«La grazia di Dio salvatore: libera, bastevole, per noi necessaria»
***
Con queste
parole Giovanni Battista Montini, negli appunti scritti da giovane
sacerdote sulle Lettere di san Paolo, indica l’esperienza e il messaggio
dell’Apostolo
|
di don Giacomo Tantardini
|
|
San Paolo, mosaico della Cappella Palatina, Palermo |
|
|
|
|
Ringrazio
chi mi ha invitato in questa bella città di Ortona dove, nella
Cattedrale, è custodito il corpo dell’apostolo Tommaso. Ringrazio sua
eccellenza monsignor Ghidelli per la sua presenza a questo incontro.
Io non ho competenza
specifica per parlare di san Paolo. Quello che conosco di Paolo nasce
semplicemente dalla lettura delle sue Lettere, in particolare da quella
lettura che ne viene fatta nella santa messa e nella preghiera del
breviario, e credo che questa sia la cosa più importante. Paolo VI in un
discorso tenuto in un convegno di esegeti sulla risurrezione di Gesù,
citando sant’Agostino, diceva che per comprendere la Scrittura «praecipue et maxime orent ut intelligant», la cosa «più importante e principale è pregare per capire».
Così nella preghiera
può essere donato di intuire l’esperienza che ha fatto Paolo,
l’esperienza di essere amato da Gesù. Iniziando l’Anno paolino, papa
Benedetto XVI ha detto che Paolo è un nulla amato da Gesù Cristo. «Io
sono un nulla», dice Paolo stesso al termine della seconda Lettera ai
Corinzi (2Cor 12, 11) e nella Lettera ai Galati: «Ha amato me e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20).
Così anche a noi,
nella distanza infinita dall’apostolo, può accadere la stessa
esperienza, la stessa comunione di grazia, perché è reale la comunione
dei santi. Ed è questa identità di esperienza, l’esperienza di essere
gratuitamente amati da Gesù Cristo, che fa rivivere le parole
dell’apostolo, che può rendere Paolo così vicino, così prossimo, così
amico, così familiare.
Vorrei iniziare leggendo alcune frasi pronunciate da papa Benedetto durante l’Angelus
di domenica 25 gennaio. Quest’anno, la festa della conversione di san
Paolo è caduta di domenica, e il Papa, spiegando l’incontro di Saulo con
Gesù sulla via di Damasco (anche nella messa di oggi lo abbiamo letto
dagli Atti degli apostoli), ha detto queste parole che mi hanno sorpreso
e confortato, e che ho riletto tante volte: «In quel momento [quando ha
incontrato Gesù: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At
9, 5)] Saulo comprese che la sua salvezza [possiamo anche dire la sua
felicità, perché il riverbero umano della salvezza è la felicità, il
riverbero umano della Sua grazia è il piacere della Sua grazia] non
dipendeva dalle opere buone compiute secondo la legge [mi ha molto
colpito l’aggettivo buone. Opere buone.
Il Papa ha voluto sottolineare che la salvezza non dipende dalle opere
buone, compiute secondo la legge, opere buone, come buona e santa è la
legge (cfr. Rm 7, 12)], ma dal fatto che Gesù era morto anche per lui, il persecutore [«Ha amato me e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20)], ed era, ed è, risorto». L’altra parola che mi ha colpito è stata quel verbo al presente: «Era, ed è, risorto».
Benedetto XVI,
quest’anno, ha tenuto venti meditazioni su san Paolo durante le udienze
del mercoledì. Una di queste meditazioni, forse la più bella,
l’undicesima, tratta della fede di Paolo nella risurrezione del Signore.
Commentando il capitolo 15 della prima Lettera ai Corinzi, il Papa ha
sottolineato che Paolo trasmette ciò che a sua volta ha ricevuto (cfr. 1Cor
15, 3), cioè «che Cristo morì per i nostri peccati secondo le
Scritture, e che fu sepolto, e che è risuscitato il terzo giorno secondo
le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor
15, 3-5). La risurrezione di Gesù è un fatto accaduto in un momento
preciso del tempo e Colui che è risuscitato, in quel preciso momento, è
vivo ora, in questo momento. È risorto e quindi vivo nel presente.
La conversione di
Paolo, secondo il Papa, sta in questo passaggio. Il passaggio dal
ritenere che la salvezza dipendeva dalle sue opere buone, compiute
secondo la legge (la legge è la legge di Dio, la legge sono i dieci
comandamenti di Dio), al riconoscere semplicemente che la salvezza era
ed è la presenza di un Altro. Era ed è la presenza di Gesù.
