Cristo secondo un ateo
***
da il foglio
del 23 giugno 2007
Veyne
è un grande storico dell’antichità. Marxista, nicciano, anche
anticristiano, ma curioso dei fatti nella loro oggettività. Ha scoperto
che il cristianesimo è fantastico
di Marina Valensise
Circola
e vende a Parigi un libro straordinario, che “riabilita” la conversione
dell’imperatore Costantino e ne spiega il segreto
Per l’intellettuale ideologo il cristianesimo è soltanto emozione, ma per lo storico è una forza d’amore che cambia il mondo
“Gli dei pagani vivevano per se stessi, quello cristiano ama comunque. Ma le radici di quella fede oggi sono state divelte”
Dove si narra anche la storia ideologica dell’autore di questo libro sorprendente, e qualche sua bizzarria personale e storica
Doveva
essere un laico integrale, un non credente dichiarato, uno storico
dell’antichità, uno dei massimi ancora viventi, studioso di Roma,
dell’impero, dei gladiatori, della politica del panem et circenses, ex
marxista, ex comunista, nietzschiano, amico di Michel Foucault e intimo
del poeta ermetico René Char, a spiegare come mai il cristianesimo sia
una delle più belle avventure della storia dell’umanità.
L’impresa è opera di Paul Veyne, grande irregolare della storiografia
francese, di quelli che scrivono divinamente, pur avendo insegnato a
lungo all’Università per finire a quarant’anni al Collège de France,
reclutato da Raymond Aron.
Lo
ha fatto in un libro magnifico che si legge come un romanzo, pubblicato
da Albin Michel e subito acquistato da Garzanti. S’intitola “Quand
notre monde est devenu chrétien (312-394)”. Racconta per filo e per
segno la conversione dell’imperatore Costantino, il quale, alla vigilia
della battaglia contro Massenzio, fece un sogno, come sanno tutti gli
studenti italiani, “In hoc signo vinces”, e decise di iscrivere sul
proprio elmo e sugli scudi del suo esercito la croce, anzi il sacro
crisma, e cioè la prime lettere del nome di Cristo, il X e la P greche
intrecciate. Il 28 ottobre 312, inalberando il nuovo simbolo cristiano
nella battaglia di Ponte Milvio, sconfisse Massenzio, l’usurpatore che
aveva cercato di sottrarre al suo controllo Roma e le regioni d’Italia. E
l’indomani sfilando vittorioso per la via Lata, cioè l’attuale Corso,
alla testa delle sue truppe, l’imperatore convertito segnò la fine del
paganesimo antico.
La
conversione di Costantino fu uno degli eventi decisivi della storia
occidentale, e persino mondiale, spiega Paul Veyne, con la tranquilla
sicurezza dell’antichista sperimentato. “Fu l’atto più audace mai
compiuto da un autocrate che decise di sfidare apertamente ciò che
pensava la maggioranza dei suoi sudditi, mostrando sovrano disprezzo
verso i culti pagani”. Con lui il cristianesimo, religione di una
minoranza di bizzarri originali, che pretendevano di attingere
all’eternità dell’anima e alla virtù professata dai filosofi pagani,
sulla base della fede in un unico Dio e nel suo figlio incarnato,
divenne la religione dell’imperatore romano, uno dei quattro che
all’epoca si dividevano l’impero. Grazie alla conversione cristiana, Costantino,
che allora aveva 35 anni, sconfisse i suoi nemici, pose fine alla
divisioni dell’impero, consolidò il potere riunificandolo, introdusse il
principio della tolleranza dei culti pagani, ma li svalorizzò senza
nemmeno aver bisogno di proibirli. E se non fu lui a mettere fine alle
persecuzioni dei cristiani, che erano già cessate due anni prima, fece
del cristianesimo la religione di Roma, favorendo e foraggiando in tutti
i modi la sua Chiesa e trattando i vescovi cristiani da “carissimi
fratelli” in nome della nuova alleanza a servizo della “santa pietà
eterna e inconcepibile del nostro Dio, (che) si rifiuta nel modo più
assoluto di sopportare che la condizione umana continui a errare nelle
tenebre”, come riportava Eusebio di Cesarea.
