COMUNISMO/ Quel prete polacco, amico di Wojtyla, che diede la vita per l'unità della Chiesa
lunedì 22 marzo 2010
«Il
frutto più bello di questo movimento sono i suoi aderenti, migliaia di
giovani pieni di entusiasmo, pronti a dare la propria vita per il
Vangelo»: così un periodico tedesco sintetizzava nel 1978 l’esperienza
del movimento polacco Luce-Vita fondato da don Franciszek Blachnicki (1921-1987).
Nato in Slesia nel 1921, Franciszek partecipa alla resistenza antinazista. Arrestato dalla Gestapo nel ‘40, è internato ad Auschwitz e successivamente condannato a morte, pena poi commutata in 10 anni di carcere.
Nato in Slesia nel 1921, Franciszek partecipa alla resistenza antinazista. Arrestato dalla Gestapo nel ‘40, è internato ad Auschwitz e successivamente condannato a morte, pena poi commutata in 10 anni di carcere.
È in questo duro periodo che sceglie di consacrarsi totalmente a Dio. Dopo la liberazione, mentre la Polonia finisce nell’orbita sovietica, Franciszek entra nel seminario di Cracovia e viene ordinato nel 1950. Il novello sacerdote riceve l’incarico di organizzare i ritiri spirituali per i bambini della diocesi di Katowice, un’esperienza che gli suggerisce l’idea delle «oasi», esercizi estivi rivolti soprattutto agli studenti. Le Oasi, che la propaganda statale definisce «gruppi chiusi dediti all’indottrinamento», contribuiscono ad approfondire e riprendere l’esperienza religiosa fra i giovani disorientati dall’ateismo militante.
Nel ‘57 don Blachnicki lancia la «crociata per l’astinenza» contro il fumo e l’alcolismo. La crescente popolarità delle sue iniziative allarma le autorità: nel ‘60 viene arrestato e incarcerato per un anno. Stabilìtosi a Kroscienko, nel ‘63 rilancia le Oasi, e così il paesino sui monti Tatra diventa la sede del nascente movimento Luce-Vita (1976), che unisce la fedeltà alla tradizione culturale e religiosa polacca alla chiarezza metodologica ed educativa, incentrata sui momenti di convivenza, e contribuisce a superare la paura e la diffidenza tipiche delle società totalitarie.
Come
ricordava uno studioso, «fu uno dei metodi più significativi di
formazione giovanile negli anni ‘70 e ‘80, basato sull’esperienza della
fede personale strettamente legata a quella comunitaria, e con
l’Eucarestia al centro della vita». Dal ‘64 al ‘72 Blachnicki insegna
all’Università Cattolica di Lublino, dove è molto stimato per i suoi
studi di teologia pastorale secondo le indicazioni del Concilio. Nei
primi anni ‘70 avviene l’incontro con don Giussani: «Nel corso
dell’incontro - racconterà il fondatore di CL in un’intervista nell’81 -
ho recepito due parole per me molto importanti: Chiesa e Comunione.
Ricordo che ci siamo alzati ed abbracciati: avevamo molto in comune...
Luce e Vita, che indicano il simbolo cristiano: Cristo è la luce che
porta la via».
Nel giugno ‘73 Blachnicki invita a Kroscienko don Giussani, in occasione dell’atto di affidamento di Luce-Vita alla Madonna, alla presenza del cardinal Wojtyla, che da papa ricorderà: «Come vescovo presi parte a quell’esperienza, e lo feci con tutto il cuore. Molte volte andavo, insieme con don Blachnicki, a trovare i gruppi delle Oasi che facevano i ritiri in vari luoghi dell’arcidiocesi… Tutti sapevano che il cardinale di Cracovia era con loro, che li appoggiava, li sosteneva e che era pronto a difenderli in caso di pericolo».
Nel giugno ‘73 Blachnicki invita a Kroscienko don Giussani, in occasione dell’atto di affidamento di Luce-Vita alla Madonna, alla presenza del cardinal Wojtyla, che da papa ricorderà: «Come vescovo presi parte a quell’esperienza, e lo feci con tutto il cuore. Molte volte andavo, insieme con don Blachnicki, a trovare i gruppi delle Oasi che facevano i ritiri in vari luoghi dell’arcidiocesi… Tutti sapevano che il cardinale di Cracovia era con loro, che li appoggiava, li sosteneva e che era pronto a difenderli in caso di pericolo».
La polizia infatti non sta a guardare. Irritata persino dalle croci erette dai giovani sui monti di Slesia, sorveglia e ostacola l’attività di Luce-Vita con una serie di provvedimenti amministrativi. Ciononostante il movimento cresce: dal migliaio di partecipanti agli esercizi estivi del ‘70, nel ‘75 sono già 14mila, 30mila nel ‘78. Nel dicembre ‘81, nei giorni drammatici dell’introduzione dello stato di guerra in Polonia, Blachnicki si trova all’estero. Decide di fermarsi in Germania, a Carslberg, dove c’è una comunità di esuli polacchi, e da dove continua a coordinare il suo movimento. Qui fonda anche il «Servizio cristiano di liberazione dei popoli», che intende riunire gli esuli dei paesi centro-europei contro la dittatura comunista.
Per
le autorità polacche è una spina nel fianco. Su di lui pende già un
mandato di cattura, e per sorvegliarlo inviano in Germania i coniugi
Gomtarczyk, agenti esperti già infiltrati in Solidarnosc. «Alla
fine dell’84 - si legge nel rapporto di un loro superiore - i due
agenti si prodigavano nel lavoro per don Blachnicki, diventando suoi
stretti collaboratori... Sfruttando le divergenze fra gli attivisti
anticomunisti dell’emigrazione, assumevano infine la gestione
dell’organizzazione». Agli inizi dell’87 però vengono scoperti. Dai documenti raccolti dall’Istituto polacco per la memoria nazionale, risulta che il 26 febbraio don Franciszek ha un’accesa discussione con i due. Il giorno dopo, misteriosamente, muore.
La coppia rientra in Polonia l’anno dopo, prima che nel loro
appartamento faccia irruzione il controspionaggio tedesco-occidentale.
Nel ‘95 viene aperto il processo di beatificazione di questo «costruttore del Regno di Dio», che – come disse papa Wojtyla – se ne impadroniva evangelicamente con la forza. Riportiamo un passo di una sua riflessione quaresimale: «Cristo va al fondo del cuore umano, ne conosce tutti i peccati, ma questo non lo scoraggia. Come si rivolse alla Samaritana, così si muove verso tutti, perché tutti sono peccatori. Cristo ci porta un dono. Non guarda ai nostri peccati, non si domanda se siamo degni o indegni, non chiede conto dei nostri meriti».
Nel ‘95 viene aperto il processo di beatificazione di questo «costruttore del Regno di Dio», che – come disse papa Wojtyla – se ne impadroniva evangelicamente con la forza. Riportiamo un passo di una sua riflessione quaresimale: «Cristo va al fondo del cuore umano, ne conosce tutti i peccati, ma questo non lo scoraggia. Come si rivolse alla Samaritana, così si muove verso tutti, perché tutti sono peccatori. Cristo ci porta un dono. Non guarda ai nostri peccati, non si domanda se siamo degni o indegni, non chiede conto dei nostri meriti».
«Il dono è qualcosa di immeritato… Quello che Gesù porta alla Samaritana e a tutti noi è la nuova religione della verità e dello Spirito. Il cristianesimo non è una magia, non sono riti da compiere in questa vita per evitare le sciagure. Il cristianesimo non è la litania dei comandamenti da osservare per non essere condannati, non sono le medagliette, gli scapolari o i santini - strumenti utili, ma che non possono rappresentare il contenuto e l’essenza del cristianesimo. Il cristianesimo… è l’incontro con il Dio vivo, che in Gesù Cristo si dona a noi, e che è dunque amore».
da: www.ilsussidiario.net
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comunismo, testimonianza
GIACOMO MARGOTTI uno sconosciuto?
***
***
No ! Fu il TENACE SACERDOTE artefice del motto "nè eletti nè elettori" (il "non expedit" di Pio IX)
Fu il fondatore di "ARMONIA", accusato da Cavour di abusare delle "armi spirituali"
E' l’autore delle “Memorie per la storia dei nostri tempi”
per gentile concessione
di Giacomo Razzetti
curatore del sito
CATTOLICI NELLA SOCIETA'
di Giacomo Razzetti
curatore del sito
CATTOLICI NELLA SOCIETA'
Don Giacomo Margotti nasce l'11 maggio 1823, si laurea in studi filosofici e diviene seminarista a Ventimiglia; nel 1845 ottiene il dottorato presso l'università di Genova.Nel 1848, insieme al Vescovo di Ivrea Moreno, il Professor Audisio ed il Marchese Birago, fonda a Torino il quotidiano "L'Armonia", di cui è la vera anima e brillante direttore; tanto brillante da suscitare il duro disappunto della Torino sabauda: senza troppi complimenti si tenta di sopraffarlo con sequestri, multe, chiusure coatte ed ogni genere di vessazione (tra cui un tentato omicidio contro la sua persona nel 1856), fino alla definitiva chiusura del quotidiano, ordinata da Cavour nel 1859.Ma il tenace sacerdote non si dà per vinto e riesce a spuntarla nuovamente, prima dalle colonne de "Il Piemonte", poi nuovamente dal ristabilito "L'Armonia" che, per volere del Beato Pio IX, viene rinominato "L'Unità Cattolica", nel giorno di Natale del 1863. Foglio, più moderato, ma non meno intransigente, che dal 1870 al 1929 uscì (a Firenze) listato a lutto per la condizione in cui si era venuto a trovare il papa dopo la fine del potere temporale.Fu il principale artefice del motto "nè eletti nè elettori" (del 1864, successivamente rielaborato dal Beato Pio IX nel principio del "non expedit"), naturale evoluzione dell'atteggiamento di totale chiusura del parlamento sabaudo, che addirittura annullò la sua trionfale elezione alla Camera del 1857 per il curioso reato di "abuso di armi spirituali", neologismo politico dello scaltro Cavour che non aveva certo bisogno di una opposizione intelligente che fosse ostile alla sua linea anti-clericale (ed estese tale provvedimento aberrante ed anti-liberale ad una ventina di sacerdoti neo-eletti).Dei suoi numerosi scritti, di cui ci perviene quasi niente ma che comunque bastano a tracciare lunghe ombre di dubbi sull'operato di alcuni pater patriae, voglio ricordare il monumentale "Memorie per la storia dei nostri tempi" (in 6 volumi, del 1863), assolutamente introvabile anche nelle biblioteche nazionali (e ciò, mi si consenta, allunga ulteriormente le succitate ombre), di cui chi scrive sta faticosamente ricostruendo l'iter storico, nella speranza di poterlo poi ripubblicare in serie limitata; poi anche "Considerazioni sulla separazione dello Stato dalla Chiesa in Piemonte" (1855); "Le vittorie della Chiesa nei primi anni del Pontificato di Pio IX" (1857); Le consolazioni del S. P. Pio IX" (1863); "Pio IX e il suo episcopato nelle diocesi di Spoleto e d'Imola" (1877).Giacomo Razzetti---------------------------------------------------GIACOMO MARGOTTI: chi era costui?
L’autore delle “Memorie per la storia dei nostri tempi” che stiamo pubblicando
di Angela Pellicciari
Chi è don Giacomo Margotti? Chi è l’autore delle Memorie per la storia dei nostri tempi che stiamo pubblicando a puntate? Un prete giornalista. Un prete battagliero. Un uomo coraggioso. Un combattente per la verità.
Il 18 agosto 1849 Pio IX scrive alla granduchessa Maria di Toscana: sebbene “la tutela del dominio temporale della S. Sede sia in me un dovere di coscienza, pur nonostante è un pensiero assai secondario in confronto dell’altro che mi occupa, di procurare cioè che i popoli cattolici conoscano la verità“.
Che i cattolici conoscano la verità: questa è la preoccupazione del papa e questo è l’assillo di don Margotti. Perché? Perché l’Ottocento è teatro di una riuscitissima campagna di diffamazione, menzogna ed odio contro la chiesa cattolica. Perché i liberali che realizzano l’unità d’Italia, acerrimi nemici della chiesa, non si vergognano di dichiararsi ferventi cattolici. Perché i Savoia -che si professano cattolici- seguono pedissequamente le mosse dei sovrani protestanti che nel Cinquecento derubano la chiesa di ogni avere. Perché i governi liberali che si appropriano del patrimonio che la popolazione cattolica ha regalato nel corso dei secoli alla chiesa, hanno l’ardire di farlo nel nome della chiesa. Per contrastare una simile gigantesca menzogna si tratta di difendere la verità raccontando i fatti. Bisogna ribattere punto per punto alla propaganda di stato. E’ quello che fa don Margotti dalle colonne del torinese l’Armonia.
Nel paese che si gloria di essere l’unico in Italia a difendere la libertà -compresa quella di stampa-, nel Piemonte sabaudo, cosa succede a Margotti che racconta la verità? Succede che il giornale è più volte messo sotto sequestro, multato, ed infine succede che qualcuno attenta alla sua vita. Il 27 gennaio 1856 don Margotti è aggredito per strada da un malvivente che, con un grosso bastone, lo colpisce alla testa. Mentre l’aggressore fugge pensando di aver compiuto il suo compito, il prete è soccorso dai passanti e, miracolosamente, si salva.
L’anno successivo, alle elezioni del 1857, Margotti è eletto trionfalmente alla Camera insieme ad una ventina di sacerdoti. Il liberale Cavour che di tutto ha bisogno fuorché di un’opposizione parlamentare degna di questo nome, invalida le elezioni degli scomodi preti con la scusa dell’"abuso di armi spirituali". In cosa consiste questo crimine? Nell’aver i presbiteri denunciato la politica anticattolica del governo sardo. Nell’aver ricordato la scomunica maggiore che colpisce i liberali nel 1855, dopo l’approvazione della legge soppressiva di 35 ordini religiosi. A parere di Cavour dire apertamente che i governanti sardi sono tutti scomunicati equivale a commettere un reato, un "abuso" appunto. Il presidente del Consiglio dal canto suo vieta la pubblicazione delle encicliche del papa, compresa quella relativa alla scomunica.
Quando nel 1864 Margotti propone la linea né eletti né elettori (che Pio IX trasformerà dieci anni più tardi nel non expedit) sa quello che fa: la sua esperienza sta lì a dimostrare che, in un modo o nell’altro, per i cattolici, nel Regno d’Italia governato dai liberali, non c’è posto.
Per conoscere più da vicino che tipo di uomo è don Margotti trascriviamo la prima parte della lettera da lui inviata ai lettori dell’Armonia qualche giorno dopo l’aggressione: “Dopo una settimana d’ozio forzato, riprendo i miei lavori. Non odiando nessuno, io credevo di non avere nemici. Molti contava avversari politici, ma li riputava tutti onoratissimi, che avrebbero fatto a me buona guerra, com’io a loro, guerra di penne e di ragioni, quale s’addice a gente costumata in paese libero, e non la vilissima guerra dell’assassino. Quando qualche benevolo m’avvertiva s’andare cauto, e premunirmi, io apprezzava l’avviso, per sentimento di benevolenza d’onde partiva, ma mi parea suggerito da una sconsigliata paura, e dicea: in ogni caso, che cosa guadagnerebbero levandomi dal mondo? La causa nostra non dipende dagli uomini, e molto meno da me, l’infimo di tutti. E poi, lo confesso schietto, per quanto io senta sinistramente della libertà moderna, ero persuaso che in Piemonte si potesse ancora scrivere una verità, salva la vita. In Francia, paese di grandi virtù ma anche di grandi delitti, vedea pubblicarsi da buona pezza giornali schietti e franchi come il nostro, senza che i compilatori avessero rischio di sorta.
" La sera di domenica, 27 gennaio 1856, m’avvertirono ch’io era nell’errore, e che troppo ancora credeva (e Dio sa quanto ci credeva poco!) alla libertà ed all’onestà di certuni. Mi dolse del mio caso, ma assai più dell’inganno. Sì, per l’amore che porto alla mia patria, non avrei voluto essere obbligato a confessare, che nel Piemonte, donde furono cacciati gli arcivescovi di Torino e Cagliari, annidassero poi gente rotta ad ogni delitto. Ad ogni modo, se taluno odia me, sappia che io non odio nessuno. Perdonai, e perdono di buon cuore a chi tentò d’uccidermi, e se lo conoscessi, vorrei fargli vedere a’ fatti, che se i principii della sua politica lo consigliarono a sfracellarmi la testa, le massime della mia religione mi comandano di stringermelo affettuosamente al seno. Forse allora costui imparerebbe che differenza corre tra un servo e un nemico del Papa; tra un apologista, e un calunniatore di S. Romana Chiesa.
" Iddio, che mi legge nel cuore, sa ch’io non iscrivo frasi, ma dico quello che sento. In questo senso parlai ai magistrati, che accorsero al mio letto per gli interrogatori fiscali. Ho sempre protestato di non voler porgere querela contro nessuno, e se non potei oppormi al diritto che compete alla società, di buona voglia rinunciai, e rinuncio a quello che mi compete individualmente“.
Caro a Pio IX, che aveva una sua foto sul comodino, Giacomo Margotti è un esempio di italiano e di cattolico di grande valore. Speriamo che -dopo quasi centocinquanta anni di colpevole dimenticanza- la pubblicazione di alcuni dei suoi articoli gli renda, almeno in parte, giustizia.
Angela Pellicciari
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testimonianza, risorgimento
L' intervista La onlus Mamre con Marella Agnelli, l' amicizia con Romiti e la possibile vicepresidenza dell' ente primo socio di Intesa
Suor Giuliana, banchiera per caso «Il denaro? Può concimare il bene»
Dal Cottolengo alla Compagnia di San Paolo: ma non voglio essere usata La proposta di nominarmi vicepresidente? Le cose non si fanno così, non si lavora su una persona senza che lei ne sappia nulla Ci fu un' epoca in cui anch' io consideravo il denaro come lo sterco del demonio. Con il tempo ho capito che può essere speso a fin di bene
«Hanno alzato bandierine nella nebbia. Io non ne so nulla. E mi trincero nella nebbia». Nella foschia della battaglia per i vertici della Compagnia di San Paolo - e quindi per la presidenza del consiglio di gestione di Intesa - è stata in effetti alzata una "bandierina": la proposta di nominare vicepresidente della Compagnia un consigliere inattaccabile come suor Giuliana Galli. Personaggio leggendario per Torino, simbolo del Cottolengo dove ha guidato per una vita le volontarie, ideatrice con Francesca Vallarino Gancia di una fondazione al servizio degli immigrati, amica di Marella Agnelli e di Cesare Romiti, suor Giuliana - 75 anni - non nasconde una certa irritazione per essere stata chiamata in causa: «Le cose non si fanno così. Non si lavora su una persona senza che lei ne sappia nulla. Non si comportano in questo modo i colleghi, se sono colleghi, e quindi uomini e donne uniti da fiducia reciproca». Suor Giuliana non rilascia interviste sulle vicende bancarie. Tiene però a chiarire qualche punto. Ad esempio, tutti i giornali hanno scritto che gli undici consiglieri "ribelli" al presidente della Compagnia, Angelo Benessia, si sono riuniti a casa sua. «Innanzitutto io non posseggo un' abitazione mia: vivo nella Casa del Cottolengo a Moncalieri. E lì, in collina, ci siamo trovati una sera, a guardarci in faccia, a discutere di alcune cose, a chiederci cosa stava succedendo. Ma non era una ribellione. Tanto meno una congiura. A un certo punto ho messo a tavola mozzarella e pomodorini, i consiglieri hanno mangiato e se ne sono andati. Altro che "ribelli"». Reagì allo stesso modo, suor Giuliana, quando un giornale la definì "Sorella Banca", giocando sulla carica per cui è stata indicata dal sindaco Chiamparino, e che lei ha interpretato con la stessa devozione riservata agli ospiti del Cottolengo: «Ci fu un' epoca in cui anch' io consideravo il denaro come lo sterco del demonio. Con il tempo, ho capito che il denaro può anche essere speso a fin di bene. Sono cresciuta in campagna, so che il concime serve a far prosperare i frutti della terra». Quando c' è da raccontare la sua storia, ogni traccia di irritazione scompare dalla sua voce allegra e fresca: «Il Cottolengo non è affatto un luogo di angoscia. Non si consumano tragedie, e neppure succedono miracoli. Io ci sono stata per la prima volta nel 1955. Venni a Torino insieme con un gruppo di amici di Meda, in Brianza, dove sono nata. Dissi a me stessa che al Cottolengo non avrei più messo piede. Invece vi ho passato la vita, e ne sono stata felice». Suor Giuliana è anche un' intellettuale. Laureata in sociologia, master in Scienze del comportamento a Miami, lunghi soggiorni negli Stati Uniti, in America Latina, in Africa, in India. Ha scelto di diventare suora a 22 anni, quand' era una ragazza molto bella, ma la prima chiamata arrivò molto prima: «Avevo otto anni. Al mattino mia mamma, pettinandomi le trecce, mi raccontava le storie del beato Cottolengo - allora non era ancora santo - e di Giovanna Maria Gonnet, madre di cinque figli, spirata tra le sue braccia dopo essere stata respinta da tutti gli ospedali. C' è qualcosa di molto intimo in una madre che pettina la figlia e intanto le parla dei poveri e della carità, non trova?». Con il mondo, suor Giuliana si è confrontata molto presto. Il Cottolengo è un' istituzione fondativa di Torino: coscienza della città, luogo di espiazione e redenzione, mito letterario; Calvino vi ambientò la Giornata di uno scrutatore, a volte le ragazze dell' alta borghesia vengono a farvi volontariato. A qualcuna suor Giuliana ha dovuto raccomandare il rispetto per gli ospiti: «Non seminare illusioni, ricorda che tutti hanno la loro sfera di affettività, porta qui anche il tuo fidanzato». Una città nella città: duemila abitanti, anziani senza famiglia, bambini abbandonati, «uomini con handicap fisici umani - come li ha definiti suor Giuliana -. Sottolineo: umani. Sono tutti figli degli uomini. E sempre fatti a immagine e somiglianza di Dio. Mi spiego? Il crocefisso non era bello». «Cos' abbiamo noi più di loro? - si chiedeva Calvino in una pagina che suor Giuliana ama molto -. Arti un po' meglio finiti, un po' più di proporzione nell' aspetto, capacità di coordinare un po' meglio le sensazioni in pensieri. Poca cosa rispetto al molto che né noi né loro si riesce a fare e a sapere». A Stefano Lorenzetto del Giornale raccontò nel 1999 alcune storie di suoi assistiti: il neonato cui i medici avevano dato poche ore di vita, creduto morto dalla madre, affidato dal padre a suor Giuliana e alle sue consorelle che ne fanno un ragazzo normale, poi adottato da una nuova famiglia; Franceschina, che è sorda e cieca ma è bravissima a "parlare" con le dita delle mani, «ogni sillaba un polpastrello, e alle prime parole ha già capito il senso del discorso»; Carmela che ha dormito in Cottolengo ogni notte per 75 anni, non sapeva leggere neppure i nomi delle vie ma quando usciva in passeggiata trovava sempre la strada del ritorno. Poi, per gli amici segreti e a volte illustri, arrivava la prova, la visita alla città proibita. Per scoprirne l' umana normalità, come Guido Ceronetti, che vi portò le sue marionette, o come Carlo e Franca Ciampi, accolti con grande affetto. Suor Giuliana ricorda Cesare Romiti «prendere in braccio una bambina bellissima, un viso d' angelo, ma cieca, nata senza gli occhi. Marella Agnelli mi ha aiutato molto, anche a far nascere dieci anni fa la onlus che si occupa degli immigrati, il Mamre». Che non è una sigla, ma il luogo dove Abramo accolse i tre angeli. «Lavoriamo per integrare i bambini stranieri e aiutare i loro genitori con disagi mentali, che spesso non possono essere curati solo con gli strumenti della cultura occidentale» spiega suor Giuliana. Che si raccomanda di non presentarla come un' eroina: «Eroe è padre Christian de Chergé, priore del monastero Notre Dame de l' Atlas, in Algeria. Decapitato con i suoi sei frati, il 21 maggio 1996. Mi ha insegnato che il Dio dell' Islam e il nostro Gesù non fanno un plurale». RIPRODUZIONE RISERVATA La vicenda Suor Giuliana Galli, indicata da più parti come possibile vicepresidente della Compagnia di Sanpaolo (il posto lasciato vuoto da Elsa Fornero), ha ospitato nei giorni scorsi la cena che si è svolta prima del consiglio generale della fondazione, dove i consiglieri hanno trovato l' accordo che ha evitato la sfiducia al presidente Angelo Benessia. La verifica sulla gestione di Benessia riguardava la partita delle nomine a Intesa Sanpaolo, di cui la Compagnia è primo azionista, chiusasi con il ritiro del candidato numero uno di Torino, l' ex ministro dell' Economia Domenico Siniscalco, e la nomina a presidente del consiglio di gestione del bocconiano piemontese Andrea Beltratti. Suor Giuliana, laureata in sociologia, ha un master in scienza del comportamento, conseguito a Miami, in Florida. Lavora al Cottolengo, dove ha guidato per 27 anni il corpo dei volontari. Gli uffici a Milano
Cazzullo Aldo
Pagina 15(15 maggio 2010)
Postato da: giacabi a 20:12 |
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testimonianza
Chai Ling, ex leader di Tiananmen è divenuta cristiana
***
La
sua conversione dovuta all’impotenza nel cambiare la Cina e al dolore
per gli aborti forzati che avvengono nel suo Paese con la legge del
figlio unico “cento volte più violenta del massacro di Tiananmen”.