Sempre nell’Angelus
di domenica 25 gennaio Benedetto XVI ha aggiunto (e la cosa mi ha
colpito anche perché il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che
stimo molto e che posso dire amico di 30Giorni,
ha sottolineato questo accenno del Papa) che non si potrebbe
propriamente parlare di conversione di Paolo, perché Paolo già credeva
nel Dio unico e vero ed era «irreprensibile» per quanto riguarda la
legge di Dio. Lo dice lui stesso nella Lettera ai Filippesi (3, 6).
La conversione di
Paolo (e qui permettetemi di riprendere le parole che sant’Agostino usa
per indicare la propria conversione) è semplicemente il passaggio dalla
sua dedizione a Dio al riconoscimento di quello che Dio ha compiuto e compie in Gesù.
Agostino così descrive la propria conversione: «Quando ho letto l’apostolo Paolo [e subito dopo – perché non basta neppure leggere le Scritture – aggiunge:] e quando la Tua mano ha curato la tristezza del mio cuore, allora ho compreso la differenza inter praesumptionem et confessionem / tra la dedizione e il riconoscimento». Praesumptio
non indica inizialmente una cosa cattiva. Alla lunga decade in
presunzione cattiva; ma inizialmente indica il tentativo dell’uomo di
voler raggiungere l’ideale buono intuìto. La conversione cristiana è il
passaggio da questo tentativo dell’uomo di compiere il bene (le opere
buone, diceva papa Benedetto) al semplice riconoscimento della presenza
di Gesù. Dalla praesumptio, dedizione, alla confessio, riconoscimento. La confessio,
riconoscimento, è come quando il bambino dice: «Mamma». Come quando la
mamma viene incontro al bambino e lui le dice: «Mamma».
|
|
|
La conversione di Paolo, Caravaggio, Cappella Cerasi, chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma |
|
|
|
La conversione
cristiana, per Agostino e per Paolo, è (permettetemi di usare questa
immagine di don Giussani che, secondo me, non ha l’equivalente) il passaggio dall’entusiasmo della dedizione all’entusiasmo della bellezza;
dall’entusiasmo della propria dedizione, che in sé è buono,
all’entusiasmo destato da una presenza che attrae il cuore, una presenza
che gratuitamente si fa incontro e gratuitamente si fa riconoscere.
Paolo non ha fatto nulla per incontrarLo. Il Suo gratuito venire
incontro attua il passaggio dalla nostra dedizione alla bellezza della Sua
presenza che per attrattiva si fa riconoscere. E tra dedizione e
riconoscimento non c’è contraddizione. Giussani dice semplicemente che
«l’entusiasmo della dedizione è imparagonabile
all’entusiasmo della bellezza». È lo stesso termine che usa
sant’Agostino quando descrive il rapporto tra la virtù degli uomini e i
primi piccoli passi di chi pone la speranza nella grazia e nella
misericordia di Dio.
Potremmo anche dire
che, quando accade di vivere per grazia l’esperienza stessa che Paolo ha
vissuto, l’identica sua esperienza, nell’infinita distanza da lui, è
come se tutte le parole cristiane, la parola fede, la parola salvezza,
la parola chiesa, fossero trasparenti dell’iniziativa di Gesù Cristo. È
Lui che desta la fede. La fede è opera Sua. È Lui che salva. È Sua
iniziativa il donare la salvezza. È Lui che costruisce la Sua chiesa. «Aedificabo ecclesiam meam» (Mt 16, 18). Aedificabo è un futuro: «Edificherò la mia chiesa» sulla professione di fede di Pietro, sulla grazia della fede donata a Pietro (cfr. Mt 16, 18). È Lui che edifica personalmente, nel presente, la Sua chiesa su un Suo dono.
Come è bello dire le
parole cristiane più semplici, la parola fede, la parola speranza, la
parola carità, e accorgersi che queste parole indicano un’iniziativa
Sua, fanno intravvedere un gesto Suo, il Suo agire. Come è accaduto a
santa Teresina di Gesù Bambino: «Quando sono caritatevole, è solo Gesù
che agisce in me».
Noi sacerdoti, la seconda settimana dopo Pasqua, abbiamo letto nel breviario, dall’Apocalisse, le lettere che Gesù invia alle sette chiese. In una di queste lettere Gesù dice: «Non hai rinnegato la mia fede» (Ap 2, 13). La mia fede. È la fede di Gesù.