Il
suo fu un gesto audace, inaudito, assolutamente straordinario.
Costantino era convinto di essere stato scelto per decreto divino per
svolgere un ruolo provvidenziale nell’economia della salvezza. E con la
sua conversione rivoluzionò la storia del mondo. La novità del libro di
Paul Veyne, che torna ora su questa vecchia storia di millesettecento
anni fa, è che lo fa senza
partito preso, con mente libera, muovendo con coraggio intellettuale
privo di pregiudizi per cercare di capire l’audacia della conversione di
Costantino e il suo perché, a partire dallo stato d’animo
dell’imperatore, dalla sua intima convinzione, e in base a testi
autentici eppure dimenticati, perché considerati un “tale oltraggio che
la maggior parte degli storici l’hanno disdegnato nel loro imbarazzo, e
quasi non ne parlano”.
La
forza liberatoria del libro è così evidente che viene spontaneo
chiedersi come sia nato. “È nato contro me stesso”, risponde in vena di
paradossi il vecchio Veyne, parlando dall’eremo di Bedoin, nella
Valchiusa a quaranta chilometri da Aix en Provence, dove vive i postumi
di un’operazione al ginocchio, accanto alla moglie malata e in mezzo ai
ricordi di una vita di studi. “Sono
totalmente miscredente e fra tutte le religioni se ce n’è una che
proprio non sopporto per la sensibilità, l’umiltà, la familiarità è
proprio il cristianesimo”, dice con una punta di compiacimento
volterriano, comune in Francia a ogni intellettuale che si rispetti
desideroso di “épater le bourgeois”. Ma da storico e da patito della
neutralità del metodo storico alla Max Weber aggiunge subito: “Bisogna
fare uno sforzo contro te stesso. Non credere alle leggende. Distruggere
le leggende di sinistra, per le quali il Cristo non sarebbe mai
esistito, e della destra, per le quali Gesù, lungi dall’essere il
fondatore del cristianesimo fu solo uno degli ultimi profeti giudaici.
Non bisogna essere né pro né contro. La cosa più difficile, però, quando
sei un miscredente e un non simpatizzante è riuscire a capire
dall’interno cosa si ha nel cuore e nell’animo quado sei cristiano. Il mio problema, in fondo, era come quello di un asessuato che cercasse di comprendere cos’è l’erotismo”.
Dice
proprio così Paul Veyne usando una formula lievemente blasfema e per
questo efficace. E si capisce che ha perso il pelo, ma non il vizio.
Veyne infatti è lo studioso che ha teorizzato la conoscenza “obiettale”.
È l’epistemologo che dopo il sessantotto ha conquistato l’attenzione di
Raymond Aron con un saggio contro le idee del Sessantotto su “Come si
scrive la storia”. È il professore che nel 1974 venne eletto al Collège
de France proprio grazie a Aron, il quale, deluso dal sociologo
Bourdieu, finì poi per rompere anche con lo stesso Veyne. E la rottura
avvenne per motivi di incomprensione politico-filosofica. “Come storico -
racconta lo stesso Veyne in “Le quotidien et l’intéressant”, una specie
di autobiografia in forma di intervista uscita da Hachette nel 1995 -
“io cercavo di mostrare le differenze che separano le epoche e che fan
sì che le stesse parole non abbiano lo stesso significato per noi. Mi
ritrovai davanti a un pubblico che sembrava assai irritato da queste
banalità. I discepoli di Aron mi obiettarono, con la più viva
indigniazione, la permanenza dei valori. Sorpreso da quell’happening, mi
voltai verso Aron, seduto in cattedra accanto a me, il quale mi rispose
con freddezza. Al mio paese, alla visita importuna di un vicino si
risponde lasciando abbaiare i cani. Capii il messaggio e mi curai di
farmi dimenticare da Aron, e dimenticarlo”.
