La mimosa
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Ogni anno, mentre scopro che Febbraio
E' sensitivo e, per pudore, torbido,
Con minuto fiorire, gialla irrompe
La mimosa. S'inquadra alla finestra
Di quella mia dimora d'una volta,
Di questa dove passo gli anni vecchi.
Mentre arrivo vicino al gran silenzio,
Segno sara' che niuna cosa muore
Se ne ritorna sempre l'apparenza?
O sapro' finalmente che la morte
Regno non ha che sopra l'apparenza?
Giuseppe Ungaretti, da "Ultimi cori per la Terra Promessa, 9", Il taccuino del vecchio, 1960
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Postato da: giacabi a 21:09 |
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ungaretti
PIETA'
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Sono un uomo ferito.
E me ne vorrei andare
E finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
L'uomo che è dolo con sé.
Non ho che superbia e bontà.
E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.
Ma per essi sto in pena.
Non sarei degno di tornare in me?
Ho popolato di nomi il silenzio.
Ho fatto a pezzi cuore e mente
Per cadere in servitù di parole?
Regno sopra fantasmi.
O figlie secche,
Anima portata qua e là...
No, odio il vento e la sua voce
Di bestia immemorabile.
Dio, coloro che t'implorano
Non ti conoscono più che di nome?
M'hai discacciato dalla vita.
Mi discaccerai dalla morte?
Forse l'uomo è anche indegno di sperare.
Anche la fonte del rimorso è secca?
Il peccato che importa,
Se alla purezza non conduce più.
La carne si ricorda appena
che una volta fu forte.
E' folle e usata, l'anima.
Dio, guarda la nostra debolezza.
Vorremmo una certezza.
Di noi nemmeno più ridi?
E compiangici dunque, crudeltà.
Non ne posso più di stare murato
Nel desiderio senza amore.
Una traccia mostraci di giustizia.
La tua legge qual è?
Fulmina le mie povere emozioni,
Liberami dall'inquietudine.
Sono stanco di urlare senza voce..
G. Ungaretti Da: "Il sentimento del tempo"
Grazie a : Billacorgan
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Postato da: giacabi a 21:28 |
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ungaretti
Stella, mia unica stella
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Stella,
mia unica stella.
Nella povertà della notte, sola,
Per me, solo, rifulgi,
Nella mia solitudine rifulgi,
Ma, per me, Stella
Che mai non finirai d'illuminare
Un tempo ti è concesso troppo breve,
Mi elargisci una luce Che la disperazione in me Non fa che acuire.
G. Ungaretti |
Postato da: giacabi a 21:21 |
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ungaretti
La miseria dell’uomo
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L’uomo monotono universo
vede allargarsi i beni
e dalle sue mani febbrili
non escono senza fine che limiti.
Attaccato nel vuoto
al suo filo di ragno,
non teme e non seduce
se non il proprio grido.
(G.Ungaretti)
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Postato da: giacabi a 20:44 |
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ungaretti
Il senso religioso
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Dannazione
Chiuso tra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà) perché bramo Dio?
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G. Ungaretti |
Postato da: giacabi a 20:25 |
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ungaretti, senso religioso
MADRE
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E il cuore quando d'un ultimo battito avrà fatto cadere il muro d'ombra per condurmi, Madre, sino al Signore, come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all'eterno, come già ti vedeva quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
G.Ungaretti La madre 1930
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Postato da: giacabi a 06:55 |
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ungaretti
LA PREGHIERA (1928)
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Come dolce prima dell'uomo
Doveva andare il mondo.
L'uomo ne cavò beffe di demòni,
La sua lussuria disse cielo,
La sua illusione decretò creatrice,
Suppose immortale il momento.
La vita gli è peso enorme
Come liggiù quell'ale d'ape morta
Alla formicola che la trascina.
Da ciò che dura a ciò che passa,
Signore, sogno fermo,
Fa' che torni a correre un patto.
Oh! rasserena questi figli.
Fa' che l'uomo torni a sentire
Che, uomo, fino a te salisti
Per l'infinita sofferenza.
Sii la misura, sii il mistero.
Purificante amore,
Fa' ancora che sia scala di riscatto
La carne ingannatrice.
Vorrei di nuovo udirti dire
Che in te finalmente annullate
Le anime s'uniranno
E lassù formeranno,
Eterna umanità,
Il tuo sonno felice.
