Lettera di Vicky, sieropositiva accolta al Meeting Point di Kampala,
letta da don Julián Carrón alla giornata d'inizio anno di CL a Roma
***
Mi
chiamo Vicky, ho 42 anni e vengo dalla regione orientale dell’Uganda.
Voglio ringraziare voi e Dio per la vita preziosa che mi ha dato. Nel
1992, quando rimasi incinta del mio ultimo figlio, Brian, mio marito mi
pose davanti alla scelta se rimanere sua moglie, rinunciando alla
gravidanza, o separarmi da lui se volevo tenere il bambino. A
quell’epoca avevo solo due figli, e decisi di portare avanti la
gravidanza, cosa che segnò la fine della mia relazione con lui. Davvero non capivo perché lui fosse così crudele e intransigente.
Poi nel 1997 persi il lavoro a causa della malattia, e nello stesso
tempo il mio bambino, Brian, manifestò sintomi di tubercolosi, ed ebbi i
primi sospetti. L’anno seguente mi aggravai e nell’ospedale di
Nsambiya fui visitata e sottoposta al test Hiv, che risultò positivo.
Fu allora che ricordai e capii perché mio marito non aveva voluto la
gravidanza di Brian: perché all’epoca anche lui era sieropositivo.
La vita in casa con i miei tre bambini si fece difficile. I due ragazzi erano sani, ma non avevamo i soldi per la scuola; non avevamo da mangiare, né soldi per le medicine, e peggio di tutto non avevamo amore da nessuna parte del mondo. Non sapevo più se Dio esisteva davvero. Nel 2001, qualcuno mi ha indirizzato al Meeting Point International, dove ho incontrato donne che facevo fatica a credere potessero vivere in quel modo pur essendo malate anche loro di Aids, tale era la gioia che portavano sul viso; ballavano ed erano liete, e io mi chiedevo come uno che aveva questa malattia potesse cantare e ballare. Al Meeting Point vi accolgono con musiche e canzoni di popoli differenti, africani, europei, indiani, ho persino trovato qualcuno della mia stessa tribù. Dopo lungo tempo ho cominciato a vedere una luce far capolino nel mio essere a pezzi, così ho preso a stare con loro. Una cosa importante, che non ho mai dimenticato, è il giorno in cui qualcuno mi ha guardato con uno sguardo che aveva in sé i raggi della speranza e dell’amore. In tutto questo tempo io ero costretta a letto, e tutti i miei amici, i parenti, persino i vicini guardavano con rifiuto e disprezzo me e i miei bambini. Con questo sguardo di amore e speranza che qualcuno mi ha rivolto, mi ha mostrato qualcosa che ha portato la vita nel mio spirito e nel mio corpo a pezzi. Mi ha detto: “Vicky! Tu hai un valore, e il tuo valore è più grande del peso della tua malattia e della morte”. Nel 2002 iniziai a comprare farmaci per il mio bambino che stava per morire, dopo averlo tolto dalla scuola per il marchio di discriminazione con cui era bollato: lo avevano soprannominato “scheletro”. Nel 2003 cominciai a comprare farmaci anche per me. Allora pesavo 45 chili, oggi ne peso 75. Brian adesso è davvero sano e ha ripreso la scuola secondaria. Il mio ragazzo più grande è all’università, il secondo fa la quarta superiore. Dov’è il potere della morte? È nella perdita della speranza e nella mancanza d’amore. Ora sono volontaria al Meeting Point, e ogni volta che ricevo delle persone dico loro che il valore della vita è più grande di quello del virus che portano dentro di sé. Questa affermazione nutre la speranza di una persona che soffre e sta per morire, e la riporta alla vita. Tutti i miei risultati sono stati possibili perché mi sono rivestita di qualcosa oltre la morte, e in particolare d’amore. Grazie a tutte le persone che ci hanno educato anche se non li abbiamo visti in faccia; ma oggi, nel nome di Giussani, Carrón è venuto fra noi che eravamo poveri e dimenticati: chi è più ricco di noi adesso? Siamo i più ricchi del mondo, perché qualcuno ha recato un sorriso almeno sul volto di una persona. Ringrazia tutti loro che ci sono cari, e dì loro che li amiamo.» foto Vicky al Meeting Point: |
Postato da: giacabi a 19:34 |
link | commenti
testimonianza, cristianesimo
Steensen, Niels (1638 - 1686)
***
Francesco Abbona
Giovanni
Paolo II, Omelia e Discorso in occasione della beatificazione di Niels
Steensen, Roma 23.10.1988, Insegnamenti XI,3 (1988), pp. 1304-1311 e pp. 1315-1318.
I.
Cenni biografici - II. I contributi scientifici - III. Il metodo di
studio - IV. La personalità e le convinzioni - V. Il pensiero filosofico
- VI. Il rapporto scienza-fede.
Nel
panorama scientifico del Seicento Niels Steensen occupa una posizione
secondaria rispetto ai grandi nomi di Keplero, Galilei, Newton,
Cartesio, Pascal, eppure è una personalità non meno geniale e certo
delle più affascinanti di quel secolo così decisivo per la storia della
cultura. «È uno dei grandi spiriti della sua epoca» (Gohau, 1990, p.
32). A
renderlo tale non sono solo le sue scoperte fondamentali in anatomia ed
in altre discipline, che lui stesso inaugura come paleontologia,
geologia e cristallografia, ma soprattutto le sue qualità: spirito di
ricerca, rigore di metodo, unità di pensiero e di azione, onestà e
integrità di vita.
In
un'epoca in cui si stavano consolidando i nazionalismi, egli percorse
l'Europa con autentico spirito universale, che non ignora il paese
d'origine, ma sa integrarlo in una sintesi culturale di più ampio
respiro. Per questo è anche una delle personalità più rappresentative ed
interessanti dell'Europa del suo tempo, di attualità anche per l'Europa
di oggi.
I. Cenni biografici
Niels
Steensen, in latino Nicolaus Stenonis, in italiano Niccolò Stenone,
nacque il 1° gennaio 1638 (calendario giuliano) a Copenhagen da Steen
Pedersen, discendente di una famiglia di pastori luterani, orafo e
fornitore della casa reale, e da Anne Nielsdatte. Niels rimase orfano di
padre all'età di 6 anni; la madre si risposò successivamente altre due
volte, sempre con orafi. Di salute cagionevole, il piccolo Niels
trascorse l'infanzia in compagnia di adulti, di cui seguì con curiosità
le conversazioni serie e gravi, ispirate ad un luteranesimo praticato
con fede e devozione. All'età di dieci anni fu avviato agli studi
primari nella scuola di Notre Dame. Qui sotto la guida di appassionati
insegnanti ricevette una buona educazione umanistica e letteraria,
apprendendo anche nozioni di matematica e scienze naturali. La posizione
della famiglia gli consentì di frequentare famiglie illustri, tra cui
quella di Simon Paulli, professore di anatomia e medico personale del
re. L'ambiente era austero, come suggeriscono le massime sapienziali di
casa Paulli: «Uomo, ricordati dell'eternità! L'occhio di Dio è posato su
di te». «Vivi pensando alla morte, il tempo passa, noi non siamo che
ombre». Frequentava il laboratorio paterno, dove assisteva e spesso
partecipava alle operazioni che vi si svolgevano: misura di volumi,
saggi chimici, molatura di lenti, osservazioni al microscopio,
costruzione di macchine idrauliche.
La
vita era dura e precaria: nel 1648 era finita la guerra dei trent'anni e
di lì a poco, nel 1657, sarebbe scoppiata la guerra con la Svezia. Nel
1654 la peste portò via un terzo della popolazione di Copenhagen e metà
dei compagni di Stenone, ma le pratiche della carità cristiana erano
vive: anche Stenone si era prodigato nella sepoltura dei compagni.
A
diciott'anni si iscrisse all'Università di Copenhagen, scegliendo come
campo di studi medicina e scienze naturali, mentre avrebbe preferito
matematica e geometria.
Tra i professori ebbe i fratelli Thomas e Rasmus Bartholin: il primo
era un famoso anatomo; il secondo, allievo di Cartesio, coltivava la
geometria cartesiana e le scienze naturali. Le personalità che più
ebbero influenza furono però Ole Borch e Simon Paulli, entrambi cultori
di scienze naturali e della sperimentazione. Il periodo era tutt'altro
che favorevole agli studi: il 9 agosto 1658 Copenhagen venne posta in
stato d'assedio dalle truppe del re svedese Carlo X Gustavo, per cui gli
studi furono interrotti. Stenone, arruolato nella difesa della città,
si dedicò nei momenti liberi alla lettura nella Biblioteca
dell'Università ed in altre private. Dopo che l'assedio venne respinto
(11 febbraio 1659), Stenone volle fare il punto sullo stato delle sue
conoscenze e più in generale della sua vita, e stese tra l'8 marzo e il 3
luglio 1659 una specie di diario, che intitolò Chaos, testimone prezioso per comprendere la formazione e la personalità dello Stenone.
