistero: Govindo, come una lanterna viva, ha tenuto insieme la mia
famiglia. Poi in quella stessa immagine ho visto anche un piccolo
patriarca che, dal suo letto di morte, con i suoi occhi da bambino
posati su di noi benchè mezzi nascosti da una maschera ad ossigeno non
adatta per il suo piccolo viso, diceva: vi ho rifornito di amore fino ad
oggi, continuerò a farlo anche dopo. E’ per questo che non di strazio
vi voglio parlare ma di gratitudine. E ho tanti grazie da dire.Innanzitutto grazie Te Signore della vita, che hai chiamato all’esistenza Govindo, senza di Te Govindo non poteva esserci. Tu gli hai disegnato un destino pieno di sorprese, scritto con tante matite colorate, con tante persone. E ci hai anche ridetto attraverso di lui il Tuo sistema preferito, il Tuo trucco per farTi trovare: Tu nascondi le gemme più preziose della Tua creazione in involucri da poco (anche se Govindo era bellissimo), poveri, fragili, malati. In involucri spesso rifiutati. Come disse la sister all’orfanotrofio a Calcutta a mia moglie Marina: non prendete un bambino sano, prendete uno di quelli che nessuno vuole. E che affare abbiamo fatto! Grazie Signore.
Grazie alla Madonna, che in tutti questi anni, densi di problemi e di tribolazioni, che non sono mancate, ed anche di gioie e di allegria, non ci ha mai fatto mancare nulla, ha tenuto tutta la mia famiglia sotto il Suo manto protettivo. Ci tengo a ringraziarla qui, in questa chiesa dedicata alla Vergine del Carmelo, alla Madonna della Traspontina, di cui sono devoto perché è la mia parrocchia. E, dovete sapere, che Govindo ha avuto una apparizione di questa venerata Madonna. Qui devo aggiungere un grazie a Mario, membro della Confraternita dello scapolare, che ogni anno porta in processione nel quartiere di Borgo la bella statua della Madonna che vedete nella Cappella lì a sinistra. Bene, non posso dimenticare quella volta che Mario fece fermare la Madonna sotto casa mia, abitiamo al primo piano, perchè vide da sotto Govindo affacciato in braccio a me. E così la Madonna ci ha salutato appena fuori della finestra, ci ha quasi guardati in faccia e ci fu uno spontaneo applauso dei fedeli in processione. Non posso dimenticare questo gesto di benevolenza. Dunque grazie a Mario, che conosco appena di vista e grazie a Maria Vergine.
Govindo ha avuto tanti amici. Lo vediamo anche oggi in questa chiesa così piena. Ma oggi si prega per lui in varie parti del mondo, a Buenos Aires, a Gerusalemme, a Calcutta, a Milano (il giorno dopo ho saputo anche in Africa e in Cina, ndr). Ne voglio ringraziare alcuni: il Coro che ha addolcito questa liturgia. Grazie. Gli amici della prima ora - come la nostra padrona di casa Paola che nei primi tempi, quando io e Marina dovevamo lavorare, ha portato con la sua macchina Gogo a riabilitazione, grazie Paola - e quelli dell’ultima ora, come don Mario, il sacerdote che abbiamo chiamato venerdì per l’Estrema Unzione e lui invece ha proposto di cresimarlo, regalando così a Govindo una madrina in extremis come Sister Elena, che si trovava lì al capezzale ed è stata nominata lì, sul campo. Grazie don Mario. E poi tanti amici non solo miei e di Marina, ma anche dei miei figli, i quali hanno esibito sempre Gogo come una medaglia e l’hanno fatto conoscere a tutti i loro amici, che ora vedo qui. Grazie. E poi grazie a voi colleghi di lavoro miei e di Marina, che in questi anni mi avete spesso chiesto come stava Gogo, che in questi giorni mi avete inondato di sms (ho cercato di rispondere a tutti). In ogni messaggio c’era una stilla di affetto sincero. Vi ringrazio.
Govindo è arrivato in una famiglia numerosa, ma era anche circondato da famiglie numerose. Perciò ha avuto tanti parenti. Troppi per menzionarli tutti. Ma qualcuno lo voglio ricordare, innanzitutto le due nonne: la nonna Liliana che lo ha preceduto qualche mese fa andando a fare un picchetto d’onore di famiglia in Paradiso, e la nonna Klara, che è qui, ed ha ha condiviso fino all’ultimo le ansie e le gioie di Govindo. Gli zii li salto perché sono troppi, così anche i cugini. Voglio invece spendere due parole sui nipotini di Govindo, i figli dei cugini nati in questi dodici anni e che guardavano questo strano bambino che non cresceva, che restava sempre uguale mentre loro ogni anno diventavano più grandi, che non mangiava per bocca come loro bensì tramite un tubo, che negli ultimi anni aveva anche un po’ di barba ma una corporatura più piccola della loro; facevano all’inizio, timorosi, qualche domanda perplessa, poi alla fine Gogo è diventato per tutti una presenza familiare su cui riversavano il loro affetto di bambini. Grazie ai nipotini di Bruxelles e di Milano. Da ultimo grazie a mia sorella Margherita e a suo marito Maurizio, a Nicola e Gigina di Gallipoli per essersi assunti davanti alla legge l’impegno di occuparsi di Govindo nel caso della scomparsa dei suoi genitori adottivi. Grazie anche a voi, senza le vostre firme Govindo non sarebbe arrivato.
Govindo - lo abbiamo sentito nell’omelia di padre Bernardo - ha avuto tante mamme. Quella Celeste l’ho già ringraziata. Voglio qui ringraziare la mamma carnale, che io non conosco. Tu hai abbandonato tuo figlio, sicuramente in preda all’angoscia, non so perché, forse la malattia incurabile, d’altra parte in India con un sistema sociale così diverso dal nostro… forse altro. Non so, forse ci pensi ancora. Sicuramente ti è costato molto. Grazie perché non lo hai soppresso, lo hai dato a chi poteva farlo vivere. Stai sicura che Gogo ora pensa anche al tuo bene e anche noi preghiamo per te.E qui siamo arrivati ad una mamma potente, madre di tantissimi figli, come Madre Teresa. Cara Madre, ti devo delle scuse perché in questi giorni di intenso dolore in cui ho pregato tanto ed ho chiesto di pregare perché Govindo ci fosse risparmiato mi sono sentito un po’ in conflitto di preghiera con te. Ho infatti avuto il sospetto che tu invece pregassi perché avevi voglia di tornare a giocare con lui come accadeva nell’ultimo anno della tua vita, quando Govindo all’orfanotrofio era diventato un po’ la tua mascotte. E ho immaginato che in Cielo si fosse aperto un arbitrato, quale preghiera deve vincere? Naturalmente non c’è stato nessun arbitrato e le tue preghiere hanno vinto perché tu, Beata, conosci il vero bene delle persone e di Govindo. Un bene che ha come misura l’infinito Bene e che spacca, supera, i criteri umani, anche quelli buoni e sinceri dei nostri affetti più profondi. Grazie Madre a te ed alle tue figlie che hanno voluto tanto bene a Govindo, da sister Shanta che lo imboccava col riso all’orfanotrofio di Shishu Bavan a Sister Elena madrina di cresima. Ultima mamma è arrivata Marina, mia moglie. Grazie Marina. Questa parte della storia di Govindo è iniziata con te, nel novembre di 14 anni fa quando hai incontrato Govindo a Calcutta, dove ti aveva mandato il tuo direttore per un servizio su Madre Teresa – grazie anche a te direttore, sei stato strumento inconsapevole, se non avessi inviato Marina Govindo non sarebbe arrivato -. Da uno di quegli slanci del tuo cuore generoso, che ho imparato ormai a conoscere in questi quasi trenta anni di matrimonio, è fuoriuscito quello sguardo di intesa tra te e Govindo che è all’origine del suo arrivo nella nostra famiglia. Ho conosciuto poi da vicino le tue angosce, le tue premure, le tue tenerezze le tue fatiche di mamma. Grazie Marina per tutto questo.In appendice a Marina non posso non ringraziare i miei splendidi figlioli, la vice mamma Maria, la primogenita, che ha accudito il fratellino quando papà e mamma erano al lavoro e le donne erano di riposo – a proposito grazie anche a loro, a Nella, Marya, Dorina, Halina -; grazie alla assennata Angela che, a differenza di tutti noi, si è assunta l’onere di fare le punture di antibiotico nel corpicino gracile del fratellino in questi ultimi giorni, noi non osavamo, lei ha preso il coraggio a due mani e le ha fatte; grazie a Cristina, che è stata la cantante, la fotografa, lo vestiva per le foto, e quindi è stata modista per Gogo; grazie a Luigi, il compagno prediletto di giochi.
Da ultimo un doppio grazie a te, figlio mio. Mi hai fatto sentire una papà scelto da suo figlio, prescelto, mi hai fatto sentire un papà migliore di quello che ero, non mi hai mai lesinato un sorriso, mi hai sempre cercato con le tue braccia, ti sei sempre avvinghiato al mio collo, anche quando non ero d’umore giusto. Mi hai reso, insieme coi tuoi fratelli, un papà felice. Grazie figlio mio.Il secondo grazie te lo preannuncio soltanto. La mia anima così appesantita da peccati, incoerenze, aridità, non può competere con la tua, così pura, limpida, innocente e perciò vicinissima a Dio. Però ho ancora una carta da giocare, sono tuo padre, mi devi l’obbedienza, ti chiedo perciò di aiutarmi a trasformare, d’ora innanzi, questo vuoto che mi annichilisce, che ci annichilisce, vero Marina?, in qualcosa di buono, in una nuova forma di quel bene che tanto ci hai regalato. Tu sei un figlio buono e so che lo farai. E io allora verrò a dirti il mio secondo grazie, quello definitivo, di persona, quando Iddio vorrà. Ciao figliolo amato.
(Tommaso R.)
Postato da: giacabi a 08:28 |
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eutanasia, testimonianza, madre teresa
articolo di domenica 03 ottobre 2010
E il gesuita creò il link. È merito
suo se navigate in Internet
***
di Stefano Lorenzetto
Roberto Busa ha conosciuto sette papi: dava del tu a Luciani, suo compagno in seminario. "Nel '49 andai dal fondatore dell’Ibm a New York e gli chiesi l’impossibile"
Ora
che sta per compiere 97 anni, l’uomo che insegnò ai computer l’arte
della scrittura non è più capace di ragionare in frazioni di
millisecondo. A ogni domanda si porta le mani giunte
davanti alla bocca, guarda verso l’infinito, medita a lungo. Ma la sua
mente obbedisce ancora al linguaggio binario, perché articola ogni
risposta per punti, dicendo «primo», poi «secondo», mai «terzo», e
intanto conta sulle dita partendo dal mignolo per arrivare al pollice,
come fanno gli americani. Non c’è una parola, fra quelle che gli escono
dalle labbra, che sia superflua o pronunciata a casaccio.
Se esiste una santità tecnologica, credo d’averla incontrata: ha il volto di padre Roberto Busa, gesuita. Perciò inginocchiati anche tu, lettore, davanti a questo vecchio prete, linguista, filosofo e informatico, che ebbe per compagno di seminario Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I. Se navighi in Internet, lo devi a lui. Se saltabecchi da un sito all’altro cliccando sui link sottolineati di colore blu, lo devi a lui. Se usi il pc per scrivere mail e documenti di testo, lo devi lui. Se puoi leggere questo articolo, lo devi, lo dobbiamo, a lui.
Era nato solo per far di conto, il computer, dall’inglese to compute, calcolare, computare. Ma padre Busa gli insufflò nelle narici il dono della parola. Accadde nel 1949. Il gesuita s’era messo in mente di analizzare l’opera omnia di San Tommaso: 1,5 milioni di righe, 9 milioni di parole (contro le appena 100.000 della Divina Commedia). Aveva già compilato a mano 10.000 schede solo per inventariare la preposizione «in», che egli giudicava portante dal punto di vista filosofico. Cercava, senza trovarlo, un modo per mettere in connessione i singoli frammenti del pensiero dell’Aquinate e per confrontarli con altre fonti. In viaggio negli Stati Uniti, chiese udienza a Thomas Watson, fondatore dell’Ibm. Il vecchio magnate lo ricevette nel suo ufficio di New York. Nell’ascoltare la richiesta del sacerdote italiano, scosse la testa: «Non è possibile far eseguire alle macchine quello che mi sta chiedendo. Lei pretende d’essere più americano di noi». Padre Busa allora estrasse dalla tasca un cartellino trovato su una scrivania, recante il motto della multinazionale coniato dal boss - «Think», pensa - e la frase «Il difficile lo facciamo subito, l’impossibile richiede un po’ più di tempo». Lo restituì a Watson con un moto di delusione. Il presidente dell’Ibm, punto sul vivo, ribatté: «E va bene, padre. Ci proveremo. Ma a una condizione: mi prometta che lei non cambierà Ibm, acronimo di International business machines, in International Busa machines».
È da questa sfida fra due geni che nacque l’ipertesto, quell’insieme strutturato di informazioni unite fra loro da collegamenti dinamici consultabili sul computer con un colpo di mouse. Me lo conferma Alberto Cavicchiolo, psicanalista, tra i fondatori di Spirali, la casa editrice di padre Busa che ha pubblicato tra gli altri il libro Quodlibet. Briciole del mio mulino. Spiega Cavicchiolo, uno degli amici più vicini al pensatore della Compagnia di Gesù: «Il termine hypertext fu coniato da Ted Nelson nel 1965 per ipotizzare un sistema software in grado di memorizzare i percorsi compiuti da un lettore. Per ammissione dello stesso autore di Literary Machines, l’idea risaliva però a prima dell’invenzione del computer. E come ha ben documentato Antonio Zoppetti, studioso di linguistica e informatica, chi davvero operò sull’ipertesto, con almeno 15 anni d’anticipo su Nelson, fu proprio padre Busa».
Insomma, il gesuita prossimo al secolo di vita incarna il primo esempio documentabile nella storia dell’uomo di utilizzo del computer per l’analisi linguistica. I suoi esperimenti, ai quali fece in tempo ad assistere padre Agostino Gemelli, il fondatore dell’Università Cattolica ridotto in sedia a rotelle, hanno trovato compimento nell’Index Thomisticus che padre Busa ha realizzato fra Pisa, Boulder (Colorado) e Venezia, un’impresa titanica che ha richiesto 1,8 milioni di ore, grosso modo il lavoro di un uomo per 1.000 anni a orario sindacale, e che oggi è disponibile su Cd-rom e su carta: occupa 56 volumi, per un totale di 70.000 pagine. A partire dal primo tomo, uscito nel 1951, il religioso ha catalogato tutte le parole contenute nei 118 libri di San Tommaso e di altri 61 autori.
Non c’è congresso scientifico o comunità accademica al mondo dove, all’udire il nome di padre Busa, non ci si alzi rispettosamente in piedi. La sua ultima creatura è stato un consorzio tra sei università (Sapienza, Gregoriana, Salesiani, Domenicani, Opus Dei, Servi di Maria, Laterano) per la creazione del lessico tomistico biculturale, patrocinato dall’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, grande cultore di San Tommaso, e da Hans Tietmeyer e Michel Camdessous, ex presidenti del Fondo monetario internazionale e della Deutsche Bundesbank. Una sua ammiratrice, Francesca Bruni, presidente di Art Valley, istituto che promuove lo scambio tra arte e tecnologie, ha lanciato su Facebook un gruppo al quale si sono subito iscritti oltre 150 studiosi di tutto il mondo.
Dal 1995 al 2000 padre Busa ha insegnato al Politecnico di Milano nei corsi di intelligenza artificiale e robotica. In precedenza era stato per lunghi anni docente alla Pontificia Università Gregoriana e alla Cattolica. Adesso vive ritirato all’Aloisianum, un monumentale istituto di Gallarate, dove pure ha insegnato, donato ai gesuiti negli anni Trenta dalla contessa Rosa Piantanida Bassetti Ottolini, la fondatrice dell’omonima industria tessile che padre Busa conobbe personalmente. Nella casa di riposo per anziani sacerdoti è ospitato anche uno dei più cari amici dello studioso quasi centenario: il cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano.
Se dovesse stendere una voce enciclopedica su padre Roberto Busa, che cosa scriverebbe?
«Quante righe?».
Cinque, dieci. Decida lei.
«Facciamo una sola: “Pioniere dell’informatica linguistica”. L’informatica era stata concepita per i numeri. Io ho pensato di applicarla alle parole».
Almeno aggiungiamo dov’è nato.
«A Vicenza. Ma siamo originari di Lusiana, sull’altopiano di Asiago, più precisamente della contrada Busa, donde il cognome. Mio padre era capostazione. Ci trasferivamo da una città all’altra: Genova, Bolzano, Verona. Nel 1928 approdammo a Belluno e lì entrai in seminario. Ero in classe con Albino Luciani. In camerata il mio era l’ultimo letto della fila, dopo quelli di Albino e di Dante Cassoli. Niente riscaldamento. Sveglia alle 5.30. Ai piedi del letto c’era il catino con la brocca. Dovevamo rompere l’acqua ghiacciata. In quei cinque minuti perdevo la vocazione. Dicevo fra me: no, l’acqua gelata no, voglio tornare dalla mamma che me la scalda sulla stufa. Mezz’ora per lavarci, vestirci e rifare il giaciglio. Albino se la sbrigava in 10 minuti e impiegava gli altri 20 a leggere le opere devozionali di Jean Croiset, gesuita francese del Seicento, e le commedie di Carlo Goldoni».
L’unico dei sette pontefici della sua vita al quale abbia potuto dare del tu.
«Fino all’ultimo. Confidenza che non mi sarei mai permesso con Papa Montini e Papa Wojtyla, nonostante i nostri contatti frequenti e cordiali. All’elezione di Giovanni Paolo I i giornali scrissero che era stato scelto un parroco di campagna. Pensai: ve ne accorgerete quando tirerà fuori le unghie. Purtroppo il Signore ce l’ha lasciato solo per 33 giorni. Lo sa che don Albino m’invidiava?».
La invidiava?
«Sì, perché io ero diventato gesuita e lui no. Avrebbe voluto fare il missionario come i primi compagni di Sant’Ignazio di Loyola. Ma il vescovo Giosuè Cattarossi non glielo permise. A dire il vero anch’io, dopo essere diventato gesuita, sognavo di partire per l’India. Invece il superiore provinciale mi chiese a bruciapelo: “Le piacerebbe fare il professore?”. No, risposi. E lui: “Ottimo. Lo farà lo stesso”. Fui spedito alla Gregoriana per una libera docenza in filosofia su San Tommaso d’Aquino».
E se invece il suo vescovo l’avesse mandata a fare il curato in un paesino di montagna, ci sarebbe andato volentieri?
«Certamente. Fu come se mi fosse stato impartito l’avanti marsc’! Il militare riceve l’ordine di raggiungere Roma e poi, arrivato nella capitale, segna il passo in attesa di nuove disposizioni. Così è stato per me: mi hanno ordinato di studiare San Tommaso, sono partito e non ho più smesso».
Che cos’ha di speciale la figura di questo dottore della Chiesa?
«San Tommaso è il riassunto della civiltà cristiana. Non a caso ho dovuto lavorare su 20 milioni di parole sue e di altri autori, in 18 lingue che adoperano 8 diversi alfabeti».
Immagino che lei sia poliglotta.
«Sa che non me lo ricordo più? Sui miei temi, oltre che in italiano, latino, greco ed ebraico, posso senz’altro improvvisare anche in francese, inglese, spagnolo, tedesco. Mi sono dovuto arrangiare con i rotoli di Qumrân, che sono scritti in ebraico, aramaico e nabateo, con tutto il Corano in arabo, col cirillico, col finnico, col boemo, col giorgiano, con l’albanese. A volte mi lamento col mio Principale, dicendogli: Signore, sembra che tu abbia concepito il mondo come un’aula d’esame. E Lui mi risponde: “Ho lasciato che gli uomini facessero ciò che vogliono. Se fanno il bene, avranno il bene; se fanno il male, avranno il male”».
Come le venne l’idea di trascinare in quest’avventura l’Ibm, creando le premesse per la creazione dei collegamenti ipertestuali che oggi sono alla base del Web?