Giuseppe Ungaretti
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Postato da: giacabi a 12:28 |
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preghiere, ungaretti
La solitudine
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Pensavo
oggi, guardando questo cielo piovigginoso, che se, per un'improbabile
grazia, si fosse d'improvviso alzato l'azzurro, non sarei stato colto da
stupore nè da speranza. Anche la nostalgia ha finito di persuadermi. Ho
varcato tutti gli stadi dove l'uomo può ancora trovarsi una ragione di
vivere. Gli alti cieli delle notti chiare, se mai ancora dovessero
scoprirsi per me, avrebbero un significato di commiato. Non sai -e chi
saprà? - quest'infelicità di sentirsi abbandonato? abbandonato anche
dalle cose, anche dalla terra, anche dal mistero delle stagioni.
Non
avere prossimo; si potrebbe popolare il mondo di confidenti immaginari,
ma non essere cresciuto in alcuna terra; ma non portare in nessun luogo
l'aria familiare dell'origine, ma vagare sempre in esilio.
Mi sono creato un paese di cristallo, perchè fatalmente dovessi accorgermi, da qualsiasi. punto, che non era naturale.
E non si può vivere a lungo di queste allucinazioni ideali.
La
vita è una dura disputa mossa da guai concreti, e ci vuole un terreno
nel quale attecchire, e ci vuole il caldo che maturi e odori, e ci vuole
la sera, che inondi di malinconia e la mattina che rinfreschi e
rassereni.
Non ho che strade, strade e strade: il grigio perfido di questo cammino senza conclusione.
(G. Ungaretti, Lettera a Prezzolini e Soffici, Parigi 23-4-1920) 21
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Postato da: giacabi a 19:44 |
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solitudine, ungaretti
Ungaretti e Dio
di Roberto Filippetti
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Vita
di un uomo: questo il titolo - tanto elementare quanto impegnativo -
che Ungaretti ha scelto per la propria opera omnia. Vuole dunque
presentarcela - scrive Giachery - «come opera che condensa il senso
della vita, come opera-vita. In una accezione perciò quasi dantesca e
tutt'altro che dannunziana». Ed è il poeta a confermarcelo: «Non conosco
sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta». È
un'esperienza di privazione quella che egli ha alle spalle, quando
l'incontriamo, ventottenne soldato sul fronte carsico, e lo vediamo
deporre sulla pagina quelle folgoranti invenzioni poetiche: nasce in
terra straniera, figlio di un contadino lucchese emigrato ad Alessandria
d'Egitto per lo scavo del Canale di Suez; presto, all'età di due anni,
perde il padre; la madre lo educa entro uno scrupoloso ricordo di
quell'evento luttuoso: ogni settimana si andava «al camposanto, dove
passavamo ore in preghiera che dovevo seguire, che dovevo accompagnare».
Quando da adolescente abbandona la religione, percepita come rituale
moralismo, pare privarsi anche del rispetto al Padre, a
quell'Origine-Destino che dà senso alla vita. Ma in ciò non è
tranquillo.
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«Il porto sepolto»
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Scrivere,
tra il '15 e il '16, per Ungaretti è allora dantescamente scendere a
sorprendere le proprie esigenze ed evidenze originali: è una «via in
giù» verso Il porto sepolto - titolo del suo primo volume di versi. È
una discesa verso la sub-stantia, la verità essenziale che dimora sotto
la superficie delle cose. Giù in profondità, nel cuore, l'uomo si scopre
carico di domande ineludibili. Domanda di identità, di avere un volto,
innanzitutto. In memoria: «Si chiamava/ Mohammed Scead/ Discendente/ di
emiri di nomadi/ suicida/ perché non aveva più/ Patria».