Nel
1659, terminato il triennio di studi all'Università di Copenhagen,
passò a completare i suoi studi in Olanda, allora all'apogeo della
potenza ed in pieno rigoglio intellettuale e culturale, con cui la
Danimarca intratteneva stretti rapporti commerciali e culturali. Scelse
come sede Amsterdam, dove poco dopo il suo arrivo (Pasqua
del 1660) fece la prima scoperta in anatomia: il dotto che porterà il
suo nome, che trasferisce la saliva dalla parotide alla cavità orale.
Questa scoperta fu causa di una controversia tra lui e il suo
professore, Blasius, che cercò di appropriarsene; essa si concluse solo
nel 1663, con il riconoscimento della paternità a Stenone. L'esperienza
di Amsterdam lo deluse, cosicché dopo aver sostenuto una dissertazione
sulle acque termali, De Thermis, nel luglio dello stesso anno
si trasferì a Leida, sede di una celebre Università. Qui trovò un
ambiente stimolante e favorevole alle ricerche anatomiche, dove
insegnavano valenti studiosi, tra cui Francesco de la Boe (Sylvius) e
Jan van Horne. Nel giro di tre anni conseguì risultati ragguardevoli, consegnati in quattro dissertazioni (Observationes anatomicae), che lo imposero all'attenzione dell'Europa scientifica. Per questi meriti fu nominato dottore in medicina in absentia (4.12.1664).
Il
soggiorno a Leida rappresentò un momento fondamentale anche sotto un
altro aspetto. L'ambiente intellettualmente vivo e tollerante, dove gli
interessi scientifici si intrecciavano con quelli filosofici e
teologici, e la frequentazione di Baruch Spinoza (1632-1677) furono
all'origine di un profondo ripensamento delle convinzioni religiose. La
riflessione sulle sue esperienze in anatomia gli consentì di superare la
crisi e di rinsaldarsi nella fede dei padri. Nella primavera del 1664
ragioni familiari lo costrinsero a ritornare a Copenhagen. Qui pubblicò
tre dissertazioni, tra cui una De musculis et glandulis in cui
riassunse i risultati delle sue ricerche. La mancata nomina a professore
di anatomia e la morte della madre lo indussero a lasciare la città
nell’agosto del 1664.
Si
portò quindi a Parigi dove si trovavano alcuni suoi amici. Qui la fama
di anatomo gli aprì le porte del circolo di Melchisedec Thévenot, un
mecenate umanista, che raccoglieva l'aristocrazia intellettuale e
scientifica di Parigi. Eseguì alcuni lavori di embriologia e numerose
dissezioni, che lo fecero altamente apprezzare, e tenne una celebre
conferenza sul cervello (Discours sur l'anatomie du cerveau).
Anche in questo soggiorno si manifestarono i vasti interessi di Stenone,
in particolare quelli religiosi, suscitati dal contatto con persone ed
istituzioni cattoliche. Importanti furono i colloqui con Maria
Perriquet, cugina di Thévenot, alla cui azione egli attribuì un ruolo
decisivo nella sua evoluzione religiosa.
Verso
la fine dell'estate del 1665 lasciò Parigi per un lungo viaggio in
Francia, che lo portò tra l'altro a Montpellier. Qui conobbe W. Croone,
J. Ray e M. Lister, naturalisti inglesi interessati alla
In quello stesso periodo si verificò un avvenimento decisivo per la sua vita spirituale. Il 2 novembre 1667, dopo lunghe approfondite riflessioni, decise di abbracciare la fede cattolica.
Il passaggio al cattolicesimo non modificò il suo stile di vita né le
sue ricerche, ma suscitò ripercussioni negative in ambito protestante.
Di fronte a critiche spesso ingenerose, Stenone intervenne più volte
con scritti ora apologetici ora polemici. Furono probabilmente queste
reazioni a far sì che egli lasciasse cadere l'invito del suo re a
rientrare in patria, cui peraltro rimase sempre profondamente legato.
Nell'autunno del 1668 intraprese un lungo viaggio per l'Europa. Prima visitò Roma e Napoli, quindi risalì a Bologna, dove compì studi anatomici con Malpighi; fu poi a Innsbruck, dove le ricerche anatomiche (De vitulo hydrocephalo)
si accompagnarono ad escursioni mineralogiche e geologiche in Tirolo e
dintorni. Fu a Vienna. Visitò le famose miniere di Scemnitz e Kremnitz,
donde inviò minerali a Firenze. Da Praga si portò in Olanda, dove rimase
fortemente impressionato dalle condizioni di indifferenza, se non di
Nel luglio 1672, dopo otto anni di assenza, rimise piede a Copenhagen. Pur essendo anatomicus regius,
le sue lezioni e dissezioni si svolsero tuttavia in case private. Una
sola fu la dissezione pubblica, di cui fu pubblicato nel 1673 il Prooemium. Durante il soggiorno si occupò anche del sistema muscolare degli animali e pubblicò la prima grande monografia di zoologia: Historia Musculorum Aquilae
(1673), che fu anche l'ultimo lavoro scientifico di Stenone. Lo stato
di incertezza personale, alcuni attacchi da parte protestante, il
restringimento della libertà religiosa lo convinsero ad abbandonare la
Danimarca per rientrare a Firenze, dove Cosimo III lo attendeva.
Nel Natale del 1674 lo troviamo a Firenze, dove fu nominato precettore del principe ereditario, per il quale scrisse: Trattato di morale per un principe. L'interesse religioso si concretò nella scelta del sacerdozio: il 13 aprile del 1675, giorno di Pasqua, fu ordinato sacerdote.
Da questa data fino alla morte (1686), Stenone non si occupò più
direttamente di scienza per dedicarsi interamente agli impegni del suo
ministero sacerdotale. Furono dodici anni di vita condotta nel più puro
spirito evangelico di povertà, dedizione agli altri e ascesi «per amor
di Dio». Furono anni molto duri, per le difficoltà obiettive
dell'ambiente in cui fu inviato ad operare, la Germania del Nord, e per
le incomprensioni che gli vennero anche dalla comunità cattolica. Pur
mite di carattere, si dimostrò inflessibile in un caso di simonia e
comandò ai missionari di tenere linguaggio e comportamento evangelici
nella polemica contro i protestanti.
Il 26 settembre 1677, su richiesta del duca di Hannover, il cattolico Giovanni Federico, Stenone fu nominato vescovo di Hannover; qui strinse relazione con
II. I contributi scientifici
Fu
detto che Stenone era come il re Mida: ogni cosa che toccasse, la
trasformava in oro, nell'oro della conoscenza. E difatti in tutti i
settori disciplinari che affrontò, lasciò una traccia duratura:
anatomia, geologia, paleontologia, cristallografia. Gli scritti si
distaccano nettamente da quelli dei suoi contemporanei per chiarezza,
concisione, forza di argomentazione, rifiuto di vane speculazioni,
evidente riflesso di un pensiero geniale, dalle idee chiare e distinte.
Riepiloghiamo quindi, in modo schematico, alcuni dei risultati più
significativi.
Impareggiabile anatomo, era di una grandissima abilità manuale e di eccezionale chiarezza espositiva: «la
cosa più straordinaria in lui è che egli fa tutto in modo così evidente
che uno è costretto a convincersi, e fa meraviglia che le stesse cose
siano sfuggite a tutti i precedenti anatomi» (Journal des Sçavans, 1665). Appena ventiduenne,
scopre il dotto parotideo (che da lui prende nome), e nel giro dei tre
anni successivi compie una serie di importanti scoperte sulle ghiandole,
da lui definite un «capolavoro del Creatore», che farà dire a H. Moe, storico della medicina: «rivoluziona le idee sulle ghiandole e ne fonda la scienza». A
lui spetta il merito di avere distinto tra ghiandole secernenti e
ghiandole linfatiche e di aver dato la corretta interpretazione della
funzione secretiva ghiandolare. Rettifica l'interpretazione data da
Cartesio circa la formazione delle lacrime e spiega la continuità della
lacrimazione rispetto al pianto.
Anche sul cuore i suoi apporti sono decisivi: dimostra che il
Anche
il cervello «principale organo dell'anima» è oggetto delle sue ricerche
ed è al centro di una celebre lezione tenuta a Parigi, pubblicata con
il titolo Discours sul l'anatomie du cerveau (1669). Definita
come «un raggio di luce nell'oscurità» (O.J. Rafaelsen, in Poulsen et
al., 1986), quest’opera «è il vero punto di partenza dei moderni studi
sul cervello» (Darenburg, 1870, in Poulsen et al., p. 27); contiene una
lucida denuncia della radicale insufficienza delle conoscenze e delle
idee preconcette sul cervello ed è altresì un testo fondamentale per la
metodologia di studio del cervello e per le prime descrizioni di
anatomia comparata. Interpreta le circonvoluzioni cerebrali come sede
delle funzioni superiori, contrariamente a Cartesio, che attaccato allo
schema interno-esterno non vi vedeva che una specie di imballaggio o
involucro.
Stenone si occupa anche dell' organo riproduttivo femminile. Comparando
gli organi sessuali di animali e di esseri umani, scopre che gli organi
detti «testes muliebres» sono ovaie, destinate a produrre uova,
trasportate nell'utero lungo le trombe uterine (tube di Falloppio).
