NELLO STUDIO
***
"Se
si ricerca con vera attenzione la soluzione di un problema di
geometria, e se dopo un’ora si è sempre allo stesso punto di partenza,
ogni minuto di quest’ora costituisce un progresso in un’altra
dimensione, più misteriosa. Senza
che lo si senta, senza che lo si sappia, questo sforzo, in apparenza
sterile e senza frutto, ha fatto più luce nella nostra anima.
Il frutto si ritroverà un giorno, più tardi, nella preghiera e, per di
più, lo si ritroverà senza dubbio anche in un qualsiasi campo
dell’intelligenza, forse del tutto estraneo alla matematica. Un giorno,
colui che ha compiuto senza risultato questo sforzo sarà forse capace
di cogliere più direttamente la bellezza di un verso di Racine, proprio
grazie a tale sforzo. Ma che il frutto di simile sforzo si debba
ritrovare nella preghiera è cosa certa, su questo punto non v’è
dubbio.Certezze di questo genere sono date dall’esperienza. Ma se non vi
si crede prima di averne fatto la prova, se almeno non ci si comporta
come se vi si credesse, non si farà mai l’esperienza che dà accesso a
simili certezze.....................***
Quand’anche gli sforzi dell’attenzione rimanessero in apparenza sterili per anni, vi sarà un giorno in cui la luce, esattamente proporzionale a quegli sforzi, inonderà l’anima. Ogni sforzo aggiunge un poco d’oro a quel tesoro che nulla al mondo può rapire. Gli inutili e penosi sforzi di imparare il latino compiuti dal curato d’Ars per lunghi anni, hanno portato i loro frutti nel meraviglioso intuito con il quale egli scorgeva l’anima dei penitenti al di là delle loro parole e anche del loro silenzio.
Bisogna dunque studiare senza desiderare di ottenere buoni voti, di passare agli esami, di ottenere alcun risultato scolastico, senza tener conto né dei gusti né delle attitudini naturali, ma applicandosi con la stessa intensità a tutti gli esercizi, considerando che tutti servono a sviluppare l’attenzione, che è l’essenza della preghiera. Nel momento in cui ci si applica a un esercizio, bisogna volerlo compiere correttamente; questa volontà è indispensabile perché vi sia un vero sforzo.................
Molto spesso si confonde l’attenzione con una specie di sforzo muscolare. Se si dice a degli allievi: «E ora fate attenzione», ecco che aggrottano le sopracciglia, trattengono il respiro, contraggono i muscoli....
La volontà, quella che all’occorrenza fa serrare i denti e sopportare la sofferenza fisica, è lo strumento principale dell’apprendista nel lavoro manuale, ma, contrariamente all’opinione corrente, non ha quasi alcuna parte nello studio. L’intelligenza può essere guidata soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio dev’esserci anche piacere e gioia. L’intelligenza si accresce e dà frutti solo nella gioia. La gioia di imparare è indispensabile agli studi, quanto lo è la respirazione per i corridori. Là dove manca, non vi sono studenti ma povere caricature di apprendisti, che alla fine del loro apprendistato non avranno neppure un mestiere. ......
L’attenzione è uno sforzo, forse il più grande degli sforzi, ma uno sforzo negativo. Di per sé non comporta fatica. Quando questa si fa sentire, non è più possibile l’attenzione, a meno che uno non sia già molto esercitato; allora è meglio lasciarsi andare, cercare una distensione e ricominciare un po’ più tardi: rilassarsi e riprendersi, come si inspira e si respira.................
L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto, nel mantenere in prossimità del proprio pensiero, ma a un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse conoscenze acquisite che si è costretti a utilizzare. Il pensiero, rispetto a tutti i pensieri particolari preesistenti, deve essere come un uomo su una montagna, che fissando lontano scorge al tempo stesso sotto di sé, pur senza guardarle, molte foreste e pianure. E soprattutto il pensiero deve essere vuoto, in attesa; non deve cercare nulla ma essere pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi.
I beni più preziosi non devono essere cercati ma attesi. L’uomo, infatti, non può trovarli con le sue sole forze, e se si mette a cercarli troverà al loro posto dei falsi beni di cui non saprà neppure riconoscere la falsità......
La soluzione di un problema di geometria non è in se stessa un bene prezioso ma, poiché è l’immagine di un bene prezioso, le si può applicare la medesima legge. Essendo un piccolo frammento di verità particolare, essa è una pura immagine della Verità unica, eterna e vivente, quella Verità che un giorno ha detto con voce umana: «Io sono la Verità»."
SIMON WEIL
Postato da: giacabi a 08:49 |
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studiare, weil
lunedì 7 febbraio 2011
Jean Leclercq - qualche giorno fa si è celebrato il centenario della sua nascita - era un monaco benedettino ed è stato uno dei massimi studiosi del pensiero e della spiritualità monastica del Medioevo.
A
lui si deve un decisivo allargamento di prospettiva in questi studi;
egli, infatti, ha dato un contributo fondamentale alla riscoperta della
«teologia monastica», cioè di quella che non si faceva nelle università e
nelle scuole - «scolastica» - bensì nei monasteri. Una teologia che non
punta prioritariamente all’elaborazione teorica e sistematica, ma
all’immedesimazione esistenziale, al cammino spirituale.
Nel suo capolavoro Cultura umanistica e desiderio di Dio
(fortunatamente ripubblicato in Italia nel 2002) Leclercq ricorda che
la molla che spingeva tanti uomini del medioevo a farsi monaci era, in
sintonia con l’impostazione di san Benedetto, esattamente il «desiderio
di Dio». A questo era finalizzato ogni aspetto della vita, compreso lo
studio (l’originale francese del titolo non parla di «cultura
umanistica», ma di un più chiaro amour des lettres, che potremmo leggere come «passione per la conoscenza»).
Nel
crogiuolo di questi due elementi, presi nel giusto ordine gerarchico, è
fiorita, la grande sapienza di san Bernardo di Chiaravalle, uno degli
autori più studiati da Leclercq, e di molti altri da lui riscoperti.
Cultura umanistica e desiderio di Dio,
spiegando formazione, fonti e frutti della cultura monastica, è
ricchissimo di spunti d’insegnamento anche per noi oggi. Esemplifico
riportando alcuni brani in cui Leclercq illustra che cosa significasse
per i monaci medievali leggere e riflettere su quanto si è letto.
Per
noi, quando non è una frettolosa ricerca di stimoli o di informazioni
che subito svaniranno, la lettura è sostanzialmente il tentativo di
immagazzinare dei concetti. Per i monaci, mossi dal «desiderio di Dio»,
era operazione del tutto differente; per loro «leggere
un testo era impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto,
cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo
pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne
comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica».
Dunque, un atto che coinvolge tutto l’io e non solo i neuroni del suo cervello. Questo metodo, scrive più avanti Leclercq, «porta a riconoscere grande importanza al testo e alle singole parole». Tanto che i teologi monastici chiamavano la loro riflessione ruminatio, proprio come fa un bovino che ha appena pasturato.
Riflettere
«significa aderire strettamente alla frase che si ripete, pensarne
tutte le parole per giungere alla pienezza del loro senso». È un’azione
che «assorbe e impegna tutta la persona» e si trasforma «necessariamente
in una preghiera».
Mi pare una modalità da riscoprire nella nostra superficiale frenesia di lettori sbadati. Del resto, dice ancora Leclercq, i monaci avevano un compito, quello di «mostrare, con la loro stessa esistenza, la direzione in cui bisogna guardare». Non solo nel Medioevo.
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