Veyne,
come si vede, per essere incline all’obiettività del metodo storico,
resta pur sempre uno scettico, uno che nega la razionalità della storia.
È un nietzschiano che non disdegna di corteggiare l’irrazionale e di
esporsi in prima persona per parlare di sé. È uno stendhaliano che
rivendica la capacità di appassionarsi a cose che non riguardano i
propri interessi, e ama infarcire i suoi libri di egotismo, anche quando
racconta “la brouille” metodologica col suo scopritore. Lo fa, credo,
per stigmatizzare la famosa oggettività di Aron, inficiata ai suoi occhi
da una forma di “patriottismo gregario”, da “un precauzionismo portato
all’estremo”, “dall’inquietudine per la coesione sociale”, dalla paura
del conflitto e del disordine, dalla pretesa di combinare il filosofo e
il politico, lo studioso imparziale e il consigliere del principe, il
teorico e l’opinionista, che secondo lui era la vera cifra di Aron, e
dal desiderio di accreditarsi come l’uomo della ragione, estraneo al
fanatismo, sino a minimizzare la distinzione di Weber tra giudizi di
fatto e giudizi di valore, e dunque eludere la regola della neutralità
assiologica. Aron, ricorda Veyne, “incuteva rimorsi e sensi di colpa a
chi non la pensava come lui”. Il suo racconto della lite è un ottimo
esempio di come in Veyne la propensione all’oggettività non escluda
affatto il soggettivismo, o il narcisismo, come dice lui che aborre il
termine, pur facendone ampio uso, quando racconta per esempio il suo
incontro mercenario con una prostituta, che diventa un incontro d’amore,
e quando rivela l’entità del suo reddito netto dopo 40 anni di
carriera, o quanto insiste, ora, nel ricordare che la sua passione per
l’antichità nacque per caso, dalla scoperta di un pezzo di anfora tra le
colline della Valchiusa, che riportò a casa come un trofeo e mise
sottovetro al posto del bouquet di nozze della madre, incorrendo in una
punizione esemplare.
Così
slittando da un piano all’altro, e passando con maestria dall’
“obiettale” al soggettivo, Veyne è riuscito nell’impresa impossibile di
spiegare, da ateo e miscredente, cosa succede nella testa di un
imperatore pagano che scopre la fede in Cristo. “Credo di essermi almeno
avvicinato”, dice Veyne con schivo candore. Di sicuro pensa al capitolo
in cui descrive “il capolavoro del cristianesimo primitivo”. Ne
spiega il successo per l’originalità di una religione dell’amore, per
l’autorità sovrumana che emanava dal Signore Gesù, per l’intensità di
vita che raggiungeva colui che riceveva la fede, perché “ogni suo moto
interiore, ogni gesto, ogni azione poteva prendere un senso e una
direzione, verso il bene o verso il male, un senso che l’uomo, a
differenza dei filosofi, non sceglieva da solo, ma seguiva orientandosi
verso un essere assoluto, che non era un principio, ma un grande essere
vivente”. È per questo che il suo libro, come lui stesso
riconosce, è tanto piaciuto ai cristiani, che si riconoscono nel
“capolavoro” della nuova fede religiosa e nella passione inedita tra il
divino e l’umano.
Veyne
infatti descrive con un esempio triviale l’abisso che separa il
cristianesimo dal paganesimo. “Una popolana può andare a raccontare le
sue pene coniugali alla Madonna; se fosse andata a raccontarle a Era o
Afrodite, l’antica dea si sarebbe chiesta cosa gli fosse saltato in
mente a quella pecora di sottoporle questioni di cui non sapeva che
fare”. Veyne parla del rapporto appassionato di amore e autorità,
consustanziale a Dio e all’uomo. “Quando
un cristiano pensa al Dio misericordioso che si è sacrificato per gli
uomini, e si appassiona per la sorte dell’umanità, delle singole anime,
sa che continua ad essere amato e considerato da lui. Mentre gli dei
pagani vivevano prima di tutto per se stessi”.