Non mancano altri studi anatomici, tra cui indagini sull'embriologia
del pulcino; studio della muscolatura di un'aquila; anatomia dei
selacei.
Il trattato Elementorum Myologiae Specimen del 1667 contiene due appendici Canis carchariae dissectum caput e Dissectus piscis ex canum genere, dove la dissezione di una testa di squalo lo porta quasi insensibilmente a ricerche prima paleontologiche e poi geologiche.
Dalla rassomiglianza dei denti di squalo attuali con le glossopietre,
oggetti duri di forma triangolare presenti in certi terreni, in
particolare a Malta, egli perviene ad una corretta interpretazione della
natura dei fossili, resti di animali marini vissuti in epoche
precedenti. Già altri, tra cui Leonardo da Vinci (1452-1519) e Fabio
Colonna (1567-1640), si erano espressi in tal senso. Il merito di
Stenone è di averne dato una chiara dimostrazione e soprattutto di aver
saputo cogliere il significato della loro presenza collegandola ai
sedimenti che li includono. Per questi lavori Stenone è considerato il fondatore della paleontologia.
«I princìpi della ricerca così eccellentemente stabiliti da Stenone nel
1669 sono quelli che sin da allora, consciamente o inconsciamente,
hanno guidato le ricerche in paleontologia» (T. Huxley, The Rise and Progress of Paleontology, 1881, cit. in Poulsen et al., 1986, p. 187).
Dai
fossili Stenone passa quindi ad occuparsi dell'ambiente del loro
ritrovamento, cioè dei sedimenti. I risultati delle sue ulteriori
ricerche e le considerazioni che ne trae sono consegnate nel Prodromus del 1669. In questo breve, rivoluzionario trattato egli
enuncia i princìpi della geologia stratigrafica tuttora validi (il
principio della sovrapposizione degli strati; della orizzontalità
iniziale e della continuità laterale) e pone così le basi per la
costruzione della scala del tempo geologico. Nelle sue osservazioni
applica implicitamente il principio dell'attualismo, formulato oltre
cent'anni più tardi da Hutton (1795). Studia l'erosione; si occupa del
problema dell'origine delle montagne e ricostruisce le vicende
geologiche della Toscana. Per questi contributi è considerato Geologiae Fundator (come scolpito sul monumento di fronte alla biblioteca universitaria di Copenhagen). Dall’osservazione
dei cristalli di quarzo e di ematite deduce la prima legge della
cristallografia — la costanza degli angoli diedri — generalizzata nel
1783 da Romé de l'Isle. Respinge come fantasiose le
spiegazioni correnti sulla formazione dei cristalli e dimostra che essi
crescono per deposito di materia sulle facce, demolendo così l'idea
diffusa che si formino come le piante. Propone
il corretto meccanismo di crescita delle facce dei cristalli per strati
e osserva il carattere anisotropo della crescita. Per questo è considerato anche fondatore della cristallografia. Per Schack A. Krogh, premio Nobel 1920 per la medicina, il Prodromus
e i trattati del 1667 sono gli esempi più belli di come si origina e si
sviluppa un’idea scientifica fino alla sua conferma attraverso prove
irrefutabili. E lo storico contemporaneo, Gohau (1990), annota: «la
geologia gli deve molto, anche se ci mise molto tempo per accorgersene, e
non si sia finito di riconoscere il suo merito».
III. Il metodo di studio
La
frequentazione del laboratorio paterno, la sviluppata cultura tecnica
del suo paese, la diffusione del metodo cartesiano spiegano l'importanza
data da Stenone all'esperimento ed all'osservazione come strumenti
privilegiati di conoscenza nell'indagine dei fenomeni naturali. In
questo applicava l'insegnamento di uno dei suoi primi maestri, Ole
Borch: «L'esperienza è la vera via regale che conduce alla conoscenza
della verità». Non che sottovalutasse l'importanza della
teoria, anzi riconosce esplicitamente la necessità di princìpi. Si
legge nel manoscritto dell'opera di Stenone, Chaos: «Nel
campo delle scienze naturali noi non sappiamo nulla se non attraverso
esperimenti ed osservazioni, insieme con tutto quello che può essere
dedotto con i principi metafisici e meccanici». Sono le teorie allora in vigore a suscitare le sue riserve perché non ancorate all'osservazione: «In
questioni di scienze naturali è bene non legarsi ad alcuna teoria, ma
classificare con ordine tutte le osservazioni, cercando di arrivare con
la propria iniziativa ad un risultato».
Il suo punto di partenza è l'assioma di
La
verità rimane l'obiettivo della ricerca. Nello studio di fenomeni
complessi, quali ad esempio il cervello, riconosce che si rende
necessaria l'azione di più competenze ed invita gli studiosi ad unire
gli sforzi «per
conseguire qualche conoscenza della verità, e questo dovrebbe invero
essere il grande scopo per coloro che pensano e studiano con onestà e
serietà». Stenone è conscio della necessità di una visione globale: «poiché
la ricerca scientifica di più aree comporta che uno non possa mantenere
le varie aree isolate le une dalle altre, ma è obbligato a prenderne
molte in considerazione allo stesso tempo. E quanto più a lungo uno è
occupato con il particolare, maggiore è il numero degli elementi di cui
manca nell'insieme»
(cfr. Poulsen et al., 1986, p. 116). Il lavoro dello studioso è duro e
deve mirare ad una conoscenza certa. Scrive Stenone nel Prooemio (1673): «[…]
cercherò di combinare esperienza e ragionamento in modo tale che se non
tutti, almeno molti fatti, quando tutto sia preso in considerazione,
raggiungano la certezza della prova» (cfr. Moe, 1994, p. 138). Tuttavia ammette che l'impresa non è facile soprattutto a causa dei condizionamenti personali: «Poiché
nulla è più difficile che metter da parte i pregiudizi, anche opere
moderne, sebbene sia stata applicata la più grande cura, non risultano
così indenni da non contenere traccia di idee preconcette; e se io
volessi fare eccezione a me stesso, meriterei la censura per il mio
sfrontato orgoglio» (ibidem). Il principio di studio degli oggetti naturali è formulato chiaramente: «Dato un corpo dotato di una figura e prodotto secondo le leggi della natura [qui si riferisce ai cristalli naturali], trovare nel corpo stesso la spiegazione del modo e del luogo della produzione» (De solido... prodromus, 1669).
Il giudizio sulla
Conscio della complessità dei fenomeni naturali e della possibilità di più interpretazioni, onestamente dichiara: «Mentre
dimostro la plausibilità del mio punto di vista, non intendo accusare
di disonestà coloro che sostengono tesi opposte. Lo stesso fenomeno può
essere spiegato in vari modi, invero la natura nei suoi processi
persegue lo stesso fine con mezzi diversi» (cfr. ibidem,
p. 108). Fu sempre ammirato per la sua modestia, che spesso era una
“dotta ignoranza”. A proposito delle prime dissezioni della testa di
squalo: «Non sono ancora arrivato ad un conoscenza abbastanza solida in
questo settore per poter presentare il mio giudizio». Dopo anni di
indagini sul cervello, inizia la sua famosa lezione a Parigi (1665)
confessando: «Signori,
invece di promettervi di soddisfare la vostra curiosità a proposito
dell'anatomia del cervello, vi confesso onestamente e francamente che
non ne so nulla».
Ma nello stesso tempo demolisce tutte le supposte conoscenze di cui
dimostra l'inconsistenza, espone le conoscenze sicure, frutto di
osservazione, e pone le basi per un nuovo metodo di indagine del
cervello. Acutissimo ed ancora attuale è il suo giudizio su questo
organo: «È
cosa certa che il cervello è il principale organo della nostra anima e
lo strumento con cui essa compie cose meravigliose; essa crede di avere
penetrato ciò che è al di fuori di sé al punto che non c'è nulla al
mondo che possa limitare la sua conoscenza: eppure, quando rientra in
casa sua, non saprebbe descriverla e non vi si riconosce più» (OP, p. 3;
Anche
quando tratta di religione, Stenone applica lo stesso spirito critico.
Dibattuto tra confessione luterana e cattolica, si documentò non sulle
traduzioni latine, ma sui testi originali scritti in ebraico e greco,
lingue che aveva appreso in gioventù. E nel confronto tra le confessioni
religiose, utilizza un criterio che è ancora “sperimentale”: Doctrinae veritatem vitae sanctimonia demonstrat (la santità della vita dimostra la verità della dottrina, Lettera a Leibniz, 1675).
IV. La personalità e le convinzioni
Ad
un primo rapido sguardo, la vita di Stenone appare segnata da
instabilità e provvisorietà. Certo essa fu movimentata, come risulta dai
numerosi viaggi che compì per l'Europa — si calcola che abbia percorso
poco meno di 30000 Km, visite pastorali escluse, in circa 27 viaggi — al
punto da essere definito dal Redi «pellegrino del mondo per nativa
curiosità». Fu per le sue ricerche in Danimarca, Olanda, Francia,
Italia, Germania, Austria, ma non sostò in nessuna sede per più di tre
anni, se si eccettua Firenze. Fu, come quasi tutti gli studiosi del suo
tempo, uomo di molteplici interessi: scientifici, filosofici, religiosi. La sua ricerca scientifica fu occasionale e molto differenziata, spaziando dall'anatomia alla geologia.