«Lucia Crespi Ferrario, proprietaria della tintoria Giovanni Crespi di Busto Arsizio, volle regalare al figlio Giulio, quindicenne, un viaggio di quattro mesi negli Stati Uniti. Mi chiese se fossi disposto ad accompagnare il ragazzo. Accettai. E là decisi d’interpellare Watson. Il primo passo della nostra collaborazione fu creare un archivio di 12 milioni di schede perforate, che riempirono una fila di armadi lunga 90 metri per un peso complessivo di 500 tonnellate. Pensi che a quei tempi un elaboratore Ibm impiegava un’ora per mettere in ordine alfabetico 20.000 parole, una velocità che oggi fa sorridere. Il secondo passo furono i nastri magnetici, un gregge piuttosto difficile da pascere: ne avevo 1.800, che uniti fra loro raggiungevano i 1.500 chilometri. Infine sono giunto al Cd-rom e ai 56 volumi dell’Index Thomisticus. La vita è un safari: si sa da dove si parte, ma non che cosa s’incontrerà».
Qual è il senso di un’analisi linguistica sull’opera omnia di San Tommaso?
«La critica del pensiero si fa dal suo interno. Non bisogna confutare un libro, ma analizzare se quello che dice è coerente con la logica di cui si serve per dirlo. In tutti questi anni mi sono passate accanto migliaia di persone, diverse per lingua, colore della pelle, età, religione, cultura, eppure mai quella logica, intravista fin dall’inizio, ha mostrato crepe. Nel poco tempo libero ho applicato lo stesso metodo anche a Jacques Monod e a Stephen Hawking. Fui persino invitato a Mosca per lavorare sui testi di Lenin. La logica ci è stata donata per arrivare a comprendere il perché di ogni cosa. Come mai nel vocabolario dell’umanità, a ogni latitudine, figurano le parole “prima” e “sempre”? Io ci leggo la storia delle anime nel fluire del tempo. Dall’eternità verso l’eternità. Si arriva alla logica come prima luce dell’anima. Ci ho riflettuto molto dopo che un artigiano mi disse questa frase: “La maggior parte delle persone non sa dove va, ma ci sta andando di corsa”».
Fosse nato mille anni fa sarebbe diventato un amanuense, l’avrebbero messa a scrivere codici miniati.
«Il mio mulino sono io. Neanche Dio, che pure ha inventato padre Busa, può affermare d’essere padre Busa. Ogni uomo è una macchina che elabora informazioni per tutto il corso della vita. Nasciamo senza saperlo né volerlo in un corpo che è un mulinare di materia cosmica in continuo cambiamento, soggetta alle modificazioni ambientali. Dentro questo corpo si sveglia la coscienza dell’io, che comincia a manovrare qualche leva e impara a cimentarsi in quella corsa a ostacoli che è il vivere di ciascuno».
La vista di un moderno computer che cosa le fa venire in mente?
«I miei antenati agricoltori e boscaioli che per generazioni hanno faticato sulla terra».
Che cosa pensa di Internet?
«Primo: ne penso un gran bene. Secondo: non lo uso per pigrizia. Lascio che lo faccia per me questa signora». (Indica con un sorriso Danila Cairati Del Bianco, sua segretaria).
Una decina d’anni fa lei dichiarò: «Dio guarda ai computer come un nonno guarda ai nipotini». Lo crede ancora?
«Il paragone è riduttivo ai limiti dell’insolenza. Una mente che sappia scrivere programmi è certamente intelligente. Ma una mente che sappia scrivere programmi i quali ne scrivano altri si situa a un livello superiore di intelligenza. Il cosmo non è che un gigantesco computer. Il Programmatore ne è anche l’autore e il produttore. Noi Dio lo chiamiamo Mistero perché nei circuiti dell’affaccendarsi quotidiano non riusciamo a incontrarlo. Ma i Vangeli ci assicurano che duemila anni fa scese dal cielo».
Perché l’uomo moderno ha quasi completamente smarrito la dimensione verticale, guarda solo all’oggi, senza alcuna prospettiva di eternità?
«Un po’ difficile come domanda. In termini banali direi: per stupidità. Le vie del cielo sono un salire e non un lasciarsi andare».
Il peccato peggiore qual è?
«La superbia».
Non la vanità?
«La vanità è una bambinata».
Nella vita ha più pregato o più studiato?
«Direi più studiato».
E si sente in colpa per questo?
«No, proprio no».
Come s’immagina il paradiso?
«Come il cuore di Dio. Immenso. Guardi che aspetto anche lei in paradiso, mi raccomando». (Si volta verso il fotografo). «Anche lei. E se tardate, come mi auguro, mi troverete seduto sulla porta così». (Incrocia le mani e comincia a girarsi i pollici). «Non arrivano mai, quei macachi...».
(514. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
Se esiste una santità tecnologica, credo d’averla incontrata: ha il volto di padre Roberto Busa, gesuita. Perciò inginocchiati anche tu, lettore, davanti a questo vecchio prete, linguista, filosofo e informatico, che ebbe per compagno di seminario Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I. Se navighi in Internet, lo devi a lui. Se saltabecchi da un sito all’altro cliccando sui link sottolineati di colore blu, lo devi a lui. Se usi il pc per scrivere mail e documenti di testo, lo devi lui. Se puoi leggere questo articolo, lo devi, lo dobbiamo, a lui.
Era nato solo per far di conto, il computer, dall’inglese to compute, calcolare, computare. Ma padre Busa gli insufflò nelle narici il dono della parola. Accadde nel 1949. Il gesuita s’era messo in mente di analizzare l’opera omnia di San Tommaso: 1,5 milioni di righe, 9 milioni di parole (contro le appena 100.000 della Divina Commedia). Aveva già compilato a mano 10.000 schede solo per inventariare la preposizione «in», che egli giudicava portante dal punto di vista filosofico. Cercava, senza trovarlo, un modo per mettere in connessione i singoli frammenti del pensiero dell’Aquinate e per confrontarli con altre fonti. In viaggio negli Stati Uniti, chiese udienza a Thomas Watson, fondatore dell’Ibm. Il vecchio magnate lo ricevette nel suo ufficio di New York. Nell’ascoltare la richiesta del sacerdote italiano, scosse la testa: «Non è possibile far eseguire alle macchine quello che mi sta chiedendo. Lei pretende d’essere più americano di noi». Padre Busa allora estrasse dalla tasca un cartellino trovato su una scrivania, recante il motto della multinazionale coniato dal boss - «Think», pensa - e la frase «Il difficile lo facciamo subito, l’impossibile richiede un po’ più di tempo». Lo restituì a Watson con un moto di delusione. Il presidente dell’Ibm, punto sul vivo, ribatté: «E va bene, padre. Ci proveremo. Ma a una condizione: mi prometta che lei non cambierà Ibm, acronimo di International business machines, in International Busa machines».
È da questa sfida fra due geni che nacque l’ipertesto, quell’insieme strutturato di informazioni unite fra loro da collegamenti dinamici consultabili sul computer con un colpo di mouse. Me lo conferma Alberto Cavicchiolo, psicanalista, tra i fondatori di Spirali, la casa editrice di padre Busa che ha pubblicato tra gli altri il libro Quodlibet. Briciole del mio mulino. Spiega Cavicchiolo, uno degli amici più vicini al pensatore della Compagnia di Gesù: «Il termine hypertext fu coniato da Ted Nelson nel 1965 per ipotizzare un sistema software in grado di memorizzare i percorsi compiuti da un lettore. Per ammissione dello stesso autore di Literary Machines, l’idea risaliva però a prima dell’invenzione del computer. E come ha ben documentato Antonio Zoppetti, studioso di linguistica e informatica, chi davvero operò sull’ipertesto, con almeno 15 anni d’anticipo su Nelson, fu proprio padre Busa».
Insomma, il gesuita prossimo al secolo di vita incarna il primo esempio documentabile nella storia dell’uomo di utilizzo del computer per l’analisi linguistica. I suoi esperimenti, ai quali fece in tempo ad assistere padre Agostino Gemelli, il fondatore dell’Università Cattolica ridotto in sedia a rotelle, hanno trovato compimento nell’Index Thomisticus che padre Busa ha realizzato fra Pisa, Boulder (Colorado) e Venezia, un’impresa titanica che ha richiesto 1,8 milioni di ore, grosso modo il lavoro di un uomo per 1.000 anni a orario sindacale, e che oggi è disponibile su Cd-rom e su carta: occupa 56 volumi, per un totale di 70.000 pagine. A partire dal primo tomo, uscito nel 1951, il religioso ha catalogato tutte le parole contenute nei 118 libri di San Tommaso e di altri 61 autori.
Non c’è congresso scientifico o comunità accademica al mondo dove, all’udire il nome di padre Busa, non ci si alzi rispettosamente in piedi. La sua ultima creatura è stato un consorzio tra sei università (Sapienza, Gregoriana, Salesiani, Domenicani, Opus Dei, Servi di Maria, Laterano) per la creazione del lessico tomistico biculturale, patrocinato dall’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, grande cultore di San Tommaso, e da Hans Tietmeyer e Michel Camdessous, ex presidenti del Fondo monetario internazionale e della Deutsche Bundesbank. Una sua ammiratrice, Francesca Bruni, presidente di Art Valley, istituto che promuove lo scambio tra arte e tecnologie, ha lanciato su Facebook un gruppo al quale si sono subito iscritti oltre 150 studiosi di tutto il mondo.
Dal 1995 al 2000 padre Busa ha insegnato al Politecnico di Milano nei corsi di intelligenza artificiale e robotica. In precedenza era stato per lunghi anni docente alla Pontificia Università Gregoriana e alla Cattolica. Adesso vive ritirato all’Aloisianum, un monumentale istituto di Gallarate, dove pure ha insegnato, donato ai gesuiti negli anni Trenta dalla contessa Rosa Piantanida Bassetti Ottolini, la fondatrice dell’omonima industria tessile che padre Busa conobbe personalmente. Nella casa di riposo per anziani sacerdoti è ospitato anche uno dei più cari amici dello studioso quasi centenario: il cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano.
Se dovesse stendere una voce enciclopedica su padre Roberto Busa, che cosa scriverebbe?
«Quante righe?».
Cinque, dieci. Decida lei.
«Facciamo una sola: “Pioniere dell’informatica linguistica”. L’informatica era stata concepita per i numeri. Io ho pensato di applicarla alle parole».
Almeno aggiungiamo dov’è nato.
«A Vicenza. Ma siamo originari di Lusiana, sull’altopiano di Asiago, più precisamente della contrada Busa, donde il cognome. Mio padre era capostazione. Ci trasferivamo da una città all’altra: Genova, Bolzano, Verona. Nel 1928 approdammo a Belluno e lì entrai in seminario. Ero in classe con Albino Luciani. In camerata il mio era l’ultimo letto della fila, dopo quelli di Albino e di Dante Cassoli. Niente riscaldamento. Sveglia alle 5.30. Ai piedi del letto c’era il catino con la brocca. Dovevamo rompere l’acqua ghiacciata. In quei cinque minuti perdevo la vocazione. Dicevo fra me: no, l’acqua gelata no, voglio tornare dalla mamma che me la scalda sulla stufa. Mezz’ora per lavarci, vestirci e rifare il giaciglio. Albino se la sbrigava in 10 minuti e impiegava gli altri 20 a leggere le opere devozionali di Jean Croiset, gesuita francese del Seicento, e le commedie di Carlo Goldoni».
L’unico dei sette pontefici della sua vita al quale abbia potuto dare del tu.
«Fino all’ultimo. Confidenza che non mi sarei mai permesso con Papa Montini e Papa Wojtyla, nonostante i nostri contatti frequenti e cordiali. All’elezione di Giovanni Paolo I i giornali scrissero che era stato scelto un parroco di campagna. Pensai: ve ne accorgerete quando tirerà fuori le unghie. Purtroppo il Signore ce l’ha lasciato solo per 33 giorni. Lo sa che don Albino m’invidiava?».
La invidiava?
«Sì, perché io ero diventato gesuita e lui no. Avrebbe voluto fare il missionario come i primi compagni di Sant’Ignazio di Loyola. Ma il vescovo Giosuè Cattarossi non glielo permise. A dire il vero anch’io, dopo essere diventato gesuita, sognavo di partire per l’India. Invece il superiore provinciale mi chiese a bruciapelo: “Le piacerebbe fare il professore?”. No, risposi. E lui: “Ottimo. Lo farà lo stesso”. Fui spedito alla Gregoriana per una libera docenza in filosofia su San Tommaso d’Aquino».
E se invece il suo vescovo l’avesse mandata a fare il curato in un paesino di montagna, ci sarebbe andato volentieri?
«Certamente. Fu come se mi fosse stato impartito l’avanti marsc’! Il militare riceve l’ordine di raggiungere Roma e poi, arrivato nella capitale, segna il passo in attesa di nuove disposizioni. Così è stato per me: mi hanno ordinato di studiare San Tommaso, sono partito e non ho più smesso».
Che cos’ha di speciale la figura di questo dottore della Chiesa?
«San Tommaso è il riassunto della civiltà cristiana. Non a caso ho dovuto lavorare su 20 milioni di parole sue e di altri autori, in 18 lingue che adoperano 8 diversi alfabeti».
Immagino che lei sia poliglotta.
«Sa che non me lo ricordo più? Sui miei temi, oltre che in italiano, latino, greco ed ebraico, posso senz’altro improvvisare anche in francese, inglese, spagnolo, tedesco. Mi sono dovuto arrangiare con i rotoli di Qumrân, che sono scritti in ebraico, aramaico e nabateo, con tutto il Corano in arabo, col cirillico, col finnico, col boemo, col giorgiano, con l’albanese. A volte mi lamento col mio Principale, dicendogli: Signore, sembra che tu abbia concepito il mondo come un’aula d’esame. E Lui mi risponde: “Ho lasciato che gli uomini facessero ciò che vogliono. Se fanno il bene, avranno il bene; se fanno il male, avranno il male”».
Come le venne l’idea di trascinare in quest’avventura l’Ibm, creando le premesse per la creazione dei collegamenti ipertestuali che oggi sono alla base del Web?
«Lucia Crespi Ferrario, proprietaria della tintoria Giovanni Crespi di Busto Arsizio, volle regalare al figlio Giulio, quindicenne, un viaggio di quattro mesi negli Stati Uniti. Mi chiese se fossi disposto ad accompagnare il ragazzo. Accettai. E là decisi d’interpellare Watson. Il primo passo della nostra collaborazione fu creare un archivio di 12 milioni di schede perforate, che riempirono una fila di armadi lunga 90 metri per un peso complessivo di 500 tonnellate. Pensi che a quei tempi un elaboratore Ibm impiegava un’ora per mettere in ordine alfabetico 20.000 parole, una velocità che oggi fa sorridere. Il secondo passo furono i nastri magnetici, un gregge piuttosto difficile da pascere: ne avevo 1.800, che uniti fra loro raggiungevano i 1.500 chilometri. Infine sono giunto al Cd-rom e ai 56 volumi dell’Index Thomisticus. La vita è un safari: si sa da dove si parte, ma non che cosa s’incontrerà».
Qual è il senso di un’analisi linguistica sull’opera omnia di San Tommaso?
«La critica del pensiero si fa dal suo interno. Non bisogna confutare un libro, ma analizzare se quello che dice è coerente con la logica di cui si serve per dirlo. In tutti questi anni mi sono passate accanto migliaia di persone, diverse per lingua, colore della pelle, età, religione, cultura, eppure mai quella logica, intravista fin dall’inizio, ha mostrato crepe. Nel poco tempo libero ho applicato lo stesso metodo anche a Jacques Monod e a Stephen Hawking. Fui persino invitato a Mosca per lavorare sui testi di Lenin. La logica ci è stata donata per arrivare a comprendere il perché di ogni cosa. Come mai nel vocabolario dell’umanità, a ogni latitudine, figurano le parole “prima” e “sempre”? Io ci leggo la storia delle anime nel fluire del tempo. Dall’eternità verso l’eternità. Si arriva alla logica come prima luce dell’anima. Ci ho riflettuto molto dopo che un artigiano mi disse questa frase: “La maggior parte delle persone non sa dove va, ma ci sta andando di corsa”».
Fosse nato mille anni fa sarebbe diventato un amanuense, l’avrebbero messa a scrivere codici miniati.
«Il mio mulino sono io. Neanche Dio, che pure ha inventato padre Busa, può affermare d’essere padre Busa. Ogni uomo è una macchina che elabora informazioni per tutto il corso della vita. Nasciamo senza saperlo né volerlo in un corpo che è un mulinare di materia cosmica in continuo cambiamento, soggetta alle modificazioni ambientali. Dentro questo corpo si sveglia la coscienza dell’io, che comincia a manovrare qualche leva e impara a cimentarsi in quella corsa a ostacoli che è il vivere di ciascuno».
La vista di un moderno computer che cosa le fa venire in mente?
«I miei antenati agricoltori e boscaioli che per generazioni hanno faticato sulla terra».
Che cosa pensa di Internet?
«Primo: ne penso un gran bene. Secondo: non lo uso per pigrizia. Lascio che lo faccia per me questa signora». (Indica con un sorriso Danila Cairati Del Bianco, sua segretaria).
Una decina d’anni fa lei dichiarò: «Dio guarda ai computer come un nonno guarda ai nipotini». Lo crede ancora?
«Il paragone è riduttivo ai limiti dell’insolenza. Una mente che sappia scrivere programmi è certamente intelligente. Ma una mente che sappia scrivere programmi i quali ne scrivano altri si situa a un livello superiore di intelligenza. Il cosmo non è che un gigantesco computer. Il Programmatore ne è anche l’autore e il produttore. Noi Dio lo chiamiamo Mistero perché nei circuiti dell’affaccendarsi quotidiano non riusciamo a incontrarlo. Ma i Vangeli ci assicurano che duemila anni fa scese dal cielo».
Perché l’uomo moderno ha quasi completamente smarrito la dimensione verticale, guarda solo all’oggi, senza alcuna prospettiva di eternità?
«Un po’ difficile come domanda. In termini banali direi: per stupidità. Le vie del cielo sono un salire e non un lasciarsi andare».
Il peccato peggiore qual è?
«La superbia».
Non la vanità?
«La vanità è una bambinata».
Nella vita ha più pregato o più studiato?
«Direi più studiato».
E si sente in colpa per questo?
«No, proprio no».
Come s’immagina il paradiso?
«Come il cuore di Dio. Immenso. Guardi che aspetto anche lei in paradiso, mi raccomando». (Si volta verso il fotografo). «Anche lei. E se tardate, come mi auguro, mi troverete seduto sulla porta così». (Incrocia le mani e comincia a girarsi i pollici). «Non arrivano mai, quei macachi...».
(514. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
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testimonianza, scienza - articoli
Un testimone di Cristo
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testimonianza
All’età di 2 anni Lucia Scaraffia decise di cambiarsi il nome in Lucetta e nessuno in famiglia trovò la forza di obiettarle alcunché. A 12 ebbe una crisi mistica: “Temendo di voler diventare suora, facevo le novene, dieci avemarie al giorno, per ottenere la grazia di non finire in convento”. Pregava anche Gesù per la conversione della zia Angela Scaraffia, una coriacea comunista che era stata l’amante di Gaetano Salvemini e che sarebbe morta elettrice di Rifondazione, segno che non tutte le suppliche salgono al cielo.
Chi la legge sulla prima pagina dell’Osservatore romano o sul Corriere della sera o sul Riformista, chi segue le sue lezioni di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, chi la vede dibattere in tv di aborto e di eutanasia, chi ne apprezza il raziocinante ardore di cattolica dichiarata all’interno del Comitato nazionale per la bioetica, chi affronta le 322 pagine del suo nuovo libro Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia (Laterza), scritto a quattro mani con la laica Margherita Pelaja, pensa che Lucetta Scaraffia sia così fin dalla nascita: uno scricciolo ascetico. Poiché invece è destino degli spiriti liberi diventare eretici quando regna l’ortodossia e ritornare ortodossi quando dilaga l’eresia, la mite studiosa dal carattere ferrigno è stata anche militante marxista, sessantottina, protofemminista, divorziata.