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L'amico
afro-libanese, compagno di studi ad Alessandria, compagno d'albergo a
Parigi, qui in un giorno d'estate del '13 si toglie la vita: colui che
aveva avuto un'identità, delle radici, una sorgente da cui discendeva il
fiume della sua vita, giunge ora all'autodistruzione. Si è privato
dell'essenziale, di quel patrimonio di tradizioni offerto alla personale
verifica:
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Ungaretti,
figlio d'emigrati, sta invece compiendo il cammino inverso. La lirica I
fiumi - a cui il poeta ha esplicitamente affidato il compito di
sintetizzare la sua prima stagione - descrive un viaggio alle radici, un
iniziale ritrovamento della propria identità, attraverso i luoghi della
storia di quella «gens» che l'ha generato, e attraverso le tappe della
propria vita. Il Serchio - emblema della bimillenaria tradizione
contadina dei suoi antenati poi il Nilo e
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Non
la strada, ma il fiume simboleggia il viaggio della vita: se la strada è
sempre in Ungaretti «gomitolo», «groviglio», «cammino senza
conclusione», il fiume è invece via certa al destino; è apparentemente
un segmento concluso tra sorgente e foce, ma sostanzialmente cerchio -
ciclo dell'acqua che dalla foce torna a rigenerare continuamente la
sorgente - proprio come la vita umana è in superficie parabola tagliata
ai due estremi da nascita a morte, ma in profondità si rivela un cerchio
che in un punto totalmente Altro, assoluto (Dio-Cielo) trova il suo
luogo di ricongiungimento. L'intuizione di tale mistero è preparata
nelle prime strofe de I fiumi da una disposizione contemplativa -
necessaria passività di fronte al dato della realtà -: pacificante
stupore di chi alza gli occhi sul cielo («e guardo/ il passaggio quieto/
delle nuvole sulla luna»); refrigerante immersione catartica nell'acqua
dell'Isonzo. La correlata attività umana è allora umile accoglienza
dell'Altro, «inchinarsi dinnanzi all'infinitamente grande» (Dostoevskij)
e «ricevere»: - e come un beduino/ mi sono chinato a ricevere/ il
sole». Si tratta - commenta Carlo Ossola - «di un cerimoniale d'ingresso
nel tempio dell'assoluto che prosegue con i modi della liturgia araba».
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«Sono una creatura»
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È
nell'intuizione di quel Tu che si inaugura una nuova conoscenza
dell'Io, «scoperta» dirà Ungaretti «della condizione umana nella sua
essenza»: «Questo è l'Isonzo/ e qui meglio/ mi sono riconosciuto/ una
docile fibra/ dell'universo». A riconoscimento della propria indole più
vera, la dipendenza. Se «il senso religioso coincide con quel senso di
originale, totale dipendenza, che è l'evidenza più grande e suggestiva
per l'uomo di tutti i tempi» (Luigi Giussani), tale è il contenuto
dell'autocoscienza del poeta che, pochi giorni prima aveva scritto Sono
una creatura e, in Destino, si era definito «fibra creata». Quel Tu è
però senza faccia, dunque la nuova consapevolezza di sé è ancora
precaria: «il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia/ Ma
quelle occulte/ mani/ che m'intridono/ mi regalano/ la rara/ felicità»:
se il supplizio ,è l'esito di una percezione disarmonica dell'io, la
felicità è esperienza di rari attimi in cui il poeta riconosce di non
farsi da sé, scopre il dono («Mi regalano») di essere plasmato da Altro.
Il fil rouge della lirica è il dimostrativo «questo» che riconduce
all'hic et nunc tutti i dispersi frammenti spazio-temporali; solo una
volta compare l'antitetico «quelle», per connotare l'abissale lontananza
di quelle arcane «mani» senza volto: «sono» annota il poeta «le mani
eterne che foggiano assidue il destino di ogni essere vivente»; sono le
mani di un Dio che non può essere ancora nominato (conosciuto) ma è già
intuito come scaturigine del proprio istante presente.
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In
tale apertura sul mistero sta il vertice della ragione. Ciò
inesorabilmente evolve in esplicita domanda. Fra i rari punti
interrogativi, cinque in tutto, che si incontrano nel libro L'allegria,
due esprimono l'urgenza di un senso per il dolore e per la precarietà
della vita (Destino e Fratelli), due si affacciano su Dio. In Risvegli,
alla fine di una strofa pacatamente contemplativa, l'appagamento
naturalistico si sgretola nell'impatto con una evidenza: il poeta,
rammentandosi «di qualche amico/morto» (forse Mohammed Scead) è
costretto a paragonarsi con la realtà del limite ultimo della vita, ed a
porsi improvvisa la domanda: «Ma Dio cos'è?».