Ma le cose che scrive son piaciute anche ai laici che non vogliono sentire parlare di radici cristiane. “La
nostra epoca, dice Veyne, è postcristiana. E mi dispiace non aver usato
l’aggettivo, per descrivere una civiltà come la nostra dove imperano il
femminismo, il socialismo, la libera sessualità, e le radici cristiane
non signficano niente. Molti lettori mi hanno ringraziato di questa
messa a punto. In realtà noi siamo come una vecchia famiglia che ha
dimenticato i valori cristiani dei suoi antentati, ma continua a vivere
in una vecchia casa piena di affreschi, di chiese e cattedrali, e
continua a proteggerle come un patrimonio, anche se le radici non
esistono più, perché sono morte”.
Quanto
alla contentezza dei credenti in Francia che si rallegrano
dell’obiettività dello storico miscredente, davanti al capolavoro
cristiano, Veyne non prova alcun fastidio. Non è uno di quegli
anticlericali ossessivi che devono smarcarsi dalla chiesa. Ma cita il
detto di René Char: “On ne fait pas d’objection à un homme ému”. E
glossa: “Non puoi spiegare a un innamorato che la donna che ama è una
cretina” . Il fatto è che Veyne è un irregolare, del tutto privo di
tabù, che riconosce senza complessi la sua dinamica intellettuale
apparentemente bizzarra: “Non avrei passato quindici anni della mia vita
a studiare paganesimo e cristianesimo, se non avessi avuto una
sensibilità religiosa”. E lui che vive a due passi da Carprentras, nella
terra della cattività avignonese, dove ogni pietra trasuda ancora
religiosità, sa di che parla. “In un villaggio vicino a casa mia vive un
convertito al buddismo, un tipo di 25 anni, che sa a malapena leggere e
scrivere. C’è una famiglia di evangelici, che la domenica si riunisce
con centinaia di altri fedeli in una chiesa per fare ‘parlare la
lingua’. E in stato di trance si mettono a farfugliare suoni
incomprensibili, tipo questo per esempio”. E Veyne, professore al
Collège de France, studioso di Seneca e di Simmaco, mima per telefono lo
stato di trance verbale sbattendo le labbra in suoni inconsulti come
“ebbbabbabebbbaessccciimmema”. Spiega che parlano lingue che non hanno
mai imparato grazie allo Spirito Santo.” Li ho visti coi miei occhi,
nessuno può negare che la maggioranza della popolazione abbia una
sensibilità religiosa. E se non lo capisci, non puoi spiegare
l’importanza del cristianesimo nella storia dell’umanità”.
Per
lui, dunque, la conversione di Costantino non è il gesto di un politico
machiavellico disposto a tutto per consolidare il proprio potere, come a
lungo si pensò. È il segno di un’adesione autentica a una fede nuova, a
una religione rivoluzionaria e irresistibile anche per un imperatore
romano, cresciuto nel politeismo pagano.
“Ci sono vari stadi, spiega l’antichista. Un imperatore romano, come
Nerone, può fare quello che vuole in termini religiosi. Può avere una
religione personale, indipendente da quella dei sudditi. Ma alla storia
della conversione di Costantino per puro opportunismo nessuno ci crede
più. Gli storici ormai, son tutti d’accordo per dire che fu sincera e
personale. Io sono andato oltre, per cercare di capire in cosa creda uno
che si converte. E ho scoperto che questa sincerità non è banale. È il
portato di una scelta delirante di tipo escatologico, come quella di
Trotzki e Lenin alla vigilia della rivoluzione bolscevica, quando
capirono che il potere dei soviet avrebbe cambiato il corso dell’umanità
e la storia mondiale”.