Oggi si accinge a rimettere ordine sacramentale nell’ultimo segmento della sua vita da eretica: vuole sposare in chiesa Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista del Corriere, col quale vive da 21 anni e che civilmente è già suo marito. “Lui non ne sentirebbe il bisogno, ma spero che capisca quanto sia importante per me”. Il Tribunale del vicariato di Roma ha dichiarato nullo il precedente matrimonio con un compagno di università della Statale di Milano. “Mi sposai in chiesa solo per accontentare mia madre. Era il 1971. A celebrare le nozze fu il cappellano di San Vittore”. Nel 1982 ebbe una figlia con lo storico Gabriele Ranzato, anch’egli reduce da un matrimonio fallito. L’apparente disinvoltura nei rapporti con l’altro sesso sembrerebbe più consona alla Casa delle donne di via del Governo Vecchio che all’austero appartamento dei Parioli dove Scaraffia e Galli della Loggia abitano, sullo stesso pianerottolo di Fulco Pratesi. Il presidente onorario del Wwf è confinante di salotto, precisamente dal lato dove si trova il caminetto stipato di libri scritti da Lucetta. Dev’essere anche per questo che Il Foglio l’ha paragonata a Giovanna d’Arco. C’è in lei una sorta di predestinazione al rogo.
Proviene da una famiglia cattolica?
Solo per parte di madre. Mio padre era massone. Costruiva raffinerie nel Mediterraneo. La Sardegna, dove trasferì la famiglia da Torino, è stata il mio primo altrove. Mamma mi portava solo alla Rinascente di Cagliari, secondo lei l’unico luogo frequentabile. Non mi permise mai d’indossare i jeans. A Milano feci il ’68 in tailleur.
Estremista come suo fratello Giuseppe, oggi compagno di Silvia Ronchey.
Sì, ma io non ho mai preso né dato manganellate. Durante gli scontri in cui fu ucciso l’agente Antonio Annarumma finii accerchiata dai celerini. Mi salvò il mio tailleurino azzurro. “Signorina, che ci fa lei qui?” mi misero al sicuro i poliziotti prima della carica. E al liceo Parini non ho mai scritto sulla Zanzara. Quando lessi sul giornalino d’istituto le interviste raccolte dalla mia compagna di classe Claudia Beltramo Ceppi, ci restai malissimo. Ma come? Tutte quelle studentesse, in grembiule nero come me, facevano sesso, o almeno dicevano di farlo, e io niente? Ero talmente avvilita che l’insegnante di religione, un prete all’antica, dovette consolarmi: “Non se la prenda, per fortuna non siete tutte uguali”. Mia madre m’impediva persino d’andare al cinema, considerato un luogo di perdizione.
Per via dei film vietati?
Per quello che sarebbe potuto accadere nel buio della sala. Vedevo i film di nascosto, col terrore che qualcuno mi riconoscesse. Quando a 19 anni smisi d’andare a messa, si disperò: “Adesso non hai più una morale!”. Frequentare la parrocchia per mia madre significava non avere rapporti sessuali.
E diventò femminista.
Fra le prime in Italia, credo. Una reazione alle assemblee del Movimento studentesco, dove solo i maschi potevano concionare. Però alle riunioni di autocoscienza facevo scena muta, ero sconvolta dai racconti intimi delle mie compagne. Poi una di loro mi spedì a Londra con un suo fidanzato, erede di un industriale lombardo, per incontrarvi le femministe inglesi. Quelle militanti aggressive e la sporcizia e il disordine che regnavano nella loro comune non mi piacquero. Quando il mio accompagnatore fu chiuso a chiave nello sgabuzzino delle scope perché non ascoltasse i nostri discorsi, cominciai ad avere qualche dubbio.
E si mise a studiare le sante e le suore.
Erano diventate di moda fra gli storici, data la grande abbondanza di fonti. Ma guai a occuparsi della loro spiritualità. Influenzata dal femminismo, mi avvicinai a Rita da Cascia e a Teresa d’Avila solo per fare storia sociale, null’altro. I testi delle sante cominciarono a parlarmi al di là delle mie intenzioni. Capivo che c’era qualcosa di più, ero sedotta dall’oggetto dei miei studi.
Fino a che vent’anni fa è “tornata a sentirsi appassionatamente cattolica”, parole sue. In che modo?
Ho avuto una conversione vera. Era domenica, tornavo dall’edicola. Vidi molta gente radunata davanti alla Basilica di Santa Maria in Trastevere, allora abitavo lì. C’era pure Giulio Andreotti. Un passante mi spiegò che si festeggiava il ritorno di un’icona restaurata, una madonna del VI secolo. Mi ritrovai non so come nel primo banco della chiesa. Entrò l’icona, preceduta da una lunga processione. Il coro intonò l’Akathistos bizantino, il più antico inno liturgico dedicato alla Madre di Dio. E io mi sentii male. Mi scusi… (Si commuove). Fui invasa da un fortissimo senso di luce, di calore, di presenza. Ho capito che lì c’era, ecco. C’era e mi diceva qualcosa. Mi si rivelava. Le parole sono rozze, non possono spiegare la gratuità della grazia divina. Da allora mi pare d’essere completamente cambiata.
Cambiata come?
Ho incontrato le missionarie del Sacro Cuore di Gesù. Mi sono letta tutte le lettere della loro fondatrice, Santa Francesca Cabrini, proclamata da Pio XII patrona degli emigranti. Quando ho detto a Ernesto che avevo accettato di scrivere la biografia di una suora sconosciuta, Chiara Grasselli, ha creduto che fossi impazzita. Invece ne è nato Il Concilio in convento, uno dei libri cui tengo di più. Per realizzarlo ho intervistato molte cabriniane, compresa la direttrice della Columbus, la famosa clinica milanese, una donna che parla da pari a pari con i luminari della medicina. Era felice perché la Chiesa aveva consentito alle suore di tenere un po’ di soldi per uso personale: “Prima non potevo fare l’elemosina ai poveri per strada”.
Ora arriva “Due in una carne”, con cui vuole dimostrare come la sessuofobia della Chiesa sia solo uno stereotipo.
È così. Fino alla rivoluzione industriale, Chiesa e società promuovevano lo stesso obiettivo: fare figli. Una necessità imposta dal bisogno di braccia e dall’alta mortalità infantile. È dal Novecento che le loro strade si sono divaricate. La società imputa ai preti di prescrivere obblighi che non sono naturali. Ma non è che il mondo d’oggi sia permissivo e la Chiesa repressiva: hanno solo due visioni diverse del corpo.
Tempio dello Spirito Santo, secondo il catechismo.
Centrale è il dogma cristiano dell’Incarnazione. E siccome la cosa più importante che facciamo col corpo è l’atto sessuale, esso non può rappresentare soltanto un momento di piacere ludico. È proprio l’importanza che la Chiesa assegna al corpo a fare la differenza. Non a caso fino al Cinquecento il Risorto veniva rappresentato addirittura in erezione, a sottolinearne l’effettiva natura umana. Perfino il Cristo morto di Andrea Mantegna custodito nella Pinacoteca di Brera trasuda virilità. Se il Braghettone venne chiamato a coprire i nudi della Cappella Sistina, la colpa fu della Riforma protestante.
Ma Tertulliano già 13 secoli prima scriveva: “Nell’ultima dirompente vampa di piacere non abbiamo forse la sensazione che una parte dell’anima esca fuori di noi?”. Si preoccupava che non fuoriuscisse l’anima intera.
La dottrina cattolica ha sempre contrastato la concupiscenza perché porta l’uomo alla perdita di controllo e scardina i rapporti sociali. Del resto tutte le culture disciplinano l’eros. Ma la Chiesa è rigida nelle regole e duttile nella loro applicazione.
Cioè predica bene e razzola male?
Dimostra saggezza umana. Nell’Ottocento furono i medici positivisti nemici del clero a sostenere che la masturbazione portava alla cecità e che gli omosessuali erano malati da curare. La Chiesa avrebbe potuto cavalcare le loro balzane teorie. Non l’ha mai fatto. Per la dottrina cattolica gli omosessuali in quanto tali non esistono. Ci sono soltanto persone che compiono atti contrari alla natura.
Per la verità il cardinale Giacomo Biffi ha appena raccomandato la “doverosa riprovazione di ogni esaltata “ideologia dell’omosessualità”, ha citato la condanna di San Paolo e ha scritto che “non ci è consentita la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non “politicamente corretti”.
La società occidentale è stata la prima al mondo ad avere legittimato l’omosessualità. Ne sono scaturiti problemi di comprensione col resto dell’umanità e in particolare con i musulmani. Sarà impopolare dirlo, ma spesso il fondamentalismo islamico è una reazione all’ultraliberalismo culturale dell’Occidente.
Anche il vescovo Luciano Pacomio, commissario della Cei per la dottrina della fede, ha citato San Paolo, ma per dire che, così come non c’è più né greco né giudeo, né schiavo né libero, “non c’è più omosessuale o eterosessuale”.
Non sono d’accordo. “Maschio e femmina Dio li creò”, Genesi. Gli omosessuali sono liberi di comportarsi diversamente dagli altri, ma nel contempo non possono pretendere gli stessi diritti degli altri.
Tipo?
Sposarsi, fare figli o adottarli. La Chiesa si mette sempre dalla parte dei più deboli, in questo caso i bambini, che hanno tutto il diritto d’avere un padre e una madre e di crescere con loro.
Per lei esistono peccati sessuali?
Sì. Penso all’adulterio, la coltivazione di un desiderio sbagliato. Lo vedo come una sottrazione di risorse. È difficile portare avanti una famiglia se non c’investi tutto te stesso.
Che cosa direbbe il professor Joseph Ratzinger del libro “Due in una carne”?
Gliel’ho mandato. M’illudo che possa interessarlo.
Con chi litiga di più nel Comitato nazionale per la bioetica?
Col ginecologo Carlo Flamigni, il padre della fecondazione assistita. È molto difficile discutere con lui. Certamente Flamigni parlerebbe di me nello stesso modo.
Ma serve un simile organismo?
Non saprei. Certo il governo non ci consulta di frequente. Serve però come guida ai comitati etici degli ospedali. Vorremmo anche arrivare nelle scuole. Lo sa che in giro per l’Italia i corsi di bioetica agli studenti li tiene la Cgil?
L’eutanasia sarà legalizzata?
Temo di sì. L’età media aumenta, tenere in vita i malati costa. Ci sarà la corsa a far fuori le persone più indifese. Il tanto celebrato welfare svedese si basava anche su questo, sull’eugenetica.
Come giudica il testamento biologico?
Non lo chiamerei testamento perché la vita non è una proprietà di cui l’individuo possa disporre a suo piacimento.
Il suo articolo sull’”Osservatore”, in cui a 40 anni dal rapporto di Harvard denunciava i limiti dei criteri di accertamento della morte cerebrale, ha suscitato un bel vespaio.
Non capisco perché. M’ero limitata a recensire due libri sul fine vita. L’Unità è arrivata a sostenere che per colpa mia sono morti alcuni pazienti in attesa di trapianto. Persino The Economist e Le Monde hanno riconosciuto che ho posto un problema reale, che la discussione su questo tema spinoso è aperta in tutto il mondo. Solo in Italia sembra proibito parlarne.
La Santa sede ha preso le distanze.
Ma nessuno ha potuto scrivere che l’articolo sia dispiaciuto a Benedetto XVI.
Che intende dire?
Fu l’allora cardinale Ratzinger a cancellare di suo pugno dal catechismo della Chiesa cattolica l’aggettivo “cerebrale”, sostituendolo con “reale”, là dove si legge che “per il nobile atto della donazione degli organi deve essere pienamente accertata la morte reale del donatore”. Un’affermazione appena ribadita dal Papa in un discorso.
Qualcuno ha preso le sue difese?
Sì, per esempio Vittorio Feltri. E mi ha cercato il professor Pier Paolo Visentin, che per vent’anni ha affiancato il medico personale di Papa Wojtyla. Era primario di rianimazione al Santo Spirito di Roma. Ha chiuso con gli espianti, dicendo di non poterne più.
Si trova a suo agio nell’Italia di oggi?
Poco. Vedo i giovani ogni anno sempre più incolti e smarriti. Hanno avuto tutto e in cambio non gli è mai stato chiesto niente. Arrivano all’università quasi analfabeti. L’altro giorno citavo un passo della Divina commedia. Alza la mano un ragazza: “Professoressa, mi può ripetere titolo e autore?”. Io, pronta a tutto, ripeto. E lei: “Mi può ricordare per favore la trama?”. Lo spreco della gioventù è tristissimo.
Postato da: giacabi a 21:57 |
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Pubblichiamo di seguito la parte conclusiva dell’intervento di Pupi Avati, il 25 Ottobre 2010.
“Cercate
veramente i vostri talenti. Io ho speso dodici anni della mia vita
nell’illusione di diventare un grande musicista, per poi scoprire dal
confronto con Lucio Dalla che suonava meglio di me, quale differenza
sostanziale c’è tra avere talento e non averlo. Io avevo molta passione,
molta caparbietà, ero molto serio, studioso mi applicavo molto, ma non
avevo talento per la musica; allora mi sono rifugiato nel mondo dei
surgelati, nell’illusione che i sogni fossero tutti nel risparmio, che
non avrei mai potuto ambire ad una professione in qualche modo
straordinaria e vedere realizzati i miei sogni.
Poi
mi sono ritrovato nell’oceano dei film, ed ho rimesso in moto
impunemente un meccanismo di aspettative ed attese. Mentre la musica non
mi riamava quanto io l’amavo, il cinema ha risposto in modo diverso
alla mia dichiarazione d’amore.
Io
so per certo che ognuno di voi ha un talento, una vocazione, perché
ognuno di voi ha un’identità, ha qualcosa di eccezionale, irripetibile.
Ognuno di voi è il prescelto. Quindi
quando voi state con voi stessi nel modo più sfrontato, che è il
momento prima di addormentarvi, quando veramente immaginate della vostra
vita delle cose che non avreste mai il coraggio di dire a nessuno,se
non a voi stessi, in quel momento accade (pensate
che io per tantissimi anni ho preparato il discorso di ringraziamento
in inglese per la premiazione dell’Oscar), quei sogni si realizzeranno
se individuerete i vostri talenti, la vostra vocazione, la vostra
predisposizione, che non è detto che voglia dire fare l’attore o il
regista, si può benissimo fare il consulente finanziario.
Si
può essere creativi e totalmente realizzati e dire che si è, facendo
qualunque cosa, in tremila ambiti diversi. L’importante è che voi
riusciate a far coincidere la vostra vocazione con quello che fate; in
quel modo voi direte che siete, in quel modo voi non sarete più
spettatori, quelli che riempiono le piazze per applaudire al cantante o
al politico, che sono numeri di auditel, quelli che comprano i giornali,
ma sarete uno. Quando io faccio i film, io parlo sottovoce, i miei
film sono rivolti ad una persona sola, io non parlo per le masse, cerco
di essere il più intimo possibile. In questo modo quando cercate di non
correre quando tutti corrono, di rallentare, di essere voi stessi,
indipendenti, c’è tanta demagogia in giro, tutti la pensano allo stesso
modo, è veramente imbarazzante, e pensare che i ragazzi si rassegnano da
subito ad essere così scontati, prevedibili, e non avere un’identità,
il coraggio di staccarsi, ed avere un rapporto di identità che non vuol
dire andare a fare la guerra, ma vuol dire avere una propria opinione…e
si può anche essere disinformati, si può anche non leggere il libro che
tutti leggono, vedere il film che tutti vedono, la musica che tutti
ascoltano, si può vivere benissimo anche essendo diversi.
Io
credo anzi che più diversi siamo e più ci distinguiamo. E cerchiamo
veramente di tenere in vita quel ragazzino che io molto spesso riesco a
vedere anche in persone adulte, perché sono degli spiragli che uno
lascia e vede la distanza che si è frapposta tra voi e quel bambino che
era, che lo smentisce e lo rinnega e cerca sempre di soffocarlo. Voi no,
non dovete farlo. Si può fare.
Io
non voglio risolvere i problemi del mondo. Basterebbe già che uno tra i
presenti, stasera, andasse a casa e pensasse che questo discorso l’ho
fatto per lui o per lei, basta uno, allora valeva la pena venire qua.
Ciao.”
Postato da: giacabi a 19:26 |
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UNA BELLISSIMA TESTIMONIANZA DI VITA
DI STEVE JOBS
DI STEVE JOBS
Postato da: giacabi a 21:35 |
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MARTA «Io amo tutto della mia vita»
12/10/2010
Una foto di Marta.
Marta,
insegnante di sostegno in una scuola media, è morta venerdì scorso, a
27 anni, per un tumore. Negli ultimi mesi, costretta a letto dalla
malattia, ha toccato la vita di tanti: «Attraverso il tuo sì, Dio ci ha
presi per mano», come ha detto don Giuliano Renzi ai suoi funerali.
Riportiamo un dialogo con il padre Giorgio nelle notti trascorse in
ospedale, il suo saluto ai funerali e l'omelia del sacerdote
GIORGIO: Marta, chi è Gesù per te?
MARTA: Eccolo, smettila con i ragionamenti, smetti di ragionare. Gesù è "Io sono Tu che mi fai". La cosa più evidente è che siamo oggetto di un amore infinito, un Altro ti ha voluto e ti vuole bene. Guarda, guarda quello che hai! Vivi! Guarda la realtà tutta, non servono tanti ragionamenti, guarda, è come quando fai la piadina, hai l'impasto fra le mani.
Per essere felici occorre amare Lui più di tutto, sopra ogni cosa e questo ti fa amare tutto, più intensamente. Io amo tutto, tutto della mia vita, da quando sono nata fino ad adesso.
La vita è gioia e dolore ed è così perché l'ha fatta così Gesù, è per questo che dico sì alla mia malattia. Uno si lava, si veste bene, sceglie delle cose belle, ha cura di sé perché un Altro ha cura di lui.
Questo succede per grazia, lo devi chiedere tutti i giorni e chiedere che ti dia pace. La felicità la vivremo in Paradiso, qui possiamo chiedere che ci faccia vivere con pace.
GIORGIO: Tutte queste cose dove le hai imparate? Grazie agli amici?
MARTA: L'amico è come l'obbiettivo di una macchina fotografica, mette a fuoco, mette a fuoco, cioè ti aiuta a fare luce dove c'è il vero, ma tutto il rapporto è tuo e basta, tuo con Lui, basta, nessuno di diverso, non tu-l'amico-e-Lui, è tuo e basta, sei tu che domandi, sei tu che chiedi, sei tu che gridi, sei tu che gli chiedi: amami!
GIORGIO: E Lui ti risponde.
MARTA: Lui ti risponde nella realtà.
GIORGIO: Ad esempio, in questo caso con tutta la gente che ti si muove intorno.
MARTA: Guarda che roba, ma non solo: mi sta cambiando, sta cambiando me e intanto io aspetto la guarigione.
GIORGIO: Tutti l'aspettiamo. Preghiamo, lottiamo, domandiamo, chiediamo. Dicevi prima: «Io tengo a me perché c'è un Altro che tiene a me»? Dicevi così?
MARTA: Sì.
GIORGIO: Tutte queste cose come le hai imparate?
MARTA: Vivendo, vivendo in compagnia di amici grandi.
GIORGIO: E guardando?
MARTA: Sì, vivendo tutto appieno; ma come si fa a vivere tutto appieno? Ci vuole anche un metodo e una strada, e la strada e il metodo io l'ho imparato in università. Io Gesù l'ho incontrato in università.
GIORGIO: Be', l'avevi già incontrato prima, lì ti si è palesato di più.
MARTA: Il mio incontro io l'ho fatto in università, l'ho fatto con Francesco, e poi un fatto dietro l'altro.
GIORGIO: Bello quello che mi dici, bisogna che ne parliamo più spesso di queste cose.
MARTA: E no! È qui che dico io, non è un problema di parlare.
GIORGIO: Ma quando mi comunichi la tua esperienza a me aiuta, è un fatto quello che mi racconti.