L’invito ai leader cinesi di pentirsi e a scoprire il perdono di Dio. ***
Boston (AsiaNews) – Chai
Ling, l’unica donna leader di piazza Tiannamen nell’89, si è fatta
battezzare il 4 aprile scorso. Aveva domandato di essere cristiana nel
dicembre 2009.
Il
giorno del suo battesimo ella ha spiegato il motivo che l’ha portata
alla fede cristiana: la sua impotenza a cambiare la Cina e il dolore a
vedere tanta violenza nel suo Paese, non solo nel campo dei diritti
umani e della democrazia, ma soprattutto per gli aborti forzati causati
dalla legge del figlio unico, che lei definisce “un massacro di
Tiananmen quotidiano, cento volte superiore e fatto alla luce del
giorno”.
La
sua testimonianza è stata pubblicata integralmente sul sito di
ChinaAid, dove racconta pure di tutti gli incontri e gli amici che
l’hanno aiutata ad accogliere il cristianesimo.
Chai
Ling è nata durante la Rivoluzione culturale da una coppia di soldati
dell’esercito per la liberazione del Popolo, in una base militare del
nord-est della Cina.
Durante
le manifestazioni di Tianamen nel maggio-giugno 1989, Chai Ling,
23enne, era studente di psicologia all’Università Normale di Pechino
(Beishida). È stata l’unica donna leader del gruppo, che ha previsto con
grande tristezza la fine tragica del movimento democratico (“Ci sarà un
bagno di sangue”, aveva detto in un’intervista giorni prima del
fatidico 4 giugno). Insieme ad altri 11 studenti aveva espresso il
giuramento di versare il suo sangue per la patria, sul modello degli
eroi-martiri cinesi del passato che si suicidavano per risvegliare il
loro popolo.
Dopo
il massacro, Chai Ling è divenuta una dei 21 più ricercati dalla
polizia cinese. Grazie all’aiuto di un gruppo di buddisti e di
personalità di Hong Kong, dopo un periodo di vita nascosta, è riuscita a
fuggire prima in Francia e poi negli Stati Uniti.
Stabilitasi
a Boston, si è laureata ad Harvard in economia e con il marito Robert
Maggin jr hanno dato vita a una compagnia di software che impiega quasi
300 persone. Non ha mai dimenticato il suo giuramento e ha sempre usato
parte dei loro profitti per aiutare orfanotrofi e organizzazioni per i
diritti umani in Cina.
La
scoperta di essere controllata dai servizi segreti cinesi, le loro
minacce e le difficoltà del movimento democratico all’estero la rendono
senza speranza. “Pur con tutte le battaglie e i successi – dice – ho
capito quanto io fossi piccola se paragonata alla forza di un intero
regime. Come potrei io, un umile individuo andare contro un intero
regime con enormi risorse e una rete diffusa?”.
Nel
novembre 2009, ascolta a Washington la testimonianza di Wujian, una
donna cinese costretta ad abortire perché rimasta incinta senza il
permesso dei responsabili dell’ufficio per il controllo della
popolazione.
“Quel
momento – racconta – ha riportato alla memoria tutta l’impotenza e il
dolore che abbiamo provato la notte del massacro del 4 giugno. Quella
notte è stata così brutale, e non avevamo la forza di fermarla, e
nemmeno il resto del mondo ha potuto fermarla. La storia di Wujian è
solo uno dei 10 mila casi che sono accaduti in una singola contea in
Cina nel 2005. Nei 30 anni passati, circa 400 milioni di vite sono state
stroncate in Cina con l’aborto; molti sotto forma di crudeli e disumane
operazioni, terminate con la morte dei bambini, ma anche con il
terribile trauma e danno delle madri che sono sopravvissute…Nessuno
potrà dimenticare il massacro di Tiananmen del 1989, anche se ormai
sono passati più di 20 anni. Ma pochi di noi hanno compreso che queste
parole: Politica-del-figlio-unico” sono un ordine di marcia per una
brutalità cento volte superiore al massacro di Tiananmen, che accade
alla luce del giorno, ripetuto ogni singola giornata”.
Alla
domanda su “chi può fermare tutto ciò?”, Chai Ling risponde per la
prima volta con la fede in Dio: “Solo Dio può fermare questa brutalità”.
Occorre
ricordare che Chai Ling non ha avuto alcuna educazione religiosa: “[In
Cina] – racconta - non ci era permesso credere in Dio. Per i leader
‘Dio’ era una cosa cattiva che i capitalisti usavano per il lavaggio del
cervello del popolo. Come risultato, perfino l’amore di Dio era visto
come una cosa che faceva paura. La società era piena di odio, sfiducia,
paura”.
Aiutata
dal marito, cristiano protestante, e da alcuni amici e amiche che
lavorano come volontari contro l’aborto, Chai Ling chiede di diventare
cristiana il 4 dicembre 2009. Lo scorso 4 aprile ha ricevuto il
battesimo. La fede nella resurrezione di Gesù la rende ora più sicura e
più certa “della vittoria di Dio” anche in mezzo a tante tribolazioni.
Nella
sua testimonianza Chai Ling ha parole di misericordia anche per i
leader cinesi, responsabili del massacro e della politica attuale: “Il
perdono di Dio è così pieno; perfino uno dei due ladroni, che è stato
crocifisso con Lui, dopo che si è pentito per i suoi peccati, Cristo gli
ha promesso di portarlo con sé in cielo. Se i leader della Cina
potessero almeno ascoltare questo [annuncio], non importa quello che
hanno fatto o commesso, se solo si pentissero, potrebbero ricevere lo
stesso amore e perdono che tutti riceviamo. Quale grande dono
riceverebbero? La libertà per se e per la Cina!”.
La
conversione di Chai Ling è l’ultima di una serie da parte di diversi
leader di Tiananmen. Dopo aver lottato per le idee di uguaglianza e
democrazia, grazie al rapporto col mondo occidentale o con missionari in
Cina hanno scoperto che il loro impegno per i diritti umani è
ragionevole solo se fondato su una base cristiana. “Quando abbiamo
pensato a far nascere un movimento democratico – dice Chai Ling –
gridavamo che tutti gli uomini nascono uguali. Ora so e posso dire con
tutta la fiducia il perché: Dio li ha creati uguali, a immagine di Lui”.
Postato da: giacabi a 21:58 |
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testimonianza, consumismo
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testimonianza
TESTIMONI
Padre Leoni
e quei «dieci anni d’inferno»
***
di Marta Dell’Asta
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Postato da: giacabi a 20:49 |
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comunismo, testimonianza
LETTERA
I carcerati di Padova:
si può esser felici in cella
***
Siamo alcuni ergastolani della Casa di reclusione di Padova.
Ci troviamo in carcere da 10-15-17 anni. Abbiamo appreso dalla tv
l’agghiacciante notizia del suicidio di Diana Blefari Melazzi, un gesto
che sta facendo molto discutere, a differenza del silenzio sulle
centinaia di altri nostri compagni che in questi anni si sono suicidati e
che sono passati inosservati, forse perché “anonimi” e di nessun
interesse giornalistico, ma non per questo meno “importanti” sotto
l’aspetto umano, che invece dovrebbe sempre essere tenuto in primaria
considerazione.
Dal
giorno del nostro arresto ne è passata molta di acqua sotto i ponti,
siamo stati anche in carceri “dure” e, nonostante a volte la tentazione
di farla finita sia stata quotidiana, non ci siamo mai arresi alla
disperazione, neppure quando ci siamo ritrovati a regime duro e
completamente da soli in una cella di isolamento. La
nostra natura di Uomini, e cioè di persone che cercano
inarrestabilmente un senso alla vita, prende sempre il sopravvento, e
questo riguarda sempre tutti anche i non carcerati - basta avere il
coraggio e la lealtà di guardarsi attorno. Stante le condizioni in cui
siamo di per sé dovremmo essere in pochi a non suicidarsi e invece no.
Questo
riguarda tutta la società, anche chi ha tutto. Non sono le condizioni
di vita: pensate che per delinquenti e non, siano così determinanti?
Basta guardarsi attorno vicino - a casa propria - o lontano che sia -
nei paesi più poveri.
Non
sono neppure il rispetto dei diritti umani minimi a dare dignità
all’Uomo. Serve una vera Speranza nella vita, di cui i diritti umani, la
dignità del vivere ne sono una conseguenza. Riconoscere la positività
che vince ogni solitudine, ogni violenza, ogni sopruso è possibile solo
grazie all’incontro con persone che testimoniano che la vita vale più di
ogni apparente mancanza e delle peggior condizioni di vita, della
malattia e della morte.
Non
confondiamo perciò la Speranza vera, quella che risponde alla nostre e
vostre domande di giustizia, di verità e di felicità con l’acqua calda,
un pasto un tetto e un po’ di rispetto (che certo permettono di vivere
meglio).
Noi
possiamo reputarci dei “fortunati” perché non abbiamo mai perso la
fiducia, o forse non abbiamo mai avuto il coraggio di mettere in pratica
tutte le strane idee che vengono facilmente in testa quando si è in
condizioni disperate.
Per quanto ci riguarda, la
nostra fortuna è stata quella di aver trovato delle persone che in noi
hanno visto il lato buono; persone che nonostante le pessime “referenze”
hanno comunque scommesso su di noi, e anche se potrà sembrare strano,
paradossalmente è stato proprio quel briciolo di fiducia a farci
comprendere ancora meglio i nostri errori e il valore infinito che
ognuno di noi, di voi ha.
Quando
viene data una possibilità durante la detenzione non significa svilire
il senso della condanna, ma anzi si aiuta la persona a prendere
coscienza delle proprie responsabilità; è proprio in quel momento che si
inizia davvero a pagare, a scontare veramente la condanna con la
giustizia dei tribunali e soprattutto con gli altri, nei confronti della
società e ancor di più verso le persone alle quali si è fatto del male.
Il
sistema carcerario e legislativo purtroppo hanno alcuni controsensi. Si
parla a volte di diritti umani e poi ci si indigna tanto se qualcuno
propone l’abolizione dell’ergastolo, sostituendolo con una condanna
ugualmente dura ma che abbia un fine pena, anche se molto lontano nel
tempo, che lasci quindi un barlume di speranza e di redenzione a chi lo
sconta.
Ora
sembra, ascoltando i telegiornali, che il problema sia consistito solo
in un controllo poco adeguato di Diana Blefari Melazzi, e che quindi
bastava tenerla continuamente monitorata o per le sue condizioni
“trattata in un altro modo”. O per citare un altro caso di attualità,
che il povero Cucchi non fosse morto. Ecco questi casi non si possono
trattare usandoli, come sempre tutto - vedi anche il caso Marazzo - a
proprio uso e consumo, fagocitandoli per poi dopo un pò passare a un
altro scoop
Bisognerebbe invece porsi il problema che aldilà
dell’individuo che ha commesso un reato, c’è sempre la persona, e
nessuna persona è in grado di vivere se le si toglie qualsiasi
progettualità o speranza per il futuro, e se la si identifica solamente e
per sempre nel crimine che ha commesso.
Per
quanto ci riguarda crediamo infatti che, fermo restando la
responsabilità penale e quindi la giusta condanna che stiamo pagando,
sarebbe importante sapere che non tutti gli occhi degli altri rimangono
indifferenti allo sforzo che facciamo, giorno dopo giorno, nel voler
crescere come uomini che molto hanno tolto, ma che ancora qualcosa di
buono sentono di poter dare.
È
vero che la funzione della carcerazione è quella di punire una persona
che ha commesso dei reati e di isolarla dalla società. Difatti ci si
trova spogliati di tutto, senza più amicizie, spesso senza più una
famiglia che non ti può aspettare in eterno. Si è soli con le proprie
colpe, con i rimorsi della propria coscienza, rinchiusi tra quattro
mura. Ma a questo punto che valore hanno i tanto declamati “diritti
umani”, se non c’è nessuno che ti tende una mano e che ti dice che non
sei più solo e che se vuoi puoi tentare di riscattarti?
Allora l’invito
che vogliamo rivolgere a tutti e in particolare a chi si trova nelle
nostre condizioni in tutte le carceri del mondo, di non smettere mai, di
lottare per ottenere condizioni migliori e dignità nel vivere, ma
soprattutto che si possa trovare una risposta al senso del vivere e del
morire subito e questo possa rendere la vita più bella.
La felicità non è avere l’acqua calda in cella.. |
Postato da: giacabi a 11:50 |
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testimonianza
Da Wall Street a monaco di periferia
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Henry Quinson
Un
curriculum eccellente, di quelli che fanno gola alle multinazionali
(crisi o non crisi). Triangolazioni continue Parigi, New York, Londra.
L’appartamento parigino, con tanto di vista sulla torre Eiffel. Le porte
di Wall Street che si spalancano. La vertigine che viene dal manovrare
miliardi. La sicurezza che deriva da una competenza costruita con
intelligenza e dedizione. E il conto in banca che lievita, assieme alle
luccicanti promesse del futuro. Un edificio perfetto quello costruito,
mattone dopo mattone, da Henry Quinson.
Agli occhi di tutti – amici, parenti, colleghi – il giovane trader è l’incarnazione dell’uomo di successo. Pur entrando nella stanza dei bottoni di uno degli istituti di credito francesi più importanti, la banca Indosuez, Quinson – franco-americano, classe 1961 – non conosce la voracità del "conquistatore". Il suo profilo non si accorda a quel particolare identikit di manager (la recente crisi che ha infettato le economie di mezzo mondo ne ha svelati tanti), disposto anche a truccare le carte. Anni dopo, quando la sua vita sarà rivoltata come un guanto, Henry Quinson mette a fuoco la sua "malattia", il tarlo che rosicchiava quella vita apparentemente perfetta, l’inquietudine che gli impediva di godere pienamente dei suoi successi. Con candore lo chiama un «handicap spirituale». La sete di ricchezza si sbriciola, l’ansia di potere scoppia come una bolla di fronte a un’invasione che Quinson sperimenta come «una pace indicibile»: la forza della preghiera. Ma all’ex manager non basta essere un religioso, vuole essere un «innamorato». «È – scrive nel suo diario-testimonianza, Dallo champagne ai Salmi. L’avventura di un banchiere di Wall Street diventato monaco di periferia, San Paolo, pag. 214, euro 18) – una cosa assolutamente folle: devo abbandonare tutto per Lui». Dell’uomo che nel 1989 mieteva successi nel mondo – competitivo fino al cannibalismo – della finanza oggi non c’è più quasi traccia. L’agente di Wall Street si è dissolto. Al suo posto c’è il monaco. Monaco «di periferia», come si definisce. Una folgorazione? Piuttosto una scalata. Faticosa. A tratti incerta. Accompagnata da un lavorio intellettuale, un’indagine che lo porta a sperimentare, a entrare nel monastero di Tamié, a soggiornare nella comunità di Bose, a chiedersi continuamente quale sia la propria strada. Quinson si sente sospeso tra la scelta monastica e il tormento per il mondo che lo inchioda e, al tempo stesso, lo spaventa. Una ricerca che finalmente scopre il suo approdo. Marsiglia. Le periferie ingrossate dall’arrivo di immigrati, in gran parte magrebini. Zone di confine nelle quali l’islam diventa ogni giorno di più aggressivo. Quella «linea sismica» lungo la quale Nord e Sud del mondo si annusano, si scontrano, si compenetrano. Degrado. Disoccupazione. Povertà. Sono i mali che si annidano dietro quei casermoni tutti uguali, nei quali ogni idea di bellezza è congedata, nati come soluzione architettonica provvisoria, ma diventati nel tempo «ricettacolo» delle successive ondate migratorie. L’analisi del monaco-banchiere è lucida: le periferie sono il luogo nel quale finiscono per sommarsi «le logiche tribali», delle quali spesso sono portatori gli immigrati, e «la cultura individualista dell’Occidente», una cultura che riduce tutto a guadagno. Come agire? Come trasformare i guasti in risorse? La risposta è netta: mettersi alla pari con chi nelle periferie vive e lotta. Niente superiorità, niente altezzose distanze. Piuttosto sperimentare – giorno per giorno – la vicinanza. Ecco la strada che il monaco sente appartenergli intimamente: fondare una fraternità, la cui prima regola è l’accoglienza. Quinson sa che solo la mutua conoscenza può annullare quella visione dell’altro dietro la quel spesso ci abbarbichiamo, una visione troppe volte «caricaturale, ideologica». Obiettivo numero uno: i giovani. Recuperarli, puntando sull’insegnamento. La lingua è la prima barriera da abbattere: un muro che finisce per separare non solo alunni e genitori tra i banchi di scuola, ma – all’interno delle stesse famiglie – figli e genitori. L’altro punto di forza: la comunione. Dall’isolamento, dalla non conoscenza nasce la diffidenza, l’odio. La ricetta è mescolare i mondi, favorire gli incontri. Ecco allora il programma del monaco delle periferie farsi regola di vita: «Comunione nelle prove difficili e nel reciproco perdono, comunione della preghiera fraterna e nell’accoglienza del prossimo». Wall Street non abita più qui. |
Postato da: giacabi a 15:20 |
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testimonianza, cristianesimo
Marcos y Cleuza
Grazie Signore della loro testimonianza
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Postato da: giacabi a 07:49 |
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testimonianza, zerbini, avvenimento
Ieri è morto un amico di mio figlio
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Il padre
«Si era confessato, ora è con il Signore»
Sabato 05 settembre 2009
Vedi le altre foto «Si era confessato per rispondere alla chiamata del Signore. Siamo contenti che sia morto pronto per andare in paradiso».
Dagli occhi di Massimo Santoru escono poche lacrime. Il dolore per la morte del figlio traspare dallo sguardo. Un dolore enorme, ma che sembra niente in confronto alla fede che lo fa parlare. Il carro funebre si è appena portato via il suo ragazzone di un metro e novanta. «Ma Riccardo è ancora vivo. E noi ringraziamo il Padre per averci regalato questi ventuno anni insieme». Massimo Santoru, tecnico di radiologia all'ospedale Marino, è sposato con Enrica, fisioterapista. Riccardo è il primo di sei figli. Una famiglia che da più di vent'anni segue il cammino neocatecumenale alla parrocchia Vergine della Salute, nella chiesa del Poetto. «È un ragazzo splendido. Uso apposta il presente perché mio figlio è ancora vivo. Ama lo sport: ha iniziato con il calcio, passando poi per il basket all'Esperia. É campione sardo di canottaggio. Da tre anni si è lanciato nell'arbitraggio. Una passione travolgente. In poco tempo è diventato una promessa. L'anno scorso ha arbitrato molte gare del campionato di Promozione e sarebbe potuto crescere ancora». Riccardo riusciva a conciliare molte cose. Il padre le ricorda con una punta d'orgoglio: «È al secondo anno di Ingegneria. Uno studente modello. In casa è collaborativo. Tutte le mattine accompagna la sorellina più piccola in asilo. Un'altra passione è la caccia: ci andava spesso con il nonno». In estate non si era fatto mancare un bel viaggio, tra Estonia, Lettonia e Finlandia. Nella sua vita la parte più importante la ricopriva la fede: «Segue il movimento neocatecumenale con noi. La settimana scorsa era andato a trovare le suore di clausura. Un'esperienza che lo ha arricchito. Ieri sera (giovedì, ndr ), dopo un incontro in parrocchia, si era confessato. Si è fatto trovare pronto alla chiamata del Padre, proprio come recita il Vangelo, Vegliate e state pronti, perché non sapete in quale giorno verrà il Signore . La sua morte, per chi non ha fede, è inspiegabile. Noi sappiamo che in questo momento Riccardo è con il Padre, in paradiso. Ed è felice». (m. v.)
p.s. mio figlio nella foto è il primo a sinistra dell'ultima fila
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Postato da: giacabi a 19:39 |
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testimonianza
Dr. House: Follia e fascino di un cult movie
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E se il cinico dr. House in fondo fosse buono? La strana morale di una serie televisiva di successo.
Un’originale lettura di una delle più seguite serie televisive si trova nel libro Dr. House md. Follia e fascino di un cult movie, Siena, Cantagalli, 2009, pagine 95, euro 9.
Eccovi quasi integralmente l’introduzione degli autori Carlo Bellieni e Andrea Bechi.
Quando
vediamo il fornaio impastare il pane, sappiamo che saprà trarne una
bella e gustosa rosetta o un ottimo sfilatino: è il suo mestiere,
lavora da anni a questo e la sua bravura non ci lascia stupiti. Se però
andiamo a casa di un amico e questi durante la cena ci spiega che il
dolce che stiamo mangiando è frutto di un suo personale lavoro di
cottura e impastatura, la cosa ci stupisce favorevolmente, perlomeno se
il dolce è buono. Se poi il dolce è buonissimo e l’amico era uno che
ritenevamo un fannullone, la questione ci incuriosisce e ci rallegra
tantissimo.