«Gratia facit fidem».
Come è semplice e bella questa espressione di san Tommaso d’Aquino! È
la grazia che crea la fede. È Lui che si fa riconoscere. «Nessuno viene a
me se non lo attira il Padre mio» (Gv 6, 44.65), dice Gesù. E sant’Agostino commenta: «Nemo venit nisi tractus
/ Nessuno viene [a Gesù], se non è attirato». È Sua iniziativa la fede.
È Sua iniziativa la salvezza. È Sua iniziativa la Sua chiesa.
Permettetemi di
raccontarvi uno dei miei primi incontri con don Giussani. L’occasione mi
è stata data dal fatto che a Venegono, nel mio seminario, ho conosciuto
Angelo Scola, l’attuale patriarca di Venezia. È stato lui a farmi
incontrare don Giussani. Ricordo ancora quell’incontro a Milano.
Giussani parlava a un gruppo di giovani. A un certo punto chiese: «Che
cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo? Che cosa, adesso, ci mette in
rapporto con Gesù Cristo?». Alcuni risposero: «La chiesa», «la
comunità», «la nostra amicizia», eccetera. Alla fine di tutti questi
interventi, Giussani ripeté la domanda: «Che cosa ci mette in rapporto
con Gesù Cristo?», e poi diede lui stesso la risposta: «Il fatto che è
risorto». Questa cosa non la dimenticherò più! «Il fatto che è risorto».
Perché se non fosse risorto, se non fosse vivo, la chiesa sarebbe
un’istituzione meramente umana, come tante altre. Un peso in più. Tutte
le cose meramente umane alla fine diventano un peso.
«Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo? Il fatto che è risorto». La chiesa è la visibilità di Lui vivo. «La chiesa non ha altra vita», dice il Credo del popolo di Dio
di Paolo VI, «se non quella della Sua grazia». Non ha altro inizio,
momento per momento, che l’attrattiva Sua, l’attrattiva della Sua
grazia. La chiesa è il termine visibile del gesto di Gesù vivo che
incontra il cuore e lo attrae.
Leggere san Paolo,
vivendo per grazia quello che Paolo ha compreso (come dice il Papa)
nella sua conversione, rende tutte le parole cristiane trasparenti di
Lui, di Gesù Cristo, dona a tutte le parole cristiane questa leggerezza.
Altrimenti diventano pesanti. Se la fede fosse un’iniziativa nostra,
saremmo finiti. Siccome è un’iniziativa Sua, è possibile sempre il
rinnovarsi del Suo dono. E quindi è possibile sempre ricominciare. È
un’iniziativa Sua, in ogni istante. «Gratia facit fidem… quamdiu fides durat».
È stata una cosa
molto bella che nel 1999 la Commissione teologica di studio tra la
Chiesa cattolica e i luterani, valorizzando proprio questa frase di san
Tommaso d’Aquino, ha riconosciuto che tra la teologia di Lutero sulla
giustificazione per la fede e aspetti essenziali della dottrina
dogmatica del Concilio di Trento nel decreto De iustificatione c’è una sorprendente identità.
San Tommaso d’Aquino dunque dice che «la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia, ma in ogni istante in cui dura». E aggiunge questa osservazione bellissima: ci vuole
la stessa attrattiva di grazia, lo stesso tesoro di grazia, sia per far
rimanere nella fede, adesso, noi che crediamo, sia per far passare una
persona (se ci fosse qui uno che non crede) dalla non fede alla fede.
Ho detto questo solo
per dire che la conversione di Paolo, come di ogni cristiano, si attua
nel passaggio dall’iniziativa dell’uomo all’iniziativa di Gesù, allo
stupore dell’iniziativa di Gesù, alla confessio supplex. Com’era bello, nella messa in latino, quando, prima del Sanctus, si diceva sempre: «Supplici confessione / Con riconoscimento che domanda». Perché non si può riconoscere una presenza che ti ama se non domandando che essa continui a volerti bene.
Ora, tre suggerimenti.
|
|
La conversione di Paolo, Duomo di Monreale, Palermo |
|
|
|
|
1. «… nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato…»
Leggiamo Galati 1, 15 in cui Paolo stesso descrive il passaggio dalla sua iniziativa all’iniziativa di Dio.