Un evento mutò radicalmente la sua vita: non tanto il passaggio al
cattolicesimo, quanto l'ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1675, e
due anni più tardi l'elezione a vescovo. Questi eventi significarono
l'abbandono della ricerca scientifica a motivo della sua dedizione
all'attività pastorale.
Il
radicale cambiamento di vita diede luogo ad un dibattito sulle sue
motivazioni, sorto già dopo il suo passaggio al cattolicesimo nel 1667.
Ci fu chi vide opportunismo, inganno, ingenuità. Leibniz ironicamente
gli chiese se aveva trovato la fede cattolica «nel midollo delle ossa» e
sentenziò: «Da grande naturalista è diventato un mediocre teologo», ma
dirà di lui: «Io lo stimo oltre misura, ... e riconosco in lui zelo ispirato da vero amore per il prossimo».
Nel 1881 Capellini, al congresso internazionale di Geologia a Bologna,
espresse il suo interrogativo in forma rude «che desse un addio alle
scienze naturali e si facesse frate, non so perdonarglielo, né so
rendermi ragione come un tale addio non dovesse costargli grandissimo
sacrificio», ma si fece promotore di una lapide sulla tomba di Stenone a
Firenze. Più recentemente fu avanzata un'altra interpretazione: «negli
anni della maturità abbandonò la scienza per una carriera nella Chiesa»
(J.G. Burke, Origins of the Science of Crystals, Berkeley
1966). Per altri «abbandona le attività scientifiche per l'abito talare
forse perché non riesce a conciliare opere scientifiche con convinzioni
religiose» (Y. Gayrard-Valy, I fossili, orme di mondi scomparsi,
Torino 1992) e dello stesso avviso sembra Morello (1979). Secondo
altri, invece, è «una scelta consapevole dell'impossibilità di
conciliare due missioni, che non potevano essere svolte altro che con
una completa dedizione» (Cipriani, 1986).
Eppure,
se c’è una personalità fortemente unitaria, è proprio quella di
Stenone: modo di pensare, convinzioni religiose, metodo di studio,
attività di ricerca, comportamento personale sono così strettamente
intrecciati da una logica interna, conseguente ad un’unica ispirazione
di fondo, che se questa non viene colta, il senso dell'agire risulta
incomprensibile o per lo meno ambiguo. Ciò è dovuto anche al fatto che
Stenone espose il suo pensiero in modo non sistematico, ma occasionale,
cosicché possiamo ricostruirlo solo a partire dall'insieme dei suoi
scritti.
Un'opera
fondamentale per comprenderne la personalità giovanile e gli sviluppi
della maturità è un manoscritto, redatto a 21 anni, che intitolò Chaos,
con l'intestazione, significativa, «In nomine Jesu». È un documento di
grande interesse, in cui egli riporta citazioni, commenti, idee di
esperimenti, progetti di vita. Dimostra di avere letto un centinaio di
opere scientifiche di 80 autori diversi, tra cui Keplero, Galileo,
Cartesio, Gassendi. Manifesta la sua adesione al metodo cartesiano e
alle teorie di
Queste
convinzioni, formatesi nel pio ambiente famigliare, conosceranno una
forte crisi durante il soggiorno olandese, che egli riuscirà a
sormontare grazie ai risultati delle sue osservazioni anatomiche.
Superato lo scoglio di un razionalismo pretenzioso, gli fu più chiaro il
senso del ricercare. Così si esprimerà nel Prooemio (1673): «Questo
è il vero scopo dell'anatomia, che attraverso l'ingegnosa struttura del
corpo gli spettatori siano portati a cogliere la dignità dell'anima e
di conseguenza attraverso le meraviglie del corpo e dell'anima, imparino
a conoscere ed amare il Creatore […]. Pertanto la ragione è sollevata
dalla contemplazione delle singole parti e dal confronto di queste tra
loro, a cercare il Creatore di così grandi meraviglie» (OP, vol. II, p. 242).
Alcuni
tratti della sua personalità sono propri della cultura danese in cui si
era formato: profondo senso religioso, inquietudine spirituale, spirito
di concretezza, senso di lealtà, valorizzazione della tecnica e della
sperimentazione. Altri sono suoi specifici: trasparenza di carattere,
tensione verso unità di pensiero e di vita, acutezza di giudizio, onestà
intellettuale, spirito critico, indipendenza di giudizio, sensibilità
d'animo, affabilità di tratto. Un elemento molto importante, che forse ereditò dall'ambiente di lavoro paterno, fu il senso della
Una caratteristica costante della sua vita furono la ricerca della certezza e della verità, e la coerenza. Riconobbe che oltre la certezza matematica esiste la certezza morale, e che anch’essa ha il suo fondamento nella ragione. Oltre queste esiste una certezza divina, che è il punto di incontro della ricerca dell'uomo e del dono di Dio. Tra le due certezze c'è continuità. Scrive a Leibniz: «Mi
sembra che Dio nella sua provvidenza mi abbia dato le conoscenze e le
scoperte di naturalista come una specie di grazia naturale, affinchè io
fossi preparato a ricevere la grazia sovrannaturale». Ma ammette: «Sed divina certitudo nemini nisi eum experienti demonstrari potest (ma la certezza divina non può essere dimostrata a nessuno se non a colui che ne fa esperienza)» (E, n. 73). Pervenuto a questa certezza, ne trae con logica coerenza le conseguenze: «mi sento spinto dal profondo del cuore ad offrire a Dio ciò che ho di meglio, e il meglio possibile». Decise di offrire i giorni restanti della sua vita. «Dio...
ti ha fatto vedere nella natura ciò che era necessario per confutare
errori di filosofi e medici... ti ha fatto tanti doni... non arrestarti a
questi doni, ma volgiti verso il Donatore! ... Egli ha convertito la
tua anima e ha messo in te l'ardente desiderio dell'eternità presso di
Lui. Quid retribuam Domino pro omnibus quae retribuit mihi? (cfr. Sal 116,12)» (De actionum perfectione in generali). Si orientò verso il sacerdozio «per
poter presentare le azioni di grazie per i benefici ricevuti,
l'espiazione per i peccati commessi e ogni offerta che possa piacere a
Dio» (lettera a Kircher).
È
doveroso qui accennare ai rapporti di Stenone con il mondo protestante.
Oggetto di critiche ed attacchi anche pesanti, rispose sempre con
decisione in numerosi scritti, non transigendo sui principi — era
convinto della verità della dottrina cattolica —, ma sempre rispettando
l'interlocutore. Intervenne sempre e talora duramente contro i giudizi
ingenerosi e le intemperanze da parte cattolica. Vescovo ad Hannover,
seppe conquistarsi la stima dell'ambiente protestante e attirarsi la
simpatia, ricambiata, del vescovo luterano, di cui ammirava la pietà e
la carità. C'erano speranze di un riavvicinamento delle Chiese, e molti
operavano in tal senso. Il più illustre promotore era Leibniz, che più
volte ne discusse con Stenone. Ma le posizioni e le mentalità dei due
erano troppo distanti. Stenone concluse avvertendo Leibniz, propenso a
soluzioni sincretistiche, che «chi asserisce di poter trovare la vera fede in quasi tutte le religioni, stia attento a non ritrovarsi escluso da tutte […]. Non è in alcun luogo, chi vuole essere dovunque»
(Angeli, 1996, p. 244). E fu di fronte a cattolici e protestanti che la
sera del 24 novembre 1686, prima di spirare, fece pubblicamente la sua
ultima confessione.
La
scienza e il sacerdozio furono per lui due modi di realizzare la stessa
profonda aspirazione della sua vita, quale si era già delineata nel suo
diario Chaos. Come si era dato all'una («Il dovere di fare delle ricerche che ci insegnano la verità richiede un uomo tutto dedito, che non abbia che quello da fare», Discorso sul cervello), così si dà tutto all'altra, dove aveva trovato verità e pienezza di vita.
V. Il pensiero filosofico
Stenone occupa un posto singolare nel contesto filosofico del suo tempo. Letture fin dal periodo della stesura di Chaos
e contatti successivi, soprattutto nei soggiorni di Leida, Parigi e
Firenze, lo avevano messo al corrente dei principali filoni di pensiero
dell'epoca. Come appassionato cultore di geometria e matematica, avrebbe
potuto essere attratto dalle idee neoplatoniche e pitagoriche che
dominavano soprattutto in ambito italiano, come studioso di cristalli
avrebbe potuto aderire all'atomismo che sembrava la dottrina più adatta
per spiegare i fenomeni da lui osservati. Stenone invece volle mantenere
separata la ricerca scientifica da passeggere idee filosofiche o
sistemi preconcetti e pervenire piuttosto a leggi ed osservazioni
comunque valide.
