L’intelligenza
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E' all'intelligenza che Gesù fa costantemente appello. E la sollecita. Il
rimprovero costante sulla sua bocca è: non comprendete, non avete
intelligenza? Non credete ancora? aggiunge anche. La fede che sollecita
non ha nulla a che vedere con la credulità. Questa fede è precisamente l'accesso dell'intelligenza a una verità, il riconoscimento di questa verità, il si dell'intelligenza convinta e non una rinuncia all'intelligenza.
Claude Tresmontant
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Postato da: giacabi a 20:09 |
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senso religioso, tresmontant
L’INTELLIGENZA
DI FRONTE A DIO
di C. Tresmontant
Noi
siamo, noi viviamo, ma la nostra esistenza, la nostra vita, appare a
noi stessi come una sorpresa, come un fatto di cui non siamo capaci di
rendere ragione. Anche l'universo tutto intero esiste come un fatto di
cui né esso né noi sappiamo rendere ragione.
Noi
possiamo studiare la struttura dell'universo, della materia, della
vita, studiare il come del suo sviluppo e della sua evoluzione: ci manca
sempre la risposta alla domanda dell'essere: l'universo esiste, con
l'infinita ricchezza della sua struttura, della sua diversità, col suo
sviluppo e la sua evoluzione. Ma questa esistenza appare come un fatto
che richiede esso stesso spiegazione. Constatare l'esistenza
dell'universo non ci basta: nasce un problema attorno a questa
esistenza, struttura e sviluppo, in forma di domanda radicale sulla
sorgente di questa esistenza.
E'
questo uno pseudo-problema, uno di quei problemi che l'analisi
concettuale oppure l'analisi psicologica riducono a nulla e svuotano
come un brutto sogno? E' quanto dobbiamo vedere. Diciamo solamente, per
ora, che ciò che manca, il desiderio di immortalità e di vita felice che
ha portato l'uomo ad inventare le idee felici, il suo sentimento
profondo di insufficienza, si ricapitolano, si sommano nella
coscienza che l'esistenza e la vita sono per noi come un dono che ci è
fatto, e che la condizione umana ci è imposta dal di fuori: noi non
siamo gli autori della nostra esistenza, e tanto meno della nostra
condizione mortale, sofferente, effimera. Se noi
fossimo stati gli autori della condizione della nostra vita, ci saremmo
fatti felici, immortali, come gli dei della mitologia. Tutto ciò che
cosi crudelmente ci manca, ce lo saremmo concesso. Ma di fatto noi non
siamo i nostri creatori. Sono stati gli dei, dicono le tradizioni dei
padri, che ci hanno trattato cosi, gli dei gelosi che ci hanno fatto
fragili e mortali conservando per se stessi l'immortalità della vita
felice.
Qualunque significato abbiano queste antiche tradizioni, una cosa è certa; noi non ci siamo creati da noi. La
nostra esistenza, la nostra natura, il nostro corpo, la nostra anima
sono per noi una sorpresa e un oggetto inesauribile di stupore.
I
biologi fanno l'analisi della struttura del nostro organismo e non
siamo che alla prima scoperta di questo mistero, che è per noi il nostro
organismo. La nostra anima, la nostra psicologia, le nostre tendenze
sono per noi altrettanti misteri. Ci vorrà il lungo travaglio della
scienza per scoprire a noi stessi chi siamo.
La
nostra esistenza, il battito del nostro cuore, il chimismo della nostra
responsabilità e questa boccata d'aria che noi inghiottiamo e che si
trasforma in noi stessi, senza di noi, il nostro pensiero stesso che
sgorga come una fontana e la cui sorgente rimane sconosciuta, tutto
questo è per noi mistero. Noi siamo mistero a noi stessi. Noi siamo nelle nostre mani, come un bel giocattolo che è dato ad un bambino e che il bambino gira e rigira con stupore. Tutto è dato in noi: l'essere, la vita, il battito del nostro cuore e questo stesso pensiero che io penso e che mi viene da un luogo che io non conosco, da una profondità che non ho mai sondato.
lo
è un altro, diceva il poeta. Il filosofo, il matematico, tutti possono
dire: questo pensiero che mi viene e che è mio, mi viene, « sale al mio
cuore », come dicono gli ebrei, ma io non posso dire legittimamente che
io ne sono il creatore assoluto; il pensiero che mi viene è esso stesso
un dono, un dono al quale io coopero, un dono che è frutto di me stesso
concepito nel più profondo di me stesso, ma tuttavia un dono, come io
stesso, perché di questo io, io non sono il creatore. lo sono un dono a
me stesso. Tutto questo potere che è in me, questo movimento, questa
forza, questa potenza d'agire e di concepire, non sono io che le ho
messe in me. lo sono nato ed ho ricevuto. La vita, il pensiero, come il
movimento e l'agire sono per l'uomo ricevuti.
L'essere,
il vivere, il pensare, l'agire sono nostri, ma alla radice del nostro
essere e della nostra vita, alla radice interiore del nostro agire e del
nostro pensare c'è una energia di cui non siamo creatori.