«Ma quando Colui che
mi scelse fin dal seno di mia madre… [c’è un mistero da cui nasce la
grazia della fede ed è la scelta di Dio, l’elezione di Dio. Non possiamo
giudicare noi questo mistero: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16)] … quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia [com’è bello questo mi chiamò con la sua grazia! Non basta la voce, neppure la voce di Gesù, se l’attrattiva di Gesù non tocca il cuore. È la Sua grazia, è la Sua attrattiva che commuove il cuore]
si compiacque di rivelare a me suo Figlio...». Si degnò di mostrarmi
Suo Figlio. Questa è la conversione di Paolo. Colui che mi ha scelto e
mi ha chiamato con la Sua grazia mi ha fatto riconoscere Suo Figlio.
Galati
2, 20: «Questa vita che vivo nella carne [nella condizione umana,
segnata dal peccato originale, anche dopo il battesimo. Il battesimo
toglie il peccato, ma lascia la fragilità che proviene dal peccato e che
inclina al peccato], io la vivo nella fede del Figlio di Dio [nel
riconoscimento del Figlio di Dio], che mi ha amato e ha dato sé stesso
per me».
Vi leggo come papa
Benedetto XVI ha commentato questa frase: «La sua fede [la fede di
Paolo] è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto
personale […] Cristo ha affrontato la morte […] per amore di lui – di
Paolo – e, come Risorto, lo ama tuttora. […] La sua fede non è una
teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto
dell’amore di Dio sul suo cuore».
La fede nasce
dall’impatto dell’amore di Gesù con il cuore di Paolo. La fede è
l’iniziativa dell’amore di Gesù Cristo sul suo cuore.
Permettetemi di
leggervi una frase che ho scoperto andando a Cascia a pregare santa Rita
(santa Rita era sposata e aveva due figli. Il marito viene ucciso e lei
perdona pubblicamente l’assassino e domanda che i suoi due figli non
vendichino il padre. Poi entra nel monastero delle monache agostiniane
di Cascia). La frase che vi leggo è di un beato monaco agostiniano il
cui scritto sulla passione di Gesù era conosciuto da santa Rita: «L’amicizia è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità».
Mi sembra che queste parole indichino da dove provenga la carità e che
cosa sia la carità. L’amicizia è una virtù, è il vertice delle virtù.
San Tommaso d’Aquino dice che la carità è amicizia. Ma l’essere amati
non è una virtù, è la felicità. Viene prima l’essere amati (cfr. 1Gv 4, 19). Per amare bisogna prima essere amati. Bisogna prima essere contenti di essere amati.
Sant’Agostino, in
quel brano stupendo in cui, paragonando tra loro gli apostoli Pietro e
Giovanni, si domanda chi sia più buono tra i due, risponde che più buono
è Pietro, tanto è vero che a Gesù che gli domanda: «Simone, figlio di
Giovanni, mi ami più di costoro?» (Gv 21, 15), Pietro risponde: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene» (Gv
21, 15). Quindi Pietro è più buono di Giovanni. Confrontando la
condizione di Pietro, che vuole bene di più a Gesù, con la condizione di
Giovanni, che è più amato da Gesù, Agostino dice: «Facile responderem meliorem Petrum, feliciorem Ioannem
/ È facile per me rispondere che Pietro è più buono [perché vuole più
bene a Gesù] ma Giovanni è più felice [perché è amato di più da Gesù]». L’essere
felice dipende dall’essere amato. Non dipende neppure dal nostro povero
amore. Pietro è più buono perché vuole più bene a Gesù, ma Giovanni è
più felice perché è più amato da Gesù.
Il Papa dice che la
fede di Paolo è l’impatto dell’amore di Gesù sul suo cuore e così questa
stessa fede, proprio perché è l’impatto dell’amore di Gesù sul suo
cuore, desta ed è
anche il povero amore di Paolo a Gesù. Questa attrattiva amorosa di
Gesù, rendendo lieto il cuore di Paolo, desta anche il povero amore di
Paolo a Gesù, povero come quello di Pietro.
Papa Benedetto, in
un’udienza del mercoledì, commentando la domanda di Gesù a Pietro:
«Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?», ha insistito sulla differenza
dei verbi greci che Gesù e Pietro usano. Gesù usa un verbo che indica un
amore totalizzante («… mi ami tu?»). Pietro usa un verbo che esprime il
povero amore umano («tu sai che ti voglio bene»). «Ti voglio bene così
come è possibile a un povero uomo». Allora, la terza volta (è bellissimo
come il Papa descrive questo!), Gesù
si adegua al povero amore umano di Pietro e gli chiede semplicemente se
gli vuole bene, così come un povero uomo può volere bene.