Questo è il caso della serie televisiva “Dr. House md”. È noto che dalla tv filtrano pochissimi segnali fuori dal coro del politically correct che strombazza e imprime nelle menti poca cultura e due soli “valori”: l’autodeterminazione (che finisce col diventare solitudine) e il disimpegno. È anche vero che talvolta sono trasmesse fiction con storie di personaggi storici o personaggi religiosi simpatici (ancor più saltuariamente). Ma che Papi e santi comunichino messaggi “cristiani” ce lo aspettiamo. È una sorpresa quando il protagonista (l’eroe) della fiction è un tipo decisamente cinico. Qui sta la genialità di chi ha creato la serie di House: non essere scontato ma proporre un itinerario eticamente buono usando le parole, le immagini, e anche le debolezze umane che normalmente veicolano ben altro tipo di messaggi. Perché “una strana morale”? Perché è una morale che “non fa la morale”. Con i suoi aforismi, i suoi apologhi, con le sue idiozie e le battute dei colleghi di House, questa serie riafferma dei valori forti e fermi, pur con le sue contraddizioni, col suo cinismo e il suo ateismo urlato (ma solo per darsi un tono, molto probabilmente). In fondo la morale non è solo escatologia, ma anche riaffermare la verità sull’uomo. Attenzione, comunque: House è un “cattivo”, è cinico. Ci è richiesto uno sforzo per superare l’impatto con questi comportamenti negativi, per arrivare a capire il messaggio principale della fiction, non fermarsi a quello che si vede, ma fissare il punto decisivo: il cambiamento e lo stupore di una mente cinica. Un insegnamento morale può derivare dal modo in cui si affrontano i temi etici, per arrivare a verità più grandi. È questo il motivo per cui per esempio la Chiesa ha così a cuore il suo magistero sociale e in particolare i temi bioetici: salvare l’uomo dall’attacco all’uso della ragione e alla categoria dell’”incontro”, i due elementi che permettono e facilitano la vita in tutte le sue dimensioni e quindi anche nella dimensione religiosa. Già, il cristianesimo vive di incontri e di testimonianze; ha l’umanissima pretesa di vagliare e giudicare questi incontri e queste testimonianze alla luce della ragione. E questa è la dinamica sociale e reale dell’uomo: conoscere se stesso scoprendosi riflesso nell’altro, e poi cooperare con l’altro avendo capito che ha i suoi stessi desideri e limiti. Ora, tante novità sconvolgenti in campo bioetico realizzano proprio l’opposto: partono dal concetto che ogni uomo è una specie di cavallo rinchiuso in un recinto e in quel recinto si gode la sua supposta libertà. Hanno come ideale l’isolamento e la cosiddetta “autodeterminazione”. Mostrano un uso restrittivo della ragione: non sono infatti più in grado di chiamare “bambino” un bambino (solo perché non è ancora nato), o ostentano terrore verso un supposto “accanimento delle cure”, che spesso è solo il tentativo di salvare una vita. Non a caso l’aborto e l’eutanasia come “diritti” nascono dall’idea che nessuno possa o debba interferire con le decisioni che magari in un momento di solitudine o di disperazione sono state prese. Anche House c’è passato, quando ha voluto salvare un paziente, nonostante il suo testamento biologico! Ma c’è qualcosa che non torna, anche perché la pratica clinica e la conoscenza dei casi smentisce che queste scelte siano davvero scelte libere: come sappiamo bene dalla letteratura scientifica, spesso queste “decisioni libere” nascono da costrizioni esterne e possono essere modificate se arriva chi offre una valida alternativa, soprattutto dal punto di vista umano, e ovviamente - quando serve - anche economico o sociale. L’attacco alla ragione e all’incontro tra le persone viene perpetrato dietro un particolare paravento costituito dalla falsa idea che attraverso i “vantaggi” di questa aggressione distruttiva arrivino alla popolazione dei “diritti” nuovi, i cosiddetti “diritti civili”, di molti dei quali, se guardiamo bene, faremmo tranquillamente a meno. Queste allegre “concessioni” di diritti ad alcuni hanno il loro rovescio della medaglia: man mano che i nuovi diritti arrivano, quelle categorie che non possono reclamare la loro “autodeterminazione”, cioè bambini, anziani e disabili vengono a perdere sempre più i loro. Insomma, sempre più “diritti artificiali” per sempre meno persone: chi non sa o non può farsi sentire, resti senza diritto di cittadinanza, addirittura senza la possibilità di definirsi “persona” secondo quanto affermano molti filosofi di moda. Questo libro nasce dal fascino di un personaggio di una favola televisiva; conoscendolo meglio abbiamo scoperto che nelle storie che di lui vengono raccontate emerge e ci stupisce potentemente il modo positivo di guardare la realtà. E guarda caso, questo modo di guardare la realtà è proprio quello che sta alla base della comunicazione del messaggio cristiano e che tutto, nella società d’oggi, vuole nascondere: l’uso potente e non censorio della ragione e la potenza del contatto umano (che, in questo caso, mostra la sua potenza terapeutica proprio quando il protagonista vorrebbe rifiutarlo; ma, dentro di sé, esplode qualcosa che glielo impedisce). Che questi messaggi positivi nascano da un personaggio “cattivo” in fondo ci piace: serve a dare meno spazio al sentimentalismo e più fiducia al nostro essere fallaci (ma redimibili) esseri umani.
© L’Osservatore Romano - 11 luglio 2009
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Postato da: giacabi a 15:27 |
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testimonianza
testimonianza
Li Lu Male
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Mi
scuso, vorrei poter parlare italiano, questa lingua così bella. Quando
sono arrivato in questa terra ho incominciato a sperare che avrei potuto
incontrare persone di alta grandezza morale e adesso sono qua con voi
tutti, amici miei. Ieri, quando siamo stati insieme, sono rimasto
veramente colpito e mi ha commosso vedere questi studenti che cantavano
canzoni. Improvvisamente mi è sembrato di essere ritornato sulla piazza
Tienanmen, e ho capito che dovunque persone giovani si uniscono e
condividono idee comuni, non vi sono differenze.
Voglio
descrivervi come era la situazione prima del movimento. Il popolo
cinese viveva e vive una vita miserevole e la situazione è molto grave.
Vi è un'inflazione molto forte, nessuna libertà di parola. I problemi si
ripetono. Già nel 1919 gli studenti volevano parlare, levare la loro
voce, in quanto rappresentanti della gente comune, per poter dare
suggerimenti al governo. Niente di più. Il
15 aprile l'ex Segretario di Stato, che veniva considerato dagli
studenti come un simbolo della riforma democratica, è morto. Gli
studenti hanno organizzato una manifestazione in sua memoria e sono
scesi nelle strade per rendere chiaro quello che volevano.
L'atteggiamento del governo è stato del tutto al di là di qualsiasi
possibilità di immaginazione. Vorrei darvi un esempio: il 21 aprile più
di 100.000 studenti erano seduti sulla piazza pacificamente, solo per
scrivere un documento nel quale esprimere i nostri desideri. Abbiamo
scritto col nostro sangue per poter presentare questo documento ai
nostri governanti. Abbiamo dovuto presentarlo al Congresso. Abbiamo
dovuto aspettare per più di 40 minuti e non vi è stata nessuna risposta.
Il
26 aprile, il governo ha dichiarato che il movimento degli studenti
rappresentava un disturbo e una insurrezione contro l'ordine. Potete
immaginarvi quali erano i nostri sentimenti: quello che chiedevamo era
una cosa molto semplice, aprire un dialogo con i leader del governo. Per
questo davamo suggerimenti in nome della gente comune, gente della
strada. Ma una questione così semplice non può essere risolta in questo
modo. Verso la metà di maggio - mi ricordo che era un giorno pieno di
luce e di sole, la stagione della primavera, quando i fiori riempiono le
nostre aiuole, ma un giorno per noi di profonda tristezza - migliaia di
amici, di studenti, hanno deciso di iniziare lo sciopero della fame.
Non avevamo nessun altro modo per fare ascoltare le nostre richieste.
Nel recarci sulla piazza di Tienanmen, io e i miei amici ci sentivamo
veramente molto tristi. Vedevamo i fiori ai lati della strada, Ciao Lin
ne ha colto uno e ha detto: "E’ un po' come la nostra vita, quella dei
fiori. Un fiore così bello morirà e questo è come la nostra vita".
Prima
di iniziare lo sciopero della fame sulla piazza Tienanmen, alcuni
professori ci hanno invitato a fare un'ultima cena insieme. E’
un'abitudine, un costume cinese, significa che tutti noi ci impegniamo a
sacrificarci. Quando abbiamo iniziato lo sciopero della fame non
avevamo stabilito una data finale. Abbiamo semplicemente cercato di
ascoltare le nostre coscienze. Ci siamo detti: se non raggiungiamo il
successo per le nostre richieste, continueremo all'infinito, fino a che
non saremo morti. Quindi, per
sette giorni completi, più di 3.500 studenti hanno continuato lo
sciopero, sono svenuti, sono stati inviati all'ospedale, alcuni di
questi sono ritornati e hanno continuato a star male e a svenire. A me è
successo tre volte, un amico dieci volte è ritornato e dieci volte è
svenuto. In ospedale si è risvegliato e ha visto che i medici lo stavano
trattando con glucosio, si è rifiutato di seguire questo trattamento,
ha solo chiesto un poco di acqua ed ha ripreso lo sciopero della fame.
Ma di fronte a questa azione così coraggiosa il governo ha continuato a
non dare risposta e così siamo giunti all'ottavo giorno dello sciopero
della fame: quel giorno il governo ha annunciato che veniva imposta la
legge marziale a Pechino. Da 200.000 a 300.000 soldati vengono così
inviati a Pechino, ma il nostro popolo si è schierato accanto agli
studenti che stavano facendolo sciopero della fame. Più di 10.000,
11.000 persone che facevano lo sciopero della fame, e milioni di cinesi
che li sostenevano, quando hanno sentito che era stata imposta la legge
marziale, più di un milione di persone in modo autonomo ed istintivo si
sono organizzate per bloccare, con i loro corpi, le truppe che cercavano
di entrare nella città. È qualcosa che mi ha colpito, è
stato veramente commovente vedere persone anziane, vecchie donne e
uomini che con i loro stessi corpi cercavano di bloccare i camion,
pronti a morire.
Volevano proteggere le vite dei giovani. Non so come posso descrivere i
sentimenti che provavamo sulla piazza Tienanmen. Siamo rimasti li più
di tre settimane. Dormivamo sulla pietra. Lo sciopero della fame era la
nostra unica maniera per presentare delle semplicissime richieste. Siamo
stati sostenuti, appoggiati dal popolo cinese e anche dai popoli di
quasi tutto il mondo.
E
a volte ci è sembrato di avere già vinto, perché avevamo risvegliato i
popoli, avevamo fatto capire quale può essere il significato del potere
del popolo. Le persone comuni hanno capito che potevano alzare la voce
per chiedere che fossero rispettati i loro diritti, in quanto esseri
umani che hanno una loro piena dignità. Si trattava di persone complete,
che potevano farsi ascoltare: e in quei giorni gli studenti hanno
dimostrato anche di avere grosse capacità organizzative. Ogni giorno ci
si organizzava per bloccare le stazioni della metropolitana, ma anche
per far sì che la vita dell'intera città si svolgesse con ordine. Nel
corso di quei giorni si pensava che l'ordine in Pechino fosse qualcosa
che appartenesse ormai alla storia passata di Pechino e invece siamo
riusciti, e questo è stato ripreso da tutti i giornali, ad organizzare
cinque comitati che hanno regolato l'intera vita della città,
conservandola come prima: questo ha scatenato l'appoggio del popolo agli
studenti. È uno tra i dati più interessanti, ma è anche un simbolo per
dimostrare che i cuori, i sentimenti di tutti erano dalla parte degli
studenti. Ma qual è stata la reazione del governo e cosa è questo
governo che ha scatenato il massacro?
I
miei amici vi hanno appena descritto il massacro. Io non voglio
ripetere questa triste storia, ancora adesso mi è insopportabile
raccontare, penso che tutti voi possiate capire i nostri sentimenti.
Vorrei soltanto dire una cosa. Gli studenti, quegli studenti che sono
stati feriti, colpiti, sono studenti come voi e si sono trovati di
fronte a delle truppe pericolose, però hanno cercato di reagire nel modo
più pacifico e non violento possibile. Vorrei darvi degli esempi. Il 21
maggio si è avuto il primo momento di pericolo; ci veniva detto che
l'esercito stava cercando di entrare nella piazza e che si preparava ad
attaccarci con gli elicotteri, dall’alto, facendo scendere i soldati
sugli studenti. E vi erano varie dozzine di elicotteri che volavano
sopra la piazza Tienanmen. Cosa hanno fatto gli studenti? Hanno lanciato
in aria dei palloni, non conosco il termine esatto in inglese, ma erano
come aquiloni di carta, che da bambini si usano per giocare. Pensavamo
che questi fragili aquiloni di carta potessero bloccare gli elicotteri.
Poi c'è stato un altro momento di estremo pericolo. Una
giovane coppia che faceva lo sciopero della fame ha annunciato di
volersi sposare sulla piazza Tienanmen. Lo hanno annunciato di fronte a
tutti gli studenti. Molti hanno partecipato a questa cerimonia di
matrimonio. E questo è per noi un simbolo, per dimostrare che crediamo
che la vita continuerà, anche se in segreto, perché la vita è qualcosa
di sacro, significa dignità e ogni qualvolta soffriamo, siamo ancora
degli esseri umani, e se dobbiamo morire, e se moriremo, lo faremo come
veri e completi esseri umani e comunque continueremo a lottare e
passeremo la consegna alla generazione che ci segue. Molte persone sono
venute alla cerimonia di matrimonio e volevano dare tutti i regali
possibili a questa giovane coppia. Naturalmente si trattava di persone
molto povere, che non hanno niente e non possono trovare grossi regali,
però dimostravano i loro sentimenti, il loro amore per la vita. Alcuni
hanno dato come regalo una penna, alcuni una tazza d'acqua, altri hanno
dato un piccolo pezzettino di sapone. Un operaio voleva perlomeno
firmare qualcosa e non aveva carta, non aveva niente, allora ha deciso
di strappare un pezzo della sua camicia e l'ha dato, come la cosa più
vicina al suo corpo, al suo cuore. Mi spiace, forse capite perché non
posso continuare sono il fratello di questa giovane coppia. Vi ringrazio
profondamente
Dal
vostro applauso sento che siamo gli stessi, uguali, un unico essere
umano, possiamo capirci, tutti noi amiamo la vita. Quel giorno io ho
coniato uno slogan, ho detto: "Abbiamo bisogno di lottare, ma abbiamo
anche bisogno di essere felici". Grazie. Il mondo appartiene e
apparterrà sempre a coloro che sono esseri umani completi. Ancora una
cosa.
Il
26 maggio gli studenti hanno deciso di fare un concerto. 3.000 cantanti
sono stati invitati alla piazza Tienanmen e hanno tenuto un concerto
per l'intera notte. Studenti e persone cantavano e ballavano. Non ci
importava, se i soldati sarebbero venuti, se ci avessero ucciso. Noi
volevamo essere felici, volevamo godere la vita. Il 4 giugno è iniziato
il massacro. Gli studenti decisero di creare un'università che si
sarebbe chiamata Università di Democrazia della piazza di Tienanmen e
hanno anche fatto questo statuto della democrazia e una statua intorno a
cui abbiamo celebrato la creazione di questa università. Abbiamo fatto
dei discorsi. Questo è durato due ore, le sole due ore di vita di questa
università. Poi i carri armati sono entrati nella piazza e hanno
spazzato via tutto quello che avevano creato. Gli studenti, gli operai,
gli intellettuali, i cittadini, tutti sono stati uccisi e così anche la
statua della nostra Università della Democrazia è stata spazzata
via. È l'università che ha avuto la vita più breve del mondo intero.
Però penso sia l'università più grande del mondo. Capisco che il vostro
cuore è dalla parte degli studenti cinesi, e quindi in futuro potremo
lottare uniti. Non vi saranno differenze fra italiani e cinesi. Noi
vogliamo unicamente che ci venga concesso di vivere come esseri umani.
Adesso vorrei dire qualche cosa che riguarda la mia fuga dalla Cina. Ero
considerato uno dei leader degli studenti più ricercati dal governo in
Cina. La lista dei criminali ricercati viene spedita nell'intero Paese,
quindi è quasi impossibile fuggire, perché la Cina ha un sistema di
polizia segreta estremamente ramificato per poter controllare le
persone. Ma c'è un movimento clandestino, tutte le persone riescono
comunque a offrirvi sostegno.
Non vi posso dire il nome delle persone che mi hanno aiutato a fuggire dalla Cina, è stata una cosa molto pericolosa per loro.Il governo, questo governo assassino, ha arrestato più di 120.000 persone, e varie centinaia sono state condannate a morte e uccise,
ma sempre in modo clandestino. L'intera Cina, l'intero Paese, sta ormai
diventando una Bastiglia, una enorme prigione, ogni gesto è pericoloso,
ognuno deve criticare gli altri e autocriticarsi. È come quello che
hanno fatto durante la Rivoluzione Culturale, nel corso di quei tristi
tempi più di 16 milioni di persone sono morte. Adesso il governo
assassino vuole che la storia si ripeta, ma non possono farlo: la
situazione è totalmente diversa. Molti leader, intellettuali, sono stati
aiutati a fuggire dalla Cina e adesso vi è una certa forma di
resistenza. Il governo ha perso qualunque fondamento legale nel cuore
del popolo cinese. Dopo il massacro, io ho sentito che la mia vita non
era più qualcosa che mi appartenesse, il mio stesso sangue rappresenta
un continuum con il sangue di quegli studenti che sono morti sulla
piazza di Tienanmen, il loro sangue è collegato per sempre con la mia
vita.. Per tutta la mia vita io sarò profondamente impegnato in questo
movimento per il ritorno della democrazia in Cina.
La
nostra lotta ha uno slogan molto semplice: democrazia per la Cina,
diritti umani per i cinesi. Adesso in Cina possiamo ancora fare qualche
cosa e noi che siamo fuori possiamo aiutare. Uno dei programmi è
ricostituire tutte le strutture proprie alla democrazia. So che vi sono
degli insegnanti, per esempio negli Stati Uniti, in California, che
hanno deciso di creare un fondo per ricostruire le strutture di
democrazia sulla piazza di Tienanmen. Mi hanno parlato del vostro
movimento qui in Italia, sono stupito e commosso da quanto avete fatto,
io posso capire la vostra lotta, quello che voi state facendo perché
qualche cosa che vuol portare a trattare gli essere umani come tali. È
esattamente quello che noi studenti vogliamo, quello per cui lottiamo,
quello che vogliamo per il popolo cinese. Quindi penso che tutti voi
potrete offrirci il vostro sostegno per quello che sarà un lavoro
comune. Ancora un altro dei nostri programmi: ricostruire questa
università di cui vi ho parlato, vogliamo che sia veramente una
università internazionale. Penso che sia possibile cooperare, lavorare
insieme. Ieri, mi ha commosso una canzone molto bella, ha lasciato una profonda impressione nel mio cuore (era "Povera Voce" ndr).
Per
concludere il mio intervento, io vorrei ricantare questa canzone con
voi tutti; la canzone parla di gente comune, normale, esseri umani che
dicono: il nostro mondo è piccolo ma bello, un mondo uguale per tutti.
Vorrei cantare questa canzone con voi, amici miei, e vorrei invitare
tutti i miei amici a cantarla. L'ho imparata solo pochi minuti fa, ma
vorrei che tutti voi mi insegnaste, proviamoci insieme.
Li Lu Male,ha
studiato fisica e poi economia, ha organizzato nella sua città diversi
circoli di discussione con altri giovani. Appena iniziati i fatti della
Tienanmen, si è coinvolto attivamente con il movimento dei giovani. È
stato responsabile del comitato direttivo dello sciopero della fame, che
egli stesso ha praticato, e del comitato di gestione della piazza
Tienanmen e portavoce ufficiale di questo movimento. Ha parlato alle
Nazioni Unite, è riuscito, tra i pochissimi, a fuggire dalla Cina,
figura nell'elenco dei 21 peggiori criminali del suo Paese. Meeting di Rimini - agosto 1989
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Postato da: giacabi a 20:18 |
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comunismo, testimonianza
Ivan Medek, l’apostolo del dissenso
***
Europa
dell’Est • A 83 anni uno storico oppositore del regime comunista
cecoslovacco racconta in un libro la lotta per la libertà condotta con
Havel che poi lo volle come suo braccio destro • Cattolico convinto, fu
tra i primi firmatari di «Charta 77» • Espulso dal Paese, ritornò solo
nel 1989 • Scrive del primo presidente della Repubblica ceca: «È stato
sempre una persona coraggiosa, sia in prigione, sia al potere. Non ha la
pelle dura, ma per il nostro popolo ha fatto più di qualsiasi altro»
di Roberto Beretta
Tratto da Avvenire del 22 luglio 2009
È
stato uno dei 5 invitati alle seconde nozze di Václav Havel nel 1997,
quando il drammaturgo e fondatore di «Charta 77» ha sposato in segreto
l’attrice Dasa Veskrnova, pochi mesi dopo la scomparsa della prima
moglie Olga Havlova – molto amata dai praghesi. Ed
è stato per quasi 6 anni, dal 1993 al 1998, il braccio destro del
presidente ceco al Castello di Praga, come suo fedelissimo capo di
gabinetto. Eppure pochi immaginerebbero che Ivan Medek – oltre che
anticomunista a tutta prova, tra i primi fimatari di «Charta 77»,
dissidente a lungo perseguitato dal regime e costretto ad espatriare dal
1978 alla caduta del Muro – sia
anche un cattolico, anzi un convertito: perché non è del tutto
scontato pensare che l’intellettuale più «laico» del dissenso, il
presidente agnostico Havel, abbia personalmente voluto al suo fianco un
credente convinto come Medek. Eppure lo racconta il protagonista stesso, che oggi ha 84 anni e vive a Praga,
in un libro intitolato «A gonfie vele» nel quale raccoglie alcune
conversazioni radiofoniche autobiografiche e che la ricercatrice udinese
Tiziana Menotti ha tradotto in italiano sia per la sua tesi di
specialità, sia con la speranza di trovare un’editrice che faccia
conoscere anche da noi la straordinaria esperienza di un uomo purtroppo
poco conosciuto nel Belpaese.
E invece Medek
viene da una famiglia molto nota in Cecoslovacchia: la nonna materna di
Ivan, rimasta vedova di Antonín Slavícek (il maggiore esponente
dell’impressionismo ceco, morto suicida appena quarantenne), si era
risposata con il pittore Herbert Masaryk, figlio di Tomáš Garrigue
Masaryk primo presidente della Cecoslovacchia dalla fondazione delle
Repubblica nel 1918 al 1935.
Casa Medek dunque fu per tutti gli anni Venti uno straordinario foyer
culturale, ma anche politico, assai vivace e accolse molti degli
spiriti più creativi della nazione. Anche Rudolf Medek, padre di Ivan,
arruolatosi nel 1917 come volontario per combattere gli austriaci in
Russia, era poeta e scrittore.
Né
la vena artistica familiare si era esaurita lì: Mikuláš – fratello
minore di Ivan, morto nel 1974 – è considerato uno dei maggiori
rappresentanti della pittura contemporanea ceca.
Ivan, nato nel 1925, ha talento da musicista: ha studiato al
conservatorio fino al colpo di Stato filo-sovietico del 1948, poi ha
fatto il manager nella Filarmonica ceca prima di essere licenziato per
motivi politici, quindi ha lavorato presso una casa discografica, poi
come inserviente in un ospedale, da lavapiatti in un’osteria: sempre più
giù nella scala sociale ma sempre senza perdere la sua dignità e
l’aristocratica ironia. Nel 1968 Medek ha partecipato pure ai fermenti
della Primavera di Praga con Havel («Era il più giovane di noi ma aveva le idee molto chiare e assunse la direzione» del gruppo, testimonia). Nel frattempo però aveva incontrato il cristianesimo: «La conversione di Ivan Medek al cattolicesimo – scrive Tiziana Menotti – avvenuta
negli anni Cinquanta acquisì vigore per la frequentazione di diversi
sacerdoti che avevano resistito alle pressioni del regime per una Chiesa
nazionale staccata dal Vaticano, pagando con la persecuzione e il
carcere duro la loro fedeltà a Roma. Tra questi c’era Antonín Mandl,
collaboratore del cardinale Beran e segretario dell’Azione cattolica
cecoslovacca che, come molti altri prelati, aveva trascorso parecchi
anni in prigione prima di essere rilasciato negli anni Sessanta». Padre Mandl introdusse Medek presso numerosi sacerdoti dissidenti, come l’abate e poeta Anastáz Opasek (arrestato nel 1949 con l’accusa di tradimento e spionaggio per il Vaticano e condannato all’ergastolo nel 1950), Ota Mádr, Josef Zverina, Antonín Bradna o il salesiano padre Mrtvý: «Dopo
essere usciti di prigione si incontravano di tanto in tanto e a volte
mi invitarono alle loro riunioni. Lì conobbi persone che non
dimenticherò. Quasi cominciai a invidiare le loro esperienze del
carcere. Nonostante le guardie spesso li avessero picchiati e fossero
stati volgari con loro, essi avevano conservato una libertà radiosa,
quale pochi avevano al di là del muro del carcere. L’attività di questi
cristiani fu stimolante sotto tutti gli aspetti.