La
riserva nei riguardi della filosofia trova una ragione nella sua
esperienza personale. Stenone era stato così affascinato dalla filosofia
razionalista di Spinoza, per cui conta solo il sapere che trova la
certezza nella ragione, che sembra abbia pensato di aderirvi e di
lasciare nel contempo la medicina per la geometria, in quanto strumento
di solida conoscenza. Riuscì a superare il pericolo di «idolatrare il
pensiero umano» grazie alle sue scoperte, fatte proprio in quel periodo:
«In
un modo meraviglioso, contro ogni attesa, Dio mi ha fatto comprendere e
riconoscere la vera composizione del cuore e dei muscoli. Così le loro [dei cartesiani] ingegnose costruzioni sono state rovesciate senza una sola parola, semplicemente da preparazioni anatomiche» (E, n. 72). Riconobbe che la sua fede aveva corso un grosso rischio, ma ne era stato salvato «perchè
Dio con le scoperte anatomiche mi fece rinunciare alla presunzione
filosofica e mi ricondusse poco a poco a ricevere l'amore dell'umiltà
cristiana, che è il più degno amore dell'anima ragionevole» (E, n. 143). Già vescovo, Steensen scriverà a Leibniz nel 1677: «Se
questi signori, che quasi tutti gli studiosi adorano, hanno ritenuto
come dimostrazioni infallibili ciò che io in un'ora di tempo posso far
preparare da un giovinetto di dieci anni al punto che, senza alcuna
parola, la sola vista fa crollare i più ingegnosi sistemi di questi
grandi spiriti, quale sicurezza posso avere delle altre sottigliezze di
cui si vantano? Voglio dire, se costoro nelle cose materiali esposte ai
sensi si sono talmente ingannati, quale sicurezza mi daranno di non
ingannarsi allo stesso modo, quando trattano di Dio e dell'anima?» (ibidem).
Era
l'applicazione coerente del metodo cartesiano da lui seguito a
fornirgli argomentazioni contro le pretese degli stessi cartesiani. Però
precisa: «Io
non critico il metodo di Cartesio, ma il cattivo uso che egli ne fa. Io
debbo al metodo la luce sulle mie idee preconcette; il suo cattivo uso
avrebbe potuto allontanarmi dallo studio della religione, ciò di cui si
hanno molti esempi» (OT, vol. I, p. 390). Stenone aveva infatti constatato che «molti si lasciano
trascinare verso ciò che è ancor peggio del cartesianesimo e, anche se
non si allontanano dal cristianesimo, lasciano che svanisca […]. Questo
si vede bene in Spinoza e seguaci, che dicono di aver spinto la
filosofia cartesiana ancora più lontano, ma in realtà l'hanno rovesciata
con il risultato di essere diventati perfetti materialisti […]. E
poiché al modo di Cartesio non vogliono confessare la loro ignoranza sui
rapporti tra anima e corpo, tra ciò che è pensiero e ciò che è
estensione, sono caduti nel più grave degli errori pretendendo che
pensiero ed estensione siano attributi della stessa sostanza […]. Non
conoscendo che la materia, essi erigono a dio la somma di tutte le cose e
permettono tutti i godimenti dei sensi. Non essendoci libero arbitrio,
la preghiera è vana, perchè la morte non è seguita né da sanzione, né da
ricompensa» (ibidem, p. 388).
La
riserva nei riguardi della filosofia non significa però che egli
escluda princìpi interpretativi a priori. Quando disseziona la testa
dello squalo, enuncia un criterio importantissimo che gli consentirà di
individuare la natura dei fossili: «Con
riguardo alla forma dei corpi […], poichè questa corrisponde
perfettamente a parti di animali, la somiglianza delle forme sembra
suggerire una somiglianza di origine» (GP, p. 110). E a proposito degli esperimenti fatti in laboratorio: «io non dubito che la Natura operi in modo simile nel seno della Terra» (p. 112).
I criteri gnoseologici sembrano ispirarsi ad un realismo di tipo empirico. Dal Prooemio (1673): «C'è
chi accusa i sensi di non mostrare le cose come stanno in sé e di darci
una falsa o incerta impressione di ogni cosa […]. Ma i sensi non sono
intesi a presentarci le cose come sono o a darci un giudizio su di esse;
essi sono intesi a trasmettere per l'investigazione della ragione
quanto del carattere esterno delle cose è adeguato per raggiungere una
conoscenza delle cose che corrisponda alle necessità dell'uomo» (cfr. Moe, 1994, p. 136). È sempre viva in lui la preoccupazione di una conoscenza ben fondata. Sempre dal Prooemio: «allo
scopo di evitare errori, io non mi atterrò alla sola esperienza, né
presenterò esclusivamente argomenti di ragione, ma cercherò di
raggiungere una combinazione di entrambi i punti di vista, cosicché se
non tutto, almeno molto di quello che dirò, possa contenere una certezza
dimostrabile» (cfr. Poulsen et al., 1986, p. 132).
Egli si avvicina dunque alla natura senza preconcetti di tipo magico-numerico, e mutua da Cartesio e
VI. Il rapporto scienza-fede
Sulla
base delle considerazioni sopra svolte, appare evidente che non ci fu
conflitto in Stenone tra fede religiosa e sapere scientifico. Se
tensione ci fu, fu tra visione religiosa e concezioni filosofiche. Come
la grande maggioranza degli studiosi del Seicento, Stenone era cresciuto
in un contesto culturale ove vigeva una triplice fede: in Dio, nella
intelligibilità del reale e nelle capacità della ragione umana di
raggiungere la
Commentando
le varie modalità di inserimento dei vasi linfatici nella vena cava,
annota, riferendosi al determinismo di Spinoza, che sosteneva la
necessità del tutto: «Da
questa eccezionale varietà negli individui della stessa specie è facile
dedurre che, tra gli attributi della Divinità che noi possiamo
conoscere attraverso lo studio dei corpi, Dio creatore ha voluto
proporci anche questi due: che Egli non è trascinato dal caso, perchè
segue una regola generale, e che nello stesso tempo Egli non è costretto
da alcuna necessità, perchè in ciascun individuo cambia liberamente le
condizioni particolari» (OP, vol. I, p. 142).
I risultati delle ricerche geologiche sono inseriti nella concezione biblica del suo tempo (
Pur avendo il grande merito di avere introdotto i fondamentali concetti di
Come
profonda era la sua passione per la scienza, altrettanto intensa era la
sua fede. Sono frequenti nei suoi scritti anche scientifici le note
vibranti della sua personale preghiera. Già le prime annotazioni
giovanili, riportate nel manoscritto Chaos, rivelano uno spirito profondamente religioso: «Conducimi,
o Signore, per la gloria del tuo nome. Dammi di poter fare qualcosa di
buono con ordine e costanza». «Dio mio, concedimi la forza di astenermi
da ogni peccato, soprattutto da ogni giudizio troppo affrettato e
sconsiderato, e da affermazioni su cose a me sconosciute o non
perfettamente note». «Oggi
ho fatto ben poco di buono. Perdona, o Dio... Fa' che abbia sempre
davanti agli occhi l'idea della morte, e sulle labbra le parole: memento
mori». E ancora: «Sii presente, Gesù, con la tua grazia!».
La
ricerca scientifica porta elementi di contemplazione al suo spirito
riflessivo e la spiritualità si affina. Già prima del passaggio alla
confessione cattolica, a 25 anni, redige la preghiera che porterà sempre
con sè: «Tu,
senza il cui cenno non cade capello dal capo, foglia dall'albero,
uccello dall'aria, né viene un pensiero alla mente, una parola alla
lingua, un movimento alla mano, Tu mi hai condotto finora su vie a me
sconosciute. Guidami ora, veggente o cieco, sul sentiero della Grazia. A
Te è certamente più facile accompagnarmi là, dove Tu vuoi che io vada,
che a me tenermi lontano da ciò, cui il mio ardente desiderio mi
sospinge» (OT, p. 387).
La
meraviglia di fronte alle bellezze della natura che egli stesso ha
contribuito a scoprire lascia il posto ad una meraviglia più profonda
che si trasforma in gioia quando si sente oggetto dell'attenzione
speciale di Dio: «La grazia
divina mi riempie di una tale felicità che i miei amici possono vedere
la mia gioia interiore da segni esterni. Ma questa certezza divina non
vale che per chi la esperimenta» (E, n. 73). Johann von Rose testimoniò che «erano
evidenti la sua gioia e la sua esaltazione, quando parlava della gloria
di Dio e del bene delle anime, e lo faceva con tanta grazia che anche
gli eretici restavano catturati dal suo fascino, e spesso si
convertivano parlando con lui» (cit. in “Stenoniana” (1991), p. 103). Al tempo del suo apostolato missionario in Germania scrive: «Quanto
meno l'umana speculazione si aspetta in materia divina, tanto più
chiaro emerge alla luce del giorno il disegno della Provvidenza. […] In
questioni apostoliche uno deve agire in modo apostolico, afferrando le
occasioni come vengono e lasciando l'esito alla clemenza divina» (ibidem, p. 107).