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Dello
stesso giorno un'altra, brevissima lirica, Dannazione: «Chiuso fra cose
mortali/ (anche il cielo stellato finirà)/ perché bramo Dio?». L'io
registra il naturale destino di morte della propria imprigionata
esistenza: è circondato da una realtà peritura, sia che si guardi
attorno, sia che alzi gli occhi verso il firmamento. Ma quest'uomo - il
livello della natura in cui anche il «cielo stellato» prende coscienza
della propria precarietà - non si chiude disperatamente nel negativo;
sente invece urgere dentro prepotente la domanda di Dio. Il limite
cosmico rimanda all'infinito, l'inconsistenza del reale, analogicamente,
grida il bisogno di un Centro in cui tutto consista.
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L'analogia,
fondamentale cifra stilistica ungarettiana, più in profondità cela una
visione del mondo: tutto rimanda anà, oltre sé, più su. Perché c'è
nell'uomo un quid, quel qualcosa che Pirandello negli stessi anni
chiamava un «superfluo», qualcosa che scorre al di sopra, cioè più su.
La meta di tale tensione non è ancora una Presenza, è «un Dio metafisico
il cui pensiero può lenire l'angoscia di trovarsi tra cose dannate
all'imperfezione e al peccato», come scrive Pasolini, che poi conclude
«nell'Allegria un Dio ignoto («Dio cos'è?») aspetta il poeta
silenziosamente».
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Questo
libro è sigillato da Preghiera, un testo che, con la sua apertura sulla
palingenesi finale, col suo rivolgersi a Dio come «Signore» già prelude
all'evento che sta per accadere: la conversione. Lentamente maturata
nell'impatto con l'arte di Michelangelo, con l'architettura della città
di Roma, con la lettura di Pascal, si compie però attraverso un preciso
incontro: Francesco Vignanelli «anche lui prima incredulo poi
convertitosi» come attesta Leone Piccioni, è ora monaco benedettino. Su
suo invito Ungaretti passa
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«Signore, sogno fermo»
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Sono
domande accorate che rimandano all'altro grande Inno del '28: La
preghiera. Stigmatizzati gli idoli che l'uomo s'è costruito («la sua
lussuria disse cielo/ la sua illusione decretò creatrice/ suppose
immortale il momento») e a causa dei quali «La vita gli è di peso
enorme», il poeta si rivolge al «Signore, sogno fermo». Nella preghiera
chiede che l'alleanza tra Dio e l'uomo, tra eterno ed effimero, torni ad
essere un'evidenza; che l'uomo riconosca l'Incarnazione e
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Ma
forse culturalmente decisiva è questa invocazione al Signore: «Sii la
misura, sii il mistero»: contro i vari umanesimi atei che hanno
idolatrato e «ridotto» la ragione, decretato la morte di Dio e posto
l'uomo come misura di tutte le cose (e gli esiti nefasti sono sotto i
nostri occhi), Ungaretti ripropone l'umanesimo cristiano: la dignità
umana solo se misurata sul paradigma del mistero di Dio incarnato è
adeguatamente fondata. Il tema viene svolto nel terzo grande libro, Il
dolore.
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«Cristo astro incarnato»
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Dopo
la perdita del fratello, poi del figlio Antonietto, è la tragedia della
Seconda guerra mondiale a ispirare versi memorabili, nel '43-
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La
storia appare come «notte», una lunga notte «turbata», «straziata»,
«sconvolta» eppure non disperata perché ha ospitato una luminosa
Presenza. «Cristo, pensoso palpito/ Astro incarnato nell'umane tenebre».
Egli continua ad immolarsi «perennemente per riedificare/ umanamente
l'uomo», per ridargli una dimora, una possibilità di costruzione.
Evidente si fa la radice culturale della violenza, «ora che nelle fosse/
con fantasia ritorta/ e mani spudorate/ dalle fattezze umane l'uomo
lacera/ l'immagine divina»: entro un orizzonte materialistico, ridotta a
brandelli la creaturalità dell'uomo, fatto a immagine e somiglianza del
Creatore, la dignità personale non è più adeguatamente fondabile.
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Lucidamente
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A
Mio fiume anche tu fa seguito Accadrà?: un inno alla Chiesa, «patria»
dell'autocoscienza comunionale. Evacuarla, protestantizzare il
cattolicesimo, privatizzare la fede è l'inizio della fine. Il profetico
ammonimento ungarettiano - datato 1933 - si pone come attualissima
sfida: «Quando il Cristianesimo si tarla e la sua funzione religiosa
tende a diventare un affare privato come con
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