Leggo ora 1 Corinzi
15, 8 e seguenti. Anche qui Paolo descrive l’incontro con Gesù sulla
via di Damasco: «In seguito, ultimo fra tutti…». Come è bello questo ultimo fra tutti! Nella liturgia ambrosiana il sacerdote che celebra la messa dice: «Nobis quoque minimis et peccatoribus». Nella liturgia romana dice solo: «Nobis quoque peccatoribus».
Nella liturgia ambrosiana colui che celebra la santa messa, che sia il
vescovo oppure l’ultimo prete, dice: «Anche a noi che siamo i più
piccoli e peccatori». Così Paolo dice di essere l’ultimo, il più
piccolo.
«In seguito ultimo
fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io, infatti, sono
l’ultimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato
apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio
però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi
ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è
con me».
|
|
|
Anania battezza Paolo, Duomo di Monreale, Palermo |
|
|
|
2. Paolo è sempre sospeso all’iniziativa di Gesù
Paolo è sempre
sospeso all’iniziativa della grazia. E questa è una delle cose più
impressionanti per chi legge le sue Lettere. Non solo l’inizio è grazia,
non solo l’inizio è iniziativa di Gesù. Paolo è sempre sospeso
all’iniziativa di Gesù, momento per momento. Come è nella realtà per
ciascuno di noi. Ma l’esperienza di Paolo, da questo punto di vista, è
di una drammaticità e di una bellezza uniche.
Vi leggo un brano,
che già nel mio seminario mi confortava tanto, dalla seconda Lettera ai
Corinzi, 12, 7 e seguenti. Allora mi colpivano le parole, ora il cammino
della vita, per Sua grazia e Sua rinnovata misericordia, ha donato
realtà a quelle parole.
La seconda Lettera ai
Corinzi per me è la Lettera più bella perché è quella in cui Paolo – lo
dice lui stesso – apre tutto il suo cuore (2Cor 6, 11). È la Lettera in cui Paolo di fronte alla «dolcezza e mitezza di Cristo» (2Cor 10, 1) descrive quello che lui è, l’inermità che lui è, la fragilità che lui è.
«Perché non montassi
in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una
spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi,
perché io non vada in superbia [comunque si legga questa “spina nella
carne”, questa fragilità, questa tentazione, Paolo dice così]. A causa
di questo [a causa di questa sofferenza] per ben tre volte ho pregato il
Signore che l’allontanasse da me [che allontanasse questa sofferenza,
questa tentazione, questa fragilità]. Ed egli
mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si
manifesta pienamente nella debolezza”». La Sua forza si manifesta
pienamente nella debolezza.
Permettetemi di fare
una piccola correzione a una frase che ho letto prima in un pannello
della mostra su san Paolo. Non avrei scritto che Paolo è «orgoglioso
della sua debolezza». Non si può essere orgogliosi della propria
debolezza. Sant’Ireneo, commentando questo brano della seconda Lettera
ai Corinzi, e avendo presente la gnosi (uno degli elementi essenziali
dell’eresia gnostica è la non distinzione tra il bene e il male, fino a
porre, ed Hegel lo teorizza, il male in Dio e da Dio), è attentissimo a
distinguere la debolezza dalla grazia. La debolezza rende evidente la
grazia. La
debolezza, quando viene abbracciata, rende più evidente l’essere
abbracciati. Ma il positivo è l’essere abbracciati, non la debolezza.
Nella debolezza, che è la condizione umana, l’essere abbracciati
gratuitamente da Gesù è più evidente. Quando un bambino è ammalato, la
mamma e il papà è come se gli volessero più bene, ma non è un valore
l’essere ammalato del bambino. È che quella debolezza rende più evidente
l’essere amato. In un tempo in cui la gnosi
culturalmente è egemone nella mentalità del mondo e tante volte anche
nella Chiesa del Signore, come è importante questa distinzione! La
debolezza non è in sé stessa un bene. La debolezza rende più evidente
l’essere abbracciati quando si è abbracciati, l’essere amati quando si è
amati. Rende più evidente la gratuità dell’essere amati. Il peccato è
peccato e il peccato mortale merita l’inferno, come dice il Catechismo. Ma quando Gesù, dopo essere stato tradito, guardò Pietro (Lc 22, 61), quello sguardo rese più evidente l’amore di Gesù al povero Pietro.
«Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo». La debolezza è la condizione perché la Sua potenza si riveli con più evidenza a tutti.
|
|
Ritratto di san Paolo, El Greco, Casa y Museo de El Greco, Toledo |
|
|
|
|
3. Il Vangelo che Paolo trasmette
Due brevi cenni sull’annuncio di Paolo.
Che cosa annuncia
Paolo? Innanzitutto quello che lui, a sua volta, ha ricevuto. Come è
bello! Paolo non inventa nulla, annuncia quello che, a sua volta, ha
ricevuto.
Vi leggo 1 Corinzi 15, 1 e seguenti. Questi versetti racchiudono tutto l’annuncio di Paolo. Tutto l’annuncio di Gesù Cristo.
«Vi rendo noto,
fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel
quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo
mantenete in quella forma in cui ve lo ho annunziato. Altrimenti,
avreste creduto invano! Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto, quello che
anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo
le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le
Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici». Paolo annuncia la
testimonianza di Gesù. «La testimonianza di Dio» (1Cor
2, 1). La testimonianza che Dio ha dato col risuscitare Gesù dai morti.
La testimonianza che Gesù Cristo ha dato di essere risorto col
mostrarsi ai discepoli. Fa parte dell’essenza dell’annuncio cristiano il
rendersi visibile del Risorto ai testimoni che Lui sceglie. Se non si
fosse reso visibile ai testimoni, se non avesse dato Lui stesso
testimonianza di essere risorto, la testimonianza degli apostoli sarebbe
stata una loro invenzione.
Heinrich Schlier, che, secondo me, è il più grande esegeta che la Chiesa abbia avuto nel secolo scorso,
come insiste su questo fatto! È Gesù che, rendendosi visibile, dà
testimonianza di Sé stesso. È Gesù che, rendendosi visibile agli
apostoli, facendosi toccare e mangiando con loro, testimonia della
realtà della Sua risurrezione: «Tommaso, guarda e metti la tua mano»
(cfr. Gv 20, 27). «Visus est, tactus est et manducavit. Ipse certe erat
/ Fu visto, fu toccato, mangiò. Era proprio Lui», dice sant’Agostino in
un discorso contro gli gnostici, commentando l’apparizione di Gesù
risorto agli apostoli dal Vangelo di Luca (Lc 24, 36-49).
È
Gesù che, rendendosi visibile, testimonia di essere risorto, di essere
vivo. La testimonianza degli apostoli è un riflesso della Sua
testimonianza. Com’è importante questo! La luce della Chiesa è solo una
luce riflessa. «Lumen gentium cum sit Christus / È Cristo la luce delle genti». La Chiesa riflette questa Sua luce come in uno specchio.
Una delle frasi più belle di Paolo, che mi è così cara, dice: «Noi
tutti, a viso scoperto, riflettendo, come in uno specchio, la gloria del
Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine [il riflesso di Gesù è efficace: cambia la vita], di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3, 18).
Paolo annuncia ciò che ha ricevuto, ciò che Gesù Cristo stesso ha testimoniato ai Suoi apostoli.
Un secondo cenno
riguardo all’annuncio di Paolo. Anche questa cosa bellissima si legge
nella prima Lettera ai Corinzi, 2, 1 e seguenti. L’annuncio di
Gesù porta in sé la prova della sua verità. Non si tratta di dimostrare
noi che Gesù è vivo. È Gesù stesso che mostrandosi, operando, dimostra
di essere vivo. Altrimenti, aumentiamo il dubbio, nostro e degli altri. È
Gesù che, agendo, e quindi mostrandosi, dimostra di essere vivo. La
dimostrazione della verità del cristianesimo è l’agire e il mostrarsi di
Gesù nel presente.
Schlier dice questo con un’espressione bellissima: «Il kerygma e i doni, il kerygma
e i miracoli formano un tutt’uno». E Paolo lo dice più semplicemente
che non il grande esegeta: «Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra
voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di
Dio [la testimonianza che Dio ha donato] con sublimità di parola e di
sapienza. Io ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non
Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza
[come è bello questo!] e con molto timore e trepidazione; e la mia
parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di
sapienza [non voleva lui dimostrare che Gesù era reale], ma sulla
manifestazione dello Spirito [cioè sul fatto che Gesù risorto si
manifesta] e della sua potenza [sul Suo agire, sul Suo manifestarsi],
perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla
potenza di Dio» (1Cor 2, 1-5).