Viene l'ora della sofferenza fisica. Sul letto di morte confessa: «Soffro
dolori indicibili e spero, mio Dio, che essi Ti inducano a perdonarmi,
se non penso costantemente a Te. Non Ti chiedo di liberarmi da questi
dolori, bensì di concedermi la grazia di saperli sopportare con santa
pazienza. Se dalla Tua mano abbiamo accettato il bene, perchè non
dovremmo accettare anche il male? Sia che Tu ora voglia che io continui a
vivere oppure che io muoia, io voglio solo ciò che Tu vuoi, mio Dio.
Sii lodato in eterno, e sia fatta la Tua volontà!» (J. von Rose, La vie et la mort de Sténon,
cit. in Moe, 1994, p. 166). Il giorno prima di morire si preoccupa
dell'estinzione di un debito di 300 talleri e acutamente descrive i
sintomi del suo male. Chiude l'esistenza terrena con l'invocazione
giovanile: «Jesu, sihi mihi Jesus! — Gesù, sii sempre per me Gesù».
Francesco Abbona
|
Postato da: giacabi a 20:15 |
link | commenti
santi, testimonianza, stenone
Grazie Don Benzi!
Un mendicante d'anime sui viali della riviera romagnola
***
L'editoriale (03 novembre 2007)
di Marina Corradi
«Se
chiama qualcuno dalla strada e vuole venirne via, dare subito il numero
di cellulare di don Oreste». La scritta in caratteri grossi, neri,
dietro la scrivania in una stanza di via Grotta Rossa a Rimini, era
imperiosa. L’ordine della casa, cui nessuno poteva contravvenire. Nel
caso di un barlume di ripensamento, magari nello sfinimento di un’alba
livida su un viale di periferia, don Benzi – 58 anni di sacerdozio –
sapeva che bisognava esserci, subito: prima che la rassegnazione
seppellisse il principio di una sparuta speranza.
Il vecchio prete morto nel suo letto, nel sonno, tra la notte dei Santi e quella dei Morti, aveva sotto la tonaca lisa qualcosa di una statura epica. A seguirlo nel fondo delle notti riminesi, nei giri in cui raccattava prostitute e drogati per convincerli a cambiare vita, si aveva inizialmente l’impressione di uno straordinario don Chisciotte. Le ragazze dei viali guardavano come un folle gentile quel prete coi capelli bianchi che prometteva una vita diversa. Pareva, ad accompagnarlo in quelle bolge notturne, surreale il dialogo fra un sacerdote ottantenne e rumene o nigeriane diciottenni. Credevi che quelle ragazze sarebbero scoppiate a ridere. Invece no: lo ascoltavano, infastidite prima, poi meravigliate. Guarda, diceva il vecchio nella luce rossastra dei falò, che tu non sei nata per vivere così, guarda che puoi ricominciare tutto da capo. E sotto il trucco pesante, da marciapiede, due occhi lo guardavano, stupiti, dopo tanto tempo, nel sentirsi guardare come qualcosa di prezioso. Cinquecento donne hanno cambiato vita incontrando una notte quel prete. Un cacciatore d’anime sui viali della riviera romagnola; o, più che cacciatore, un mendicante. Gentile, ostinato, allungava tenacemente la mano. Non si arrendeva mai. Un combattente, anche. Uno che si alzava alle 5 del mattino e diceva le Lodi e il rosario in macchina, in viaggio verso uno dei 33 centri della Comunità Giovanni XXIII. Tuttavia, il mare di cose che riusciva a fare, a stargli accanto solo per qualche ora, pareva quasi un secondo lavoro rispetto al vero centro delle sue giornate: la preghiera, ora esplicita, ora interiore. Baricentro costante e silenzioso. Era strano vedere un sacerdote in tonaca nera fra la folla vociante e sguaiata delle notti di Rimini. E arrancandogli accanto – a 80 anni, alle due di notte don Oreste non era stanco – domandavi se non si sentiva a disagio, in quel caos. «A disagio? Qui sto benissimo. Faccio contemplazione. Cerco Cristo nella faccia di tutti quelli che incontro». È stata la profezia di don Benzi: per trovare Dio non occorre chiamarsi fuori dal mondo, o frequentare buone compagnie. In mezzo agli uomini invece, nelle loro notti avide o smarrite, a riconoscere cosa c’è davvero dietro quell’ansia di vivere – che cosa attendono e non trovano, nell’ebbrezza del buio e dell’estate, in fondo a nessun gioco o bicchiere. In mezzo agli uomini, tra di loro e anzi tra quelli che crediamo peggiori. A testa alta, sicuro – eppure sempre con quella mano aperta e tesa. Ci resterà, di don Benzi, il ricordo di un colloquio nel suo studio con una giovane prostituta africana appena sfuggita ai suoi protettori. Guardavamo in basso, e così abbiamo notato i piedi. Quelli della ragazza, neri, agili come di una gazzella inseguita, e irrequieti di paura. Quelli di don Oreste, le scarpe grosse con le suole consunte da prete di marciapiede. Immobili, piazzati a terra come colonne. Come di chi ha radici di una fede profonda, e non oscilla, e non ha paura di nessuno.
***
Il
commento al brano biblico di Giobbe (19,1.23-27) scritto da don Benzi
per venerdì 2 novembre, Commemorazione di tutti i fedeli defunti, e
giorno in cui lui è tornato al Padre
Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che sarà vicino dirà: è morto. In realtà è una bugia. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma in realtà la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa terra mi apro all'infinito di Dio. Noi lo vedremo, come ci dice Paolo, faccia a faccia, così come Egli è (1Cor 13,12). E si attuerà quella parola che la Sapienza dice al capitolo 3: Dio ha creato l'uomo immortale, per l'immortalità, secondo la sua natura l'ha creato. Dentro di noi, quindi, c'è già l'immortalità, per cui la morte non è altro che lo sbocciare per sempre della mia identità, del mio essere con Dio. La morte è il momento dell'abbraccio col Padre, atteso intensamente nel cuore di ogni uomo, nel cuore di ogni creatura. (da Pane Quotidiano novembre-dicembre 2007) |
Postato da: giacabi a 15:04 |
link | commenti
santi, testimonianza, don benzi
n. 260 del 2007-11-03
È morto Don Benzi il prete di strada che aiutava i disperati
di Andrea Tornielli
Stroncato
a 82 anni da un infarto, ha speso una vita dalla parte dei giovani, gli
emarginati e le prostitute. La testimonianza di Alina, 23 anni: "Don Oreste mi ha strappato dalla schiavitù"
da Milano
Le ultime parole le aveva preparate per la liturgia di ieri, per commemorazione dei defunti: «La morte non esiste, perché appena chiudo gli occhi a questa terra, mi apro all’infinito di Dio».
Don Oreste Benzi, il prete fondatore dell’Associazione Comunità
Giovanni XXIII che ha speso la sua vita per aiutare poveri, abbandonati,
bambini senza famiglia e disadattati, prostitute schiavizzate, non
poteva immaginare, mentre vergava quelle parole, che il momento di
chiudere per sempre gli occhi in questo mondo sarebbe arrivato così
presto.
Il
sacerdote si è spento l’altra notte presso la parrocchia della
Resurrezione di Rimini dove abitava, stroncato da un infarto. Due sere
prima era a parlare ai giovani all’entrata di una discoteca di
Cattolica, mentre poche ore prima di morire aveva espresso il suo dolore
per la morte di Giovanna Reggiani, la donna assalita e massacrata da un
giovane romeno a Roma. Ma aveva anche ricordato le parole dei
funzionari della polizia di Bucarest: «Noi collaboriamo con loro per far
rimpatriare le ragazze che salviamo dalla strada. E ci dicono: “Siete
voi italiani che foraggiate e mantenete i criminali romeni, sfruttando
30mila ragazze del nostro Paese che vengono portate sui vostri
marciapiedi ancora bambine!”».
Mancherà
soprattutto a loro, alle ragazze salvate dalla prostituzione, ai
bambini senza famiglia che grazie a lui e alla sua associazione sono
tornati a sorridere.
Nato il 7 settembre 1925 a San Clemente, un piccolo paese
dell’entroterra romagnolo, settimo di nove figli in una famiglia di
operai, Oreste era entrato in seminario all’età di dodici anni grazie al
lavoro straordinario che la madre si era sobbarcata per mantenerlo.
Ordinato prete nel 1949, l’anno successivo è chiamato nel seminario di
Rimini come insegnante e quindi diventa vice-assistente della Gioventù
Cattolica.
Inizia allora a maturare in lui la convinzione dell’importanza di
aiutare gli adolescenti e di realizzare attività che favoriscano «un
incontro simpatico con Cristo».
Don Benzi fa per molti anni il professore nelle scuole pubbliche di Rimini e nel
’68 fonda l’associazione Giovanni XXIII. Si batte per trovare una
famiglia ai bambini gravemente handicappati che vengono abbandonati, poi
si concentra sui tossicodipendenti, apre case di accoglienza nella sua
parrocchia di Grottarossa, una frazione del comune di Rimini. È un prete
tutto d’un pezzo, che non si toglie mai la tonaca e il colletto romano
di plastica. In tonaca don Oreste va per le strade di notte,
accompagnato dai suoi volontari, per cercare di convincere le prostitute
a cambiare vita, offrendo loro un rifugio e una possibilità concreta di
riscatto. Quella tonaca diventa sempre più lisa e rattoppata. Con
addosso quell’abito nel 2003 Benzi ha accompagnato al cospetto di un
commosso Papa Wojtyla un’ex prostituta nigeriana ammalata di Aids.