Veyne
lo dice e lo scrive anche nel suo libro, in lunghe note di commento a
piè di pagina. E la cosa non ha niente di banale per un vecchio
militante comunista come lui, che aderì al Pcf a vent’anni, nel 1951,
quando salì a Parigi per frequentare l’Ecole Normale e cominiciò a
legare con Michel Foucault, Gérard Genette, Jean Claude Passeron, i
mattacchioni del Saint Germain de Près marxista. Fu allora che si mise
in testa di sfuggire all’infamia del collaborazionismo vissuto in
famiglia, praticato da un padre, piccolo impiegato di banca diventato
ricco grazie al commercio di vino. Rimase
comunista fino al 1956, fino all’invasione dell’Ungheria da parte
dell’Armata rossa, sognando e mitizzando sul Pci, il partito di
Togliatti, ben più eretico, più libero, più aperto di quello francese,
salvo mostrare sorpresa alla smentita della leggenda consegnata agli
archivi. “Non posso crederci, che sia stato Togliatti a far pressioni
sui sovietici per l’intervento in Ungheria”, dice oggi Veyne, sentendo
parlare per la prima volta dei lavori di Zaslavsky e Aga Rossi
.“Tornando a Trotzki”, insiste Veyne,“era davvero convinto che il
comunismo avrebbe cambiato il corso dell’umanità. Io ho conosciuto la
stessa cosa a vent’anni, e poi come allievo di Louis Althusser, il
professore della Ecole Normale che dopo l’Ungheria cercava, da profeta
comunista, di rimettere il marxismo sui binari della storia. E il fatto
che i russi venissero fucilati in massa, per Trotzki, come per
Althusser, non cambiava nulla alla loro fede religiosa, all’idea di
cambiare il corso della storia umana per costruire la felicità dell’umanità. L’imperatore
Costantino visse la stessa identica fede, solo sul piano metafisico.
Gli altri pensavano al partito. Lui era convinto che grazie alla chiesa
avrebbe orientato l’umanità verso la salvezza, per realizzare un disegno
provvidenziale”.
In
questo senso, dunque, sbaglia secondo Veyne chi s’ostina
nell’interpretazione di Edward Gibbon, che sulla scia di Voltaire
associò la caduta dell’impero romano al cristianesimo. “Gli
storici hanno rappresentato i cristiani come personaggi senza
consistenza, senza spina dorsale. Ma non è così. L’impero romano è
crollato nel 406 per le invasioni barbariche. Costantino, pur essendosi
convertito, anzi grazie alla conversione, fu uno dei grandi riformatori
dell’impero. Combatté Licinio, riformò l’esercito, ripristinò il senato e
le istituzioni romane. La prova è che l’impero, nostante il
cristianesimo, tenne per quasi un secolo dopo di lui. Crollò, lo ripeto,
per un puro incidente, frantumandosi come un vaso in mille pezzi quando
i barbari invasero i confini da tutte le parti”. Quanto
a Gibbon, dice Veyne, ha concepito la decadenza dell’impero romano
pensando all’impero bizantino. “Ha confuso Costantino con un imperatore
bizantino. In realtà, lungi dall’essere una figura della decadenza, Costantino
fu un visionario, che si mise in testa di tollerare il paganesimo,
senza colpire gli alti funzionari pagani, ma tacciando di imbecillità le
loro superstizioni e i loro culti. Fu un pragmatico, che vietò i
sacrifici rituali, anche se non poté sopprimere il culto delle vestali.
Nessuno sa se il giorno della vittoria a Ponte Milvio quando salì in
Campidoglio sacrificò a Giove, come era costume. Ma a partire dalla sua
conversione, l’orrore fisico del sangue nei sacrifici, il culto offerto
ai demoni come una magia nera, divenne insopportabile. Fu allora che
cominciò a imporsi la chiesa cristiana, e la religione che pose fine ai
sacrifici, col sacrificio di Cristo morto in croce per salvare
l’umanità, poté cambiare la faccia del mondo
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sabato 25 febbraio 2012
veyne
Postato da: giacabi a 17:38 | link | commenti
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