MARTA: Però il problema non è stare al tavolino a parlare, il problema è che tu domani mattina ti alzi e vai davanti allo specchio e dici: «Io, Giorgio, sono Tu che mi fai», e tutta la giornata chiedi che Lui si faccia vedere da te, non è che ne parliamo io e te, capito? Non è quello il problema. Io Francesco in un anno quante volte l'ho visto, quante volte ci siamo messi al tavolino a parlare? Non è un problema di parlare: è il tuo rapporto personale con Gesù. In quello non ti può sostituire nessuno.
da:
Postato da: giacabi a 20:24 |
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amicizia, testimonianza, cl
Bisogna annunciare il Vangelo
***
***
Avete taciuto abbastanza. E’ ora di finirla di stare zitti! Gridate con centomila lingue. Io vedo che a forza di silenzio il mondo è marcito
(S. Caterina da Siena).
Postato da: giacabi a 21:20 |
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testimonianza
Essere martire
***
La
terra si è raffreddata. Tocca a noi, cattolici, ravvivarne il calore
vitale che s’estingue; tocca a noi ricominciare l’era dei martiri. Essere martire è cosa possibile a tutti i cristiani: essere martiri è dare la vita per Dio e per i fratelli***
(F. Ozanam).
Postato da: giacabi a 21:03 |
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articolo di lunedì 24 maggio 2010
Quel bambino di 80 anni
che non cammina ma sa correre
di Marcello Veneziani
La storia di Felice Mangiarano. Il padre lo portò nel ricovero per infermi. Era un bimbo paralizzato. Che però ha imparato lo stesso ad amare la vita
Avevo nove anni quando mio padre mi ha portato qui, ora ne ho ottantadue. Così
comincia il suo racconto Felice Mangiarano storpio dalla nascita,
immobilizzato da una vita nella carrozzella. E intorno a lui si fa
silenzio. Parla con difficoltà e con affanno, e agita nell’aria le sue
mani contorte quasi a pescare nello spazio le parole che non trova nella
sua bocca deformata. Siamo dentro le mura di un ricovero per infermi
gravi in cui Felice entrò settantatré anni fa e da cui non è più uscito.
Fu un mattino d'inverno, racconta, per la precisione era il 5 febbraio del 1938, che suo padre lo portò in bicicletta dal suo paese natale, Monopoli, all'ospedale ortofrenico di Bisceglie, più di settanta chilometri percorsi al freddo su una statale che costeggia il mare. E tu lo immagini quel bambino paralizzato, appollaiato sulla bicicletta di suo padre, avvinghiato a lui con le sue manine deformi e le gambe penzolanti, che non capisce dove stiano andando. Dove mi porti, chiede il bambino handicappato al padre. Ti porto da un dottore che ti farà camminare, gli rispose il padre. Una bugia pietosa ma necessaria. Una famiglia modesta, una scuola che non accoglie handicappati gravi come Felice; fuori un mondo aspro, povero e inclemente.
Allora suo padre decide di portarlo nella Casa della Divina Provvidenza, dove vengono accolti da un parroco misericordioso, come in un Cottolengo del sud, tutti gli infermi più disperati che hanno perduto l'uso del corpo o della mente o non l'hanno mai avuto. Il bambino non lo sa, spera davvero nel medico miracoloso che lo farà correre e giocare come gli altri bambini. Ma da quel giorno fu lasciato lì, tra le suore, gli infermi e gli infermieri, e non è più tornato a casa sua. Ci è entrato da bambino tra queste mura e non ha conosciuto altro mondo che quello di un ospedale per dementi e deformi. Qui è cresciuto nella sua immobilità, qui ha vissuto tutta la sua vita, se può dirsi vita, diremmo noi scontenti.
Ma oggi che fa il bilancio della sua vita, Felice difende la memoria di suo padre e dice che suo padre fu di parola, perché lui in effetti qui ha imparato a camminare. E tu lo guardi sprofondato nella sua carrozzella e pensi che stia pietosamente vaneggiando. Ma lui, dopo una pausa che ha riempito di indicibile intensità le sue parole, dopo un sospiro carico di pianti stagionati e trattenuti, dice che davvero qui, in mezzo agli altri infermi, ha imparato a camminare anche senza le gambe; perché, dice, si può camminare con il cuore, si può camminare con l'anima, e così io ho camminato in tutti questi anni.
Noi che siamo intorno restiamo muti, immobili, commossi, con un brivido che ci attraversa la schiena.
Le nostre parole diventano superflue davanti alle sue, a quel corpo e allo spettacolo della sua vita offerta a noi passanti in questa sintesi folgorante. Con inerme ospitalità. Pensiamo allora alle nostre vite ricche e movimentate, pensiamo ai nostri mille viaggi, ai nostri corpi sani, alle nostre famiglie e alle nostre vaste conoscenze, eppure ci sembra che non abbiamo camminato come lui. Noi abbiamo avuto sette vite o settanta, lui una sola, dolorosa e autentica.
Felice benedice la sua vita inferma, benedice suo padre che lo lasciò per sempre in quell'ospizio per deformi, benedice il prete, don Uva, che lo accolse con le suore, benedice Dio che non è stato generoso con lui, benedice la provvidenza che gli ha dato una vita in una carrozzella recluso dentro un ospedale. Benedice chi gli ha dato la possibilità di vivere una vita ulteriore e un cammino spirituale tramite il suo corpo deformato. Davanti a lui, Felice non solo di nome, minuscolo nella sua carrozzina come una vigna dai rami contorti, ci vergogniamo delle nostre vite piene di ogni bene e di ogni cammino; vite libere, leggere, mobili, vissute in compagnie d'amore, che pure si protestano infelici o carenti di qualcosa.
Noi ci lamentiamo anche se ci manca il superfluo, lui non si lamenta anche se gli è mancato per una vita il necessario: le gambe, il corpo, la vita vissuta, una donna, una famiglia. Io non ho paura, annota Felice, soffro ma amo la vita dal profondo del cuore, e scrivo perché la scrittura salva dalla morte. Felice si è scritto pure la sua lapide: «Qui giace un cuore che ha tanto amato in vita e in solitudine guardando con gli occhi dell'anima tutte le bellezze del creato, glorificando il creatore». Ma dove le ha viste lui le bellezze, lui che ha vissuto recluso tra i malati in un ospedale? Eppure le ha viste, Felice, le ha viste meglio di noi, con gli occhi dell'anima. Le sofferenze avvicinano a Cristo, ci dice, e poi avverte che le sofferenze non si possono eliminare dalla faccia della terra, dobbiamo caricarcele sulle spalle. Lo dice con una smorfia di sorriso soprannaturale venuto dall'infanzia.
Del resto, il suo stentato parlare gli impedisce ogni finzione e ogni enfasi; dice l'essenziale, le parole escono scarne dalla sua bocca deformata. Con quel filo di voce non può offrire nient'altro che la verità. La nuda, cruda, essenziale verità. Anche vivere così è valsa la pena. Mi scuso se vi ho raccontato una storia senza notizia, giornalisticamente irrilevante; a volte sono un po' cretino, mi lascio prendere dalle inezie del cuore. Ma ascoltando Felice pensavo alla vita artificiale annunciata sui giornali con la scienza che prende il posto di Dio. Pensavo ai tentativi di eugenetica per avere solo vite sane e perfette, eliminando l'imperfezione e i suoi dolori dalla faccia della terra.
Poi pensavo a quanti invocano l'eutanasia per evitare sofferenze. Ed ho rivisto lui, Felice, in carrozzella da ottant'anni, aggrappato con amore a quel fil di vita, alla natura che pure gli fu matrigna, alla vita che gli fu così avara, amante delle sue sofferenze. E l'ho rivisto poi stanotte, in sogno, sulla bicicletta ereditata da suo padre, che pedalava col cuore, correva con l'anima e fendeva a tutta velocità le vie del cielo.
Fu un mattino d'inverno, racconta, per la precisione era il 5 febbraio del 1938, che suo padre lo portò in bicicletta dal suo paese natale, Monopoli, all'ospedale ortofrenico di Bisceglie, più di settanta chilometri percorsi al freddo su una statale che costeggia il mare. E tu lo immagini quel bambino paralizzato, appollaiato sulla bicicletta di suo padre, avvinghiato a lui con le sue manine deformi e le gambe penzolanti, che non capisce dove stiano andando. Dove mi porti, chiede il bambino handicappato al padre. Ti porto da un dottore che ti farà camminare, gli rispose il padre. Una bugia pietosa ma necessaria. Una famiglia modesta, una scuola che non accoglie handicappati gravi come Felice; fuori un mondo aspro, povero e inclemente.
Allora suo padre decide di portarlo nella Casa della Divina Provvidenza, dove vengono accolti da un parroco misericordioso, come in un Cottolengo del sud, tutti gli infermi più disperati che hanno perduto l'uso del corpo o della mente o non l'hanno mai avuto. Il bambino non lo sa, spera davvero nel medico miracoloso che lo farà correre e giocare come gli altri bambini. Ma da quel giorno fu lasciato lì, tra le suore, gli infermi e gli infermieri, e non è più tornato a casa sua. Ci è entrato da bambino tra queste mura e non ha conosciuto altro mondo che quello di un ospedale per dementi e deformi. Qui è cresciuto nella sua immobilità, qui ha vissuto tutta la sua vita, se può dirsi vita, diremmo noi scontenti.
Ma oggi che fa il bilancio della sua vita, Felice difende la memoria di suo padre e dice che suo padre fu di parola, perché lui in effetti qui ha imparato a camminare. E tu lo guardi sprofondato nella sua carrozzella e pensi che stia pietosamente vaneggiando. Ma lui, dopo una pausa che ha riempito di indicibile intensità le sue parole, dopo un sospiro carico di pianti stagionati e trattenuti, dice che davvero qui, in mezzo agli altri infermi, ha imparato a camminare anche senza le gambe; perché, dice, si può camminare con il cuore, si può camminare con l'anima, e così io ho camminato in tutti questi anni.
Noi che siamo intorno restiamo muti, immobili, commossi, con un brivido che ci attraversa la schiena.
Le nostre parole diventano superflue davanti alle sue, a quel corpo e allo spettacolo della sua vita offerta a noi passanti in questa sintesi folgorante. Con inerme ospitalità. Pensiamo allora alle nostre vite ricche e movimentate, pensiamo ai nostri mille viaggi, ai nostri corpi sani, alle nostre famiglie e alle nostre vaste conoscenze, eppure ci sembra che non abbiamo camminato come lui. Noi abbiamo avuto sette vite o settanta, lui una sola, dolorosa e autentica.
Felice benedice la sua vita inferma, benedice suo padre che lo lasciò per sempre in quell'ospizio per deformi, benedice il prete, don Uva, che lo accolse con le suore, benedice Dio che non è stato generoso con lui, benedice la provvidenza che gli ha dato una vita in una carrozzella recluso dentro un ospedale. Benedice chi gli ha dato la possibilità di vivere una vita ulteriore e un cammino spirituale tramite il suo corpo deformato. Davanti a lui, Felice non solo di nome, minuscolo nella sua carrozzina come una vigna dai rami contorti, ci vergogniamo delle nostre vite piene di ogni bene e di ogni cammino; vite libere, leggere, mobili, vissute in compagnie d'amore, che pure si protestano infelici o carenti di qualcosa.
Noi ci lamentiamo anche se ci manca il superfluo, lui non si lamenta anche se gli è mancato per una vita il necessario: le gambe, il corpo, la vita vissuta, una donna, una famiglia. Io non ho paura, annota Felice, soffro ma amo la vita dal profondo del cuore, e scrivo perché la scrittura salva dalla morte. Felice si è scritto pure la sua lapide: «Qui giace un cuore che ha tanto amato in vita e in solitudine guardando con gli occhi dell'anima tutte le bellezze del creato, glorificando il creatore». Ma dove le ha viste lui le bellezze, lui che ha vissuto recluso tra i malati in un ospedale? Eppure le ha viste, Felice, le ha viste meglio di noi, con gli occhi dell'anima. Le sofferenze avvicinano a Cristo, ci dice, e poi avverte che le sofferenze non si possono eliminare dalla faccia della terra, dobbiamo caricarcele sulle spalle. Lo dice con una smorfia di sorriso soprannaturale venuto dall'infanzia.
Del resto, il suo stentato parlare gli impedisce ogni finzione e ogni enfasi; dice l'essenziale, le parole escono scarne dalla sua bocca deformata. Con quel filo di voce non può offrire nient'altro che la verità. La nuda, cruda, essenziale verità. Anche vivere così è valsa la pena. Mi scuso se vi ho raccontato una storia senza notizia, giornalisticamente irrilevante; a volte sono un po' cretino, mi lascio prendere dalle inezie del cuore. Ma ascoltando Felice pensavo alla vita artificiale annunciata sui giornali con la scienza che prende il posto di Dio. Pensavo ai tentativi di eugenetica per avere solo vite sane e perfette, eliminando l'imperfezione e i suoi dolori dalla faccia della terra.
Poi pensavo a quanti invocano l'eutanasia per evitare sofferenze. Ed ho rivisto lui, Felice, in carrozzella da ottant'anni, aggrappato con amore a quel fil di vita, alla natura che pure gli fu matrigna, alla vita che gli fu così avara, amante delle sue sofferenze. E l'ho rivisto poi stanotte, in sogno, sulla bicicletta ereditata da suo padre, che pedalava col cuore, correva con l'anima e fendeva a tutta velocità le vie del cielo.
Postato da: giacabi a 10:50 |
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aborto, eutanasia, testimonianza
Dal comunismo alla fede, cercando il volto di Dio
La storia del pittore Claudio Zemmi
di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 13 luglio 2010 (ZENIT.org).- Era un pittore affermato, esponeva e vendeva i suoi quadri in campo internazionale, era animato da idee socialcomuniste, ma si sentiva vuoto e l’ideologia non colmava la sua ricerca di verità e bellezza.
Finchè, nel bel mezzo di una situazione complicata con la morte della madre e la malattia del suo figlio maggiore, ha incontrato una donna che gli ha indicato la via della fede cristiana.
Ora dipinge splendide icone, e il suo talento è messo al servizio della bellezza di Dio.
Questa è la storia di Claudio Zemmi, artista, scultore, pittore e insegnante d’arte. (www.iconeclaudio.com – info@iconeclaudio.com).
Zemmi è diplomato in Arte ed insegna nelle scuole locali, ha praticato la pittura e la scultura con discreto successo, esponendo anche a livello internazionale. Alcune delle sue opere sono esposte presso la Walton Gilbert Gallery di S. Francisco (USA). Nel tempo ha scelto di specializzarsi nel campo della iconografia.
ZENIT lo ha intervistato.
Come è perché da pittore moderno e comunista lei ha riscoperto la fede e si è messo a dipingere icone? Ci racconti la sua storia.
Zemmi: Già nel 1972 cominciai a dubitare di certe idee comuniste, visto quello che stava succedendo nei paesi dell'est europeo, a Cuba o in Cina. La dittatura e l'appiattimento ideologico erano in contraddizione con il mio pensiero di artista libero e quindi mi dissociai radicalmente. Fino ai primi anni Ottanta ho girovagato tra Europa e Stati Uniti per fare mostre.
Allora facevo scultura e pittura riscuotendo un certo successo grazie anche a degli amici giornalisti e scrittori che hanno raccontato del mio lavoro (ad esempio Franco Russoli, Pier Francesco Listri e Marcello Ciccuto).
Poi nel 1986 cominciai a provare i primi sintomi di un vuoto interiore sempre crescente. In quel momento mia madre si ammalò e presto morì, mio figlio maggiore iniziò a soffrire di una malattia grave, ora abbastanza risolta.
Queste situazioni mi hanno segnato ed ho sentito il bisogno di avere una risposta al perchè si nasce e si muore, perchè ci si ammala, dove sta Dio e che fa. Sono stati momenti di buio completo, angoscia e sofferenza.
Un giorno la risposta è arrivata e Dio si è fatto presente nella mia vita. Mentre stavo prendendo coscienza di questa presenza, uno spiraglio si apriva. La risposta mi si è manifestata attraverso una signora, madre di famiglia, saggia e colta, che è stata la mia samaritana al pozzo di Giacobbe. Mi parlò della lode a Dio, della potenza della lode che libera e fa agire Dio nella propria vita.
Rimasi sorpreso di sentire parlare un cattolico così, in modo concreto, di Gesù; fui ancora più sorpreso quando andai a casa da Gesù, ossia in Chiesa, e sentii delle catechesi che mi convinsero ad entrare nel Cammino Neocatecumenale con molta gioia. Tuttora ne faccio parte con mia moglie.
Una porta si aprì, la luce entrò e cominciai a prender coscienza di questo evento. Mi stavo convertendo.
Le cose non cambiavano, però io stavo cambiando e non mi sentivo più vittima della mia storia, Dio aveva pensato bene la mia storia. La porta si era aperta, era quella della vita, quella porta era Gesù. Pensai subito come mettere al servizio della Chiesa le mie qualità.
Lei dipinge icone su basi di legno già usate. Perchè lo fa? Qual è il senso di questa scelta?
Zemmi: Iniziai a cercare oggetti poveri, fragili, che avessero una storia. Una vecchia porta, uno scuro di finestra, un tappo di botte; oggetti che dessero il senso dell'apertura riferita al cuore umano.
Per definizione filosofica si dice che l'uomo ha una natura finita con la capacità dell'infinito. San Paolo dice che portiamo tesori in vasi di creta. Il vaso c'era (ossia i vecchi oggetti di uso quotidiano) ma mancava il tesoro, la capacità dell'infinito. Allora mi misi a studiare le icone e il loro significato e pensai di inserirle su questi supporti "fragili". Avevo quindi un contenitore fragile con un contenuto infinito.
Non solo, quella ricchezza dipinta ridava una nuova dignità al supporto. Il riferimento è evidentemente all'uomo che quando accoglie dentro di sè Gesù ed il suo insegnamento, la sua storia per brutta che sia si riaccende e ritrova quella dignità perduta (come nella parabola del figliol prodigo).
Qual è la differenza tra la pittura che praticava prima e quella di ora?
Zemmi: La differenza tra la pittura di prima e quella di ora sta nel fatto che la prima era buona ma priva di amore, solo umana; la seconda, quella attuale, è accompagnata dall'amore di Gesù per tutti.
Postato da: giacabi a 19:05 |
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testimonianza
LA VOLATA DI "DON CUBA"
Classe 1922, da quarantanni capellano militare nelle carceri fiorentine, «si è persa la memoria della parola misericordia»dice. Il dio dei giudici, Zacceho è la somma misericordia. Un amore alla realtà sorgente di speranza per gli uomini
Un corteo funebre surreale, fatto di cameramen, giornalisti e fotografi. Un morto eccellente: Pietro Pacciani, il contadino a lungo accusato di essere il famigerato "Mostro di Firenze". Un anziano prete che, con passo deciso, accompagna il feretro nel piccolo cimitero di Mercatale Val di Pesa. Siamo in mezzo al tripudio della natura toscana: cipressi, viti, olivi, una grande pineta e la bellezza dell'intorno contrasta con la tristezza di una morte in solitudine. Il sacerdote ha parole di speranza e di vita che risuonano fra il ronzio incessante delle macchine fotografiche e delle telecamere.
Qualche mese fa, i tg serali hanno mostrato a tutt'Italia questa immagine di don Danilo Cubattoli*, cappellano del carcere di Firenze. Classe 1922, nativo del Chianti fiorentino, è un prete assai popolare nel capoluogo toscano, dove "don Cuba" è conosciuto per l'apostolato fra i carcerati e le loro famiglie, unito all' impegno per i ragazzi a rischio.