Essi ad esempio aprirono discussioni pubbliche tra cristiani e marxisti. Era sempre pieno di gente, accadeva davvero qualcosa.
Durante
la normalizzazione queste attività furono vietate, ma un seme rimase e
più tardi da esso nacquero vari gruppi indipendenti». Grazie a tali
conoscenze, Medek diventa uno dei principali collegamenti tra dissenso
laico e religioso: «Nel marzo 1968 – ricorda – Karel
Pilík, un prete cattolico che come gli altri sacerdoti scarcerati non
aveva il nulla osta dello Stato per l’esercizio dell’ufficio sacerdotale
e lavorava come operaio, propose una petizione per rivendicare la
distensione del rapporto tra lo Stato e la Chiesa, il ripristino delle
scuole ecclesiastiche, l’insegnamento della religione, la nomina dei
vescovi e così via.
Stilammo
la petizione e Pilík propose di farla firmare anzitutto ai vescovi. Io
avevo a quel tempo un’automobile Škoda e andammo dai vescovi.
Incominciammo con il vescovo Tomášek; non era ancora cardinale.
Rifletté a lungo, ma alla fine firmò. Poi, uno dopo l’altro, facemmo
visita agli altri vescovi.
Moltissimi
di loro avevano una paura terribile. Erano stati rilasciati dal carcere
con la condizionale e non volevano ricadere in qualche violazione. Ma
firmarono tutti. Poi andammo nei monasteri e alla fine facemmo firmare
la petizione ai credenti. Raccogliemmo circa 336. 000 firme. Consegnammo
la petizione, ma loro la bloccarono.
Non se ne fece assolutamente nulla». Nel
gennaio 1977 Medek è uno dei primi fra i 1900 firmatari di «Charta 77»:
«Me la portò un amico al caffè nel dicembre 1976. Disse che avevano
riflettuto se farmelo firmare, perché per me poteva significare la fine
dell’esistenza.
Dissi che lo sapevo, ma firmai. A volte, dopo Natale, ci
riunivamo nell’appartamento di Havel e ordivamo piani. Lì si decise chi
sarebbe stato il portavoce e quando sarebbe seguita la riunione
successiva, doveva essere in gennaio. Solo che finimmo in trappola».
Medek
viene subito licenziato, ma fa causa alla ditta e durante il processo
il suo avvocato chiede inutilmente che venga letto in aula il motivo del
licenziamento, cioè «Charta 77»: un pretesto per rendere pubblico il
documento. «Nel
maggio 1978 – continua Medek – mi capitò un fatto spiacevole. Dopo un
interrogatorio alla polizia segreta mi portarono via di sera con gli
occhi bendati in un bosco.Mi pestarono un poco finché persi conoscenza,
se ne andarono e mi lasciarono lì. Allora pensai che se volevo compiere
davvero un lavoro proficuo, non potevo farlo in patria in quelle
condizioni». Medek lascia dunque il Paese per trasferirsi a Vienna, dove
lavora per le emittenti radiofoniche Voice of America e Radio Free
Europa svolgendo un importante lavoro di controinformazione diretta alla
Cecoslovacchia.
Solo
nel 1989 potrà tornare in patria: «All’incontro di fine anno di Charta
77 e dei suoi fautori incontrai Václav Havel, a quel tempo già
presidente. Gli chiesi un’intervista. Il presidente mi ricevette al
Castello il 14 gennaio. Mi chiese che cosa poteva fare per me. Dissi che
ero venuto a chiedergli che cosa potevo fare io per lui». Infatti, dopo
aver lavorato qualche tempo per il governo, Medek diventa – già anziano
– il braccio destro di Havel. «Fu uno dei periodi più belli della mia
vita.
Václav
Havel è una persona enormemente interessante e bisogna prenderlo così
com’è. È anche una persona straordinariamente coraggiosa. Si è rivelato
tale in tutti i momenti della sua vita: in prigione, durante gli
interrogatori e durante il lavoro in ufficio. Inoltre è sensibile,
vulnerabile: ciò non dovrebbe corrispondere al suo coraggio. Non ha la
pelle dura. Ed è molto modesto. Quei 6 anni al Castello per me non
significarono soltanto lavoro e spesso decisioni politiche complicate,
ma soprattutto la possibilità di conoscere da vicino una persona di cui
sono convinto che, per la nostra repubblica, abbia fatto più di
qualsiasi altro».
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Postato da: giacabi a 07:06 |
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comunismo, testimonianza
Arcipelago Gulag in Romania:
ciò che nessuno aveva mai raccontato
La
testimonianza è di pochi giorni fa. È stata letta in Vaticano da un
prete greco-cattolico che è stato sedici anni nelle prigioni comuniste.
Ai limiti dell´immaginabile
di Sandro Magister
***
ROMA - Due libri, due opposte fortune. Mercoledì 24 marzo, in un hotel romano di lusso, il portavoce vaticano Joaquín Navarro-Valls ha presentato alla stampa di tutto il mondo l´ultimo libro di papa Karol Wojtyla, il racconto autobiografico dei suoi anni di vescovo di Cracovia. Intitolato "Alzatevi, andiamo", edito da Mondadori, tradotto in numerose lingue, il libro ha il successo assicurato. Il suo semplice annuncio ha avuto un´enorme copertura mediatica. Immeritatamente trascurata e clandestina, invece, si prospetta la vita di un altro libro presentato 24 ore prima, martedì 23 marzo, nella sala stampa vaticana. Il volume ha per titolo: "Fede e martirio. Le Chiese orientali cattoliche nell´Europa del Novecento". Raccoglie gli atti di un convegno di storici tenuto in Vaticano nel 1998 sulle persecuzioni delle Chiese dell´est. È stato stampato nel 2003 dall´Editrice Vaticana. Ma nelle librerie è praticamente introvabile. Persino lo scaffale virtuale di Amazon.com lo ignora. Eppure questo è un libro decisamente fuori dell´ordinario. E ancor più lo è stata la sua presentazione, anch´essa passata sotto immeritato silenzio. Per capirlo, basta leggere il testo riprodotto qui sotto, letto dal suo autore proprio durante la presentazione del volume, in Vaticano. L´autore è un anziano sacerdote della Chiesa greco-cattolica di Romania che ha passato sedici anni nelle prigioni comuniste. Il racconto della sua prigionia è concretissimo e insieme spirituale. Un po´ Solgenitsin, un po´ atti dei martiri. Tra mistero d´iniquità spinto ai limiti dell´immaginabile e Grazia. Con la "Santa Provvidenza" che opera per le mani inconsapevoli degli aguzzini. In tempi in cui il martirio è parola abusata, applicata anche agli "shahid" islamisti che si fanno esplodere per fare strage, questa è una testimonianza che aiuta a restituir verità. Assolutamente da non perdere. di Tertulian Ioan Langa Il mio nome è Tertulian Langa e della mia vita sono ben 82 gli anni che non ho più. Di questi, 16 regalati alle prigioni comuniste. A 24 anni, nel 1946, ero un giovane assistente alla facoltà di filosofia dell´università di Bucarest. Le truppe russe avevano occupato quasi un terzo della Romania e mi fu intimato, come membro del corpo insegnante, di iscrivermi d´urgenza al sindacato manipolato dal partito comunista, imposto al potere dai blindati sovietici. Già allora ero pienamente attestato sul fermo atteggiamento magisteriale che la Chiesa cattolica aveva adottato contro il comunismo, dichiarato male intrinseco. Quindi non c´era posto nella mia coscienza per un compromesso. Rinunciai alla carriera universitaria e mi ritirai in campagna come operaio agricolo; ma non fu sufficiente, poiché ero conosciuto, già alla facoltà, come militante cattolico e anticomunista. Velocemente fu improvvisato a mio carico un dossier accusatorio; e visto che le accuse si fondavano su fatti che il codice penale dell´epoca ancora non incriminava (rapporti con i vescovi, con la nunziatura, apostolato laico), il mio dossier fu assimilato a quello dei grandi industriali. Dopo gli interrogatori accompagnati da atroci trattamenti, il procuratore dichiarò con perfetta logica comunista: "Nel dossier dell´accusato non si trova nessuna prova sulla sua colpevolezza; ma chiediamo ugualmente il massimo della pena: 15 anni di lavori forzati. Poiché, se non fosse colpevole, non si troverebbe qui". Obiettai: "Ma non è possibile che mi condanniate senza avere nessuna prova!". E lui: "Non è possibile? Guarda come è possibile: 20 anni di lavori forzati per aver protestato contro la giustizia del popolo". E questa fu la sentenza. Ciò avveniva quando la Chiesa greco-cattolica di Romania ancora non era stata messa fuori legge. Si dava per scontato che il mio arresto e le torture sarebbero riuscite a trasformarmi in uno strumento a favore della futura incriminazione di vescovi e preti della Chiesa greco-cattolica e della nunziatura. Degli interrogatori e della mia prigionia nei campi di sterminio comunisti riferisco soltanto alcuni momenti. Sono stato arrestato a Blaj, nell´ufficio del vescovo Ioan Suciu, allora amministratore apostolico della metropolia greco-cattolica di Romania e futuro martire. Mi ero presentato a lui, al capo della nostra Chiesa, per chiedere lumi alla Santa Provvidenza, poiché il mio padre spirituale, monsignor Vladimir Ghika, altro futuro martire, era all´epoca nascosto. Mi era stata offerta da qualcuno la possibilità di partire per l´estero. Trattandosi di un passo importante, non volevo compierlo senza confrontarlo con la volontà di Dio. E la risposta arrivò: il mio arresto. Capivo che avrei passato la mia vita nelle prigioni create dal regime comunista, ma ero sereno: seguivo il percorso della Santa Provvidenza. LA VERGA DI FERRO Ricordo il giovedì santo dell´anno 1948. Da due settimane, ogni giorno, mi percuotevano con un ferro sulla pianta dei piedi, attraverso gli scarponi: dei fulmini mi percorrevano la spina dorsale e mi esplodevano nel cervello, senza però che mi fosse rivolta alcuna domanda. Mi preparavano col ferro per farmi arrivare più morbido all´interrogatorio. Legato mani e piedi e appeso con la testa in giù, i miei carcerieri mi infilavano in bocca un calzino, già lungamente passato negli scarponi e nella bocca di altri beneficiari dell´umanesimo socialista. Il calzino era diventato lo strumento antirumore grazie al quale si impediva al suono di oltrepassare il luogo dell´interrogatorio. D´altra parte, era praticamente impossibile emettere un solo gemito. Per di più, mi ero autobloccato psicologicamente: non ero più capace di gridare o di muovermi. I miei torturatori interpretavano questo atteggiamento come fanatismo da parte mia. E continuavano sempre più accaniti, alternandosi nel torturarmi. Notte dopo notte, giorno dopo giorno. Non mi domandavano nulla, poiché non era la risposta ciò che li interessava, ma l´annientamento della persona, fatto che tardava ad avverarsi. E come si prolungava lo sforzo di annientare la mia volontà, di ottenebrare il mio pensiero, si prolungava indefinitamente la tortura. Gli scarponi maciullati mi caddero dai piedi, pezzo dopo pezzo. In quella notte del giovedì santo, in una chiesa vicina, si celebrava l´ufficio liturgico, accompagnato come da un pianto di campane spaventate. Trasalii. Gesù avrà sentito il mio grido soffocato, quando, non so come, urlai da quell´inferno: "Gesù! Gesù!". Fuoruscito attraverso il calzino, il mio grido non fu compreso dagli aguzzini. Trattandosi del primo suono che udivano da me, si dichiararono contenti, sicuri d´avermi piegato. Mi trascinarono con la coperta fino alla cella, dove svenni. Al mio risveglio, davanti a me stava l´inquisitore, con in mano una risma di carta: "Ti sei ostinato, bandito, ma non uscirai di qui finché non avrai tirato fuori tutto ciò che tieni nascosto dentro. Hai 500 fogli. Scrivi tutto ciò che hai vissuto: tutto su tua madre, su tuo padre, sulle sorelle, i fratelli, i cognati, i parenti, i compagni, i conoscenti, i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiosi, i politici, i professori, i vicini e i banditi come te. Non ti fermare finché non avrai finito la carta". Ma non scrissi nulla. Non per chissà quale fanatismo, ma perché non ne avevo la forza: anche la mente mi sembrava svuotata. LA LUPA Dopo quattro giorni, lo stesso individuo: "Hai finito di scrivere?". Vedendo che i fogli non erano stati toccati, disse: "Se così stanno le cose, spogliati! Ti voglio vedere come Adamo nel paradiso". Passarono così altri giorni, vissuti a pelle nuda sul pavimento: conforto tipico del socialismo umano. Un altro individuo mi si presentò dopo un po´ di tempo davanti alla porta: "Vediamo, cosa c´è allora sulla carta? Nulla? Sempre ostinato! Guarda che abbiamo anche altri metodi". Dopo di che uscì. Ritornò accompagnato da un cane lupo enorme, con le zanne minacciose, in vista. "La vedi? È Diana, la cagna eroina, alla quale hanno sparato i tuoi banditi sulle montagne. Ti insegnerà lei cosa devi fare. Comincia a correre!". E io: "Come a correre? In una stanza di soli tre metri?". Nella stanza c´era anche una lampadina di 300 watt, troppo per una stanza di soli tre metri per due, fissata non in alto ma sul muro, a livello del viso. "Corri!". La lupa, ringhiando, stava pronta ad attaccare. Corsi per sei, sette ore, ma di ciò mi resi conto soltanto verso l´alba, vedendo la luce farsi strada nella cella e sentendo movimenti nell´edificio. Ogni tanto quel tale faceva uscire la lupa per i bisogni. A me non era concesso. Quando cominciai a perdere l´equilibrio e accennavo a fermarmi, la lupa vigilante, come a un comando, mi ficcava le sue zanne nella spalla, nella nuca e nel braccio. Ho corso sotto i suoi occhi e le sue zanne per 39 ore senza interruzione. Alla fine crollai e la lupa si lanciò su di me. Mi azzannò al collo, senza però strozzarmi. Sulla fronte e sugli occhi sentii scorrere qualcosa di caldo e bruciante, capii che la bestia mi orinava sul viso. Ed è dalle parole dei miei carnefici che seppi d´aver corso per 39 ore. "Questo lo possiamo mandare alla maratona di Rio! Che resistenza, la bestia fascista!". Ma vedendo che nemmeno la maratona era riuscita a convincermi a rilasciare una dichiarazione sui vescovi e la nunziatura, o su qualche compagno ricercato, ritennero utile passare a un altro metodo di convincimento: il sacchetto di sabbia. IL SACCHETTO DI SABBIA Il giorno dopo, in un ufficio, mi legarono mani e piedi a una sedia, davanti a un tavolo con un sacchetto sopra. Dietro di me c´era un aguzzino impalato e muto. A una scrivania, nell´angolo, un individuo calvo con una barbetta da caprone, che voleva rassomigliare a Lenin. Muto anche lui, fece un segno muovendo la testa. Il mio boia capì il comando. Impugnò il sacchetto e me lo picchiò in testa con ritmo, accompagnando ogni colpo con la parola: "Parla!". Decine di volte, centinaia di volte, non so, magari migliaia: "Parla!". Ma nessuno mi chiedeva alcunché. Soltanto una voce cavernosa, monotona, mi ficcava nel cervello l´idea imperativa di dire, di rispondere a ogni domanda sottoposta alla mia coscienza dall´organo inquisitore. Non mi fu difficile decifrare la satanica idea di voler sottomettere la mia volontà. Dopo circa venti colpi, cominciai ad applicare il principio morale "age contra", fa il contrario, dicendo tra me ad ogni colpo: "Non parlo!". Decine di volte, centinaia di volte. Con l´autosuggestione avevo impiantato in me lo stereotipo "Non parlo!", col rischio di diventare io stesso schiavo di quell´unico modo di esprimermi. In effetti fu così: da allora in poi, automaticamente, a ogni domanda che mi veniva rivolta, non importa su quale argomento, io rispondevo: "Non parlo!". Mi ci volle un anno intero di sforzi mentali per liberarmi da questo sinistro riflesso automatico. VENTOTTO CENTIMETRI Come soggetto privo di valore e interesse negli interrogatori, fui trasferito nella prigione sotterranea della zona paludosa di Jilava, a 8 metri sotto terra, che era stata costruita un tempo a difesa della capitale, ma era allora completamente inutilizzabile a causa delle forti infiltrazioni d´acqua. Nulla e nessuno vi resisteva tranne l´uomo, il più alto tesoro del materialismo storico. Nelle celle di Jilava, i poveri uomini facevano l´esperienza delle sardine: però non nell´olio, ma nel succo proprio, fatto di sudori, di orine e di acque di infiltrazione, che scorrevano senza sosta sui muri. Lo spazio era sfruttato nel modo più scientifico: due metri di lunghezza e ventotto centimetri di larghezza per ciascuna persona stesa a terra, sul fianco. Alcuni, i più anziani, stavano stesi su tavole di legno, senza lenzuola o coperte. A contatto col legno erano l´osso omerale e la parte esterna del ginocchio e della caviglia. Stavamo sulla punta delle ossa, per occupare uno spazio minimo. La mano non poteva appoggiarsi che sull´anca o sulla spalla del vicino. Non resistevamo così più di mezz´ora; poi tutti, al comando, poiché non era possibile separatamente e uno dopo l´altro, ci voltavamo sull´altro fianco. La catasta di corpi stipati, così disposti, aveva due livelli, come in un letto a castello. Ma al di sotto di questi c´era un terzo livello, dove i detenuti giacevano direttamente sul cemento. Sul cemento i vapori di condensa del respiro dei settanta uomini, assieme alle acque di infiltrazione e all´orina che fuorusciva dalle latrine, formavano una miscela viscosa in cui nuotavano i malcapitati. Al centro della cella-tomba di Jilava troneggiava un recipiente metallico, di circa settanta-ottanta litri, per l´orina e le feci di settanta uomini. Non aveva coperchio e l´odore e il liquido traboccavano abbondantemente. Per raggiungerlo, dovevi passare per il "filtro", vale a dire per un controllo severo applicato a pelle nuda, controllo nel quale veniva sottoposto ad esame l´intero organismo e ogni suo orifizio. IL "FILTRO" Con una bacchetta di legno ci raspavano in bocca, sotto la lingua e le gengive, nel caso in cui noi banditi avessimo lì nascosto qualcosa. La stessa bacchetta ci perforava le narici, le orecchie, l´ano, sotto i testicoli, rimanendo sempre la stessa, rigorosamente la stessa per tutti, come segno d´egualitarismo. Le finestre di Jilava non erano fatte per dare luce, ma per ostacolarla, poiché tutte erano accuratamente chiuse da tavole di legno inchiodate. La mancanza d´aria era tale che per respirare, tre per volta, ci avvicendavamo a turni, pancia in giù, con la bocca accanto allo spiraglio della porta, posizione in cui contavamo sessanta respiri, affinché poi anche altri compagni potessero riprendersi dallo svenimento e dalla carenza d´ossigeno. Contribuivamo così, a nostro modo, all´edificazione del più umano sistema del mondo. Sapevano queste cose Churchill e Roosevelt, quando, con un colpo di penna, sul tavolo della vergogna di Teheran, stabilirono che noi rumeni dovessimo finire macinati dalle fauci del Moloch orientale rosso e facessimo da cordone di sicurezza per la loro comodità? E la Santa Sede poteva forse immaginare qualcosa? NUDI NEL GELO Da Jilava, dopo lunghi anni di profanazioni umane, fummo trasferiti, catene ai piedi, al carcere di massimo isolamento, chiamato Zarka, padiglione del terrore della prigione di Aiud. L´accoglienza si svolse secondo lo stesso rituale sinistro, diabolico, di profanazione dell´uomo creato dall´amore di Dio. La stessa raspatura, gli stessi stivali tremendi che ci si ficcavano nelle costole, nella pancia e nei reni. Nonostante ciò, notammo una differenza: non eravamo più sottoposti al regime di conserva in orine, sudori, condensa e carenza d´ossigeno, ma fummo sottoposti a una intensa cura di ossigenazione a pelle nuda e nel gelo, bandito dopo bandito (da intendere ministri, generali, professori universitari, scienziati, poeti) compreso me, che non ero nulla tranne che un "Non parlo!" gigante, una ferma e umile fiducia nella Grazia che mi avrebbe fatto superare la prova. Tutti dovevamo sparire, come nemici del popolo. Altrimenti, come avrebbe potuto farsi avanti il tanto proclamato "Uomo nuovo sovietico"? La cella in cui ero stato introdotto non conteneva nulla: né letto, né coperta, né lenzuolo, né cuscino, né tavolo, né sedia, né stuoia e nemmeno finestre. Soltanto sbarre di acciaio e io, come tutti gli altri, da solo nella cella: mi meravigliavo di me stesso, vestito con la sola pelle e coperto dal freddo. Era la fine di novembre. Il freddo si faceva sempre più penetrante, come uno scomodo compagno di cella. Dopo circa tre giorni, dalla porta violentemente sbattuta mi furono gettati dei pantaloni logori, una camicia con maniche corte, mutande, una divisa a strisce e un paio di scarponi consumati, senza lacci, senza calzini. Nulla da mettere in testa. E in più una specie di latrina, un misero recipiente di circa quattro litri. Mi vestii come un razzo. Congelati, il quarto giorno ci contarono. Al posto del nome mi diedero un numero: K-1700, l´anno in cui la Chiesa della Transilvania si riunì con Roma. All´anagrafe, ero già ucciso. Sopravvivevo solo come numero statistico. Arrivò poi il brodo, servito con un mestolo da 125 grammi: un fluido allungato prodotto dalla bollitura di farina di mais. Come pranzo ci fu distribuita una minestra di fagioli, nella quale potei contare all´incirca otto, nove chicchi, con parecchie bucce vuote, senza contenuto. Per la cena, ci portarono del te con una crosta di pane bruciato. Dopo una settimana, i fagioli furono sostituiti da un passato di crusche, nel quale contai quattordici chicchi. Di tanto in tanto, i fagioli si alternavano con il passato di crusche. Vivevamo con meno di quanto si dà a una gallina. CAMMINARE O MORIRE Per sopravvivere al freddo, eravamo costretti a muoverci continuamente, a far ginnastica. Nel momento in cui cadevamo stremati dalla stanchezza e dalla fame, precipitavamo nel sonno; un sonno brevissimo, giacché il freddo era tagliente. Da un tale sonno mi svegliò un giorno una voce proveniente dall´altra parte del muro: "Qui professor Tomescu. Chi sei ?". Era un ex ministro della sanità che, udito il mio nome, così proseguì: "Ho sentito parlare di te. Ascoltami attentamente: siamo stati portati qui per essere sterminati. Non collaboreremo mai con loro. Ma chi non cammina muore, e quindi diventa un collaboratore. Trasmettilo agli altri: chi si ferma, muore. Camminare senza sosta!". Il padiglione, immerso nel silenzio lugubre della morte, risuonava sotto i nostri scarponi senza lacci. Eravamo animati dalla misteriosa volontà di un popolo di rimanere nella storia e dalla vocazione della Chiesa di restare viva. Ci fermavamo dal camminare solamente intorno alle 12,30, per una mezz´ora, quando il sole si fermava avaro per noi nell´angolo della stanza. Là, rannicchiato col sole sul viso, rubavo un fiocco di sonno e un raggio di speranza. Quando il sole mi abbandonava anche lui, sentivo però di non essere abbandonato dalla Grazia. Sapevo di dover sopravvivere. Camminavo, dicendomi come in un ritornello, sillabando: "Non voglio morire! Non voglio morire!". E non sono morto! A ogni passo cadenzavo nella mente una preghiera, componevo litanie, recitavo versetti di salmi. Continuammo a camminare così, per non inciampare nella morte, diciassette settimane. Chi non aveva più la forza o la volontà di muoversi, moriva. Degli 80 uomini entrati nella Zarka, appena 30 sopravvissero. La sbarre di ferro, piano piano, si rivestivano di brina, formatasi dagli aliti di vita del nostro respiro, brillante abito di passaggio verso il cielo. MA TUTTO È GRAZIA Credetti fortemente, più volte, che sarei arrivato fino ai margini della notte. Ma avevo ancora una lunga strada da percorrere. Arrivato poi, anni dopo, in ciò che immaginavo dovesse essere la libertà, costatai che non era in realtà che un nuovo modo di essere della notte, che il gelo tra la Chiesa greco-cattolica e la gerarchia della Chiesa sorella ortodossa non si lasciava sciogliere ancora; che le nostre chiese continuavano ad essere confiscate, e il gregge diminuiva sempre di più, ucciso dalle promesse. Ma anche Cristo Signore ha vinto soltanto quando ha potuto pronunciare con l´ultimo respiro: "Consummatum est", tutto è compiuto. Non ho scritto molto di queste mie drammatiche esperienze. Chi può credere a ciò che sembra incredibile? Chi può credere che le leggi fisiche possono essere superate dalla volontà? E se dovessi raccontare i miracoli che ho vissuto? Non sarebbero considerati delle fantasmagorie? Sopporterei più difficilmente questa incredulità che non altri anni di prigione. Ma nemmeno Gesù è stato creduto da tutti coloro che l´hanno visto: "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6,66). Nulla avviene per caso nella vita. Ogni attimo che il Signore ci concede è gravido della Grazia - impazienza benevola di Dio - e della nostra volontà di rispondergli o di rifiutarlo. Spetta a ciascuno di noi non ridurre tutto a un semplice racconto duro, feroce, incredibile, e capire invece che la Grazia accolta non frena l´uomo, ma lo porta oltre le sue aspettative e forze. Questa testimonianza spero di cuore che apra una finestra di Cielo. Perché è più grande il Cielo sopra di noi che non la terra sotto i nostri piedi. |
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comunismo, testimonianza
LA GUARIGIONE DI WANDA POLTAWSKA
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Estratto dal libro di Renzo Allegri:
I miracoli di Padre Pio. Mondadori Editore.