Un’altra
delle sue battaglie e quella contro l’aborto. Anche la sera prima di
morire aveva organizzato veglie di preghiera davanti ai cimiteri per i
«bambini mai nati», richiamando l’attenzione su questo fenomeno e sulla
necessità di permettere la presenza di operatori volontari nei
consultori per cercare di convincere le donne a non abortire. Don Oreste Benzi, il vecchio sacerdote romagnolo con la tonaca lisa,
lascia duecento case famiglia in Italia, sei case preghiera, sette case
di fraternità, quindici cooperative sociali per inserire persone
svantaggiate, sei centri diurni per valorizzare persone con handicap
gravi, trentadue comunità terapeutiche. La sua associazione,
riconosciuta dalla Santa Sede, è presente in Albania, Australia,
Bangladesh, Bolivia, Brasile, Cile, Cina, Croazia, India, Kenya,
Romania, Russia, Tanzania, Venezuela e Zambia.
|
Postato da: giacabi a 08:25 |
link | commenti
santi, testimonianza, don benzi
***
|
Postato da: giacabi a 18:56 |
link | commenti
testimonianza, chieffo
Protagonisti
***
Se abbiamo coscienza dell'avvenimento che ci è accaduto e che c'è tra noi siamo protagonisti, indipendentemente dalla capacità con cui sappiamo parlare e agire;
altrimenti non siamo nessuno, cioè siamo obbligati a mutuare dagli
altri il motivo per cui facciamo le cose, i criteri e il modo di
comportarci con gli altri, con la donna, nella società, coi compagni e i
professori, con il "dopo università", con se stessi.
O protagonisti o nessuno: e protagonisti non vuole dire avere la genialità o la spiritualità di alcuni, ma avere il proprio volto che è, in tutta la storia e l'eternità, unico e irripetibile.
Don Giussani
|
Postato da: giacabi a 17:40 |
link | commenti
testimonianza, giussani, avvenimento
La giovinezza
***
- La
giovinezza non è un periodo della vita, e uno stato d’animo, che
consiste una certa forma della volontà. In una disposizione
dell’immaginazione, in una forza emotiva nel prevalere dell’audacia sulla timidezza, della sete dell’avventura, sull’amore per le comodità.
Non si invecchia per il semplice fatto di aver vissuto un certo numero
di anni, ma solo quando si abbandonano i propri ideali. Se gli anni
tracciano i loro solchi sul corpo, le rinunce all’entusiasmo li traccia
sull’anima. Essere
giovane significa conservare a sessanta, a settant’anni, l’amore del
meraviglioso, lo stupore per le cose sfavillanti e i pensieri luminosi,
le sfide intrepide lanciate agli avvenimenti, il desiderio insaziabile
del fanciullo per tutto ciò che è nuovo, il senso del lato piacevole e
lieto dell’esistenza. Resterete
giovani finché il vostro cuore saprà riceve i messaggi di bellezza, di
audacia, di coraggio, di grandezza, di forza che vi giungono dalla terra
da un uomo o dall’infinito.
Quando tutte le fibre del vostro cuore saranno spezzate e su di esso si
saranno accumulate le nevi del pessimismo e il ghiaccio del cinismo e'
solo allora che diverrete vecchi e possa Iddio aver pietà della vostra
anima.
Vero
benefattore dell'umanità Oltre a creare il vaccino contro la
poliomielite, rinunciò a brevettarlo, consentendone la diffusione anche
fra i poveri: senza speculazioni economiche. Oggi, grazie a Sabin, la
polio può considerarsi debellata. Lui restò giovane.
a P.
|
Postato da: giacabi a 08:28 |
link | commenti
vita, bellezza, testimonianza
Testimoni di Cristo
***
|
Postato da: giacabi a 15:02 |
link | commenti
santi, testimonianza
Postato da: giacabi a 16:11 |
link | commenti
testimonianza, croce, cristianesimo
Il Bisogno di una vera compagnia
***
“Si
può passare la giovinezza, nomadi, nelle camere d'albergo, in attesa
dell' ignoto, alla ricerca dell'impossibile, in agguato della bella
sconosciuta: ci si può inebriare a tutti i profumi stordire a tutte le
musiche... Ma giungendo al
passaggio a livello della maturità si sente il bisogno di piantare dei
chiodi nelle pareti di una piccola casa nostra, si pensa con
desiderio a un sano profumo di caffé tostato e alla musica di una
macchina da cucire. Si può aver ripetuto, con Strindberg, che la
famiglia è un insieme di persone che si detestano, ma quando si imbiancano le tempie, si rivolge il pensiero alla memoria dei padri e si desidera un bimbo.”
Pitigrilli da:La piscina di Siloe ed. Bompiani
“Dino Segre, in arte Pitigrilli, nacque a Torino nel 1893 da madre cattolica e da padre ebreo. Divenne subito famoso, nel primo dopoguerra, con una serie di romanzi
"appartenenti " (come fu osservato) " non tanto al dominio della
letteratura erotica, quanto a quello della propaganda libertina ed atea". Ebbero grandissima diffusione anche all'estero, specialmente nella Russia sovietica, dove furono introdotti e diffusi dallo stesso governo bolscevico…. per due interi decenni (i Venti e i Trenta) sono stati i libri italiani più venduti e più tradotti. Comunque, la vita dello scrittore (e, soprattutto, dell'uomo) era stata come spezzata in due tronconi proprio dalla pubblicazione, nel 1948, del libro che qui è ripubblicato. È la testimonianza di una conversione al cristianesimo, anzi al cattolicesimo,
che sorprese i benevoli, scandalizzò gli agnostici ed eccitò il
sarcasmo degli avversari. Anche costoro, peraltro, dovettero ammettere
che i quasi trent'anni che trascorsero tra la morte e quell'ingresso in
una Chiesa sino ad allora non solo mai frequentata, ma volterrianamente
sospettata e irrisa, confermarono che si trattava di "cosa seria». Dopo questa Piscina di Siloe, Pitigrilli fu nella vita un cattolico lontano sì da ogni clericalismo e unzione, ma esemplarmente praticante.
E la sua fluviale produzione letteraria rifuggì, ovviamente, da ogni
devozionalismo, ma fu improntata a una sicura prospettiva cristiana
della vita. Tanto che, per una sorte di eterogenesi dei fini, lo
scrittore un tempo scandaloso e libertino fu apprezzato titolare di rubriche su periodici come il Messaggero di Sant'Antonio... Del Pitigrilli "cattolico" si potrebbero fare antologie, che confermerebbero come la svolta del secondo dopoguerra sia stata profonda e definitiva……”
dalla prefazione di V.Messori
|
Postato da: giacabi a 16:50 |
link | commenti
testimonianza, pitigrilli
***
Pubblichiamo qui la famosa "Lettera ai cristiani d'Occidente" scritta nel 1970 da Zverina, in una versione "migliorata" rispetto a quella normalmente diffusa.
Fratelli, voi avete
la presunzione di portare utilità al Regno di Dio assumendo quanto più
possibile il saeculum, la sua vita, le sue parole, i suoi slogan, il suo
modo di pensare. Ma riflettete, vi prego, cosa significa accettare il saeculum. Forse significa che vi siete lentamente perduti in essa? Purtroppo sembra che facciate proprio così. E' ormai difficile ritrovarvi in questo strano mondo e distinguervi da esso.
Probabilmente vi riconosciamo ancora perchè è un processo lento, perchè
vi assimilate al mondo, adagio o in fretta, ma sempre in ritardo. Vi
ringraziamo di molto, anzi quasi di tutto, ma in qualcosa dobbiamo
dissentire. Abbiamo molti motivi per ammirarvi, per questo possiamo
e dobbiamo indirizzarvi questo ammonimento. "E non vogliate conformarvi
a questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, affinché
possiate distinguere qual è la volontà di Dio, ciò che è bene, ciò che
gli è gradito, ciò che è perfetto" (Rm 12,2). Non conformatevi! Me suskhematizesthe!