Scazzottando in seminario
Il prossimo Il luglio festeggia cinquant'anni di sacerdozio. «Nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla mia vocazione – racconta a Tracce -.Ero un ragazzino che faceva il meccanico, uno scavezzacollo. Poi un anno, era il giugno del '36, morì mia madre. Non so cosa avvenne -prosegue -, ma a settembre chiesi di entrare in seminario». ~ Un temperamento vivace il Cubattoli, se dopo una settimana, per un rimprovero ricevuto, si parò davanti al superiore dicendo: «lo vi cazzotto tutti quanti. » «Un castigo immeritato» ricorda oggi sorridendo e aggiunge: «Il seminario è un tempo benedetto in cui il Signore serve di tutto. È Lui che fa. I preti li costruisce lo Spirito Santo, mica i professori». Dopo mezzo secolo di vita parla del suo sacerdozio che colpisce. « Dell’essere prete mi ha sempre stupito la possibilità, che ti è data, di fare cose che superano la propria limitata umanità» confessa. E ricorda le parole del Vangelo: «Farete cose più grandi di me». Cose grandi: «Dal fare di un pezzetto di pane il Signore della vita, al poter dire "va' in pace" a uno che ti confessa: "Ho ucciso, e sono pentito"».Appena indossata la tonaca, don Cubattoli rivelò subito una capacità di parlare a tutti, anche a quelli apparentemente più lontani dal cristianesimo. Nel popolare quartiere di San Frediano, incontrò la Firenze più povera, dove l'ideologia comunista infiammava i cuori. «Fin dai primi anni mi sono detto: "Farò il prete per quelli che il prete non lo vogliono" -spiega -.Ma non c'è nessuno che, al fondo, non voglia Dio. Nessuno che possa sputare in faccia all'Amore».
In gara a piedi…
Oggi come cinquant' anni fa, un uomo che sa toccare le corde più nascoste dell' animo umano, utilizzando ogni risorsa. Come quando, appena nominato cappellano delle Officine ferroviarie di Porta a Prato, si trovò a fronteggiare uno sciopero contro la sua persona. « Via il prete» urlavano le maestranze che affollavano l'entrata dello stabilimento. L'indomani tornò, proponendo ai capi della contestazione una singolare sfida: «"Facciamo una corsa di qui all'infermeria" dissi. C'era un piazzale di quasi duecento metri. "Se qualcuno di voi arriva prima, non ritornerò più. Ma se vinco, rimango"». Erano un pugno di baldi giovani, di quelli abituati a giocare a calcio e scattarono subito in avanti. Dopo una cinquantina di metri, però, gli operai che erano assiepati lungo l'improvvisata pista, videro il pretino, che correva reggendosi la tonaca, superare tutti e vincere.
...e in bicicletta
Ma un' altra prova lo renderà famoso in tutta Italia: la corsa ciclistica fra Firenze e San Casciano, quaranta chilometri in tutto. Bartaliano di ferro, "don Cuba", dopo un'accesa discussione sportiva per le strade del quartiere, propose di risolvere la contesa sui pedali. E sicuro dei suoi mezzi, regalò un quarto d'ora di vantaggio agli avversari. Al traguardo arrivò in solitaria: un trionfo. Sulla Domenica del Corriere, Walter Molino immortalò la storia del "prete volante". «Il giorno dopo l'arcivescovo, cardinal Dalla Costa, mi chiamò in curia -ricorda -, temevo di finire nella parrocchia più lontana della diocesi». Ma il porporato lo ricevette col sorriso sulle labbra.
dell' Africa. Sei mesi in viaggio da una missione all'altra, celebrando messa in cima al Kilimangiaro. O come quella! volta che, insieme a De Francisci e altri 1 scalatori, arrivò in cima al Vajolet: «Mi fecero fare una discesa "a corda doppia", passando per una "finestra" -ricorda -un'avventura incredibile». .
Pescatori d'uomini
Insomma, un'umanità brillante e un temperamento baldanzoso, che certo rendevano più facile il suo ministero fra la gente. «il compito dei preti è semplicissimo -osserva -, basta lasciarsi fare dal Signore, lasciarsi portare da Lui e vivere con la semplicità di tutti gli uomini, in mezzo a loro». I sacerdoti secolari non possono fare gli eremiti, ripete spesso, e cita il cardinal Benelli: «Siamo preti di san Pietro: bisogna essere pescatori di uomini». Cappellano da più di quarant' anni dei penitenziari fiorentini, don Cubattoli ogni giorno getta le reti anche là. «Quando varco quei cancelli penso sempre che il Signore ha detto: "Ero in carcere..."- racconta -, e non ha detto affatto "Ero in carcere, innocente"». Qualcuno,in città, ogni tanto lo provoca: «Ma lei vedrebbe il Signore anche in Totò
Riina». La risposta non si fa mai attendere: nessuno smette mai di essere figlio di Dio. «Che cosa avrebbe dovuto fare Gesù con Zaccheo?» chiede di rimando. Scuote la testa, pensando come si stia facendo largo, negli ultimi tempi, un'immagine di Dio che giudica e castiga, quando, invece, «il Signore ama, recupera. Perdona ». La giustizia umana non è la nostra- avverte -, si è persa la memoria della parola misericordia». Anche tra i cristiani, a volte, sembra affermarsi quello che "don Cuba" chiama il «dio dei giudici».il motivo? «Non si crede che "somma giustizia" sia l'amore» risponde, ricordando che «anche quelli che hanno messo in croce Gesù credevano di fare "somma giustizia". E avevano perfettamente ragione, dal loro punto di vista» .lnsieme ai volontari guidati da Gita Vogel, una nobildonna svizzero- fiorentina, lavora da quarant'anni sul fronte dei giovani a rischio. Oggi è riuscito a metter su un piccolo ristorante che dà lavoro a un gruppo cospicuo. «L' educatore non può concepirsi in maniera distaccata, professionale -osserva '., deve vivere accanto ai ragazzi, avendo sempre lo sguardo fisso a quello che saranno domani, amando cioè il loro destino».
*è morto a Firenze il 2 dicembre del 2006
Postato da: giacabi a 15:22 |
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testimonianza
Spagna: un film sulla vita di un sacerdote, numero uno al botteghino
***
Sarà l’evento cinematografico dei prossimi mesi: un film in cui si parla bene di un giovane sacerdote, teologo ammirato e morto durante un’ascensione in montagna. L’anteprima del film è avvenuta nei giorni 18 e 19 giugno a Roma.
Sono circa 6.000 le persone che hanno già visto questo film di Juan Manuel Cotelo. Vista la massiccia risposta di pubblico, La última cima passerà, su richiesta popolare e in appena una settimana, ad essere proiettato in oltre cinquanta sale di tutto il Paese.
Sono decine i cinema che hanno deciso di togliere dalla programmazione i film in 3D per far posto a “La última cima”, l’unica pellicola che, cosa insolita, parla bene dei sacerdoti.
Il film è un emozionante documentario sul sacerdote madrileno Pablo Domínguez, morto nel 2009 in un incidente di montagna.
Domínguez, filosofo e teologo della Facoltà di Teologia di San Damaso a Madrid, è morto a 42 anni mentre scendeva dal Moncayo. Era l’ultima cima spagnola, di oltre 2.000 metri, che gli mancava. Ai suoi funerali hanno partecipato più di 3.000 persone e una ventina di Vescovi. Le sue Messe e le sue conferenze si riempivano di gente che desiderava ascoltare le sue parole.
Il film è il ritratto di un uomo allegro, umile e generoso che, come dice chi l’ha conosciuto, sapeva che sarebbe morto giovane.
Nel film di Cotelo offrono la propria testimonianza il Cardinal Cañizares, che lo scelse come docente alla San Damaso, il Vescovo Demetrio Fernández di Córdoba, suo amico e il primo a sapere della sua morte, e l’Arcivescovo di Oviedo, Jesús Sanz, allora Vescovo di Jaca e Huesca, che fece spesso visita al sacerdote scalatore.
Grazie alle testimonianze di persone sincere che parlano di Pablo, lo spettatore si affeziona a un sacerdote che alla fine muore. Il film inizia con umorismo e provocazione, e man mano che la morte si avvicina diventa più elevato nello stile e nel contenuto.
Il regista Juan Manuel Cotelo riferisce di essere uscito per strada con la sua telecamera e di aver scoperto che otto persone intervistate su dieci avevano una buona opinione dei sacerdoti.
Il successo nelle sale di questa pellicola è stato preceduto da un insolito boom su Internet. Nelle tre settimane precedenti l’uscita al cinema, il trailer è stato scaricato più di 200.000 volte. Nella sezione “Ho conosciuto Pablo” ci sono centinaia di commenti di gente che lo ricorda e si è emozionata condividendo le sue esperienze con questo sacerdote.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
da :ww.vietatoparlare.it
***
La vera vita di un prete conquista i botteghini
DI EMANUELA GENOVESE
Vale la pena. Così, in poche parole, potrebbe essere definito il risultato finale de La última cima , il film di Juan Manuel Cotelo presentato a Roma presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Uscito in Spagna in sole tre sale lo scorso 4 giugno, il film sulla vita di un sacerdote «normale» ha attirato così tanto gli spettatori che nella seconda settimana la casa di distribuzione ha aumentato le copie in circolazione, fino a raggiungere il numero di 73 cinema e conquistare il terzo posto nel box office come numero di spettatori per copia. Un successo straordinario (quasi 200mila euro incassati in data 20 giugno) per un documentario che racconta attraverso testimonianze e parole la vita di don Pablo Domínguez, un sacerdote di Madrid morto nel 2009, all’età di 42 anni, mentre scalava una montagna. E così il lavoro di Juan Manuel Cotelo, con un passato di regista televisivo, attore e documentarista, si trasforma in un vero e proprio film lontano dallo stile dell’inchiesta o del puro diario.
Juan Manuel Cotelo, come nasce il progetto?
Un mio amico mi aveva parlato di don Pablo, ma io mi ero sempre rifiutato di conoscerlo. Per me i sacerdoti sono come i medici. Data la sua insistenza decisi di filmare una sua conferenza a Madrid. Due giorni dopo scoprii, tramite il telegiornale, che era morto mentre scalava la montagna del Moncayo e che più di 3000 persone avevano partecipato al suo funerale. Mi venne in mente di regalare alla famiglia le immagini che avevo filmato, allegando un’intervista ad un suo amico. Le parole dell’intervistato mi lasciarono, però, perplesso e iniziai a intervistare tante altre persone per capire chi fosse davvero don Pablo. In poco tempo avevo tra le mani un materiale bellissimo: storie di donne e uomini che attraverso le parole e i gesti di don Pablo si erano avvicinati a Dio, ritrovando un senso nel dolore e recuperando la gioia di vivere.
Qual è la chiave del successo del film?
Lo spettatore esce contento dal cinema perché La última cima racconta l’allegria di un sacerdote normale e semplice, che non è stato un missionario né un esorcista, ma un uomo che è arrivato al cuore della gente e che ha spinto a vivere una vita piena di senso. Una persona che si è messa al servizio di chi stava al suo fianco, capace di non inserire mai il proprio io nelle conversazioni.
Come avete trasformato il materiale in un film?
Volevamo fare una pellicola che fosse come don Pablo: lui, dottore in Filosofia e Teologia che parlava quattro lingue, era un intellettuale che quando predicava era compreso da tutti, bambini e adulti. Oltre alle testimonianze di parenti e amici abbiamo inserito nel film interviste spontanee in mezzo alle vie di Madrid per capire cosa davvero pensa la gente del sacerdozio. Abbiamo posto loro tre semplici domande: 'Che cos’è un sacerdote? Quanti minuti della tua vita hai dedicato a parlare con un prete? Ti piacerebbe conoscere un buon sacerdote?'. La sorpresa è stata che in Spagna 7 persone su 10 apprezzano la figura del prete. A volte pensiamo che i contenuti dei giornali riflettano la società. Le nostre interviste spontanee nella Spagna di Zapatero dimostrano che non è vero.
da: www.avvenire.it 22-06-10
Postato da: giacabi a 14:51 |
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testimonianza
UN UOMO DI BUONA VOLONTA'
- "Quando sbagli chiedi scusa! Una buona scusa è formata da tre parti: "Mi dispiace"; "Era colpa mia", "Cosa posso fare per rimediare"? La maggior parte della gente salta la terza parte; è da questo che puoi capire chi è sincero".
- "L’esperienza è ciò che ottieni quando non sei riuscito a ottenere ciò che volevi".
- "Ogni ostacolo, ogni muro di mattoni, è lì per un motivo preciso. Non è lì per escluderci da qualcosa, ma per offrirci la possibilità di dimostrare in che misura ci teniamo. I muri di mattoni sono lì per fermare le persone che non hanno abbastanza voglia di superarlo. Sono lì per fermare gli altri".
- "Quando fai qualcosa di sbagliato e nessuno si prende la briga di dirtelo, significa che è meglio cambiare aria. Chi ti critica lo fa perché ti ama e ti ha a cuore".
- "Mi lamentavo con mia madre di quanto fosse difficile quell'esame all'università, e di quanto fosse spaventoso. Lei si inclinò verso di me, mi diede un buffetto sulle spalle e mi disse: «Sappiamo bene come ti senti, tesoro, ma ricorda, tuo padre alla tua età combatteva contro i tedeschi»".
- "Sto per morire e mi sto divertendo. E continuerò a divertirmi ogni giorno che ancora mi resta da vivere. Perché non c’è un altro modo per farlo".
- "Non perdete mai la capacità di stupirsi tipica dei bambini. È troppo importante. È quella a spingerci ad andare avanti, ad aiutare gli altri".
- "Ho una mia teoria sulle persone che provengono dalle famiglie numerose: sono persone migliori degli altri, perché hanno dovuto imparare come andare d’accordo con gli altri".
- "Non si può arrivare in cima da soli. Qualcuno deve aiutarti. Io credo nel karma. Credo che si riceve ciò che si è dato".
- "Non lamentatevi. Lavorate più duramente. Non cedete. L’oro migliore è quello che giace in fondo ai barili di merda".
- "Se vivrete nel modo giusto, il karma si prenderà cura di voi. I sogni verranno da sè".
- "La fortuna è quel momento in cui la preparazione incontra l’opportunità"
- "La fortuna ce la creiamo da soli, chi più sa più vale."
- "Impara ad aspettare tutto il tempo che serve e la gente ti sorprenderà davvero: quando si è davvero stufi marci o arrabbiati con qualcuno, significa solo che non si è concesso loro abbastanza tempo, dategliene e vedrete che quasi sempre vi stupiranno.
- "Io non ho incontrato persone che sono totalmente cattive, se aspetti a sufficienza ti mostreranno il loro lato buono, non puoi affrettare la cosa, ma puoi essere paziente."
-
Mostra sempre gratitudine
Postato da: giacabi a 22:28 |
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testimonianza
Io ex compagno vi dico: ho fatto troppo poco per aiutare i dissidenti
di Renzo Foa
ll comunismo è stato, per chi come me viveva in Occidente e beneficiava dei vantaggi della democrazia, l’errore che ha attraversato il Novecento e che si è via via consumato tra le conseguenze del ’56 ungherese e il 1989. I post-comunisti, per lo più, sono sfuggiti ai conti con la storia che hanno vissuto, hanno sostituito l’Utopia con qualche parola ancora pronunciabile come «socialismo» o con una parola incontestabile come «democrazia». In Italia si sono appigliati alla «diversità» del Pci, che ci fu se non altro perché la divisione di Yalta e la guerra mondiale ci lasciarono dalla parte giusta del mondo. Ma già negli anni Trenta il più importante degli «ex», o dei «rinnegati» come venivano definiti, cioè Arthur Koestler, scriveva che non c’era un solo comunista straniero il quale, andato in Russia, non dicesse poi un po’ schifato: «Noi faremo una cosa completamente differente».
Così l’Urss fu al tempo stesso il mito e l’anti-mito. C’erano comunismi - la declinazione al plurale è obbligatoria - che per sfuggire a Breznev si rifugiavano da Mao e da Fidel, qualcuno anche da Pol Pot, senza così sfuggire all’errore, ma illudendosi di farlo. C’erano comunismi per i quali l’apologia dell’uguaglianza faceva aggio sulla realtà dell’oppressione. C’erano comunismi che giustificavano, nel nome della somma zero, la Germania di Ulbricht e di Honecker con l’esistenza del potere di Franco in Spagna o di quello di Salazar in Portogallo. C’erano comunismi per i quali Dubcek era il simbolo della possibilità di un «comunismo buono», vittima di quello «cattivo».
E poi c’erano i grandi equivoci. Il «disgelo» di Krusciov consentì di archiviare comodamente Stalin. La guerra in Vietnam, uno sbaglio se non altro perché persa, esaltò il terzomondismo e l’antagonismo all’Occidente. Per restare in casa nostra, la «terza via» di Enrico Berlinguer fu l’ultimo alibi. Ecco, il post-comunismo è riuscito a sfuggire ai conti con il passato per queste piccole diversità, che hanno consentito di mettere in ombra l’errore. Al punto che solo oggi, anche molti di coloro che nel 1989 pensavano alla possibilità di una rifondazione, sono giunti a considerare improduttiva se non impronunciabile la parola stessa. Ma il problema è l’errore o sono queste diversità?
Il problema resta in primo luogo l’errore di aver convissuto con il totalitarismo, per di più vivendo nelle comodità di una democrazia. Chi ha rotto davvero con il comunismo non ha difficoltà a riconoscerlo. Un esempio? Se c’è qualcosa che non riesco a perdonarmi è di non aver capito venticinque-trent’anni fa che il sostegno ai dissidenti non poteva ridursi a qualche corsivo scritto in linguaggio diplomatico, ma avrebbe dovuto essere all’altezza del sacrificio a cui tante persone andavano incontro per minare alle fondamenta una struttura autoritaria. Che per essere davvero democratici in Italia bisognava sostenere fino in fondo i democratici perseguitati nell’Est.
Infine una domanda: chi inquina oggi di più? I nostalgici che non rinunciano al comunismo o coloro che comunisti sono stati e non hanno fatto fino in fondo i conti con il passato?
Postato da: giacabi a 21:01 |
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comunismo, testimonianza
Così vide morire il comunismo
***
Da:www.ilgiornale.it
di Renzo Foa
Renzo
Foa, scomparso un anno fa, ha vissuto per quarant’anni tutte le
passioni, le illusioni e le delusioni di un intellettuale comunista. Ha
seguito gli sviluppi storici del comunismo sia nella versione
terzo-mondista - Vietnam, Cambogia, Cuba - sia nella versione ortodossa -
Unione Sovietica ed Europa orientale.
Inviato in Vietnam nei primi anni Settanta come corrispondente
dell’Unità, ha visto successivamente lo scontro politico e militare tra
la Cina e lo stesso Vietnam, poi il genocidio compiuto da Pol Pot in
Cambogia, lo sfacelo culturale e sociale del maoismo, la crisi polacca
del 1980, il dissenso dei Paesi dell’Est, l’esito autoritario della
rivoluzione cubana, la caduta del Muro di Berlino e, ovunque, il
fallimento dell’economia collettivista. Ha assistito amaramente allo
sgretolarsi dei miti rivoluzionari degli anni ’60 e ’70, dimostratisi
per quelli che erano: mostruosi universi concentrazionari. Ha visto,
cioè, l’inesorabile scacco di ogni possibilità di riforma del comunismo e
l’inequivocabile emergere della sua vera natura dispotica e totalitaria
(Renzo Foa, Ho visto morire il comunismo, introduzione di Lucetta Scaraffia, Marsilio, pagg. 144, euro 15).di Renzo Foa
Sequenze, tutte, registrate da «vicino» perché Foa, figlio di Vittorio, uno dei padri della sinistra italiana, è stato dal 1982 al 1986 capo redattore del quotidiano comunista, poi vicedirettore, infine, nel biennio cruciale 1990-1992, direttore. Come redattore, vicedirettore e direttore dell’Unità, avuto modo di avvicinare e intervistare esponenti importanti del mondo e del dissenso comunista quali, ad esempio, Mikhail Gorbaciov e Alexander Dubcek; contemporaneamente ha cercato di favorire un rinnovamento della sinistra italiana e internazionale. Di fronte alla catastrofe del comunismo - che, del resto, aveva già dato in precedenza inequivocabili prove di sé ha dovuto alla fine arrendersi, constatando l’impossibilità di conciliare il comunismo con la democrazia.