La fede può essere fondata solo sulla potenza di Dio, cioè sull’agire di Gesù, sul manifestarsi di Gesù. Non si vince la paura della morte (cfr. Eb
2, 15) con gli argomenti di sapienza, con i nostri discorsi. La paura
della morte è vinta quando Gesù, agendo nel presente, si fa riconoscere
vivo. Gesù si dimostra reale, vivo, quando si mostra. Quando mostra la
Sua azione, quando mostra la Sua potenza. «Con una prova totalmente Sua», scrive Schlier, che si sperimenta «come realtà tangibile».
|
|
|
San Paolo visita san Pietro in carcere, Filippino Lippi, Cappella Brancacci, Santa Maria del Carmine, Firenze |
|
|
|
Termino con le parole di Giovanni Battista Montini, nei suoi appunti sulle Lettere di san Paolo, scritti a Roma quando era giovane sacerdote, tra il 1929 e il 1933: «Nessuno
più di lui [Paolo] ha sentito l’insufficienza umana e ha riconosciuto
ed esaltato l’azione libera, da sé sola bastevole, necessaria per noi,
della grazia di Dio Salvatore». È bellissimo! Libera: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16). Da sé sola bastevole: «Ti basta la mia grazia» (2Cor 12, 9). Necessaria per noi: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15, 5).
E Montini aggiunge
una frase, commovente se si pensa anche alle umiliazioni ricevute: «Egli
[Paolo] ha sentito il fastidio della sua presenza “contemptibilis” [disprezzabile]».
«Praesentia corporis infirma [scrive nella seconda Lettera ai Corinzi, 10, 10] / La presenza fisica è debole / et sermo contemptibilis / e la parola è da disprezzare».
«Egli ha sentito il fastidio della sua presenza contemptibilis. Ha provato desolanti depressioni di spirito».
Un’espressione di
questa umanità così debole di Paolo si trova nella seconda Lettera ai
Corinzi, 2, 12: «Giunto pertanto a Troade per annunciare il Vangelo di
Cristo, sebbene la porta mi fosse aperta nel Signore [quindi gli era
possibile annunciare il Vangelo di Cristo], non ebbi pace nello spirito
perché non vi trovai Tito, mio fratello; perciò, congedandomi da loro,
partii per la Macedonia». Paolo non ha neanche la forza di annunciare il
Vangelo, se non ha il conforto della grazia del Signore che brilla
riflessa sul volto di una persona cara. Cara semplicemente per questo
riflesso di grazia.
E poi continua (2Cor
7, 5 e seguenti): «Da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne
[la nostra debole umanità] non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni
parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori al di dentro».
Com’è vero! «La Chiesa vive», dice la Lumen gentium, «tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio». Sant’Agostino, nel brano del De civitate Dei
da cui è tratta questa frase, scrive che le persecuzioni del mondo
provengono innanzitutto dall’interno della Chiesa. Anche perché le
persecuzioni del mondo sono innanzitutto i nostri poveri peccati che
fanno soffrire il cuore di chi è amato da Gesù e vuole bene a Gesù.
Continua Paolo: «Ma
Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e
non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da
voi». Paolo che a Troade non aveva avuto la forza di annunciare il
Vangelo, quando arriva Tito è confortato anche perché Tito gli parla
dell’affetto che le persone di Corinto hanno per lui.
«A questa nostra consolazione si è aggiunta una gioia ben più grande per la letizia di Tito» (2Cor
7, 13). Perché non basta ricordare l’affetto di persone lontane, se chi
ne parla non è lui stesso lieto, contento nel presente.
Quando vado a pregare
sulla tomba di Paolo nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, a Roma,
in ginocchio, ripeto sempre un inno: «Pressi malorum pondere, te, Paule, adimus supplices / Oppressi dal peso di tante contrarietà [innanzitutto dei nostri poveri peccati] veniamo a te, Paolo, supplici / […] quos insecutor oderas defensor inde amplecteris
/ [...] quelli che tu quando eri persecutore hai odiato, adesso come
difensore li abbracci». In questo abbraccio, in questo essere amati da
Gesù, anche attraverso gli amici di Gesù, possiamo ripetere: «L’amicizia
è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità».
Grazie.
|
Nessun commento:
Posta un commento