Inchiesta giornalistica sui fatti prodigiosi attribuiti al frate con le stigmate ora diventato santo
Nel
1962, Karol Wojtyla era vescovo ausiliare a Cracovia. Il l ottobre di
quell'anno veniva inaugurato il Concilio Vaticano il e Karol Wojtyla
aveva raggiunto la capitale italiana insieme ad altri 24 vescovi
polacchi e al cardinale Wyszynski per
partecipare a quello straordinario evento della Chiesa. A Roma aveva
preso alloggio presso il Collegio Polacco, che si trova sul colle
Aventino, in un posto bellissimo, pieno di sole, di verde, da dove si
può godere la veduta di tutta la città. Era felice di essere tornato
nella "città eterna" dove tanti anni prima aveva studiato Teologia.
Doveva rimanere in quella città fino alla metà di dicembre e aveva in
programma, oltre agli impegni conciliari, mille progetti. Aveva
partecipato con gioia alla Messa dell'apertura del Concilio celebrata
nella Basilica di San Pietro. Tutte le mattine si recava alle assemblee
con entusiasmo. Ma tra tante gioie e soddisfazioni, una sera, rientrando nel Collegio Polacco trovò una lettera con
una dolorosa notizia: la dottoressa Wanda Poltawska, moglie del suo
amico Andrei, era malata. Era stata ricoverata in ospedale e gli esami
clinici avevano messo in evidenza la presenza di un tumore.
Karol
Wojtyla conosceva bene quella donna. Era una delle sue migliori
collaboratrici. Wanda Poltawska proveniva da una famiglia polacca
cattolicissima. Da giovane aveva fatto parte dei movimenti cattolici di
Cracovia. Era stata un'esponente della gioventù cattolica femminile
polacca. Per questo, durante la guerra, dopo l'invasione della Polonia
da parte delle truppe tedesche, era stata arrestata e internata nei
campi di concentramento nazisti, dove era rimasta cinque anni, tra
sofferenze e disagi incredibili, sopportati sempre con grande fede e con
rassegnazione. Ritornata in patria, aveva ripreso gli studi
universitari e la sua attività nei gruppi della gioventù cattolica. Dopo
quello che aveva subito e sofferto, era diventata un esempio per i suoi
coetanei. E fu in quegli anni che Karol Wojtyla la conobbe.
Karol era un giovane sacerdote. Era da poco stato nominato vicario
nella chiesa di San Floriano, nel centro della città. il suo incarico
principale era quello di interessarsi degli studenti, dei gruppi
giovanili cattolici. Wojtyla era già laureato in Teologia e Filosofia.
Teneva conferenze che erano seguitissime dai giovani cattolici. Intorno a
lui si radunavano folti gruppi di universitari, assetati di ideali
umanitari e religiosi. Tutti restavano incantati dagli insegnamenti di
Karol e dal suo comportamento. Questi giovani avevano bisogno di restare
periodi sempre più lunghi con lui per discutere, parlare. Allora Karol
Wojtyla aveva pensato alle escursioni in montagna. Lassù, lontani dai
rumori della città, a contatto con la natura, si parlava meglio di Dio e
dei problemi della vita.
Tra
i frequentatori di quelle escursioni, che si ripetevano più volte
l'anno e che duravano anche più di una settimana, c'erano sempre Wanda
Poltawska e suo marito Andrei. Erano laureati in Medicina e
specializzati in Psichiatria. Erano interessatissimi ai temi che Karol
Wojtyla trattava, soprattutto quelli inerenti i problemi della coppia.
Spesso si fermavano a discutere con lui portando il loro contributo di
medici. Wojtyla intuì la fede profonda che animava quei due giovani e
divenne loro amico. Karol era solo al mondo. Sua madre Emilia era morta
quando lui aveva soltanto nove anni; il fratello maggiore, Edoardo,
medico, era morto subito dopo aver conseguito la laurea, e suo padre se
ne era andato all'improvviso per infarto nel 1942, quando egli aveva 21
anni. Una serie di disgrazie familiari terribili che avevano
profondamente segnato il suo animo sensibilissimo. Non avendo più nessuno al mondo, Karol Wojtyla a volte sentiva molto il peso della solitudine. Ma
da quando aveva fatto amicizia con Wanda e Andrei, quella sofferenza
interiore era quasi scomparsa. Andrei e Wanda erano diventati fratelli
per lui, e la loro famiglia era diventata la sua famiglia adottiva.
Avevano continuato a lavorare insieme per anni. Avevano fondato gruppi
di ricerca. Avevano scritto libri, organizzato conferenze, sempre sui
problemi della famiglia. Poi Karol Wojtyla era diventato professore
universitario, era stato nominato vescovo. La famiglia dei suoi amici
era aumentata. Wanda e Andrei avevano avuto quattro bambine. Wojtyla
andava a trovarle, giocava con loro e le bambine lo chiamavano "zio".
Era un'amicizia stupenda, profonda, quella di Karol e della giovane
famiglia di Andrei Poltawska" un'amicizia che arricchiva il cuore. E
ora, ecco la notizia tremenda: Wanda stava per morire. Di fronte a
quella lettera, Karol Wojtyla provò il dolore di quando aveva perduto i
suoi cari. Cominciò a pregare per la sua amica. Chiedeva al Signore di
allontanare da quella famiglia una tragedia immane. Wanda aveva soltanto
40 anni. Le sue bambine avevano bisogno della mamma. Karol Wojtyla
pregava con fervore, ma le notizie che giungevano dalla Polonia erano
sempre più brutte. Il male progrediva rapidamente. La dottoressa
Poltawska doveva essere sottoposta a un intervento chirurgico ma, data
la gravità della malattia, le speranze che potesse salvarsi erano poche.
Karol Wojtyla intensificò le sue preghiere. Chiedeva preghiera ad amici
e sacerdoti, a suore che conosceva. Poi, improvvisamente, si ricordò di
padre Pio che egli aveva conosciuto nell'immediato dopoguerra. Era
andato a trovarlo nel 1947. Si era confessato da lui e ne aveva
riportato una grande impressione. Credeva nella santità di quel frate e
decise di rivolgersi a lui.
Prese
carta e penna. Su un foglio intestato "Curia metropolitana
cracoviensis", la diocesi di Cracovia, scrisse, in un latino frettoloso,
una breve lettera che porta la data del 17 novembre 1962. "Venerabile
padre, ti chiedo di pregare per una certa madre di quattro ragazze, che
vive a Cracovia in Polonia (durante l'ultima guerra fu per cinque anni
nei campi di concentramento in Germania) e ora si trova in gravissimo
pericolo di salute, anzi di vita a causa di un cancro. Prega affinché
Dio, con l'intervento della Beatissima Vergine, mostri misericordia a
lei e alla sua famiglia. In Cristo obbligatissimo Karol Wojtyla".
La
lettera venne consegnata ad Angelo Battisti che, in Vaticano, era molto
conosciuto perché lavorava alla segreteria di Stato. Essendo egli
amministratore della Casa Sollievo della Sofferenza, era un amico di
padre Pio ed era quindi una delle poche persone che potevano avvicinarlo
sempre, che potevano andare a qualsiasi ora del giorno nella sua
camera. "La lettera mi fu consegnata da un cardinale italiano" raccontò
Battisti. "Quel cardinale mi disse che si trattava di una vicenda della
massima importanza e che quindi dovevo partire subito e consegnare la
lettera proprio nelle mani di padre Pio. "Non avevo mai ricevuto
incarichi così urgenti. Andai subito a casa, presi la mia auto e partii
immediatamente. "Arrivato a San Giovanni Rotondo,
andai nella cella di padre Pio. Gli porsi la lettera dicendo che si
trattava di cosa urgente. ""Apri e leggi" disse il Padre. "Aveva la
testa piegata sul petto e stava, come sempre, pregando. Aprii la busta e
gli lessi la lettera. Il Padre ascoltò in silenzio senza dire niente.
Quando ebbi finito di leggere quelle poche righe, rimase ancora in
silenzio. Io ero meravigliato: quella lettera non conteneva niente di
straordinario. Era una delle numerosissime lettere che padre Pio
riceveva ogni giorno da parte di persone che chiedevano preghiere. A un
certo momento, padre Pio, alzando la testa e guardandomi con i suoi
occhi profondi mi disse: "Angiolino, a questo non si può dire di no".
Piegò di nuovo la testa sul petto e riprese a pregare. "Risalii in
macchina per tornare a Roma. Durante il viaggio continuavo a riflettere
su quella frase. Conoscevo padre Pio da anni. Ero abituato a vedere
intorno a lui le cose più incredibili. Sapevo che ogni sua parola aveva
sempre un profondo significato. Continuavo a chiedermi: Ma perché ha
detto: 'A questo non si può dire di no'?. Chi era quel vescovo polacco?
Io lavoravo in segreteria di Stato, ma non lo avevo mai sentito
nominare. Perché padre Pio aveva tanta stima di lui fino al punto da
pronunciare quella frase che dimostrava che era una persona
importantissima per lui? Arrivato a Roma chiesi ai miei colleghi se
conoscevano il vescovo Wojtyla, ma nessuno lo aveva mai sentito nominare". Dopo undici giorni, e precisamente il 28 novembre, Karol Wojtyla scrisse una nuova lettera a padre Pio: "Venerabile
padre, la donna abitante a Cracovia in Polonia, madre di quattro
ragazze, il giorno 21 novembre, prima dell'operazione chirurgica è
guarita all'improvviso. Rendiamo grazia a Dio. E anche a te padre
venerabile porgo i più grandi ringraziamenti a nome della stessa donna,
di suo marito e di tutta la sua famiglia. In Cristo, Karol Wojtyla,
vescovo capitolare di Cracovia".
Questa
seconda lettera di Wojtyla è piena di gioia. Egli annuncia
l'incredibile fatto in forma sintetica, ma fornendo gli elementi precisi
per far comprendere che si trattava di un prodigio straordinario. La
guarigione della sua amica è avvenuta all'improvviso, mentre l'ammalata
si trovava in ospedale e stava per essere sottoposta all'intervento
chirurgico. Si tratta quindi di una guarigione avvenuta sotto gli occhi
dei medici, quindi sotto il controllo della scienza. Un vero e proprio
miracolo, che Wojtyla attribuisce, senza ombra di dubbio, all'intervento
di Dio ottenuto grazie alle preghiere di padre Pio.
Anche questa volta la lettera fu immediatamente consegnata ad Angelo
Battisti con l'incarico di portarla subito a San Giovanni Rotondo.
"Partii immediatamente perché anche quella volta, in Vaticano mi avevano
fatto una grande fretta" mi raccontò Battisti. "Arrivato a San Giovanni
Rotondo, entrai nella cella di padre Pio, gli feci vedere la lettera e
come al solito egli disse: "Apri e leggi". "Questa volta lessi con molta
curiosità anch'io, perché volevo sapere che cosa ci fosse ancora di
tanto importante, e sentendo quella notizia veramente straordinaria,
incredibile, guardai verso il Padre come per congratularmi con lui. Ma
padre Pio era immerso nella preghiera. Sembrava non avesse udito la mia
voce mentre leggevo la lettera. Attesi in silenzio che mi dicesse
qualcosa oppure che mi ordinasse di tornare a Roma. Dopo qualche minuto
il Padre disse: "Angelino,
conserva queste lettere, perché un giorno diventeranno importanti".
Tornai a Roma, tenni sempre con me quelle lettere, come mi aveva
ordinato padre Pio. Passarono sedici anni e mi ero quasi dimenticato di
averle. Ma la sera di lunedì 16 ottobre 1978, quando dalla loggia
centrale della Basilica di San Pietro sentii il cardinale Felici
annunciare al mondo il nome del nuovo Papa che era stato eletto al posto
di Giovanni Paolo I, mi venne quasi un colpo. Il nome era quello di
Karol Wojtyla. Quel vescovo polacco che mi aveva dato la lettera da
portare a padre Pio per chiedere la guarigione di una donna di Cracovia.
Pensai immediatamente alla frase di padre Pio. "A questo non si può
dire di no" e mi vennero le lacrime agli occhi."
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Postato da: giacabi a 21:31 |
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testimonianza
Prigionieri dell’eugenetica
***
Sopravvissuta agli esperimenti medici nazisti, amica personale di Wojtyla, Wanda Póltawska riconosce nei sogni scientisti di oggi il delirio superomistico che sessant’anni fa eliminava i più deboli
«Non basta parlare della bellezza della vita: bisogna parlare della santità della vita, perché la vita umana deve essere santa».
Niente più che una bella frase, se non fosse che a pronunciarla è stata
una “Versuchskaninche”, una cavia medica del lager nazista di
Ravensbrück. «Se qualcuno mi svegliasse improvvisamente di notte e mi
chiedesse chi sono, potrebbe succedere che risponda: “Shutzhaftling
siebenundsiebzig null neun”. Questo è il mio numero in lingua tedesca:
7709. E per questo non c’è rimedio».
La vita di Wanda Póltawska sarebbe il sogno di qualsiasi regista cinematografico: nell’esistenza di donna polacca oggi 87enne, psichiatra, si concentrano alcune delle più drammatiche vicende del Novecento. Membro della Resistenza antinazista a Lublino, sua città natale, nel 1941, giovanissima scout cattolica, viene arrestata, imprigionata e torturata dalla Gestapo. Wanda viene quindi spedita nel lager nei pressi di Berlino e qui, insieme ad un manipolo di altre compagne polacche, diventa cavia umana per efferati esperimenti medici delle Ss: subisce continue operazioni chirurgiche sugli arti che le lasciano non solo ferite nelle gambe ma, ancor di più, una cicatrice nell’anima. Dopo la guerra diventa amica personale di Karol Wojtyla, conosciuto durante i suoi studi di medicina a Cracovia. È lui ad affidarla a padre Pio – e il miracolo avviene – quando una paralisi la colpisce negli anni Sessanta. In seguito sarà una stretta collaboratrice dell’allora arcivescovo di Cracovia: dal 1957, per 40 anni, direttrice dell’Istituto di teologia della famiglia alla Pontificia accademia teologica della città di Wojtyla, che la nomina membro del Pontificio consiglio per la famiglia e della Pontificia accademia per la vita. Non rilascia mai interviste, Wanda Póltawska. «Mi dispiace» ci dice da casa sua, a Cracovia. Quello che aveva da dire l’ha raccontato in un libro drammatico, E ho paura dei miei sogni (Edizioni dell’Orso), scritto come terapia psicoanalitica, apposta per allontanare gli incubi che, tornata a casa, la tormentavano ogni notte (il libro è uscito in polacco nel 1961, già tradotto in inglese e solo recentemente in italiano). A Tempi confida che è «sciocco e piuttosto insincero» ogni tentativo negazionista alla Mahmoud Ahmadinejad. E invita «gli italiani a vedere Katyn», il film-capolavoro di Andrzej Wajda sull’eccidio sovietico di ufficiali polacchi, «perché questo crimine è una cosa che deve essere ricordata». Come il dramma che la Póltawska porta come stimmate sulla sua pelle, cicatrici quali segni della pazzia superomistica di Hitler che pensava di rimodellare l’«umanità nuova». «È dall’uomo che dipende cosa farà di se stesso ed è per questo che alla domanda su dove sia Dio io posso contrapporre un’altra domanda: “Dov’è l’uomo?”. Non si può accusare Dio delle conseguenze dell’operare umano: quest’accusa la possono fare degli uomini ad altri uomini». Così afferma la Póltawska quando le si chiede conto della sua fede cristiana dentro l’orrore del lager. Ricco di spunti è il suo intervento “Quando la morte non vince”, pubblicato in L’eclissi della bellezza. Genocidi e diritti umani, volume che raccoglie gli atti di un omonimo convegno organizzato tempo fa a Brescia e ora edito da Fede & Cultura (pp. 185, euro20). «Finché viviamo, la linea di demarcazione tra il bene ed il male non passa tra un uomo e l’altro, passa dentro ogni uomo. Puoi anche accorgerti che, lentamente, impercettibilmente, si stia spostando verso la bestialità, ma tu, uomo libero, puoi tendere consapevolmente all’eroismo, alla santità». Proprio in forza della disumana esperienza di Ravensbrück la Póltawska ha da sempre portato avanti una causa pro-life politicamente scorretta, la lotta contro l’aborto. «Hess e i medici ginecologi: anche loro uccidono migliaia di persone, di bambini indifesi, ed essendo medici sanno bene che si tratta di esseri umani. Ma nessuno li giudica, nessuno li condanna. La legge degli uomini non difendeva e non difende i bambini». Non ha timore di sembrare irriverente, questa anziana reduce dai nazisti, a lottare per la difesa della vita innocente in nome di quella dignità umana che ha visto calpestata dagli anfibi delle Ss. Alla domanda di Tempi sul perché sia una così strenua nemica dell’aborto risponde: «Sono cattolica e ho visto dei bambini buttati nelle fiamme dai tedeschi». Wanda ricorda un episodio per lei illuminante: «Durante un congresso in Austria un medico disse di avere una domanda da fare ai teologi. Aveva un problema di coscienza, poiché aveva in frigorifero tre embrioni congelati e non riusciva a trovare una candidata ad essere madre. Non potei resistere: “Lei, collega, ha già dimenticato Norimberga, perché ha questi bambini congelati?”. Al processo di Norimberga Karl Gerardt, che aveva commissionato operazioni sperimentali sulle ragazze di Ravensbrück – e io sono tra queste – fu condannato a morte e la sentenza fu eseguita, mentre, dopo solo 50 anni, centinaia di medici effettuano impunemente esperimenti pseudo-medici su bambini indifesi. Che uomini sono? Sono diversi dalle Ss tedesche, e se sì, in che cosa? Uomini disumani, una medicina disumana, una mascolinità disumana, una femminilità disumana, semplicemente una umanità disumana: ma perché?». «Buttavano i neonati nel fuoco» Proprio di fronte all’orrore nazista è nata la vocazione pro-life di questa indomita testimone della bellezza della vita: «Io ho iniziato il mio lavoro per difendere la vita nel campo di concentramento. Nel campo, specialmente dopo l’insurrezione di Varsavia, erano state internate molte donne incinte. I tedeschi non le facevano abortire, lasciavano che partorissero, poi buttavano i bambini nel fuoco. Io più volte ho dovuto assistere a questa scena. Allora tutte insieme ci siamo organizzate per salvare questi neonati e siamo riuscite a salvarne trenta. Devo dire che in seguito a questi fatti ho deciso di diventare medico». Nel suo racconto autobiografico, intessuto di una drammaticità asciutta, con l’autrice quasi incapace di raccontare l’orrore che ha davanti agli occhi, la Póltawska non smentisce quella fede cattolica che tanto la contrassegna: «No, non odiavo nel modo più assoluto. Si trattava di qualcosa di completamente diverso: una enorme delusione, piuttosto, per il fatto che degli esseri umani potessero fare tutto quello a cui assistevo, che ci fossero degli esseri umani così. Non sentivo odio per nessuno, ma sentivo che il perdono poteva darlo solo Dio». |
Postato da: giacabi a 21:14 |
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aborto, testimonianza, giovanni paoloii
La scomparsa di padre Tan Tiande Gigante cinese della fede perdonò i suoi aguzzini
***
Un
testimone diretto della crudeltà del regime comunista cinese. Ma al
tempo stesso, «un vero apostolo e martire della fede» , come ha scritto
Asia News, alludendo ai trent’anni di lavori forzati subìti a motivo di
una fedeltà a Cristo tanto granitica quanto gioiosa. Questo è stato
padre Francesco Tan Tiande, una delle personalità più stimate della
diocesi di Guangzhou ( Canton) e della Chiesa cinese tutta, morto ieri all’età di 93 anni. Straordinaria per molti aspetti, la vicenda di padre Tan è comune a molti preti cinesi della sua generazione. Nato
nel 1916 nel Guangdong, venne ordinato sacerdote nel 1941. Esercitò
l’attività pastorale in varie città del Sud della Cina, finché nel 1953
venne richiuso in un campo di lavoro forzato nel nord- est della Cina:
sarà liberato solo nel 1983. Ricordo ancora distintamente il nostro incontro nell’estate del 2005 a Guangzhou.
Alto,
asciutto, il volto scavato ma sereno, padre Tan Tiande era un
singolarissimo miscuglio di forza e fragilità. Aveva un fisico da ex
sportivo, essendo stato in gioventù un campione di atletica e di nuoto (
energia fisica e resistenza agli sforzi lo avrebbe aiutato nella sua
lunga prigionia, condotta in condizioni estreme). Ma quel
che di lui colpiva ero lo sguardo: gli occhi luminosi di un uomo che
per tre decenni aveva assistito ad atrocità di ogni genere, violenze
psicologiche e fisiche, soprusi inenarrabili, ma che non avevano ombre
di risentimento o di vendetta. Gli stessi sentimenti di serenità e amore per il prossimo si respirano nell’autobiografia
di padre Tan Tiande, uscita dapprima sulle riviste del Pime,
successivamente raccolta in quel Libro rosso dei martiri cinesi cui è
arrisa – proprio in virtù dell’eccezionale qualità umana e spirituale
dei protagonisti – una fortuna editoriale imprevedibile ( tradotto in
varie lingue, è stato venduto in migliaia di copie nel mondo). Durante il nostro incontro, sentii padre Francesco ripercorrere, con voce tremante, nello
spazio di un’ora, anni e anni di patimenti: la fame che mordeva le
viscere, il gelo paralizzante dell’estremo Nordest ( 40 gradi sotto
zero), le angherie continue degli aguzzini, la derisione di cui lui, in
quanto credente, era fatto oggetto...