Uscito da questo universo totalitario, negli anni Novanta ha lavorato al Giorno, al Diario, a Liberal e, dal 2001, anche al Giornale come editorialista. Il suo percorso rappresenta un notevole esempio di grande onestà politica e intellettuale, che testimonia lo sforzo di uscire da un mondo a cui era stato legato per quarant’anni. Un caso raro di autentico anticonformismo, considerando il clima che ancora oggi aleggia in buona parte della cultura italiana. Un tragitto che lo ha portato all’abbandono della fede e alla lucida denuncia del suo mito nefasto, pagando il prezzo della solitudine a fronte delle accuse di tradimento da parte di chi, con il tipico modo curialesco, ha continuato nella pervicace volontà di negare l’evidenza. Insomma quasi la ripetizione di un paradigma già sperimentato nel secondo dopoguerra con i casi di due celebri «traditori» e «rinnegati» del comunismo come Viktor Andrijovich Kravchenko e Arthur Koestler ai quali, non a caso, Foa dedica pagine significative.
Il distacco maggiore consumatosi tra Foa e il PCI si palesa soprattutto nella diversa analisi degli anni Ottanta, dalla quale emerge l’incomprensione da parte dei comunisti della presidenza Reagan. Si constata qui, nell’acuto saggio dedicato al presidente americano, il grave ritardo politico e culturale del comunismo italiano e internazionale che, mentre si perde nell’effimero progetto dell’eurocomunismo, non riesce né vuole comprendere la svolta epocale rappresentata dalla vittoria irreversibile del capitalismo sul comunismo e l’inevitabile sconfitta di quest’ultimo. Quegli anni Ottanta, cioè, che segnano non soltanto l’avvento al potere di Reagan, ma anche l’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla e ciò che questa elezione ha significato per la storia della Chiesa e del mondo. Emerge, proprio nelle pagine dedicate da Foa al decennio che porterà alla caduta del Muro, una caratteristica tipica dei comunisti italiani e, più in generale, della sinistra: l’incomprensione del mutamento storico che si manifesta sotto la forma contraddittoria, ma altamente rivelatrice di tutta una mentalità, della contemporanea sottovalutazione e demonizzazione dell’avversario (si pensi, ad esempio, all’odio contro Craxi).
Postato da: giacabi a 20:49 |
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comunismo, testimonianza
Padre Tolton,
lo schiavo che divenne sacerdote
Fu
il primo prete afro-americano della Chiesa cattolica negli Usa A
Chicago verso l’apertura dell’iter per il processo di beatificazionelo schiavo che divenne sacerdote
DI GIORGIO BERNARDELLI
I suoi genitori lavoravano come schiavi in una piantagione del Missouri; così sul registro di battesimo non figura nemmeno il suo nome, ma quello del padrone. E anche quando - anni dopo e a Guerra di secessione ormai finita - maturò la vocazione al sacerdozio, nel suo Paese non trovò un Seminario disposto ad accogliere un ragazzo nero. Solo a Roma, a Propaganda Fide, nel 1886 poté diventare padre Augustine Tolton, il primo prete afro-americano della Chiesa cattolica degli Stati Uniti. Una figura che presto potrebbe anche salire alla gloria degli altari.
L’arcivescovo di Chicago, il cardinale Francis George, ha infatti avviato le procedure per aprire la causa di beatificazione per padre Tolton. Una notizia accolta con gioia dalla comunità cattolica afro-americana. E che - per una coincidenza suggestiva - arriva proprio dalla metropoli di Barack Obama, il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti.
È davvero una vicenda singolare quella di padre Augustine. Nacque nel 1854 a Brush Creek, nel Missouri, uno degli Stati schiavisti. Quando scoppiò la guerra di secessione il padre scappò dalla piantagione per andare al fronte a combattere (e morire) con le truppe unioniste di Abramo Lincoln; la madre - insieme ad Augustine e ai due fratelli - attraversò invece il Mississippi per raggiungere Quincy, nell’Illinois dove la schiavitù era stata abolita. Eppure non sarebbe stata lo stesso facile la vita per Tolton: gli riservò il lavoro fin da piccolo nella fabbrica di sigari, i pregiudizi duri a morire. Ma anche l’incontro con un parroco che volle far studiare quel ragazzo. E la scoperta di quella vocazione, ancora «troppo ardita» per gli Stati Uniti del 1870.
Di fronte alle porte chiuse dei Seminari, però, i sacerdoti di Quincy non si arresero. Fino a ottenere l’ammissione del giovane Tolton al Collegio Urbano, il Seminario di Propaganda Fide, la congregazione missionaria a Roma. Qui il figlio degli ex-schiavi studiò per sei anni, convinto che sarebbe stato destinato a partire per l’Africa. E invece subito dopo l’ordinazione - avvenuta in San Giovanni in Laterano la notte di Pasqua del 1886 - arrivò il colpo di scena: con una scelta straordinariamente profetica per quei tempi il cardinale prefetto di Propaganda Fide Giovanni Simeoni lo rimandò nella sua diocesi dicendogli: «Se gli Stati Uniti non hanno ancora visto un prete nero è tempo che ne vedano uno».
Non fu, però, una missione facile per padre Tolton. A Quincy era stata aperta nel frattempo una chiesa per la pastorale dei neri a cui il novello sacerdote si dedicò con entusiasmo. Ma presto in città arrivò un nuovo parroco. E ricominciarono le incomprensioni di sempre: gli disse che lui avrebbe dovuto occuparsi solo dei parrocchiani di colore. Alla fine la situazione divenne talmente insostenibile da spingere padre Augustine a cambiare diocesi: la sua fama cominciava a diffondersi nella comunità afro-americana e così l’arcivescovo di Chicago lo volle nella grande città. Con lui la chiesa di Santa Monica diventò la «parrocchia nazionale dei neri ». Si spese senza riserve per i più poveri che già allora vivevano nei quartieri dormitorio delle periferie. E tra i suoi benefattori c’era anche Katharine Drexel, la figlia di un magnate che più tardi avrebbe lasciato le sue ricchezze per fondare la congregazione delle Suore del Santissimo Sacramento, al servizio degli ultimi. Padre Tolton morì a Chicago nel 1897, consumato dal suo ministero, a soli 43 anni. Volle essere comunque sepolto nel cimitero della parrocchia di Quincy. Là dove nella risposta al Signore che chiama, il figlio degli schiavi aveva trovato la libertà più grande.
da:www.avvenire.it giugno2010
Postato da: giacabi a 08:24 |
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testimonianza
PADOVESE «Noi cristiani in Turchia, testimoni senza parole»
***
07/06/2010 - Lunedì, nel Duomo di Milano, saranno celebrati i funerali del Vicario apostolico dell’Anatolia, assassinato a Iskenderun. In un intervento pubblicato da "Oasis", incoraggiava ad annunciare la fede. In ogni circostanza
Monsignor Padovese ai funerali di don Andrea Santoro.
Riproponiamo
l'intervento che monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico in
Anatolia (Turchia), ha tenuto alla seconda Assemblea Ecclesiale del
Patriarcato di Venezia. Basilica di San Marco, 11 ottobre 2009 (dal sito
del periodico Oasis)
Eminenza, cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per l'invito a questo incontro sul senso dell’essere testimoni di Cristo nella nostra società al termine del vostro cammino di riflessione su questo tema.
In questo particolare momento storico di Europa a molti cristiani, presumibilmente per una concezione individuale e intimistica di religione sulla quale si dovrebbe riflettere e nella quale la si vorrebbe relegare, risulta difficile confessare a parole la loro fede. V'è un diffuso timore nel trattare temi religiosi e manca il coraggio di affermare sia in pubblico che in privato la propria fede, spesso per scarsa formazione. Il che ci ricorda come sia necessaria una nuova grammatica della fede che significa anzitutto chiarire a se stessi perché e come essere cristiani, e poi chiarirlo e mostrarlo a chi non lo è. Penso che anche alla nostra realtà italiana si possa applicare quanto scriveva tempo fa il vescovo di Erfurt in Germania: «Alla nostra chiesa cattolica (in Germania) manca qualcosa. Non è il denaro. Non sono i credenti. Alla nostra Chiesa cattolica (in Germania) manca la convinzione di poter guadagnare nuovi cristiani... e quando si parIa di missione v'è l'idea che essa sia qualcosa per l'Africa o l'Asia, ma non per Amburgo, Monaco, Lipsia o Berlino».
Particolarmente oggi, in epoca di pluralismo, va ravvivata la consapevolezza che la testimonianza fonda e precede l'annuncio, anzi è il primo annuncio. È sempre vero che il primo passo nel diventare cristiani si fonda nell'incontro di uomini che vivono da cristiani convinti. Ci conforta in questa convinzione il metodo missionario che Francesco d'Assisi consigliava ai suoi frati «che non facciano liti e dispute... e confessino d'essere cristiani».
È in sintonia con questo modo di sentire quanto leggiamo nell'Evangelii nuntiandi, dove si parla della testimonianza senza parole che suscita domande in quanti vedono. Già questa - leggiamo - «è una proclamazione silenziosa ma molto forte ed efficace della buona novella… un gesto iniziale di evangelizzazione».
Questo modo di essere testimoni silenziosi è stato quello scelto da don Andrea Santoro, il mio sacerdote ucciso il 5 febbraio 2006 a Trebisonda. Quando la mattina successiva all'assassinio mi sono recato all'obitorio per vedere il cadavere, la prima impressione, del tutto spontanea, è stata la somiglianza tra il corpo nudo di don Andrea con il capo riverso e il segno del foro al fianco e l'immagine di Cristo morto del Mantegna. Non abbiamo mai saputo che cosa ha indotto il giovane assassino a questo atto di violenza. Dal processo è emersa la sua colpevolezza, ma delle connessioni, delle influenze, del clima di odio che ha determinato l'assassinio nulla sappiamo e, credo, non lo sapremo mai.
Don Andrea era venuto in Turchia affascinato da questa terra, dal suo passato, dal desiderio di essere un ponte tra islam e cristianesimo, ma pure tra Oriente ed Occidente. La piccola rivista che aveva creato con amici di Roma portava il titolo Finestra sull'Oriente. Ora questa finestra - grazie al suo martirio - s'è spalancata, e attraverso di essa la nostra situazione, prima conosciuta a pochi, ora è divenuta nota a molti. Con il sacrificio della sua vita don Andrea ha fatto veramente da ponte attraverso una testimonianza fatta di non molte parole, ma di una vita semplice, vissuta con fede.
Nell'email che m'ha inviato il 1° ottobre 2005, scriveva: «Abbiamo ripreso la nostra vita regolare, fatta di studio, di preghiera, di accoglienza, di cura del piccolo gregge, di apertura al mondo che ci circonda, di tessitura di piccoli legami, a volte facili, a volte difficili. Il Signore è la nostra fiducia, nonostante i nostri limiti e la nostra piccolezza. Io sono qui finché mi pare di poter essere utile e finché le circostanze lo consentono. Il Signore mostrerà le sue vie». Tre mesi dopo questa sua testimonianza, fatta nel piccolo, è emersa agli occhi di tutta la Chiesa mettendo in luce la nostra realtà cristiana di Turchia. Veramente si tratta ormai di ben poca cosa. Uno sguardo alla recente storia porta a riconoscere che parecchi cristiani tra quel 20% che agli inizi del Novecento costituivano la popolazione totale, a motivo delle discriminazioni e vessazioni sperimentate, hanno scelto - almeno formalmente - di rinunciare alla loro fede omologandosi ai musulmani, almeno sui documenti ufficiali. Altri - assai pochi e perlopiù al Sud del paese o nei grandi centri - hanno mantenuto la propria identità, ma a volte senza un reale approfondimento.
L'hanno conservata nel rispetto della tradizione come si conserva in casa un quadro antico di cui non si apprezza il valore. Lo si tiene perché fa parte dell'arredamento della casa, ma senza dargli il giusto rilievo, facendone una ragione di vita. D'altra parte, la situazione d'emarginazione in cui i cristiani sono stati isolati, la loro diminuzione numerica, la scarsità del clero e l'impossibilità di formare nuove leve, la totale scomparsa della vita monastica, hanno portato il cristianesimo ad un vistoso ridimensionamento e a perdita di visibilità.
Ultimamente proprio le tragiche morti di don Andrea, del giornalista armeno Hrant Dink, dei tre missionari protestanti di Malatia come altri episodi registrati dalla stampa locale e internazionale, hanno portato alla ribalta la realtà di un cristianesimo che in Turchia esiste ancora e reclama pieno diritto di cittadinanza volendo uscire dall’anonimato in cui è stato relegato. In questo impegno ha un suo peso, all’interno del paese, l'affermarsi di un islam tollerante rispetto alle religioni non islamiche. La stessa potente spinta che viene dall’Europa non è priva di effetti per le comunità cristiane di Turchia. Vorrei qui accennare all'interesse mostrato dalle autorità per le celebrazioni a Tarso dell'anno paolino. Eppure anche a questo riguardo la richiesta rivolta da più parti al governo turco di poter utilizzare la Chiesa/museo di Tarso, precedentemente confiscata dallo Stato, come luogo permanente di culto sta ancora attendendo una risposta. Se, come mi auguro, ci verrà concessa questa Chiesa, sarà per me il segnale che la Turchia non soltanto a parole, ma anche nei fatti, si sta aprendo ad un clima di libertà religiosa.
Non va comunque dimenticato che questo cammino è tutto in salita. Potrebbero confermarlo le numerose difficoltà che noi vescovi ci troviamo spesso ad affrontare. Penso anzitutto all'impossibilità di formare sacerdoti turchi che garantiscano un futuro a queste Chiesa per l'impossibilità di aprire seminari. E se noi cristiani latini che in Turchia come Chiesa non esistiamo possiamo sopperire a questo impedimento con personale che viene dall'estero, la cosa è più grave per le Chiese etnico religiose riconosciute dallo Stato i cui vescovi e preti devono essere cittadini turchi. Ma se queste Chiese non possono aprire seminari, quale futuro le attende se non una lenta, progressiva, estinzione? Un processo che si terrà nei prossimi mesi contro il metropolita siro ortodosso di Mor Gabriel riguarda proprio il fatto di avere tenuto nel suo monastero alcuni giovani seminaristi.
Se, come è avvenuto nei decenni passati, accettassimo come cristiani di non comparire, restando una presenza insignificante nel tessuto del paese, non ci sarebbero difficoltà, ma stiamo rendendoci conto che, come sta avvenendo in Palestina, in Libano e soprattutto in Iraq, è una strada senza ritorno che non fa giustizia alla storia cristiana di questi paesi nei quali il cristianesimo è nato e fiorito, e che non farebbe giustizia alle migliaia di martiri che in queste terre ci hanno lasciato in eredità la testimonianza del loro sangue.
Due settimane fa a Roma abbiamo avuto il primo incontro di preparazione del prossimo Sinodo delle Chiese orientali che si terrà dal 10 al 24 ottobre 2010. Attraverso la voce dei diversi patriarchi è stato toccante sentire quante difficoltà i cristiani d'Egitto, della Palestina, d'Israele, dell’Iran, dell'Iraq, della Turchia stanno ancora sperimentando. Viviamo per buona parte in un clima di discriminazioni che sta determinando la riduzione numerica dei cristiani da questi paesi se non addirittura la loro scomparsa. A noi il Papa ha proposto come tema del Sinodo "Comunione e testimonianza. Erano un cuor solo ed un’anima sola". In altre parole: essere uniti per essere testimoni. La scelta di questo tema non riguarda soltanto le nostre Chiese di Oriente che vivono in una situazione minoritaria e di confronto con il mondo islamico, ma si può applicare anche alle Chiese di Europa messe a confronto con una società pluralistica e dove è anche dalla comunione dei cristiani tra di loro che deve nascere la loro testimonianza. Come è stato osservato la Chiesa non ha una missione, non fa missione, ma è missione. E dunque va capita da essa. Se vuole rimanere Chiesa di Cristo, deve uscire da sé. In quanto - come dice il Concilio Vaticano II - è «sacramento universale di salvezza», essa è ordinata al Regno, è al suo servizio, esiste per proclamare il vangelo, e non soltanto oggi come misura d'emergenza in tempo di crisi, ma come costitutiva del suo essere. E il senso di tale impegno è di far si che un'esperienza divenuta messaggio torni ad essere esperienza.
«Noi parliamo di ciò che abbiamo visto ed udito», dichiara Giovanni (1 Gv 1,3). La missione dunque è testimonianza resa all'amore di Gesù Cristo e al volto di Dio da Lui rivelato. Da questo punto di vista essa non ha perso nulla della sua urgenza anche se s'impone un nuovo stile di missione meno ecclesiocentrico e meno interessato, come se Chiesa terrena e Regno di Dio coincidessero perfettamente. Si tratta di portare gli uomini a scoprire liberamente che il cammino di fede alla sequela di Gesù arricchisce la vita: va restituito al vangelo il carattere di vangelo, cioè di notizia che dà gioia, trasmettendo la visione che Gesù aveva del Regno, ma pronti a raccogliere anche delusioni. Non può essere altrimenti poiché la fede, in quanto espressione congiunta della grazie di Dio e della libera adesione umana, non si può imporre ma soltanto proporre.
Ed è qui che il ruolo della testimonianza diventa fondamentale anche perché, come diceva un Padre della Chiesa - «gli uomini si fidano più dei loro occhi che delle loro orecchie». Nello scrivere una lettera pastorale ai fedeli delle nostre Chiese in occasione dell'Anno paolino, noi vescovi di Turchia abbiamo rilevato come le difficoltà che Paolo ha sperimentato nell'annuncio del Vangelo non lo hanno frenato. Egli le ha intese piuttosto come il proprio contributo personale perché il Vangelo portasse effetto. Annunciare Gesù Cristo per l'Apostolo è stata una necessità che nasceva dall'amore per Lui. Ciò significa che chi incontra Cristo non può fare a meno di annunciarlo, sia con la vita che con le parole.
L'apostolo che ha sperimentato la difficoltà di queste annuncio, anche da parte dei fratelli di fede, ci ricorda come quello che conta è che Cristo «venga annunciato» (Fil 1,8), ma ci richiama pure alla nostra comune responsabilità nei confronti di quanti non sono cristiani. Lo abbiamo definito l'apostolo dell'identità cristiana, perché s'è strenuamente battuto affinché l'annuncio del vangelo non smarrisse la propria essenza e non si diluisse in forme sincretiste. Questa è stata la sua missione fin dall'inizio, sia nel prendere posizione contro rigurgiti di pensiero giudaizzante che vanificava l’azione salvifica di Cristo, ma pure contro la tentazione di dar vita ad un cristianesimo che non esigeva conversione. Egli - oggi come allora - ci ricorda che «cristiani non si nasce, ma si diventa» e ci richiama ad una realtà di Chiesa intesa anzitutto come il "noi" dei cristiani e non una realtà soprapersonale, un'istituzione in cui trovare mezzi di salvezza. Essa è solidarietà, scambio, comunicazione dall'uno all'altro, comunione fraterna, unanimità che prega, ambiente di conversione, partecipazione alla croce, comunità di testimoni. Questa è la prima testimonianza da offrire. «In essa - scriveva Metodio d'Olimpo - i migliori portano i mediocri e i santi i peccatori. Quanto a quelli che sono ancora imperfetti, che cominciano appena negli insegnamenti della salvezza, sono i più perfetti che li formano e li partoriscono, come attraverso una maternità». V'è dunque un servizio 'materno' della comunità cristiana e propriamente dei laici. Occorre prenderne sempre più coscienza e mi auguro che le mie poche parole di riflessione possano servire anche a questo.
Eminenza, cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per l'invito a questo incontro sul senso dell’essere testimoni di Cristo nella nostra società al termine del vostro cammino di riflessione su questo tema.
In questo particolare momento storico di Europa a molti cristiani, presumibilmente per una concezione individuale e intimistica di religione sulla quale si dovrebbe riflettere e nella quale la si vorrebbe relegare, risulta difficile confessare a parole la loro fede. V'è un diffuso timore nel trattare temi religiosi e manca il coraggio di affermare sia in pubblico che in privato la propria fede, spesso per scarsa formazione. Il che ci ricorda come sia necessaria una nuova grammatica della fede che significa anzitutto chiarire a se stessi perché e come essere cristiani, e poi chiarirlo e mostrarlo a chi non lo è. Penso che anche alla nostra realtà italiana si possa applicare quanto scriveva tempo fa il vescovo di Erfurt in Germania: «Alla nostra chiesa cattolica (in Germania) manca qualcosa. Non è il denaro. Non sono i credenti. Alla nostra Chiesa cattolica (in Germania) manca la convinzione di poter guadagnare nuovi cristiani... e quando si parIa di missione v'è l'idea che essa sia qualcosa per l'Africa o l'Asia, ma non per Amburgo, Monaco, Lipsia o Berlino».