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Postato da: giacabi a 12:04 |
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senso religioso, tresmontant
«La fede è l'intelligenza
nella sua riuscita»
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«È all’intelligenza che Gesù fa costantemente appello.
E la sollecita. Il rimprovero costante sulla sua bocca è: non
comprendete, non avete intelligenza? Non credete ancora? aggiunge anche.
La fede che sollecita non ha nulla a che vedere con la credulità. Questa fede è precisamente l’accesso dell’intelligenza a una verità, il riconoscimento di questa verità, il sì dell’intelligenza convinta e non una rinuncia all’intelligenza, un sacrificio dell’intelletto. L’opposizione tra fede e ragione è una opposizione profondamente non cristiana, non evangelica.
Bisogna dimenticare questa dialettica troppo celebre, troppo famosa per
comprendere ciò che nel Nuovo Testamento si intende per fede, che è
l’intelligenza stessa nel suo atto, nella sua riuscita, e la conoscenza
stessa della verità insegnata, il riconoscimento del Maestro: il credere
nei Vangeli è questa scoperta, questa intelligenza della verità che è
proposta. Al ragazzo cui si insegna a nuotare, si spiega che in virtù di
leggi naturali non deve aver paura, nuoterà se farà alcuni movimenti
molto semplici. Il ragazzo ha paura, si irrigidisce, e non crede. Viene
il momento in cui fa esperienza che ciò che gli è stato detto è
possibile, crede, nuota.
Non si dirà che la fede, in questo caso, si oppone alla ragione, se ne
differenzia. Essa è per lui piuttosto identica; anche se la fede è
un’altra cosa dell’intelligenza, il sì dell’intelligenza alla verità che
essa vede, l’adesione alla verità vista e riconosciuta. Questo è il significato della parola pistis, pisteuein, nei Vangeli. Nel quarto Vangelo, la fede e la conoscenza sono costantemente associate come inseparabili: “Essi hanno conosciuto ed hanno creduto che tu sei il figlio del Dio vivente”. È appunto alla nostra intelligenza che Gesù si indirizza e non alla nostra credulità. Contrariamente
a quanto alcuni vorrebbero farci credere, la credulità e la debolezza
di giudizio non sono affatto un omaggio gradito a Dio. La
verità non richiede che l’uomo si abbassi ad animale, né che umilii la
ragione, che gli è, al contrario, necessaria per attingere la conoscenza
di Dio.
Noi subiamo in Occidente da parecchi secoli una tradizione che pretende
fondare la conoscenza di Dio sul deprezzamento della ragione, su una
frustrazione dell’esigenza di razionalità e di intelligibilità. Questa
cattiva coscienza nei riguardi della ragione non è giustificata nella
tradizione biblica ed evangelica».
(C. Tresmontant, "L’intelligenza di fronte a Dio", Jaca Book
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Postato da: giacabi a 21:20 |
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ragione, cristianesimo, tresmontant
L’UOMO:
QUEST’ANIMALE DIVINIZZABILE
Se si studia il caso di Gesù di Nazareth, si vede che la resistenza incontrata proviene dal fatto che Gesù, con le sue azioni e le sue parole, insegna una dottrina che urta e sconvolge abitudini acquisite, rappresentazioni acquisite, preconcetti. Coloro che trasmettono preconcetti e li conservano si ribellano contro questo insegnante di novità. È intollerabile per loro. Lo era lo è ancor oggi. Lo sarà sempre.
Come
spiegare questa resistenza alla novità, questa resistenza
all'informazione creatrice da parte dell'umanità, questa nostalgia
innata per il passato, l'antico, il primitivo? Si può esprimere
l'ipotesi che un animale, sottomesso alla necessità di subire delle
metamorfosi per raggiungere la sua età o piuttosto il suo stato adulto,
se fosse cosciente e se conoscesse in maniera riflessiva il suo stato
antico, il suo stato presente e quest'invito a subire una metamorfosi,
si può esprimere l'ipotesi che esso resisterebbe con tutte le sue forze a
questa metamorfosi. Il verme preferirebbe restare verme, la crisalide
restare crisalide, piuttosto che subire le trasformazioni che faranno
della larva un animale nuovo. È possibilissimo che l'uomo sia precisamente nella stessa situazione. È
un animale essenzialmente incompiuto, chiamato da Dio, il Creatore, a
un destino soprannaturale, la partecipazione alla vita di Dio, e che può accedere a questo destino solo attraverso una nuova nascita, una trasformazione. ….Quest’animale divinizzabile- è la definizione che Gregorio Nazianzeno dava dell'uomo -, resiste
con tutte le sue forze a questa trasformazione a questa nuova nascita, a
questa metamorfosi; e perseguita coloro che lo chiamano a questa
trasformazione. Preferisce restare l'uomo antico, il vecchio uomo,
piuttosto che divenire l'uomo nuovo. O più precisamente, esistono in lui
due desideri contraddittori: l'uno lo porta a consentire a questa
metamorfosi e l'altro lo porta a tornare indietro, a regredire».
(C. Tresmontant, Cristianesimo, filosofia, scienze,Jaca Book, Milano 1983)
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