Eppure,
anche in quell’inferno, padre Tan Tiande non ha smesso di testimoniare
una fede incrollabile, una carità genuina che sapeva spingersi sino al
perdono. Proprio quella misteriosa capacità di perdonare gli autori di
un male così assurdo è l’eredità più bella che il sacerdote cinese
lascia ai cattolici del Regno di mezzo e dell’intera Chiesa universale.
Padre Tan Tiande ha combattuto la buona battaglia conservando la fede, a
prezzo di sofferenze indicibili accettate con gioia. E mantenendo il
cuore libero dal sentimento della vendetta.
«Seguendo la polizia fuori da Shishi ( la cattedrale di Canton in cui fu arrestato) – scrive nelle sue memorie –, non
avevo assolutamente paura. Al contrario, mi sentivo onorato. Ordinato
sacerdote, avevo promesso di offrire la mia vita per il Signore Gesù. In
quel momento, ricevevo la grazia speciale del Signore di rendere
testimonianza al Vangelo. Era un avvenimento così gioioso » . Tornato in libertà, si era messo a disposizione con encomiabile generosità, perché « quando
vedo così tanta gente che chiede di conoscere Dio, provo una gioia
immensa. Sebbene il mio carico di lavoro sia molto pesante, mi sento
euforico ogni volta che le mie parole di consolazione possono aiutare
qualcuno a ritrovare la fiducia nella vita » . Riposa in pace, soldato
di Cristo.
Gerolamo Fazzini
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Postato da: giacabi a 20:59 |
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testimonianza
testimone gioioso dopo 30 anni di lager
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Arrestato per la fede nel 1953, dal regime comunista cinese, ha lavorato nei lager dell’Heilongjiang (nord-est) come agricoltore.
É ritornato a Guangzhou nel 1983. Da allora ha svolto opera di
catechesi e di evangelizzazione, stimato come martire da tutti i fedeli
della diocesi di Guangzhou.
In un brano del suo diario, parlando dei durissimi anni di prigionia, egli scriveva: “Anche negli anni in cui era severamente proibito qualsiasi
segno religioso, io non ho mai rinunciato, in mezzo ai prigionieri, a
fare il segno della Croce. Avevo paura di dimenticare che tutto mi
veniva dalle Sue mani, che tutto era segno di amore, che tutto mi era
donato perché io divenissi una persona che sa amare... Quel ‘segno’ mi è
costato innumerevoli punizioni… Ma io dovevo salvare la mia dignità di
credente, per non trovarmi senza forza”.
Guangzhou (AsiaNews) – Questa mattina alle 5 (ora locale) è morto all’età di 93 anni p. Francesco Tan Tiande, una delle personalità più stimate e conosciute della diocesi di Guangzhou, un vero apostolo e martire della fede, che ha passato 30 anni in carcere ai lavori forzati, ma non ha mai perduto la gioia della fede.
Nato
nel 1916 a Shunde (Guangdong), da una famiglia cattolica da
generazioni, entra da ragazzo in seminario e studia teologia nel
seminario regionale della Cina meridionale ad Hong Kong (oggi “Holy
Spirit”). Per tre anni è campione di atletica e nuoto. Questo spirito
sportivo – fatto di forza fisica e di forza di volontà - egli dice che
lo ha aiutato in seguito “nelle carceri e nei campi di lavoro del
nord-est”.
È ordinato sacerdote nel 1941 nella cattedrale di Guangzhou, la
“Shishi” (“Casa di Pietra”), dedicata al Sacro Cuore. Dopo un periodo
pastorale nel capoluogo, viene mandato nell’isola di Hainan e poi ad
Hong Kong, per tornare a Guangzhou nel ’51.
Incarcerato
nel 1953 a causa della sua fede, viene mandato in un campo di lavori
forzati nel nord-est della Cina (Heilongjiang) dove rimane per 30 anni.
In origine era stato condannato, senza processo, al carcere a vita. A
poco a poco, grazie al suo comportamento pieno di servizio e amorevole, i
giudici gli riducono la pena. Solo nel 1983 riceve il permesso di
ritornare a Guangzhou, dove ha vissuto come sacerdote aiutante della
cattedrale, amato da fedeli cristiani e non cristiani.
Per
comprendere lo spessore della sua fede e testimonianza, basta leggere
dal suo diario (pubblicato da AsiaNews nel 1990 in “Cina oggi”, n. 10,
pp 191-206) il modo in cui egli ripensa alla sua prigionia. In esso egli
descrive le ingiustizie; i processi popolari contro di lui (perché è
cattolico e prete); la miseria e la fame vissuta da tutti i prigionieri.
Ma descrive pure la sua testimonianza di carità verso prigionieri e
guardie, il suo sostenerli a riscoprire la dignità umana attraverso la
fede in Dio. In un brano del diario egli scrive:
“Durante
i 30 anni in cui vissi nel nerd-est, l’agricoltura era la mia
occupazione principale Ogni anno, quando arrivava la primavera, dovevamo
cercare di concimare un terreno che era duro come l’acciaio [a causa
del freddo polare – ndr]. Usavamo picconi per scavare la terra. Una
volta reso il terreno più morbido, lo innaffiavamo e vi piantavamo i
semi. Oggi, descrivendo tutto ciò, non ki sembra così tremendo. In
realtà a quel tempo eravamo denutriti. Tutto quel lavoro era al di là
delle nostre forze, cosicché anche ogni minuto era un’agonia”….
“La
gente potrebbe chiedersi come io abbia potuto sopravvivere in queste
condizioni tremende. Per chi non crede è un enigma senza soluzione. Per
chi ha fede è la volontà di Dio. La vita è il suo dono più prezioso
all’uomo. Devo avere grande cura di questo dono per non essere un
ingrato. Perciò per sopravvivere mangiavo erbe selvatiche e la corteccia
degli alberi…. Ho vissuto in condizioni tali da sperimentare le azioni
brutali dei miei compagni… Questo dolore è anche più grande della fame.
Avrei voluto correre nei campi e gridare ad alta voce: Dio, dove sei?...
Non so quante volte ho pensato di farla finita. Ma proprio al momento
cruciale vedevo Gesù sulla croce che mi guardava con occhi
misericordiosi… e lo sentivo dire: O uomo di poca fede! Dubiti forse che
io ti ami?”.
“Anche negli anni in cui era severamente proibito qualsiasi segno religioso, io non ho mai rinunciato, in mezzo ai prigionieri, a fare il segno della Croce.
Avevo paura di dimenticare che tutto mi veniva dalle Sue mani, che
tutto era segno di amore, che tutto mi era donato perché io divenissi
una persona che sa amare. Temevo di finire col pensare che c’è qualcosa
di cui posso non dire grazie anzitutto al Signore, di finire col
vergognarmi di Lui, di ritenere qualcuno o qualcosa più forte di Lui.
Quel ‘segno’ mi è costato innumerevoli punizioni… Ma io dovevo salvare
la mia dignità di credente, per non trovarmi senza forza”.
AsiaNews 23/04/2009
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Postato da: giacabi a 20:49 |
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testimonianza
TESTIMONI/ Dai lager alla primavera di Praga:
gli 85 anni del vescovo Korec
***
Angelo Bonaguro sabato 21 marzo 2009
«Abbracciami!»
- esclamò la mia compagna di viaggio, sperando così di far credere,
allo spione che ci pedinava, che eravamo una coppietta perdutasi nel
tetro quartiere dormitorio di Bratislava-Petrzalka, mentre in realtà
avevamo un appuntamento di tutt’altro tipo a casa del vescovo Jan
Korec, all’epoca (1988) punto di riferimento della Chiesa slovacca
“clandestina”. Oggi Korec ha da poco compiuto 85 anni, è cardinale e
vescovo emerito dell’antica diocesi di Nitra, eretta ai tempi di san
Metodio.
Nato
il 22 gennaio 1924 da una famiglia operaia, Jan a 16 anni entra nella
Compagnia di Gesù, e viene ordinato sacerdote nell’ottobre del 1950.
Sono tempi di persecuzione per la Chiesa cecoslovacca: il regime
comunista chiude i monasteri e avvia la campagna antireligiosa. Era
necessario mantenere la successione apostolica, e così per volontà di
Pio XII nel 1951 Jan viene ordinato segretamente vescovo. Dal
1951 al 1954 lavora come operaio alla Tatrachemia: «Provengo da una
famiglia di operai - ha scritto nel suo diario La notte dei barbari - e
non ho mai avuto problemi a fare l’operaio». Vive il lavoro come
missione, pronto ad incontrare con carità cristiana una grande varietà
di tipi umani finché, per problemi di salute, si trasferisce all’Ufficio
igiene del lavoro, dove lo spediscono in biblioteca. Anche qui va oltre
il semplice impegno di archivista: si inventa una rassegna stampa per i
medici e scrive addirittura una storia dell’igiene sul lavoro a partire
dall’antichità, sottolineando quanto fosse attuale l’idea di dignità
umana presente nell’Antico Testamento!
Nel 1959 lo troviamo fra i metalmeccanici della Dimitrovka: «Mi
alzavo prima delle 5, dopo la meditazione celebravo la messa, e prima
delle 6 avevo già inforcato la bicicletta per andare al lavoro». Intanto
segue clandestinamente il cammino spirituale di studenti e seminaristi,
e ordina sacerdoti. Anche la polizia non perde tempo: nel 1960 viene
arrestato, e al termine del processo-farsa è accusato di “spionaggio” e
condannato a 12 anni di carcere. Il periodo più lungo lo passa a
Valdice, dove incontra altri religiosi, fra i quali padre Zverina.
Nonostante la dura condanna, il suo spirito resta libero: «Che
dono meraviglioso è per l’uomo la sua anima, la sua mente, il suo
spirito che non si lega alle quattro mura di una qualsiasi prigione, ma
che può spaziare ovunque, fino all’ineffabile spiritualità di Dio!».
Il
20 febbraio 1968 lo rilasciano: i tempi stanno cambiando, e Korec
partecipa al rinnovamento della Chiesa grazie ai fermenti della
Primavera di Praga. Ma
le sue condizioni di salute peggiorano, gli viene diagnosticata la
tubercolosi ed è costretto a una lunga degenza sui monti Tatra.
Nell’autunno del 1969, in visita a Roma, riceve da Paolo VI le insegne
vescovili che riporrà nella sua “sacrestia”, come chiamava il cassetto
dell’armadio, dove sarebbero rimaste fino all’89. Privo
del permesso statale di officiare, il vescovo Korec torna in fabbrica,
alla manutenzione degli ascensori, finché va in pensione (1984) e può
dedicarsi a tempo pieno - clandestinamente - alla cura d’anime. Il
summenzionato appartamento è meta continua di incontri con fedeli di
ogni età. Sorvegliato e vessato dalla polizia (StB), Korec non è tipo da
lasciarsi intimidire: invia lettere di protesta contro i soprusi ai
credenti, mantiene i contatti con il dissenso civile, scrive testi di
teologia pensati per la gente semplice e stampati all’estero, in bassa
tiratura perché - gli aveva detto qualche intellettuale - «Sa, non sono
perfetti»; per contrastare le cimici della StB si costruisce un cilindro
vuoto fissato su un treppiede: mentre lui parla da un lato,
l’interlocutore lo ascolta dall’altro, e viceversa.
Dopo
la Rivoluzione di velluto può finalmente svolgere il suo mandato. Nel
1998 scrive gli esercizi spirituali per il Papa, e riceve diverse lauree
ad honorem e riconoscimenti pubblici.
Scrive nel libro Jezis zd’aleka a zblizka: «Intorno all’anno 200 morì a Lione il vescovo Ireneo. Si è conservata una lettera da lui scritta all’amico e compagno di studi Florino, in cui rammenta quando a Smirne partecipavano alle lezioni del vescovo Policarpo, il quale era morto ottantenne nel 155. Ireneo ricorda che Policarpo raccontava loro gli avvenimenti collegati a “Giovanni,
discepolo del Signore” che aveva conosciuto personalmente Gesù, e che
Policarpo poté conoscere a sua volta personalmente molti anni addietro. Così Ireneo, in Francia e 200 anni dopo la nascita di Cristo, poteva
ricordare Giovanni che aveva conosciuto direttamente Gesù, a sua volta
tramite una persona, Policarpo, che aveva conosciuto direttamente
Giovanni. Quando il vescovo di Lione durante la messa spezzava il Pane,
non pensava ad un concetto preso dai libri, bensì al maestro Policarpo,
il cui amico e apostolo Giovanni aveva conosciuto personalmente Gesù.
Così si è conservata la memoria e la tradizione della Chiesa».
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Postato da: giacabi a 08:26 |
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comunismo, testimonianza
«La croce? Non è una sconfitta. Basta fidarsi»
***
Una sofferenza improvvisa. La domanda a Cristo. E la scoperta che «dietro ogni male apparente c’è di sicuro un bene più grande». In un libro appena pubblicato, la vedova Coletta racconta la sua storia. E la certezza che l’ha sempre sostenuta
Nel
1996 a Paolo, primogenito di Margherita e Giuseppe, viene diagnosticato
un linfoma. Sono mesi di calvario per i genitori, che vedono il loro
bambino di soli sei anni piano piano spegnersi. Per Margherita è
l’esperienza del dono della fede. Che rende ogni cosa buona. Ecco la
pagina del libro che racconta quella scoperta.
È in quei mesi, in quell’«a tu per tu» con il mistero della morte, che Margherita scopre una fede diversa: «Prima era una fede di domande. Poi, con la malattia di Paolo, è diventata una fede di risposte», dice. «Ricordo che la sera i primi tempi mi inginocchiavo e chiedevo al Signore: “Dai, salva il mio piccolo, così un giorno crescerà e diventerà un tuo sacerdote…”. Lo prendevo un po’ in giro - sorride -. Poi piano piano ho cominciato a chiedergli: “Signore, salvalo perché io sono sua madre”. Il giorno dopo ho detto: “Gesù, tu lo sai, io vorrei che tu lo salvassi”. Finché una sera sono arrivata a dire: “Gesù mio, io vorrei che mio figlio restasse qui, ma se tu hai altri piani va bene così”. Solo a quel punto, l’indomani mattina mio figlio è morto. In
un dolore tanto estremo ho sentito che Dio mi aveva ascoltata, aveva
fatto in modo che io fossi pronta per questo distacco, mi ha tolto Paolo
solo quando sono stata in grado di lasciarlo andare». Al
punto che, nel momento in cui è morto, «quel corpo non mi apparteneva
più, il mio Paolo non era quell’involucro inerme che non respirava, che
non parlava, e io ho ringraziato Dio anche di questo». Sorride sempre
Margherita mentre parla, e non è cortesia. Più che le parole, mi scuote
la ferma certezza con cui le pronuncia, fonte di una serenità
irremovibile. «Non è bravura mia - si schermisce -. Non
è mai bravura di nessuno riuscire ad accettare con gioia tutto ciò che
il Signore ti manda, è un dono che Egli fa, un dono però gratuito, che
concede a chiunque lo chiede. So bene che può sembrare assurdo, ma io lo
ringrazio per il dolore che mi ha dato perché mi ha fatto capire quanto
mi ama. Alla base di tutto c’è una consapevolezza: che Dio non può
permettere il male. Noi, con il nostro sguardo limitato, non capiamo che
dietro ogni male apparente c’è di sicuro un bene più grande, altrimenti
Dio non lo avrebbe tollerato. Anche la morte in croce di suo figlio
sembrava una sconfitta, invece preparava alla salvezza del mondo. Basta
fidarsi di lui».
(Da:
Il seme di Nasiriyah, di Lucia Bellaspiga con Margherita Coletta,
edizioni Ancora, € 12; Per informazioni: www.associazionecoletta.it)
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Postato da: giacabi a 07:59 |
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testimonianza
Il catechismo
***
A
casa mia la religione non aveva nessun carattere solenne: ci limitavamo
a recitare quotidianamente le preghiere della sera tutti insieme. Mi
rimase scolpita nella memoria la posizione che prendeva mio
padre. Egli tornava stanco dal lavoro dei campi con un grande fascio di
legna sulle spalle. Dopo cena si inginocchiava per terra, appoggiava i
gomiti su una sedia e la testa tra le mani, senza guardarci, senza fare
un movimento, né dare il minimo segno di impazienza.
E io pensavo: "Mio
padre che è così forte, che governa la casa, che sa guidare i buoi, che
non si piega davanti al sindaco… mio padre davanti a Dio diventa come
un bambino. Come cambia aspetto quando si mette a parlare con
Lui. Dev’essere molto grande Dio se mio padre gli si inginocchia
davanti! Ma dev’essere anche molto buono, se si può parlargli senza
cambiarsi il vestito! ".
Al contrario, non
vidi mai mia madre inginocchiarsi. Era troppo stanca la sera per farlo.
Si sedeva in mezzo a noi, tenendo in braccio il più piccolo. Ci
guardava, ma non diceva niente. Non fiatava nemmeno se i più piccoli la
molestavano, nemmeno se infuriava la tempesta sulla casa o il gatto
combinava qualche malanno.
E io pensavo: "Dev’essere
molto semplice Dio, se gli si può parlare tenendo un bambino in braccio
e vestendo il grembiule. E dev’essere anche una persona molto
importante, se mia madre quando gli parla non fa caso né al gatto né al
temporale!"
Le mani di mio padre e le labbra di mia madre m’insegnarono, di Dio, molto più del catechismo .
Il cantautore francese Pierre Duval
(P. Pellegrino, Educare a tutto campo, LDC
grazie a: Mariateresa |
Postato da: giacabi a 21:21 |
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testimonianza
La conversione del massone
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«Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto» . A sentire queste parole del Vangelo, durante una Messa nella cripta sopra la grotta di Lourdes, Maurice Caillet rimase attonito.
Erano le stesse che aveva sentito quindici anni prima, nel 1970, il
giorno della sua iniziazione come Apprendista nella Loggia "Perfetta
Unione" di Rennes, Grande Oriente di Francia, una delle più antiche Logge transalpine. Nel
silenzio successivo, sentì una voce che gli chiedeva di offrire
qualcosa in cambio del beneficio che andava cercando in quel luogo
sacro. Pensò di dover offrire se stesso. «Mi ripresi in qualche modo –
racconta Caillet nelle sue memorie – quando il sacerdote alzava
l’Ostia, nella quale per la prima volta in vita mia riconobbi Gesù
sotto le sembianze di un umile pezzo di pane. Era la Luce che avevo cercato invano nel corso di molteplici iniziazioni» .
Una specie di folgorazione. «Alla fine della Messa, seguii il sacerdote in sacrestia e, senza molti preamboli, gli chiesi il battesimo» . Caillet non era arrivato lì come pellegrino. Nato nel 1933 in una famiglia bretone anticlericale, era cresciuto nell’ostilità verso ogni cosa che sapesse anche vagamente di 'cattolico'. Laureatosi in medicina, specializzatosi in urologia e ginecologia, si era associato a Planned Parenthood, la lobby multinazionale abortista, impegnandosi nella promozione della contraccezione e – benché non fosse ancora legalizzata – nella pratica della sterilizzazione sia maschile che femminile. Divorziato dalla prima moglie, nel fatidico maggio 1968 aveva bussato a Rue Cadet 16 a Parigi, sede del Grande Oriente di Francia, chiedendo l’ammissione alla Libera Muratoria. Richiesta, accettata, che lo avrebbe portato nel giro di non molti anni a salire la scala iniziatica: Apprendista, Compagno, Maestro, nel 1973 Vigilante di una nuova Loggia fondata a Rennes, un anno dopo Venerabile Maestro, quindi deputato al ' convento', l’assemblea nazionale del Grande Oriente. Infine l’iniziazione agli alti gradi del Rito Scozzese Antico e Accettato, sino al diciottesimo, quello di Cavaliere Rosa- Croce. Parallelamente, l’ascesa era stata anche professionale, grazie all’aiuto di innumerevoli "fratelli" sparsi nelle strutture sanitarie e ammini-strative locali: da specialista rinomato a direttore di un’altrettanto rinomata clinica privata, poi l’iscrizione al Partito Socialista e, con l’arrivo all’Eliseo di François Mitterrand nel 1981, la nomina in una commissione del ministero della Salute. Nel mentre, Caillet si era anche distinto come primo medico a praticare aborti in Bretagna, dopo la depenalizzazione della cosiddetta ' interruzione di gravidanza' nel 1975, arrivando a polemizzare sulle pagine di Le Monde direttamente con l’illustre genetista Jerôme Lejeune. Un curriculum impeccabile, insomma. Fino a quella visita fatta a Lourdes, dove Caillet si era deciso a portare la compagna Claude, da mesi a letto per una malattia misteriosa, alla ricerca non di una "grazia", ma di un contatto con quelle forze telluriche che anche l’Iniziazione – René Guénon docet – riconosce attive in molti santuari e luoghi sacri. Forze banalmente interpretate dalla bêtise cattolica come influssi mariani. Se non che, mentre il Cavaliere Rosa- Croce sperava in un influsso benefico per Claude, cattolica non praticante ma con una fede mai del tutto sopita, lei dal freddo delle piscine in cui era immersa pregava per la conversione di Maurice. Ottenendo, alla fine, il vero miracolo. Di questa vicenda e di come abbia sconvolto la sua vita, con l’abbandono traumatico della Massoneria, Caillet ha voluto parlare per esteso in un libro da poco uscito in Spagna, Yo fui masón (LibrosLibres, pagine 188, euro 18), Sono stato massone. Trattasi di un racconto dall’interno – e per questo piuttosto raro – del mondo delle Logge e della vita nel Grande Oriente di Francia. Una descrizione dei riti iniziatici, una testimonianza oculare dell’odio anticattolico coltivato nel GOF e, non ultimo, dell’efficacia della Massoneria nel dettare la propria agenda politica. Racconta Caillet, fra i tanti episodi: «Dopo la sua elezione nel mese di maggio [ 1974] Valery Giscard d’Estaing, oltre alla nomina di Jacques Chirac come primo ministro, prese come consigliere personale Jean- Pierre Prouteau, Gran Maestro del Grande Oriente di Francia… al ministero della Salute collocò Simone Veil, giurista, già deportata ad Auschwitz, che aveva come consigliere il già citato [ e massone] Pierre Simon, con cui tenevo una corrispondenza. I politici erano già rodati… e il progetto di legge sull’aborto venne elaborato rapidamente » . Infine il ricordo, drammatico, di come la solidarietà massonica possa tramutarsi in un’implacabile tagliola per gli apostati: dal mobbing che costrinse sia Caillet che la compagna ( poi, dopo lunghe traversie, sposata in Chiesa) alle dimissioni dal proprio posto di lavoro, con l’impossibilità di reinserirsi nella sanità pubblica, alle minacce di morte fatte pervenire da ex-"fratelli". Un quadro che, come spiega l’autore in un’intervista concessa una radio cattolica, porta inevitabilmente a chiedersi: «Dopo la legge del 1905 sulla separazione della Chiesa dallo Stato, a quando una legge per la separazione dello Stato dalla Massoneria?» . Bella domanda.
di Andrea Galli - Avvenire
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Postato da: giacabi a 14:48 |
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testimonianza
Don Vittorione
Nei primi anni '50,
Vittorio Pastori apre nella sua città un rinomato ristorante
dedicandosi ad una fiorente attività commerciale che lo terrà impegnato
per 15 anni: la direzione di un locale destinato a divenire il più prestigioso di Varese, lavoro in cui può esprimere le sue doti organizzative e le sue capacità direzionali.
Nel
1966 incontra Mons. Enrico Manfredini, nominato Prevosto di S. Vittore,
di cui diventa amico e dal quale riceve l'incarico di Amministratore
della Basilica, della tipografia diocesana e delle opere parrocchiali.
Nel
1969, Mons. Manfredini, designato Vescovo di Piacenza, invita Don
Vittorio a seguirlo: il ristoratore accetta con entusiasmo, lasciando la
propria attività imprenditoriale per svolgere il ruolo di Segretario
Amministrativo della mensa vescovile,
Economo del Seminario e Direttore di una casa di esercizi spirituali.