Particolarmente oggi, in epoca di pluralismo, va ravvivata la consapevolezza che la testimonianza fonda e precede l'annuncio, anzi è il primo annuncio. È sempre vero che il primo passo nel diventare cristiani si fonda nell'incontro di uomini che vivono da cristiani convinti. Ci conforta in questa convinzione il metodo missionario che Francesco d'Assisi consigliava ai suoi frati «che non facciano liti e dispute... e confessino d'essere cristiani».
È in sintonia con questo modo di sentire quanto leggiamo nell'Evangelii nuntiandi, dove si parla della testimonianza senza parole che suscita domande in quanti vedono. Già questa - leggiamo - «è una proclamazione silenziosa ma molto forte ed efficace della buona novella… un gesto iniziale di evangelizzazione».
Questo modo di essere testimoni silenziosi è stato quello scelto da don Andrea Santoro, il mio sacerdote ucciso il 5 febbraio 2006 a Trebisonda. Quando la mattina successiva all'assassinio mi sono recato all'obitorio per vedere il cadavere, la prima impressione, del tutto spontanea, è stata la somiglianza tra il corpo nudo di don Andrea con il capo riverso e il segno del foro al fianco e l'immagine di Cristo morto del Mantegna. Non abbiamo mai saputo che cosa ha indotto il giovane assassino a questo atto di violenza. Dal processo è emersa la sua colpevolezza, ma delle connessioni, delle influenze, del clima di odio che ha determinato l'assassinio nulla sappiamo e, credo, non lo sapremo mai.
Don Andrea era venuto in Turchia affascinato da questa terra, dal suo passato, dal desiderio di essere un ponte tra islam e cristianesimo, ma pure tra Oriente ed Occidente. La piccola rivista che aveva creato con amici di Roma portava il titolo Finestra sull'Oriente. Ora questa finestra - grazie al suo martirio - s'è spalancata, e attraverso di essa la nostra situazione, prima conosciuta a pochi, ora è divenuta nota a molti. Con il sacrificio della sua vita don Andrea ha fatto veramente da ponte attraverso una testimonianza fatta di non molte parole, ma di una vita semplice, vissuta con fede.
Nell'email che m'ha inviato il 1° ottobre 2005, scriveva: «Abbiamo ripreso la nostra vita regolare, fatta di studio, di preghiera, di accoglienza, di cura del piccolo gregge, di apertura al mondo che ci circonda, di tessitura di piccoli legami, a volte facili, a volte difficili. Il Signore è la nostra fiducia, nonostante i nostri limiti e la nostra piccolezza. Io sono qui finché mi pare di poter essere utile e finché le circostanze lo consentono. Il Signore mostrerà le sue vie». Tre mesi dopo questa sua testimonianza, fatta nel piccolo, è emersa agli occhi di tutta la Chiesa mettendo in luce la nostra realtà cristiana di Turchia. Veramente si tratta ormai di ben poca cosa. Uno sguardo alla recente storia porta a riconoscere che parecchi cristiani tra quel 20% che agli inizi del Novecento costituivano la popolazione totale, a motivo delle discriminazioni e vessazioni sperimentate, hanno scelto - almeno formalmente - di rinunciare alla loro fede omologandosi ai musulmani, almeno sui documenti ufficiali. Altri - assai pochi e perlopiù al Sud del paese o nei grandi centri - hanno mantenuto la propria identità, ma a volte senza un reale approfondimento.
L'hanno conservata nel rispetto della tradizione come si conserva in casa un quadro antico di cui non si apprezza il valore. Lo si tiene perché fa parte dell'arredamento della casa, ma senza dargli il giusto rilievo, facendone una ragione di vita. D'altra parte, la situazione d'emarginazione in cui i cristiani sono stati isolati, la loro diminuzione numerica, la scarsità del clero e l'impossibilità di formare nuove leve, la totale scomparsa della vita monastica, hanno portato il cristianesimo ad un vistoso ridimensionamento e a perdita di visibilità.
Ultimamente proprio le tragiche morti di don Andrea, del giornalista armeno Hrant Dink, dei tre missionari protestanti di Malatia come altri episodi registrati dalla stampa locale e internazionale, hanno portato alla ribalta la realtà di un cristianesimo che in Turchia esiste ancora e reclama pieno diritto di cittadinanza volendo uscire dall’anonimato in cui è stato relegato. In questo impegno ha un suo peso, all’interno del paese, l'affermarsi di un islam tollerante rispetto alle religioni non islamiche. La stessa potente spinta che viene dall’Europa non è priva di effetti per le comunità cristiane di Turchia. Vorrei qui accennare all'interesse mostrato dalle autorità per le celebrazioni a Tarso dell'anno paolino. Eppure anche a questo riguardo la richiesta rivolta da più parti al governo turco di poter utilizzare la Chiesa/museo di Tarso, precedentemente confiscata dallo Stato, come luogo permanente di culto sta ancora attendendo una risposta. Se, come mi auguro, ci verrà concessa questa Chiesa, sarà per me il segnale che la Turchia non soltanto a parole, ma anche nei fatti, si sta aprendo ad un clima di libertà religiosa.
Non va comunque dimenticato che questo cammino è tutto in salita. Potrebbero confermarlo le numerose difficoltà che noi vescovi ci troviamo spesso ad affrontare. Penso anzitutto all'impossibilità di formare sacerdoti turchi che garantiscano un futuro a queste Chiesa per l'impossibilità di aprire seminari. E se noi cristiani latini che in Turchia come Chiesa non esistiamo possiamo sopperire a questo impedimento con personale che viene dall'estero, la cosa è più grave per le Chiese etnico religiose riconosciute dallo Stato i cui vescovi e preti devono essere cittadini turchi. Ma se queste Chiese non possono aprire seminari, quale futuro le attende se non una lenta, progressiva, estinzione? Un processo che si terrà nei prossimi mesi contro il metropolita siro ortodosso di Mor Gabriel riguarda proprio il fatto di avere tenuto nel suo monastero alcuni giovani seminaristi.
Se, come è avvenuto nei decenni passati, accettassimo come cristiani di non comparire, restando una presenza insignificante nel tessuto del paese, non ci sarebbero difficoltà, ma stiamo rendendoci conto che, come sta avvenendo in Palestina, in Libano e soprattutto in Iraq, è una strada senza ritorno che non fa giustizia alla storia cristiana di questi paesi nei quali il cristianesimo è nato e fiorito, e che non farebbe giustizia alle migliaia di martiri che in queste terre ci hanno lasciato in eredità la testimonianza del loro sangue.
Due settimane fa a Roma abbiamo avuto il primo incontro di preparazione del prossimo Sinodo delle Chiese orientali che si terrà dal 10 al 24 ottobre 2010. Attraverso la voce dei diversi patriarchi è stato toccante sentire quante difficoltà i cristiani d'Egitto, della Palestina, d'Israele, dell’Iran, dell'Iraq, della Turchia stanno ancora sperimentando. Viviamo per buona parte in un clima di discriminazioni che sta determinando la riduzione numerica dei cristiani da questi paesi se non addirittura la loro scomparsa. A noi il Papa ha proposto come tema del Sinodo "Comunione e testimonianza. Erano un cuor solo ed un’anima sola". In altre parole: essere uniti per essere testimoni. La scelta di questo tema non riguarda soltanto le nostre Chiese di Oriente che vivono in una situazione minoritaria e di confronto con il mondo islamico, ma si può applicare anche alle Chiese di Europa messe a confronto con una società pluralistica e dove è anche dalla comunione dei cristiani tra di loro che deve nascere la loro testimonianza. Come è stato osservato la Chiesa non ha una missione, non fa missione, ma è missione. E dunque va capita da essa. Se vuole rimanere Chiesa di Cristo, deve uscire da sé. In quanto - come dice il Concilio Vaticano II - è «sacramento universale di salvezza», essa è ordinata al Regno, è al suo servizio, esiste per proclamare il vangelo, e non soltanto oggi come misura d'emergenza in tempo di crisi, ma come costitutiva del suo essere. E il senso di tale impegno è di far si che un'esperienza divenuta messaggio torni ad essere esperienza.
«Noi parliamo di ciò che abbiamo visto ed udito», dichiara Giovanni (1 Gv 1,3). La missione dunque è testimonianza resa all'amore di Gesù Cristo e al volto di Dio da Lui rivelato. Da questo punto di vista essa non ha perso nulla della sua urgenza anche se s'impone un nuovo stile di missione meno ecclesiocentrico e meno interessato, come se Chiesa terrena e Regno di Dio coincidessero perfettamente. Si tratta di portare gli uomini a scoprire liberamente che il cammino di fede alla sequela di Gesù arricchisce la vita: va restituito al vangelo il carattere di vangelo, cioè di notizia che dà gioia, trasmettendo la visione che Gesù aveva del Regno, ma pronti a raccogliere anche delusioni. Non può essere altrimenti poiché la fede, in quanto espressione congiunta della grazie di Dio e della libera adesione umana, non si può imporre ma soltanto proporre.
Ed è qui che il ruolo della testimonianza diventa fondamentale anche perché, come diceva un Padre della Chiesa - «gli uomini si fidano più dei loro occhi che delle loro orecchie». Nello scrivere una lettera pastorale ai fedeli delle nostre Chiese in occasione dell'Anno paolino, noi vescovi di Turchia abbiamo rilevato come le difficoltà che Paolo ha sperimentato nell'annuncio del Vangelo non lo hanno frenato. Egli le ha intese piuttosto come il proprio contributo personale perché il Vangelo portasse effetto. Annunciare Gesù Cristo per l'Apostolo è stata una necessità che nasceva dall'amore per Lui. Ciò significa che chi incontra Cristo non può fare a meno di annunciarlo, sia con la vita che con le parole.
L'apostolo che ha sperimentato la difficoltà di queste annuncio, anche da parte dei fratelli di fede, ci ricorda come quello che conta è che Cristo «venga annunciato» (Fil 1,8), ma ci richiama pure alla nostra comune responsabilità nei confronti di quanti non sono cristiani. Lo abbiamo definito l'apostolo dell'identità cristiana, perché s'è strenuamente battuto affinché l'annuncio del vangelo non smarrisse la propria essenza e non si diluisse in forme sincretiste. Questa è stata la sua missione fin dall'inizio, sia nel prendere posizione contro rigurgiti di pensiero giudaizzante che vanificava l’azione salvifica di Cristo, ma pure contro la tentazione di dar vita ad un cristianesimo che non esigeva conversione. Egli - oggi come allora - ci ricorda che «cristiani non si nasce, ma si diventa» e ci richiama ad una realtà di Chiesa intesa anzitutto come il "noi" dei cristiani e non una realtà soprapersonale, un'istituzione in cui trovare mezzi di salvezza. Essa è solidarietà, scambio, comunicazione dall'uno all'altro, comunione fraterna, unanimità che prega, ambiente di conversione, partecipazione alla croce, comunità di testimoni. Questa è la prima testimonianza da offrire. «In essa - scriveva Metodio d'Olimpo - i migliori portano i mediocri e i santi i peccatori. Quanto a quelli che sono ancora imperfetti, che cominciano appena negli insegnamenti della salvezza, sono i più perfetti che li formano e li partoriscono, come attraverso una maternità». V'è dunque un servizio 'materno' della comunità cristiana e propriamente dei laici. Occorre prenderne sempre più coscienza e mi auguro che le mie poche parole di riflessione possano servire anche a questo.
Postato da: giacabi a 08:50 |
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islam, testimonianza
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da: http://giornoxgiorno.myblog.it/
Abbiamo trovato in rete, nel sito “Lavigerie des Missionaires d’Afrique” una riflessione inedita di Dom Christian de Chergé, dal titolo “Mystère de la Visitation”. Ve ne proponiamo la prima parte, lasciando la seconda per il giorno della Festa della Visitazione, il prossimo 31 Maggio. È questo per oggi il nostro
PENSIERO DEL GIORNOda: http://giornoxgiorno.myblog.it/
Abbiamo trovato in rete, nel sito “Lavigerie des Missionaires d’Afrique” una riflessione inedita di Dom Christian de Chergé, dal titolo “Mystère de la Visitation”. Ve ne proponiamo la prima parte, lasciando la seconda per il giorno della Festa della Visitazione, il prossimo 31 Maggio. È questo per oggi il nostro
Posso facilmente immaginare che noi ci troviamo nella situazione di Maria che va a trovare sua cugina Elisabetta e che porta in sé un segreto vivente, che è lo stesso che anche noi possiamo portare, una Buona Notizia vivente. Lei l’ha ricevuta da un angelo. È il suo segreto ed è anche il segreto di Dio. E lei non sa come fare per comunicare questo segreto. Riuscirà a dire qualcosa a Elisabetta? Può dirlo? Come dirlo? Come fare? Deve nasconderlo? Eppure, tutto trabocca in lei, ma lei non lo sa. In primo luogo è il segreto di Dio. E poi succede qualcosa di simile nel seno di Elisabetta. Anch’essa è gravida di un bambino. E ciò che Maria non sa a sufficienza, è il legame, il rapporto tra il bambino che porta lei e quello che porta Elisabetta. E le sarebbe più facile parlarne, se conoscesse questo legame. Ma, su questo punto specifico, sulla dipendenza reciproca tra i due bambini, lei non ha avuto alcuna rivelazione. Sa solo che esiste un legame, perché è il segno che le è stato dato: sua cugina Elisabetta. Ed è così della nostra Chiesa, che porta in sé una Buona Notizia – e la nostra Chiesa è ciascuno di noi – e noi siamo venuti un po’ come Maria, in primo luogo per prestare un servizio (che, in definitiva, è questa la sua maggior ambizione)... ma anche, portando questa Buona Notizia, come faremo a dirla... e noi sappiamo che coloro che siamo venuti a trovare, sono un po’ come Elisabetta, anch’essi portano un messaggio che viene da Dio. E la nostra Chiesa non ci dice, e neppure sa, quale sia il legame esatto tra la Buona Notizia che noi portiamo e questo messaggio che fa vivere l’altro. In definitiva, la mia Chiesa non mi dice qual è il legame tra Cristo e l’Islam. Ed io vado verso i musulmani senza sapere qual è questo legame. (Dom Christian de Chergé, Mystère de la Visitation).
***
Quando Maria arriva, ecco che è Elisabetta a parlare per prima. No, non è del tutto vero, perché Maria ha detto: As salam alaikum!
La pace sia con te! E questa è una cosa che noi possiamo fare. Questo
semplice saluto ha fatto vibrare qualcosa, qualcuno in Elisabetta. E in questa vibrazione, è stato detto qualcosa... che era la Buona Notizia, non
tutta la Buona Notizia, ma ciò che si poteva cogliere di essa in quel
momento. Per quale motivo il bambino che è in me ha sussultato? E,
verosimilmente, il bambino che era in Maria ha sussultato per primo.
Perché, in effetti, tutta la faccenda si è svolta tra i due bambini... E
Elisabetta ha dato il via al Magnificat di Maria. Per concludere, se
siamo attenti a situare a questo livello il nostro incontro con l’altro,
con la preoccupazione e la volontà di raggiungerlo, e anche con il
bisogno di ciò che è e di ciò che ha da dirci, verosimilmente dirà
qualcosa che raggiungerà ciò che noi portiamo, mostrando che è
connivente... e permettendoci di espandere la nostra Eucaristia, perché
in ultima analisi il Magnificat che possiamo, che ci è dato di cantare, è
l’Eucaristia. La prima Eucaristia della Chiesa è stato il Magnificat di
Maria. Ciò significa il bisogno che abbiamo dell’altro per fare Eucaristia: “per voi e per molti...” .
Tutte le religioni hanno una missione nel mondo e sono al servizio di
tutti. Come comunicare la missione di Maria? Con quali parole? L’incontro
è al cuore di questa missione. Noi siamo portatori di pace. Alle nozze
di Cana la funzione della Chiesa è di nuovo chiaramente mostrata da
Maria. Maria dà alla Chiesa l’immagine della sua missione. (Dom Christian de Chergé, Mystère de la Visitation).Dom Christian de Chergé, priore del monastero di Notre Dame de l'Atlas (Tibherin, Algeria)
I Trappisti del monastero di Notre Dame de l'Atlas in Tibherin (Algeria) avevano consacrato la loro vita al dialogo con l'Islam ed avevano deciso di continuare a restare nel loro monastero anche se situato nella regione montuosa di Medea, che era ad alto rischio. Dom Christian de Chergé, priore del monastero, aveva scritto: "La nostra condizione di monaci 1 ci lega alla scelta che Dio ha fatto di noi, che è per la preghiera e per la vita semplice, il lavoro manuale, l'accoglienza e la condivisione con tutti, soprattutto i poveri...". I Monaci, rapiti da terroristi armati la notte fra il 26 e il 27 marzo 1996, furono uccisi il 21 maggio 1996.
Ma quand'é che la Chiesa li proclamerà beati questi martiri?
Postato da: giacabi a 21:28 |
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islam, testimonianza
RICORDO/ Methol Ferré: l’anti Che Guevara
che leggeva Del Noce e si batteva per il Sudamerica
mercoledì 2 dicembre 2009
Con la morte di Alberto Methol Ferré l’America Latina perde uno dei suoi intellettuali più fecondi per produzione e originalità quanto a pensiero. E tanti perdono un amico.
Al
capezzale di Methol Ferré, nelle ore dell’estremo commiato, sono
passati amici di vecchia data e giovani, persone accomunate da lunghe
militanze e altre che di militanze non ne avevano alcuna. Spesso i
convenuti non si conoscevano tra di loro. Li univa la stima per il
morente, un composto in cui confluiva l’ammirazione per la sua
prorompente umanità, il rispetto per il pensatore, la soggezione – nel
caso dei più giovani - per la statura intellettuale dell’infermo. Sono
passati anche politici uruguayani, valga citare per tutti il probabile
futuro presidente José Mujica. Le parole che ci si scambiava nel
corridoio della clinica di Montevideo dove Methol Ferré ha trascorso le
ultime ore testimoniavano una ricchezza di lascito che è sì
intellettuale, di analisi, di pensiero e visione, ma anche umana. Uno
dei presenti ha affermato né più né meno che Methol Ferré gli aveva
salvato la vita. Poi, con più prodigalità è andato con il
ricordo ad un articolo scritto da Methol Ferrè nel 1968 che aveva mosso
le acque in Uruguay. Ernesto Che Guevara era stato assassinato da poco
in Bolivia (1967). Methol Ferré percepisce con chiarezza il fallimento
del progetto insurrezionale. La parabola del leader guerrigliero e la
sua fine, rappresentavano, ai suoi occhi, il prevalere di una politica
di morte e la morte di ogni politica. Nel presente l’esito nefasto:
spianare la strada alla dittatura militare. Sviluppa così una critica
impietosa della teoria del “foco” rivoluzionario che affida alle pagine
della rivista Vispera.
Molti uruguayani, anche amici suoi andarono incontro alla morte. E c’è
chi si è fermato sulla soglia del disastro, come in questi giorni si
sono fermati in tanti sulla soglia di una stanza di ospedale.
Tutta
la vita di Methol Ferré è trascorsa in Uruguay, in una casa sul porto
di Montevideo, divisa tra cattedre universitarie e corsi per diplomatici
nell’Istituto Artigas del Ministero degli esteri della
Repubblica Orientale. Lui diceva scherzosamente, ma rivelando tutta
l’ampiezza d’orizzonte della sua attenzione, che l’Uruguay era il suo
quartiere, il punto delle intimità, il luogo della quotidianità, e
l’America Latina la sua terra. È stato per tutta la vita un uomo di
porto, e i porti – si sa - sono crocevia di genti, aprono orizzonti. In
Argentina Methol Ferré era di casa. Anche qui conferenze e corsi in
quantità. Per anni, di casa, lo è stato in tutta l’America Latina,
chiamato a divulgare la sua visione del passato e del presente del
continente indifferentemente nelle accademie e nei circoli, in ambiti
ecclesiali o politici.