Con Mons. Manfredini conosce alcuni Vescovi africani. Visita così
l'Uganda, il Kenya, la Tanzania ed altri paesi del Continente
Subsahariano, rimanendo
profondamente colpito dalle condizioni miserevoli di vita delle
popolazioni locali e del lavoro che viene condotto dalla Chiesa
cattolica e dai suoi operatori (padri, suore, medici, volontari).
La
sua ansia immediata è quella di aiutare materialmente queste
popolazioni, facendo conoscere agli italiani queste condizioni disumane
di vita e di lavoro e nel contempo fornendo mezzi finanziari e in natura
(aratri, trattori, strumenti meccanici, agricoli e sanitari) fatti
pervenire dall'Italia dietro specifica richiesta.
Nel
1972. con alcuni amici fonda a Piacenza l'associazione AFRICA MISSION e
continua la sua attività di pendolare della carità tra l'Italia e
l'Africa.
In Italia, Don Vittorio dà vita, insieme all'On. Giulio Andreotti e a Mons. Enrico Manfredini, al “Comitato Amici dell'Uganda”, con sede a Piacenza. Numerosissimi gli aiuti trasportati, con aerei e container via mare. La
solidarietà di Don Vittorio giunge a salvare anche numerose vite tra i
profughi Ugandesi in Zaire e in Sudan, paesi verso i quali vengono
diretti alcuni aerei di soccorso. Negli anni successivi, senza
abbandonare mai l'Africa, sono stati inviati diversi carichi di aiuti
umanitari nei Paesi dell'Est Europa.
Nel 1982 si costituisce COOPERAZIONE
E SVILUPPO, ONG-ONLUS che con tecnici specializzati, di provata
esperienza, ha realizzato oltre 500 nuovi pozzi per l’acqua potabile e
condotto interventi di riattivazione e riparazione su pozzi esistenti.
Il
16 dicembre 1983 muore improvvisamente a Bologna Mons. Manfredini, che
aveva sempre sostenuto ed incoraggiato l’amico Vittorio nella sua azione
in favore delle popolazioni africane. E Vittorio, nonostante la dura
prova per la morte dell'Arcivescovo, continua la sua opera.
Coronando
un desiderio profondo e lungamente atteso: il 15 settembre 1984,
Vittorio Pastori viene ordinato sacerdote da S. Ecc.za Mons. Cipriano
Kihangire, Vescovo di Gulu.
"I poveri non possono aspettare", "chi ha fame ha fame subito".
Così, da sacerdote, don Vittorio porta avanti la sua missione a
servizio degli affamati e degli emarginati, soprattutto nel Terzo Mondo,
senza separare gli aspetti spirituali da quelli materiali. Secondo le
necessità, don Vittorio trascorre lunghi periodi in Uganda presso le due
case di Kampala e Moroto, mentre quando è in Italia incontra ambienti
diversi, gruppi e comunità cristiane.
In Uganda, data la difficile situazione sociale e politica, Don Vittorio ha rischiato la vita diverse volte.
Al
20 ottobre 1988 ha compiuto ben 137 viaggi in Africa visitando: Kenya,
Tanzania, Burundi, Etiopia, Sud Sudan, Angola, Ghana, Ruanda, Uganda,
ecc. e portato aiuti e conforto a centinaia di migliaia di persone.
E
proprio nel 1988, a Kampala, incontra Madre Teresa di Calcutta e avvia
un ininterrotto ponte di solidarietà con le Piccole Figlie della Carità
in Uganda.
Nel
dicembre dello stesso anno, presso la capitale ugandese incontra anche
il Presidente Museweni al quale sottolinea che la presenza di “Africa
Mission - Cooperazione e Sviluppo” nel Paese è finalizzata
all’evangelizzazione, mai disgiunta dalla promozione umana.
A
Moroto inaugura la "cittadella della carità" che sarà poi dedicata alla
sua memoria di fronte al presidente della Conferenza Episcopale
Ugandese Mons. Emmanuel Wamala e al Nunzio Apostolico Mons. Rauber.
Il 12 aprile 1989, Don Vittorio concelebra la S. Messa con il Santo Padre, Papa Giovanni Paolo II, a Roma.
Il
20 aprile dello stesso anno, parte il II Progetto Pozzi, per la
realizzazione di altri 400 pozzi per acqua potabile in Karamoja e in
altri Distretti dell'Uganda e la riattivazione di altri 250 pozzi.
Nel 1993, presso la Nunziatura di Kampala Don Vittorio incontra nuovamente il Santo Padre, all’epoca in visita in Africa.
Il 1994 segna, invece, il 147° e ultimo viaggio di Don Vittorio in Uganda. Il
2 settembre di quell’anno, Don Vittorio Pastori – che tanti hanno
imparato a conoscere e amare come don Vittorione – muore presso la
clinica S. Giacomo di Ponte Dell'Olio (PC) dopo una lunga degenza.
grazie a: http://www.africamission.org/
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Postato da: giacabi a 21:16 |
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testimonianza, don vittorione
Il vecchietto Oscar
***
che bello!
Cari amici “puó una madre abbandonare i suoi figli?”
“Ebbene Io non ti dimenticheró mai” dice il profeta.
Un fatto accaduto nella clinica che mi ha riempito di gioia. Viene
ricoverato un uomo anziano, ammalato grave di cancro alla prostata.
Viveva in una sgabuzzino del famoso “Mercato 4” cosi chiamato e
conosciuto in tutto il Paraguay per essere l´immondezzaio della vendita a
poco costo di tutto e centro di qualunque traffico. Pericolosissimo passare di notte per quella zona.
L´hanno trovato solo, sporco, abbandonato.
La donna, una persona anonima ci disse per telefono: “andate lì…e
troverete un uomo solo e che soffre”. Mi sembrava ascoltare l’annuncio
degli angeli quelle notte a Betlemme ai pastori: “andate e troverete…”. E
cosí fu per noi. Portato alla clinica subito ben pulito e lavato e
posto in un bellissimo letto bianco, con la camera con l’aria
condizionata a tutto vapore (48º sono troppi…fuori). Una volta ambientato si sfoga il suo dramma terribile. “Padre, grazie, padre grazie”
Vede
io sono nato in una regione italiana (per rispetto non diró né il nome,
ne i luoghi). Sono rimasto orfano da piccolo e sono stato messo in un
istituto agrario gestito da religiosi. Sono nato nel 1922. Li ho
studiato diventando perito agrario. Il fascino di quella congregazione mi ispirò a farmi religioso. Vissi fino alla seconda guerra mondiale in un convento in Italia.
Poi i Superiori mi mandarono in Paraguay dove vivo da 50 anni. Ho fatto di tutto nelle diverse case della congregazione. Poi ho perso la testa per una donna e la mia vita é diventata un inferno. Tutti mi hanno abbandonato: ero un condannato a morte…quelle morte morale che distrugge l´uomo.
Ho
fatto di tutto, Padre. Solo qualche confratello si ricordava di me
(anche nella chiesa, aggiungo io, succede quello che dice il profeta a
proposito della madre) Peccato, solitudine disperazione…e adesso sono
qui. “Padre mi confessi, mi perdoni”
Il
mio cuore addolorato i miei occhi umidi, l´ho ascoltato,
assolto…abbiamo rinnovato insieme i voti religiosi…in fondo anche´io
sarei un ex religioso, peró sono come non mai tutto di Gesú. Vedendolo,
questo fratello, sorrideva, una volta in piú ho sentito quelle braccia
di Giussani che mi accoglievano in Via Martinengo 17 quel 25 marzo 1989. Se
una parte dichiara che ha servito e amato lo ha abbandonato per il suo
peccato, sempre un altra parte di chiesa lo ha accolto, abbracciato,
amato.
Che bella la clinica: c´é solo parte per i disgraziati, peccatori come me.
E
il vecchietto Oscar adesso é con me, rivive la sua vita religiosa, ha
rinnovato i suoi voti, ha riconosciuto i suoi peccati. Rare volte ho
visto e sentito una confessione come lui. Mi verrebbe da dire: se
per gustare cosí il senso di essere peccatore e soprattutto di
confessarsi come lui, servisse una vita disordinata come lui….ne
varrebbe la pena.
Ho
ritrovato un santo…vedesti come riceve la Eucaristia, come sopporta il
cancro che lo consuma come mi guarda. Solo i peccatori, cioé quelli che
hanno incontrato Cristo hanno questo sguardo..
Mi sento un fariseo paragonandomi con lui.
Gli
innocenti Victor, Celeste, Cristina, Aldo convivono con l´innocenza
comportano l´ospedale con i santi innocenti recuperati, che grazie al
dolore diventato confessione, Eucaristica hanno recuperato l´innocenza
dottrinale.
Un abbraccio
P. Aldo
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Postato da: giacabi a 14:28 |
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testimonianza, padre trento
Il Padre Joseph-Marie Verlinde
***
Notato
dal (gourou) Maestro fondatore, è ammesso a seguirlo negli ashrams
dell’ Himalaia poco accessibili agli occidentali. Qui approfondisce la
sua conoscenza dell’Induismo e delle sue pratiche durante quattro anni.
Qui fa anche l’incontro determinante con il Signore Gesù, che lo conduce
a lasciare la MT per seguire il Cristo, sui cammini del Vangelo.
Tornato
in Europa, il giovane convertito si mette in cerca di una sintesi di
ciò che ha vissuto in Oriente e della sua scoperta della persona di
Gesù-Cristo. E’ attirato dalle interpretazioni dei Vangeli proposte in
una scuola esoterica. Crede di avere trovato un gruppo che gli permetta
di vivere la sua fede cristiana integrandoci la sua esperienza
dell’Oriente, e dunque frequenta le loro adunanze, studia la dottrina,
pratica le tecniche. A questo momento Jacques è invitato a sviluppare i
poteri occulti di cui dispone a causa delle iniziazioni ricevute in
India, per « metterle al servizio del prossimo » - così è per lo meno la
proposizione che gli è fatta. Dopo parecchi mesi di pratica , una nuova
esperienza sconcertante gli apre gli occhi e gli fa capire che il
cammino dell’esoterismo-occultismo è incompatibile con quello del
Vangelo.
Una nuova rottura s’impone allora, che marca l’inizio di un lungo cammino di guarigione interiore. Jacques
prende la via per il sacerdozio, e trascorre due anni nel seminario di
Avignone, poi, dopo un soggiorno alla Trappa di Notre-Dame des Neiges,
persegue studi di filosofia e teologia a Roma, all’Università
Gregoriana. Il 28 agosto 1983, è ordinato sacerdote per la diocesi di
Montpellier. Dopo qualche mese di ministero parrochiale, il suo vescovo,
Mgr L.Boffet, lo manda a preparare ed a sostenere un dottorato di
filosofia al seminario di Ars anche allo STIM (Studium teologico tra
monasteri benedettini di Francia).
Nel
1991, e sotto il nome di Joseph-Marie, pronuncia i voti definitivi
nella Fraternità Monastica della Famiglia di San Giuseppe di cui è
attualmente il Priore.
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Postato da: giacabi a 20:08 |
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testimonianza, verlinde
che grande! Che uomo vero!
In Uruguay il presidente «blocca» l’aborto
***
LIMA. «L’aborto è una male sociale che bisogna evitare. Ma nei Paesi in cui è stato liberalizzato, gli aborti sono aumentati. Negli Stati Uniti nei primi 10 anni si triplicarono e la cifra si mantiene».«Lo stesso è successo in Spagna».
Comincia così il messaggio inviato dal presidente dell’Uruguay al Parlamento per spiegare le ragioni della sua decisione: Tabaré Vázquez ha posto il suo veto alla depenalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza.
La legge che permette l’aborto libero nei primi tre mesi di gestazione
era stata approvata in via definitiva dal Senato lunedì, dopo lunghi dibattiti e accese polemiche. Ma Vázquez
– medico oncologo, ancora in attività – aveva ribadito più volte la sua
ferrea opposizione e aveva annunciato l’intenzione di porre il veto
presidenziale alla norma, per ragioni «biologiche, scientifiche e
filosofiche». Ora il capo dello Stato ha messo nero su bianco queste motivazioni. «La
legislazione non può non riconoscere la realtà dell’esistenza della
vita umana nella sua tappa di gestazione, come lo rivela in modo
evidente la scienza»: «Dal momento del concepimento, c’è una nuova vita umana, un nuovo essere». E poiché «il vero grado di civiltà di una nazione si misura nel modo in cui protegge i più bisognosi» e i «più deboli», secondo Vázquez «d’accordo
con l’idiosincrasia del nostro popolo, è più adeguato cercare una
soluzione basata sulla solidarietà, che aiuti la donna e la sua
creatura, dandole la libertà di optare per altre vie» e «salvarli entrambi». Invece di facilitare l’aborto, il presidente chiede al Parlamento di «attaccare le vere cause» del fenomeno, soprattutto nei settori più poveri.
Secondo dati extraufficiali, in Uruguay ogni anno si realizzano circa 30.000 aborti clandestini. Per sbloccare il veto presidenziale serve una maggioranza qualificata dei tre quinti dell’Assemblea Generale (formata dalle due Camere): la sinistra (Frente Amplio) non ha voti sufficienti.Vázquez appartiene alla stessa coalizione di sinistra. La
sua decisione è stata accolta con soddisfazione dalle organizzazioni in
difesa della vita, mentre le associazioni pro-aborto lo hanno accusato
di «autoritarismo» e sono scese in piazza per protestare.
Michela Coricelli
da: avvenire.it/ 15-11-08
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Postato da: giacabi a 07:07 |
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aborto, testimonianza
Grazie Signore di avercelo donato
***
Qualche
anno fa, nel corso di un intervento chirurgico, aveva rischiato
seriamente la vita e quando al risveglio dall'anestesia gli era stato
comunicato che aveva quasi varcato la soglia alla quale tutti siamo
destinati si era arrabbiato moltissimo: «Ma come, stavo per morire, e
non lo sapevo?». Ora Alessandro
Maggiolini, vescovo emerito di Como, se n'è andato davvero, consumato
dal Parkinson e da un tumore ai polmoni. L'unico italiano che aveva
preso parte alla squadra dei redattori del nuovo Catechismo della Chiesa
cattolica, coordinata dall'allora cardinale Joseph Ratzinger,
il «vescovo leghista» secondo una semplificazione giornalistica
scaturita da alcune sue prese di posizione su immigrazione e
integrazione, si è spento ieri sera all'ospedale Valduce di Como. Aveva 77 anni.
Alla
morte aveva dedicato un libro, intitolato «La santa paura».
Nell'ottobre 2006, rispondendo a una domanda del Giornale, aveva detto: «Sì,
ho paura di morire. Ho paura perché di là incontro il giudizio divino,
il Crocifisso che ti perdona se ti lasci perdonare. Ho paura perché
morire ti costringe all'incontro inevitabile con un dolore. Un dolore
che in vita provi una sola e unica volta. Certo, se poi uno non crede,
può puntare la canna di una rivoltella alla tempia e illudersi di aver
risolto tutti i problemi». Già ormai immobilizzato sulla sedia a rotelle, aveva continuato a farsi portare in cattedrale per confessare i fedeli. Nei giorni in cui l'Italia discuteva il caso Welby, aveva detto: «Quando
qualcuno invoca l'eutanasia sta chiedendo di tenergli la mano. Vuole
che gli si accarezzi la fronte, gli si asciughi il sudore. Vuole che gli
si dicano quelle poche parole che contano per varcare la soglia
dell'aldilà. Dietro l'eutanasia c'è un desiderio di solitudine». Nato
a Bareggio il 15 luglio 1931, ordinato sacerdote il 26 giugno 1955,
docente di filosofia nei seminari ambrosiani e di introduzione alla
teologia all'Università Cattolica, Maggiolini era stato uno dei più
stretti collaboratori del cardinale Colombo. Vicario episcopale per le
università di Milano, era stato nominato vescovo di Carpi il 7 aprile
1983. Sei anni dopo era stato trasferito alla diocesi di Como. Alieno da
qualsiasi trionfalismo, aveva dedicato un libro a «La fine della nostra
cristianità»: «Temo
molto che l'ottimismo sia una virtù degli imbecilli se virtù è. Non è
colpa mia se all'interno di ambienti ecclesiastici è invalsa l'abitudine
di mettere gli occhiali rosa per assicurare che il mondo cattolico
presenta sì qualche zona d'ombra, ma sta vivendo un'epoca gloriosa. Ma
va. Per chi crede, la vicenda dell'umanità è guidata dal Signore Gesù
padrone del destino dell'uomo e del cosmo. E, tuttavia, per quanto
concerne la Chiesa, noi siamo sicuri sulla parola di Cristo che essa
perdurerà sino alla fine del tempo, ma nessuno ci accerta che la Chiesa
del domani sarà ancora quella della zona atlantica. Bastian contrario?
Non mi preoccupo affatto della accusa che mi può essere rivolta. Chiedo
che si osservi la realtà»
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Postato da: giacabi a 17:02 |
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testimonianza
VIAGGIO TRA LE MOSTRE DEL MEETING: UNA CARRELLATA DI AUTENTICI TESTIMONI
***
Uno
che è stato al Meeting di Rimini può, adesso che i padiglioni della
fiera sono chiusi e settembre porta con sé la ripresa della vita
normale, ragionevolmente chiedersi: «Sono più protagonista?». Ognuno non
può che rispondere per se stesso. Provo a farlo anch’io.
Tralascio
volutamente di soffermarmi sulle grandi testimonianze che hanno
costellato i giorni riminesi. Sono state certamente i momenti più
emozionanti. E uso questa parola nel suo significato letterale e non
sentimentale: e-mozionante significa che le parole sentite dai testimoni
che si sono succeduti sul palco mi hanno tirato fuori da me («e») per
spingermi («mozione») in avanti. E chi è il protagonista se non colui
che guarda la realtà (quindi non è ripiegato su di sé), proiettandosi su
di essa con tutta la forza “motrice” delle sue domande?
Ma,
dicevo, vorrei concentrarmi su un altro itinerario: quello delle
mostre. Dal punto di vista mediatico sono forse l’aspetto più
sacrificato del Meeting; per contro ne rappresentano la più facile forma
di continuità: basta organizzarsi e le si può portare nella propria
città.
Prendo le mosse da due fotogrammi del filmato che correda la mostra sulla Primavera di Praga del 1968.
Nel primo si vede un giovane che mette un cubetto di porfido nel
cingolo di un carro armato sovietico. Mi ha fatto tornare alla mente il
disarmato studente di piazza Tienanmen che, da solo, ha bloccato, anche
se soltanto per qualche minuto, una intera colonna di tank. Davide e
Golia, certo. Ma quelle immagini ti restano dentro come emblema di un
protagonismo indistruttibile; i carri armati se ne vanno, il gesto di
quel ragazzo no.
Il
secondo fotogramma è quello che inquadra Jan Palach nel suo letto di
morte. Si era dato fuoco nella piazza centrale di Praga per protestare
contro la negazione della più elementare delle libertà, quella di
espressione. Il suo è stato un protagonismo tragico, nell’immediato
fallimentare. Ma anch’esso resta perenne a ricordarmi che c’è sempre un
prezzo da pagare per essere se stessi.
Il
prezzo che un carcerato paga alla società per il male che ha fatto
dovrebbe contemplare la sua possibilità di «redimersi», di ritornare,
cioè, in quella stessa società da protagonista positivo. Spesso non è
così; anzi, la galera diventa scuola negativa, impossibilità radicale;
ben che vada un periodo di sospensione della vita. A meno che qualche
incontro speciale susciti di nuovo la speranza. La mostra «Libertà va cercando ch’è sì cara. Vigilando redimere»
ha mostrato con chiarezza che nessun vincolo esterno è così
condizionante da impedire l’espressione dell’io, la sua creatività. Che,
magari, si esprime nella confezione di dolci particolarmente prelibati,
come quelli che i carcerati di Padova hanno messo in vendita a Rimini.
Se
cerco di immedesimarmi in un carcerato, credo che una delle cose
peggiori sia il senso di limitatezza degli orizzonti, la percezione che
tutto finisca coi muri angusti della propria cella. Soffochi. Ma a ben
guardare casa mia potrebbe essere percepita come una prigione e il mondo
stesso, in fondo, è una stanza troppo piccola per l’orizzonte,
infinito, del mio desiderio. Ma se, come cantava Gino Paoli, nella tua
stanza entra il cielo, essa stessa diventa cielo. La straordinaria
avventura degli esploratori portoghesi del quattro-cinquecento è un
esempio storicamente cruciale di questa dinamica: la certezza di avere
una dimensione infinita ti rende capace di affrontare nuovi spazi. E
allora, come ha messo in rilievo la mostra «Dati dal cielo, per riportare il mondo al cielo. I portoghesi nel tempo delle scoperte», puoi avventurarti nello spazio immenso dell’oceano alla ricerca di nuove terre.
Sembra
tutto facile, ma poi il viaggio è pieno di difficoltà, di intoppi, di
contraddizioni. Sono gli ostacoli che ci logorano, che ci fanno pensare
che sarebbe stato meglio non partire, che è più prudente accontentarsi e
ridurre – o chiudere del tutto – l’angolo del desiderio. Di fronte a
questa tentazione diventa decisiva la testimonianza di chi, invece, non
si è mai rassegnato. E nelle mostre di Rimini ne abbiano avuto esempio
da due giganti della letteratura, seppur diversissimi tra di loro. Giovannino Guareschi
ha tenacemente difeso la sua diversità culturale, senza piegarsi mai a
quello che oggi chiameremmo «politicamente corretto» (e può essere tale
la mania di negare e contestare tutto). La frase che dà il titolo alla
mostra a lui dedicata dice già tutto: «Non muoio neanche se mi
ammazzano».
L’altro grande è Solženicyn.
Il suo motto esistenziale è stato «Vivere senza menzogna». Così, mentre
la propaganda sovietica magnificava le «magnifiche sorti e progressive»
del socialismo realizzato, egli ha svelato al mondo interro l’atroce
realtà del GULag: un arcipelago di terrore, nel quale però non è spenta
la scintilla della persona, dell’io.
Verrebbe
da citare la lettera agli Ebrei, quando parla di noi che siamo
«circondati da un così gran nugolo di testimoni» (e non abbiamo spazio
per parlare di Tovini, di Leopardi, e
delle altre mostre del Meeting). Testimoni che ci sostengono nel nostro
quotidiano essere protagonisti. Perché il quotidiano non è banale, se
l’io è protagonista. Viene in mente la spettacolare formella del
campanile di Giotto in una della ultime sale della grande mostra Exempla: uno scalpellino che ha la sublime dignità di Fidia.
(Pigi Colognesi)
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Postato da: giacabi a 14:45 |
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testimonianza
Andrea Aziani
grazie!***grazie!
Antonio Socci 31 luglio 2008 – S. Ignazio di Loyola
A Julian Carron (direttamente o tramite Alberto Savorana) Caro Julian, stamani sono stato svegliato da una telefonata di mia figlia Caterina, che chiamava dalla vacanza del Clu, dove aveva appreso della morte di Andrea. Sono stato a lungo frastornato, in silenzio. Poi ho realizzato quanto Caterina piangeva a dirotto mentre mi dava questa notizia. Piangeva perché sapeva chi era Andrea per me. Era stato anche il suo padrino di battesimo. Ma in fondo lei lo ha visto pochissime volte perché Andrea partì da Siena quando lei era ancora piccola. L’ha poi rivisto quando tornava dal Perù, ma una manciata di volte. Lo stimava e l’amava perché vedeva quanto io e Alessandra lo stimavamo e lo amavamo. Ma, secondo me, Caterina piangeva anche e soprattutto di commozione per sé, perché sapeva bene che la sua propria vita, la sua chiamata dal nulla all’esistenza, Dio l’aveva realizzata proprio grazie al “sì” di Andrea che venendo a Siena ha fatto fiorire la giovinezza mia e di Alessandra, che così, in questa storia, siamo diventati poi suo padre e sua madre. Il suo stesso nome, Caterina, porta il segno di quel incontro che ci ha fatto riscoprire e amare con entusiasmo i santi della nostra terra. E’ bello un destino che ti raggiunge con il volto di Andrea. Un mio amico mi ha detto: da anni, quando prego e dico Gesù Cristo, è anche il volto di Andrea che mi viene alla mente. Sono così tante le cose che vorrei raccontarti, ma è anche così forte il groppo alla gola, la commozione per avere avuto in dono amici, fratelli, padri come Andrea. Che mistero è questo, che crea un legame più forte della carne e del sangue! E che infinita compassione ha avuto Dio di noi, per mandarci in dono amici così belli! E che commozione sentire i propri figli vibrare e commuoversi per le stesse cose e gli stessi volti che fanno vibrare e commuovere noi. Che spettacolo vedere le loro giovinezze fiorire allo stesso caldo sole che ha fatto fiorire le nostre giovinezza e che continua, per infinita tenerezza, ad alimentarle. Creando un popolo di uomini, donne e bambini commossi e grati. Mi viene solo da dire – correggendo Pasolini – “oh generazione fortunata!”. La nostra, la mia. Che immensa, struggente fortuna è infatti essere raggiunti dal nostro destino tramite volti così. Io incontrai Andrea e Dado il 16 gennaio 1977, alle ore 12. Era il compleanno di Andrea e due giorni dopo era il mio diciottesimo compleanno. Ma io nacqui allora, in quell’incontro. Letteralmente. Ho sempre pensato che il Signore aveva scelto per me le persone più adatte (le più adatte a me) per farmi conoscere la sua bellezza e a donarmi la sua amicizia. Julian, Andrea era un santo. Un uomo vero. Sinceramente io non ne ho incontrati molti come lui. Per me era e resta senza paragoni. Mi accorgo ora che il suo “dies natalis” è stato per la festa di S. Ignazio di Loyola: noi abbiamo sempre avuto la sensazione che lui fosse come uno dei primi sei compagni di Ignazio. Quando vedemmo il film “Mission” subito dicemmo tutti: ma questo è Andrea. Quello che scala la cascata, inerme, per raggiungere i Guaranì, dopo che han buttato giù un altro gesuita crocifisso. Quei piedi nudi che scalano la montagna sotto la cascata per il compito (e l’irresistibile desiderio) di annunciare Gesù a tutti, a qualunque costo, era Andrea. Sarà perché ha sempre desiderato ardentemente andare in missione e andare in Sud America, ma lui era di quella tempra lì. Ardeva… Fac ut ardeat cor meum…(una radicalità in cui emergevano le sue ascendenze ebraiche e che lo faceva assomigliare a san Paolo). Ovviamente l’abbiamo tante volte preso in giro nei frizzi per la sua instancabilità e certi suoi aspetti buffi e lui ne rideva di cuore, ma che forza, che bellezza, stare con lui, stare dietro di lui, anche se aveva un passo molto, molto spedito. La giovinezza è avere quel cuore lì. E io voglio ancora stargli dietro. Ora più che mai, aiutandolo da qui a fare sfracelli lassù, come ha fatto quaggiù. Era sempre sorridente, pacificato e felice, ma per lui non esisteva né il caldo né il freddo, né il bisogno di mangiare, né di bere, né di dormire… in qualunque luogo ci fosse bisogno di Cristo lui c’era, infatti era dappertutto, questo era il suo instancabile “movimento” quotidiano, di ogni ora e di ogni minuto, il suo stesso respiro. “Per guadagnarci un posto in Purgatorio”, diceva lui ridendo e sollevando le nostre rumorose proteste. Era una battuta, ma che diceva quanto lui facesse tutto con la gratuità del “servo inutile”, di chi sa che è Dio che opera e che converte. Pur non concedendosi un minuto di riposo, ci ripeteva: “non è che dobbiamo noi salvare il mondo. Noi dobbiamo solo non ostacolare il Signore. Dobbiamo solo non impedirgli di salvare tutti”. A pensarci è una rivoluzione. Infatti lui si faceva quasi trasparente, per evitare che chi lo incontrava non si accorgesse di Gesù. Delle tantissime altre cose che vorrei dirti e che qui non posso dirti, ne scelgo una, per me la più preziosa, quella che da anni, ogni volta che ci penso, mi strugge il cuore, riempiendomi di gratitudine e anche di vergogna di me. Ho conosciuto tanti che testimoniano Gesù con ardore, con intelligenza e cuore. Ma la particolarità di Andrea – che non dimenticherò mai! – era questa: in lui non c’era un atomo, neanche remotissimo, di amor proprio. Lui si faceva tutto con tutti. Sembrava che la sua sola felicità fosse che io (e tutti quelli che incontrava) fossi felice. Sembrava che la sua realizzazione fosse che io realizzassi il mio destino. Come un padre e una madre, ma di più, perché più gratuitamente (in fondo in noi genitori c’è sempre l’orgoglio dei “nostri” figli)In ogni suo gesto, in ogni sfumatura, in ogni sua attenzione o parola, sempre e in tutto, lui affermava sempre e solo te, ognuno di coloro che Dio gli aveva affidato. Mai sé. Mai avevi la sensazione che stesse difendendo qualcosa o affermando un suo punto di vista o cercasse una gratificazione. E’ difficile da spiegare, ma io non ho mai conosciuto un’umiltà così grande: sembrava appassionato a cancellare se stesso per affermare e costruire la tua felicità, il tuo destino. Perché si sa quanto – anche nella più eroica carità o nella più eroica ascesi – a volte possa nascondersi l’orgoglio, soprattutto l’orgoglio spirituale che è il più insidioso. Anche nell’autoumiliarsi a volte c’è un’ostentazione che dà spazio al proprio “io”. Niente di tutto questo c’era in Andrea. Sembrava che lui non avesse neanche più un “io”. Viveva ogni respiro per Lui, perché ognuno trovasse il suo destino, cioè Lui: il suo “io” era letteralmente assorbito in Colui per cui respirava e per cui batteva il suo cuore. Tu avevi sempre la sensazione, certa, che quell’uomo, per te, avrebbe dato la vita. In ogni momento. E senza alcuna ostentazione. In silenzio. E’ incredibile a dirsi. Uno spettacolo per gli angeli. E io sono certissimo che, oltre a dare tutto se stesso, il suo tempo, le sue energie, la sua intelligenza, per la missione, io sono certo che si è offerto esplicitamente. Per noi, per tutti noi. Penso, con le lacrime agli occhi, anche per me. Per tutte queste cose devo e voglio onorare mio padre e la casa di mio padre. E sento che c’è l’urgenza di convertirci. Per diventare come lui forse no, ma almeno per assomigliargli. Innanzitutto cominciando dal primo passo, per me difficilissimo: l’umiltà. “Lasciarsi portare dal legno della Sua umiltà”, come dice s. Agostino. Lasciarsi portare… Se pensi che per questo possa tornare nella Fraternità, io ne sarei felice. Un abbraccio, Antonio Socci 31 luglio 2008 – S. Ignazio di Loyola
Grazie a: http://alzalosguardo.blogspot.com/
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Postato da: giacabi a 14:19 |
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testimonianza, cl, aziani
Io giaccio con la verginità
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al Meeting di Rimini
Di Aldo Trento
"Corazón
maldito por qué palpitas?", "cuore maledetto, perché batti?", diceva
Violeta Parra. E poi: "Gracias a la vida que me ha dado tanto". E poco
tempo dopo si toglie la vita. Perché comincio così? Perché vorrei
rispondere qui a quello che mi ha commosso molti anni fa quando Giussani
ha detto: "Vi auguro di non essere mai tranquilli".
Luglio
2008, sono lì con i bebé a cui sto dando il biberon. Torna Cristina, la
mamma che mi aiuta coi bambini piccoli malati di Aids o violentati,
tornano con le pagelle, li metto in girotondo, leggo le pagelle. Lì si
va dall'uno al cinque. Uno, uno, uno, uno, tutti uno. Sorrido e gli
dico: "Assomigliate a vostro padre che sempre ha avuto problemi di
scuola e di risultati, era buono a nulla. Placido si chiamava, e spera
di diventare santo. Però c'è un motivo che mi fa contento. Perché
nella vita la cosa difficile non è passare da uno a cinque, è passare
da zero a uno. E voi da febbraio a luglio siete passati da zero a uno."
Poi ho spiegato alla mamma cosa volevo dire. Bene, io sono questo
ragazzino di sessantadue anni che forse è arrivato a due, per pura
grazia divina. Per questo, più che parlarvi delle opere, ho scritto un
omaggio a Giussani, perché io vivo di lui: è lui, è Dio, è lui dietro
tutto quello che potete vedere o leggere. "Padre Aldo – mi disse
Giussani – ho deciso, adesso che stai diventando un uomo, di mandarti in
Paraguay." "Ma come, mio fratello mi ha detto che sarebbe meglio che mi
ricoverassi al reparto per esauriti mentali a Feltre, visto la grande
depressione che sto vivendo, una malattia inattesa, che mi ha portato
d'improvviso a perdere il gusto della vita, mi ha reso difficile ma non
impossibile il nesso con la realtà, e tu , mi vuoi mandare in missione?"
Giussani mi guardò come quella volta che Gesù fissò con tenerezza il
giovane ricco, Zaccheo, la Maddalena, Matteo, e mi disse: "Ebbene, io ti
mando in missione perché solo adesso mi sento sicuro di te. Parti. Ti
faranno il biglietto e io ti accompagnerò a Linate con lei e i suoi tre
bambini."
Era il maggio del 1989, a Riva del Garda. Ma cosa era successo prima,
perché mi accadesse tutto questo? Perché il Giuss mi prendesse per mano e
mi dicesse quelle parole? A sette anni la chiamata chiara ad essere
tutto di Gesù. Cinquant'anni fa, il 28 luglio 1958, abbandonai la mia
famiglia alla quale non chiesi il permesso, semplicemente la posi al
corrente della decisione, e in autostop fermai un trattore che mi portò
in seminario. Mia madre mi guardava sbalordita e incredula dalla
finestra e piangeva, e io: "Mamma mi verrai a trovare?", ed il trattore
si avviò lentamente verso un destino in cui era chiara solo una cosa in
me, dentro la mia irrequietezza: Gesù mi voleva tutto, tutto per sé. Molti
anni più tardi compresi che tutto questo si chiama verginità, che è la
bellezza, lo stupore, la capacità di commuoversi di fronte alla realtà,
paternità, pienezza affettiva. Il
seminario: anni difficili, belli e rabbiosi. Finalmente, nel pieno
della contestazione del '68, nel '71 mi ordinano sacerdote. Dubitavo che
mi ammettessero. Ero totalmente di Cristo, ma l'insoddisfazione e il
desiderio di un mondo nuovo, l'irrequietezza per un vuoto
esistenzialmente e socialmente poco interessante, mi portò a simpatizzare per Potere Operaio, l'ideologia piano piano cercava di riempire quel vuoto,
ma il male di viere già faceva capolino dentro le fibre del mio cuore e
si manifestava in ribellione. Così mi spedirono a Salerno, fra i figli
dei carcerati, per vedere se entravo nell'ordine, nel politicamente
corretto, diremmo oggi. Lì un giorno quattro ragazzini di Battipaglia, come un fulmine cambiarono la mia vita. Primo
avevo partecipato a organizzare uno sciopero contro l'imperialismo del
Vietnam e insegnavo la teoria di Paulo Freire invece di religione. Quei
ragazzi mi dissero: "Professore, non è così che lei cambia il mondo, il
mondo cambia se cambia lei, e lei cambia se si lascia amare da Gesù."
Sconvolto, da quel momento, una possibilità nuova apparì all'orizzonte
della mia vita: potevo prendere sul serio la mia umanità senza paura,
senza censurare niente.
Le cose però precipitarono e i miei superiori mi spedirono a nord,
vicino a mia madre, per vedere un possibile miracolo nella mia vita.
Così mi stabilii a Feltre, in provincia di Belluno. Tutto
continuava in una guerra interiore fra l'ideologia e il vuoto
esistenziale, la domanda sul perché della vita e una aridità affettiva
terribile, perché si era pietrificato il cuore. Si diceva (e l'avevo
imparato a memoria): "Il privato non esiste, ciò che conta è il
politico". Due anni durissimi, dove solo quella scintilla accesa a
Salerno mi dava una fragile speranza.
Però la disperazione cresceva e fu così che un giorno un amico i invitò ad un'assemblea a Padova con don Giussani. Sul
palco, ricordo come adesso, salì una giovane bella donna, vedova con
tre bambini piccoli, lesse il suo dramma e la sua fede di fronte a
quanto le era accaduto. Rimasi sconvolto da quel gennaio '87 non ebbi
più pace. Ero rimasto affascinato. Un fascino che dopo alcuni mesi si
trasformò in una grande affezione. Mi
sembrava di sognare. Ma date le reciproche condizioni di vita, tutto
sfociò in disperazione che diventerà ben presto la depressione che non
mi abbandonerà più.
Da quel momento mi spaventai perché non potevo credere che la mia
umanità fosse un impasto di desideri, di aspirazioni di infinito, di
amare, di essere amato, di bellezza e di giustizia e anche di gelosia e
di possessività. Ma che fare? Il grido, l'umano è solo grido, mi rese
mendicante; mendicante di un rapporto di qualcuno che mi facesse vedere
che quell'affetto non solo non era incompatibile con quello che ero, con
il mio sacerdozio, ma era come il cammino necessario per gustare la
bellezza della verginità, il possesso senza possedere, per vincere quel
vuoto affettivo riempito per anni dall'anestesia dell'ideologia.
E così il 25 marzo 1988, in ginocchio, piangendo, andai da Giussani. Mi
accolse come lui sapeva fare, perché nel suo cuore c'era posto per uno
come per un milione. Mi abbracciò, mi lasciò piangere, mi dette le
caramelle dopo un lungo tempo di singhiozzi e mi disse: "Che
bello, adesso finalmente cominci ad essere un uomo! Quanto stai vivendo
è una grazia per te, per lei, per i suoi figli , per il movimento e per
la Chiesa. Vai e porta loro l'uovo di Pasqua."
Da
quel giorno e fino alla morte mi tenne con sé. Prima di uscire da
quella stanza a Milano mi richiamò indietro e mi disse: "Come sarebbe
bello che quest'estate qualcuno ti facesse compagnia!" Lo guardai e gli
dissi: "Ma Giussani, dove potrei incontrare un uomo, un prete, disposto a
condividere l'estate con uno schizzato, un ossesso, con tutto quello
che devono fare?" Mi fissò come Gesù: "Va bene, ti porterò con me." Per
due mesi, fino alla partenza per il Paraguay, mi tenne con sé, pagandomi
tutto e trasferendomi dalla mia congregazione alla Fraternità San Carlo. Don Massimo Camisasca si vide arrivare questo pacco, questo povero uomo, buono a nulla, nelle sue mani e mi accolse. "Prendere sul serio la propria umanità senza censurarla – dice Giussani in "Tracce d'esperienza cristiana" – è la strada necessaria perché riaccada l'incontro con Cristo."
Ma che terribile, che bella la propria umanità così fragile, così
povera e grande nello stesso tempo! Mi ha fatto paura il mio io. Non
pensavo che l'umano fosse una miscela di cose belle e disperate, che
fosse insieme ironia e disperazione. Così per non perdere quanto amavo,
mi accompagnò all'aeroporto e volle che ci fosse quel segno sacramentale
dell'amore divino con i suoi tre bambini. Ricordo quando con gli occhi
rossi, sul marciapiedi di Linate, guardando lei sofferente, dissi a don
Giuss: "E lei?" La guardò e le disse: "Al prossimo ritiro del Gruppo
Adulto ti aspetto".
Era il giorno della Natività della Madonna quando giunsi in Paraguay. Passò un anno, e il
15 ottobre 1990, giorno del compleanno del Giuss, mi chiamò lui per
telefono: "Padre Aldo, chiama lei e dille che il direttivo del Gruppo
Adulto ha deciso di accoglierla nel suo grembo." Non riuscii neanche ad
augurargli buon compleanno per la commozione, perché non potevo capire
tanta tenerezza sua e tanta umanità. Non poteva far lui questa cosa?
Dirglielo lui! Perché si preoccupa che sia io a dirlo a lei, che stavo a
dodicimila chilometri di distanza? Solo un uomo come lui poteva essere
capace di amare così.
Da quel giorno sono dovuti passare quindici lunghi anni dove solo la
compagnia di Padre Alberto continuità visibile di quella del Giuss, non
solo ha impedito che la facessi finita con la vita, diventata
insopportabile per l'acuirsi ogni giorno di più della depressione, ma mi
ha fatto lentamente capire una cosa essenziale nella vita: solo un
grande amore, un grande dolore, dentro la forte e tenera amicizia, per
quanto fragile, fanno di un io un uomo, cioè un padre.
Padre Alberto ha vissuto per dieci anni solo per fare compagnia ad un
disperato, dibattuto fra la percezione che amare ed essere amato è
possibile e la crudeltà della vita che pareva fregarmi. Ma
la realtà, l’umano di ognuno, non sono mai nemici dell’io, neanche
quando ti rendi conto che non ti fanno nessuno sconto. Perché vi
garantisco, è terribile prendere sul serio la realtà, la propria
umanità. Perché non puoi che gridare, mendicare, consegnarti come da
quando ho sette anni continuo a gridare. E così ad un certo punto Dio,
la realtà, mi toglie anche la compagnia di Alberto e rimango solo. Solo
col mio dramma, con la mia non voglia di vivere, con la mia stanchezza.
L'unico conforto, da quel momento, sarà l'Eucaristia, che porrò come
parroco e signore di tutto.
Da
lontano, Alberto e monsignor Pezzi mi guidano ogni giorno: "Aldo, in
alto i cuori!" La chiarezza del destino , pur nella confusione della
mente e nell'assenza di ogni emotività; la percezione della distanza
come condizione del "già", di una possibile pienezza affettiva, l'unica
che fa di un uomo un uomo; la possibilità di amare virilmente colei che
Dio mi aveva posto sul cammino come inizio di cambiamento: tutto questo
si chiama verginità che ha dato origine a quella piccola città della
carità che, in compagnia di Paolino e Ettore, è diventata la comunità di
San Rafael in Paraguay. La verginità, ossia la carità, è la pienezza
oggi, è come l'albore dell'io a cui è data la grazia di sperimentare
adesso quello che ogni ragazzino con la tenerezza che porta dentro dice
alla sua ragazzina: "Tuo per sempre, ti voglio bene per sempre". In
fondo siamo realisti, aveva ragione Camus quando metteva in bocca a
Caligola: "Voglio la luna" O quanto scriveva Karl Marx a sua moglie:
"Ciò che fa di me un uomo è il mio amore per te e il tuo per me".
Si ama, si è padri, solo se si è amati, attraverso tutte le belle,
drammatiche, ironiche pieghe dell'umano. Io vivo facendo compagnia
all'uomo che grida, piccolo, giovane o ammalato terminale che sia.
Quanto è nato e creato da Dio, mediante questo povero uomo, è stato da
lui voluto perché io possa fare a tutti quello che Giussani ha fatto a
me: compagnia.
È così che quando ho visto per la prima volta un cadavere per strada me
lo sono preso, l'ho portato a casa, l'ho pulito. E così di giorno in
giorno. Ho preso i moribondi, gli abbandonati, quelli putrefatti delle
favelas. E Dio ha creato quell’insieme di opere che oggi vedono
impiegate più di 100 persone pagate e centinaia di volontari.
L’uomo sano, bello o putrefatto non ha bisogno di consigli, ma di
qualcuno che lo tenga per mano. Prendere sul serio il grido che siamo.
Dare fiducia a qualcuno che Dio certamente mette sul tuo cammino per
indicarti il destino. Accogliere il sacrificio, il dolore, non come una
malattia ma come una grazia. Ricordo un editoriale su un settimanale di molti anni fa, in Paraguay, l’Osservatore della settimana: “La
depressione non è una malattia, ma una grazia”. Un senatore molto
conosciuto si avvicina dopo avermi cercato. Voleva togliersi la vita:
questo editoriale lo cambia. Da quel momento diventa un altro. Presiede
la commissione Bicamerale. Riesce a mettere tutte le nostre opere nella
finanziaria.
Così un governo del terzo mondo applica un articolo in cui sostiene
finanzia per mille milioni, duecentocinquantamila dollari, un’opera, una
realtà che certamente non ha appoggiato il governo attuale. Una cosa
impressionante; e così tutto quello che viene dopo. La
depressione non è una malattia, è una grazia, perché ti spoglia di
tutto. Oggi la chiamano malattia, un tempo la chiamavano
purificazione,notte dell’anima, possibilità della santità: per me è
ancora quello. Per questo oggi raccolgo anche i matti. Mi facevano
tremendamente paura anni fa, perché mi vedevo un possibile candidato ad
essere uno di loro. Oggi li guardo con ironia e rido con loro perché
anche nella pazzia ho visto che in tutti c’è un minimo di libertà.
Perché ho sperimentato che se non fosse vero questo non esisterebbe Dio,
perché non ci sarebbe l’uomo. L’uomo è libero anche quando perde la
ragione. Ho la certezza perché l’ho visto su di me.
Voglio
dire che realmente il dolore è una grazia che ti permette di essere
contento perché ti permette di amare, ti permette di vivere la
verginità, che è l’unica e reale e concreta vocazione dell’uomo: la
pienezza dell’io. Perché c’è la verginità? L’io compiuto, già come
possibilità adesso, come possibilità affettiva. Grazie Gesù per il tanto
amore, per il tanto dolore ch emi permetti di vivere ogni giorno.
Stretto a te sulla croce per poter dire a tutti: “Ti voglio bene per
l’eternità così come io sono voluto bene da te o Gesù.” Davvero si è
compiuta quella promessa. Io
a 62 anni sono un uomo contento dentro un inizio di compiutezza che mi
fa guardarla morte con serenità. Ho accompagnato a morire più di
cinquecento persone in quattro anni. Tutte con il sorriso sulle labbra.
Son diventato padre di decine di bambini che non hanno nessuno e mi
chiamano papà: “Papà, quando torni, e perché te ne vai?” Li metto a
letto la sera, li prendo la mattina e li accompagno a scuola. In me si è
compiuta , si sta compiendo quella profezia di Giussani: “È una grazia
per te.” Per lei anche, perché è una donna contenta, per i suoi figli:
due consacrati e uno sposato, per il movimento. Credo
che l’esperienza che vivo sia un esempio per la chiesa. Io vivo per
quello. Anche oggi che in Paraguay c’è un governo socialista, il
vicepresidente pur sapendo tutta la battaglia che abbiamo fatto perché
non vincesse questo governo, mi ha chiesto: “Padre, posso ogni lunedì
alle sei, venire a pregare lodi con te?” Ebbene, da quando è stato
nominato, il 15 agosto, tutti i lunedì mattina il vicepresidente prega
lodi con me e fa un po’ di adorazione. Un miracolo insperato. È nato
perfino un partito trasversale per i temi della vita, per i temi dei
poveri. Perché anche dentro a questa condizione impensata del socialismo
del Ventunesimo secolo che vuole svuotare il cristianesimo di Cristo ,
uno deve lavorare con intelligenza, con amore, con Cristo, partendo da
Dio. Anche il vescovo presidente ha detto al Nunzio: “Padre Aldo io lo
rispetto, e così i suoi confratelli. Perché di fronte a quello che lì
accade, non è possibile fare rappresaglie, perché è qualcosa che noi
desideriamo che accadesse in tutto il Paraguay”. Grazie, e pregate per
me.
Da Il Foglio, trascritto dal cartaceo di sabato 30 agosto 2008
grazie a:centroculturalelugano.blogspot.com/
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