Methol
Ferré ha sviluppato un’interpretazione sistematica dell’America Latina
moderna, quella, cioè risultante dall’incontro con l’Europa spagnola e
l’occidente, e dell’America Latina contemporanea, sorta dalla formazione
degli stati indipendenti, fino alla nascita del Mercosud, uno dei temi
privilegiati della sua riflessione. Il suo è stato un approccio storico
al passato ma non storicista. Non
è un caso che il russo Nikolaj Berdiaev sia tra le sue fonti di più
riconosciuta influenza, come Ortega y Gasset, lo spagnolo Unamuno, il
tedesco Scheler, a cui deve l’incontro con la grande tradizione
cristiana e le sue parole chiave, e, ultima influenza sulla sua maturità
intellettuale, il filosofo italiano Augusto Del Noce.
Methol
Ferré aveva la singolare capacità di riconoscere i dinamismi profondi
della storia, quei movimenti che si producono nel sottosuolo e che
giungono alla superficie assumendo forme non contingenti. Affrontava le
vicende che cadevano di volta in volta sotto la luce dei riflettori
dell’attualità sfrondandole dagli orpelli, dagli aspetti decorativi, e
afferrava e sviluppava da subito, sin dalle prime battute oratorie, i
nuclei generatori. In questo senso non appartiene alla vasta schiera dei
ripetitori, sia pure acuti e colti. Prendeva visione e assimilava una
mole enorme di materiali per sintetizzarli e riproporli in grandi
visioni geopolitiche. Chi volesse avere un assaggio, nient’altro che un
assaggio, di questa sua genialità può leggere, tra l’enorme massa di
materiale che scorre in sudamerica e a lui attribuibile, il libro
L’America Latina del secolo XXI, probabilmente l’estrema fatica dei suoi
ultimi anni.
Le
due grandi passioni della vita di Methol Ferré sono state la Chiesa e
l’unità dell’America Latina. La Chiesa la conobbe in età adulta.
Parlando di sé si è definito “un convertito dell’ultima ora”, e ha detto
di sentirsi tale ancora oggi. Un giorno ha ricordato di non aver mai
sentito parlare, nella casa dei genitori, di nulla che avesse a che fare
con la Chiesa né di aver ricevuto formazione religiosa alcuna. La
“scoperta” del cattolicesimo la data alla fine degli anni cinquanta, con
le opere di Gilbert G. Chesterton, l’autore a cui lega la conversione
vera e propria: «Ho capito da lui che l’esistenza è un dono, come la
salvezza e la fede; che si è cristiani per gratitudine». Una gratitudine
che era fonte di buonumore, allegria, e positivo sguardo sulla vita.
«Da quando ho scoperto che la Chiesa è una realtà di uomini lieti,
sessant’anni fa, la vita mi sembra sempre una novità sostanziale» ha
detto una volta all’interno di un informale circolo di amici.
La
passione per l’unità, l’altra grande passione, ha segnato buona parte
della sua vita pubblica. Tanti gli studi su quella generazione di
antesignani dell’integrazione, la generazione del ‘900, che a suo
giudizio aveva intrapreso il passaggio da una visione nazionalista a una
latinoamericanista. I Vasconcelos, Rodó, García Calderón, Ugarte,
Blanco Fombona, Pereira. Sono i primi a capire che per sopravvivere
l’America Latina deve realizzare qualcosa di analogo a quanto attuato
dagli Stati Uniti d’America, però a partire da se stessa, dalla propria
originalità cattolica, non come imitazione di un processo alieno.
L’integrazione, per Methol Ferrè, obbediva anch’essa ad una logica
profonda della realtà latinoamericana, che le battute d’arresto, i
momenti di involuzione, non avevano la forza di smentire. Nel passato
recente, individuava due principali ondate favorevoli all’integrazione.
La prima che risaliva agli anni ’60 e si prolungava sino agli inizi del
1970, la seconda che aveva preso forza attorno al 1985 ed arrivava fino
ai nostri giorni, con il consolidamento del Mercosur e il sorgere della
“Comunità sudamericana delle nazioni”. Considerava, con grande realismo,
che l’unificazione dell’America Latina poteva obbedire a tre tipologie
diverse: quella di un continente unificato a partire dagli interessi
degli Stati Uniti, da un’egemonia del Brasile o da un centro
rappresentato da un’equilibrata unificazione di Brasile e Argentina.
Accennavamo
alla gran mole di materiali di sua paternità che circola in America
Latina. È un altro aspetto singolare della personalità di Methol Ferré.
Gli articoli, una volta messi su carta, le conferenze, dopo essere state
pronunciate, i testi, una volta consegnati al committente, per lui
erano come altrettante bottiglie lanciate in mare. Le si affida alle
acque e lì restano, in balia dei marosi, sballottate a destra e a manca
come foglie secche. Fedele a questa convinzione, non ha mai compilato
delle raccolte, non si è dato da fare per ottenere la pubblicazione di
testi; le riedizioni esulavano completamente dalle sue preoccupazioni.
Della pubblicazione dei suoi scritti – articoli, quaderni e finanche
libri – se ne avvedeva se qualcuno glieli mostrava o gliene parlava.
Quando la bottiglia, insomma, aveva raggiunto un qualche porto ed il
contenuto era stato portato a contatto con l’aria di mare. Adesso
migliaia di bottiglie galleggiano sulle acque. Lui ha raggiunto il
porto.
da:www.sussidiario.net
Postato da: giacabi a 07:54 |
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testimonianza
Il sovietico francescano
Così l’uomo che rinunciò al suo arsenale nucleare per la pace si è inginocchiato davanti al santo che lasciò le armi per servire Dio. I frati di Assisi raccontano la visita a sorpresa di Michail Gorbaciov
Inginocchiato davanti alla tomba di san Francesco, il più povero tra i poveri, c’è un uomo che fu tra i più potenti del mondo, l’ultimo imperatore dell’Unione Sovietica, l’ultimo segretario del Partito comunista dell’Urss, dello Stato dove il socialismo reale per sessant’anni ha abolito ogni educazione religiosa, l’uomo che ha avuto a sua disposizione immensi arsenali atomici e poi ha imboccato la strada che ha portato al crollo dell’impero comunista, alla caduta del Muro di Berlino, agli sconvolgimenti che hanno cambiato la vita di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. E ora è lì, umile e anonimo pellegrino: Michail Gorbaciov.
La donna accanto a lui è la figlia. Gli altri uomini sono anonimi amici che lo hanno accompagnato in questi viaggio. Nessuno sa di quella visita. Il frate lituano, emozionato, chiama i suoi superiori, il custode del Sacro Convento, padre Vincenzo Coli e padre Enzo Fortunato. «Mi ha colpito quel modo di pregare – racconta padre Miroslavo – intenso e raccolto, tipico del mondo orientale. Ma mai e poi mai avrei immaginato di trovarmi davanti Gorbaciov».
L’ex presidente sovietico parla con i frati per ore. Non tutto si può dire di quell’incontro, ovviamente, e non tutto ci è stato raccontato, perché i religiosi vogliono e sanno custodire le confidenze di un uomo. «Ci ha raccontato che si è avvicinato da tempo alla fede – dice padre Coli – attraverso la figura di san Francesco. Lui, da sempre ateo, ha iniziato un cammino, un percorso spirituale dopo aver scoperto la forza della religione cristiana guardando la figura del Poverello. E quando morì la moglie Raissa volle per lei i funerali religiosi». Una forza operava da tempo, dunque, nel cuore di Michail Gorbaciov, e qualcosa o Qualcuno lo ha chiamato all’inizio della Settimana Santa a questo misterioso appuntamento nella basilica di Assisi. Lui, cittadino di quella Russia dove tanto il comunismo imperante quanto l’ortodossia hanno sempre visto con estremo sospetto il cattolicesimo, fino ad impedire, a tutt’oggi, quella visita del Papa a Mosca che è rimasto il sogno irrealizzato di Giovanni Paolo II.
Sappiamo che Michail Gorbaciov ha trascorso l’intero pomeriggio con i frati del convento: «Una tappa significativa in un cammino profondo», dice a Tempi padre Fortunato, che, almeno per ora, non vuol pronunciare la parola “conversione”. Un cammino personalissimo che va rispettato con il dovuto silenzio ma anche un segno che stupisce per la profondità di quanto ha detto l’ex leader sovietico ai frati attoniti per quello che sentivano: «Francesco per me è l’alter Christus, l’altro Cristo. Il mio avvicinamento alla fede è stata una scoperta progressiva, dovuta proprio a san Francesco». Poi, insieme ai padri francescani, è salito nella Basilica Superiore, ha guardato a lungo un quadro che, ha detto, «sento particolarmente vicino». L’icona del Sogno delle armi di Spoleto, quando Francesco, sul punto di arruolarsi per andare a combattere i Mori, mentre dorme sogna un palazzo pieno di uomini armati e vede Cristo che gli chiede: «Vuoi servire il servo o il padrone?». Lui, Gorbaciov, che fu tra padroni del mondo, che fu signore delle armi più potenti che si siano viste sulle Terra, la sua scelta sembra averla fatta. In un giorno, in un’ora, in un momento a noi vicino del tempo e della storia.
Reagan e le parole della Madonna
Così, qui ad Assisi, davanti a quella tomba dove si sono inginocchiati altri potenti del mondo, assumono un diverso e più alto significato tanti eventi, scelte e parole pronunciate negli anni passati dal presidente sovietico. Quando si assunse la responsabilità di avviare quel processo di cambiamento che ancora non è terminato («La Russia ha davanti ancora un lungo percorso sulla strada della democrazia, dell’unificazione e della giustizia sociale», ha detto ai frati Gorbaciov, che poi ha anche discusso della possibilità di una visita del Papa e della sofferta divisione tra ortodossi e cattolici in Russia). Forse si svela ora la fonte vera di quel coraggio che gli è stato dato per cominciare a cambiare la storia, al di là di molte, sia pur legittime, letture politiche e sociali.
C’è un altro piccolo fatto, molto poco noto, che vale la pena di raccontare così come ce lo ha riferito Marja Pavlovic, una delle veggenti di Medjugorie che ora vive in Italia. Nel 1987, pochi giorni prima della storica firma del trattato tra Reagan e Gorbaciov sulla riduzione degli armamenti nucleari, l’accordo che avviò la caduta della Cortina di ferro, la ragazza incontrò davanti alla sua casa, in quel paesino della Bosnia, una coppia di americani. Erano venuti a pregare per la loro figlia, affetta dalla sindrome di Down. Pioveva a dirotto, erano bagnati fradici e Marja li invitò a bere un tè. Quando l’uomo le raccontò che era uno dei consiglieri militari del presidente americano e che si trovava in Europa per preparare l’incontro con i sovietici, Marja, sia pur po’ intimorita, pensò di consegnare al diplomatico una lettera per Reagan, in cui riferiva i messaggi della Madonna, che nelle apparizioni invitava a pregare per la pace. Dopo la firma del trattato le arrivò una telefonata a casa. «Qui è la Casa Bianca…». «Va a prendere in giro qualcun altro», rispose la ragazza, e mise giù la cornetta. Altro squillo, e Marja riconobbe la voce dell’americano che aveva incontrato: «Guarda che è proprio vero, volevo solo dirti che quando ha firmato il trattato il presidente Reagan aveva con sé la tua lettera e l’ha mostrata a Gorbaciov». Qualche giorno dopo, un’altra telefonata. Era l’ambasciata russa a Belgrado: «Il presidente Gorbaciov vorrebbe una copia dei messaggi della Madonna». Anche la Provvidenza ha la sua par condicio…
Forse non è estraneo questo piccolo episodio a quanto è avvenuto dopo, e forse Gorbaciov, in questi giorni il cui il nuovo Signore della Russia, Putin, mette in discussione il disarmo, si è ricordato della potenza della preghiera. Di quell’arma più grande delle sue atomiche che gli è stata consegnata vent’anni fa da una ragazzina bosniaca. Ed è andato a deporla davanti all’uomo che per primo lasciò le sue armi per servire il Vero Signore, e non più i servi.
Postato da: giacabi a 19:15 |
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comunismo, testimonianza
Johnny Cash, il rock
che cantava la fede
che cantava la fede
Personal Jesus
Personal Jesus - Depeche Mode
"Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who cares
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who's there
Feeling unknown
And you're all alone
Flesh and bone
By the telephone
Lift up the receiver
I'll make you a believer
Take second best
Put me to the test
Things on your chest
You need to confess
I will deliver
You know I'm a forgiver
Reach out and touch faith
Reach out and touch faith
Your own personal Jesus...
Feeling unknown
And you're all alone
Flesh and bone
By the telephone
Lift up the receiver
I'll make you a believer
I will deliver
You know I'm a forgiver
Reach out and touch faith
Your own personal Jesus
Reach out and touch faith"
Traduzione
Gesù personale
"Il tuo Gesù personale
Qualcuno che ascolti le tue preghiere
Qualcuno a cui importi di te
Il tuo Gesù personale
Qualcuno che ascolti le tue preghiere
Qualcuno che sia lì
Ti senti sconosciuto
E sei tutto solo
Carne e ossa
Vicino al telefono
Solleva la cornetta
Farò di te un credente
Prendi la seconda scelta
Mettimi alla prova
Cose nel tuo petto
Che hai bisogno di confessare
Io gliele porterò
Sai che io sono una che perdona
Allunga la mano e tocca la fede
Allunga la mano e tocca la fede
Il tuo Gesù personale…
Ti senti sconosciuto
E sei tutto solo
Carne e ossa
Vicino al telefono
Solleva la cornetta
Farò di te un credente
Io ti porterò
Sai che io sono una che perdona
Allunga la mano e tocca la fede
Il tuo Gesù personale
Allunga la mano e tocca la fede"
Ci
sono artisti che arrivano ad usare i valori come maschera: per ottenere
maggiore successo. E poi ci sono quelli come Johnny Cash. Non un santo,
certo. Uno che ha conosciuto la prigione ed ha rischiato la morte di
overdose: ma pure uno che, ad un certo punto della sua vita, ha colto di
essa un possibile Senso con la maiuscola, e delle sue canzoni sugli
ultimi ha iniziato a fare dolenti, commossi inni all’uomo. Innestati
nella propria fede in un Dio che all’uomo dà orizzonti e speranze.
Quando si parla di Johnny Cash, scomparso nel 2003 per complicazioni del diabete (ma fors’anche perché provato dalla morte della moglie June pochi mesi prima), si parla di un personaggio che va oltre gli stereotipi. Quelli del rock che sfiorava, quelli del blues che interpretava magistralmente, quelli che ne hanno fatto personaggio anche televisivo. Prima perché anticonformista anche in senso retrivo e poi «solo» perché scomodo; ma quasi mai indagando a fondo il perché di quel suo scomodo cantare l’uomo e Dio. Sono quindi importanti, le occasioni per esplorare uno come Johnny Cash, specie di questi tempi. Anche in «prodotti» come un dvd e un libro, che seguono di poco il suo album postumo Ain’t no grave, ulteriore e toccante testimonianza di arte intrisa di fede e umanità. Certo, poi bisognerà, dal dvd e dal libro, passare ad ascoltarlo, Cash: ma questi due «prodotti» spingono a farlo.
Il dvd, Singing at his best, presenta 17 rare apparizioni di Cash in tv. A cantare Cristo, i dolori della gente comune, l’amore in senso alto. Non a fare il «personaggio». E il libro, The man in black - Testi commentati, edito da Arcana, beh, è un ritratto fuori dagli schemi redatto facendo arguta selezione di ciò che conta di più, nella storia di Cash. Il giovane cantante country che viene educato al rispetto della terra ed a credere che c’è Qualcuno che la terra governa, e da cui bisogna saper accettare anche faccende come le alluvioni. Quello che torna nelle carceri a cantare e, pur potendone fare solo evento discografico, diviene portavoce dei reietti, interpretandone pentimenti e disagi.
Quello che canta l’America discostandosi dal «sogno» per sottolineare anche ingiustizie e tragedie. Quello che, sì, diviene «Man in black», «personaggio», ma «per i poveri» e «per quelli che non hanno mai letto le parole di Gesù». Quello che si confessa in pubblico gridando che nella fede ha trovato un senso. Quello che ritrova il successo con i dischi di American Recordings, azzerando ogni residuo rischio di predicare o speculare sulla sua storia di disastri e riscatto.
E per chi Cash non lo conoscesse, forse una spinta in più per riflettere sul suo mondo viene dagli autori del libro di cui si parla. Valter e Francesco Binaghi, un padre e un figlio. Un padre che ha conosciuto la droga, lo scrive, e rilancia: narrando Cash per testimoniare ai giovani che si possono vincere, i demoni della modernità. E un figlio pazzo dell’heavy metal che scopre Cash, e capisce che la musica può essere anche altro. Un padre e un figlio che chiudono il loro lavoro segnalando come l’eredità di Cash per l’uomo del Duemila sia «voce, chitarra e fede». «Bagaglio leggero», scrivono. E quanto scomodo, oggi. Eppure, senza la fede, la voce di Cash non sarebbe stata la stessa: ed avremmo un esempio in meno di quanto, volendo, anche una chitarra può aiutare a vivere.
da:www.avvenire.it 23.05.2010
Quando si parla di Johnny Cash, scomparso nel 2003 per complicazioni del diabete (ma fors’anche perché provato dalla morte della moglie June pochi mesi prima), si parla di un personaggio che va oltre gli stereotipi. Quelli del rock che sfiorava, quelli del blues che interpretava magistralmente, quelli che ne hanno fatto personaggio anche televisivo. Prima perché anticonformista anche in senso retrivo e poi «solo» perché scomodo; ma quasi mai indagando a fondo il perché di quel suo scomodo cantare l’uomo e Dio. Sono quindi importanti, le occasioni per esplorare uno come Johnny Cash, specie di questi tempi. Anche in «prodotti» come un dvd e un libro, che seguono di poco il suo album postumo Ain’t no grave, ulteriore e toccante testimonianza di arte intrisa di fede e umanità. Certo, poi bisognerà, dal dvd e dal libro, passare ad ascoltarlo, Cash: ma questi due «prodotti» spingono a farlo.
Il dvd, Singing at his best, presenta 17 rare apparizioni di Cash in tv. A cantare Cristo, i dolori della gente comune, l’amore in senso alto. Non a fare il «personaggio». E il libro, The man in black - Testi commentati, edito da Arcana, beh, è un ritratto fuori dagli schemi redatto facendo arguta selezione di ciò che conta di più, nella storia di Cash. Il giovane cantante country che viene educato al rispetto della terra ed a credere che c’è Qualcuno che la terra governa, e da cui bisogna saper accettare anche faccende come le alluvioni. Quello che torna nelle carceri a cantare e, pur potendone fare solo evento discografico, diviene portavoce dei reietti, interpretandone pentimenti e disagi.
Quello che canta l’America discostandosi dal «sogno» per sottolineare anche ingiustizie e tragedie. Quello che, sì, diviene «Man in black», «personaggio», ma «per i poveri» e «per quelli che non hanno mai letto le parole di Gesù». Quello che si confessa in pubblico gridando che nella fede ha trovato un senso. Quello che ritrova il successo con i dischi di American Recordings, azzerando ogni residuo rischio di predicare o speculare sulla sua storia di disastri e riscatto.
E per chi Cash non lo conoscesse, forse una spinta in più per riflettere sul suo mondo viene dagli autori del libro di cui si parla. Valter e Francesco Binaghi, un padre e un figlio. Un padre che ha conosciuto la droga, lo scrive, e rilancia: narrando Cash per testimoniare ai giovani che si possono vincere, i demoni della modernità. E un figlio pazzo dell’heavy metal che scopre Cash, e capisce che la musica può essere anche altro. Un padre e un figlio che chiudono il loro lavoro segnalando come l’eredità di Cash per l’uomo del Duemila sia «voce, chitarra e fede». «Bagaglio leggero», scrivono. E quanto scomodo, oggi. Eppure, senza la fede, la voce di Cash non sarebbe stata la stessa: ed avremmo un esempio in meno di quanto, volendo, anche una chitarra può aiutare a vivere.
da:www.avvenire.it 23.05.2010
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