Come è ben mostrata in questa parola la radice verbale: schema. Per
dirla in breve, è vacuo ogni schema, ogni modello esteriore. Dobbiamo
volere di più, l'apostolo ci impone: Tras-formare il proprio modo di
pensare - metamorfousthe te anakainosei tou nous. Com'è espressiva e plastica la lingua greca di Paolo! A differenza dello skhema della morphe - forma permanente - c'è la metamorphe,
il cambiamento della creatura. Non si cambia secondo un qualsiasi
modello che è comunque sempre fuori moda, ma è qualcosa di completamente
nuovo, ricco di tutta la sua novità (anakainosis). Non cambia il lessico, ma il significato (nous). Quindi non contestazione, desacralizzazione, secolarizzazione, perchè questo è sempre poco di fronte alla anakainosis
cristiana. Riflettete su queste parole e vi abbandonerà la vostra
ingenua ammirazione per la rivoluzione, il maoismo, la violenza
(di cui comunque non siete capaci). Il vostro entusiasmo critico e
profetico ha già dato buoni frutti e noi, in questo, non vi possiamo
indiscriminatamente condannare. Solo ci accorgiamo, e ve lo diciamo
sinceramente, che teniamo in maggior stima il calmo e discriminante
interrogativo di Paolo: "Esaminate voi stessi per vedere se siete nella
fede, fate la prova di voi medesimi. O non conoscete forse neppure che è
in voi Gesù Cristo?" (2 Cor 13,5). Non
possiamo imitare il mondo proprio perchè dobbiamo giudicarlo, non con
orgoglio e superiorità, ma con amore, così come il Padre ha amato il
mondo (Gv 3,16) e per questo sui di esso ha pronunciato il suo giudizio.
Non phronein (pensare) e, di conseguenza hyperphronein (arzigogolare), ma sophronein, pensare con saggezza (cfr. Rm 12,3). Essere saggi al punto di discernere quali sono i segni della volontà di Dio e dei tempi. Non ciò che è parola d'ordine del momento, ma ciò che è buono, onesto, perfetto. Scriviamo
come gente non saggia a voi saggi, come deboli a voi forti, come miseri
a voi ancor più miseri! E questo perchè certamente fra di voi vi sono
uomini e donne eccellenti. Ma proprio perchè vi è qualcuno occorre
scrivere stoltamente, come ha insegnato l'apostolo Paolo quando ha
ripreso le parole di Cristo, che il Padre ha nascosto la saggezza coloro
che molto sanno di questo (Lc 10,21).
Fonte: J. Zverina, L'esperienza della Chiesa - Scritti per una "Chiesa della compassione", Jaca Book 1971. Cfr. J. Zverina, Pet cest k radosti, Zvon 1999. |
Postato da: giacabi a 19:52 |
link | commenti
testimonianza, zverina
Gesù Cristo
è la reale
salvezza dell’uomo
Così Madre Teresa descrive l'inizio della sua opera di carità:
«"Un
giorno, mentre ero nei quartieri poveri di Calcutta e stavo per
ritornare nella mia stanza, ho visto una donna che giaceva sul
marciapiede. Era debole, sottile e magrissima si vedeva che era molto
malata e l'odore del suo corpo era così forte che stavo per vomitare anche se le stavo solo passando vicino".
Madre Teresa si alza dalla sedia, va alla finestra, guarda fuori e continua:
"Sono andata avanti e ho visto dei grossi topi che mordevano il suo corpo senza speranza e mi sono detto: questa è la cosa peggiore che hai visto in tutta la tua vita".
Madre Teresa si volta, mi guarda negli occhi e mi dice con fermezza:
"Tutto
quello che volevo in quel momento, era di andarmene via il più presto e
dimenticare quello che avevo visto e non ricordarlo mai più. E ho
cominciato a correre, come se correre potesse aiutare quel desiderio di fuggire che mi riempiva con tanta forza".
Madre Teresa lascia uscire un sospiro, e ci sono delle lacrime nei suoi occhi:
"Ma prima che avessi raggiunto l'angolo successivo della strada, una luce interiore mi ha fermata. E sono rimasta lì, sul marciapiede del quartiere povero di Calcutta, che ora conosco così bene, e ho visto che quella non era l'unica donna che vi giaceva, e che veniva mangiata dai topi. Ho visto anche che era Cristo stesso a soffrire su quel marciapiede".
La mano di Madre Teresa è occupata con il rosario. Guarda la croce e il Crocifisso, e dice dolcemente:
"Mi
sono voltata e sono tornata indietro da quella donna, ho cacciato via i
topi, l'ho sollevata e portata al più vicino ospedale. Ma non volevano
prenderla -ci hanno detto di andarcene via. Abbiamo cercato con un altro ospedale, con lo stesso risultato, e con un altro ancora finché non abbiamo trovato una camera privata per lei, e io stessa l'ho curata. Da quel giorno la mia vita è cambiata. Da
quel giorno il mio progetto è stato chiaro: avrei dovuto vivere con il
più povero dei poveri su questa terra, dovunque l'avessi trovato"».
(Madre Teresa, Preghiera, Piemme)
|
Postato da: giacabi a 19:48 |
link | commenti
testimonianza, madre teresa, ziba
La palpebra di Carlo e la leucemia di mia figlia Lucilla
Eutanasia - sab 9 dic
di Luigi Amicone
Tratto da del 8 dicembre 2006 Io non parlerò di Carlo Marongiu, il pompiere sardo malato di sla che non riesce nemmeno a batter ciglio, il cerotto gli tiene la palpebra aperta, non può spiegare alla moglie che ha un prurito dietro la schiena. Un bel verso di Goethe però ci sprona. “Non dite nulla a metà/ completare, che fatica!”. Nonostante il respiro gli manchi ogni otto secondi, Carlo resta il capo di famiglia e ogni decisione di casa passa al suo vaglio. Al vaglio di quel mucchietto di carne scadente? Non ne ha anche lei abbastanza di stare attaccata con funi, con tutta quell’anima addosso che gli scalcia dentro come un bimbo nell’utero di una madre morta, inchiodata al palcoscenico del mondo? Sì, anche Carlo ne ha abbastanza. Ma non per questo consente alle nostre mareggiate di pietà e compassione di scambiare la tempesta dei sentimenti per la pietra, il vero, la cosa. Non parlerò dell’uomo di Narbolìa, Oristano, che al nostro Emanuele Boffi, due settimane orsono, ci mise tre ore a occhieggiare una frase, una frase scema, secondo voi (“Dio mi ha detto che ha grandi progetti su di me”). E non starò qui a spiegare neanche il perché e il percome quest’uomo gigantesco ha suscitato intorno a sé un gigantesco movimento di popolo da quando, anno 1998, giacendo allettato notte e giorno, chiede alla moglie di tenere ben chiusa la porta di casa; non per paura dei ladri, ma perché notte e giorno è bello sentir bussare. Non parlerò neanche della moglie di Carlo, Mirella, che da otto anni la sua vita è questa: ore 9-14 ufficio. Ore 14-15 pasto e rassetto della casa. Ore 15-6 del mattino del giorno seguente, inchiodata a una seggiola, davanti al capezzale del marito, a leggere pizzini, lettere, giornali, libri, riviste, con un occhio alle lettere, l’orecchio all’allarme della spina del respiratore artificiale, sbrigando criticità che, di riffa o di raffa, di punto in bianco, capitano quando meno te l’aspetti. E il volto di Carlo prende il tipico colorito bluastro dell’asfissia. Non parlerò di questo santuario del dolore e della gioia, di questa università sintesi di tutti i saperi, dove vanno e vengono studenti di ogni estrazione, poveri in canna e illustri notabili, madri disperate e vecchi carcerati, ricchi e bisognosi (mentre la signora dorme tre ore a notte, con la sveglia che squilla ogni trenta minuti, sperando che la macchina non si inceppi proprio in quel dormiveglia). Io non mi avventurerò sui sentieri della letteratura della cognizione del dolore, né nelle raccomandazioni biblico-agostiniane. Vi racconterò semplicemente quel poco che so dall’esperienza. E’ la tarda mattinata del 19 dicembre 2005, sono in redazione, squilla il telefono, è mia moglie Annalena. Mia figlia Lucilla era andata a sciare e la mattina del lunedì si era svegliata dolorante in tutte le ossa. “Sarà influenza”. Però è pallida come un cencio. Era seguito il viaggio al pronto soccorso, poi il responso dei medici dell’ospedale pubblico San Gerardo di Monza. “Leucemia grave, signora, molto grave”. E più tardi in corsia. “Signora non sappiamo, se sopravvive alla prima chemio, forse…”. Sono circa le sei del pomeriggio quando mi presento all’ospedale. Lucilla è seduta sul suo lettino, cameretta singola, pallida, avvolta nella sua camicia da notte come in un sudario di morte. “Come va, Lalla?”. “Uno schifo, pa’”. Lei che ti biascica altre cose e tu che non pensi ad altro altro che tua figlia è nelle mani dichissacosa (scusate, permettetemi di averlo chiamato Dio, lì per lì). “Vedi papà…” e piange. “Vedi, non me ne frega niente della morte, è che proprio adesso doveva capitare! Proprio adesso che c’è Natale e noi dovevamo stare tutti insieme nella nostra bella famiglia (sì, disse così, Lucilla: “bella”, e io faccio ancora così fatica a crederci! ndr), adesso che dovevo andare in vacanza con i miei amici di Gs! Ma perché Gesù mi fa questo! Non poteva aspettare almeno la fine delle vacanze!?” E poi, stringendo i denti e i pugni, “E’ un pirla!”. Un pirla? Chi è un pirla Luci? “Gesùùùù!!!!!”. Beh, dico io, adesso calma. Poi la guardo e so soltanto che gli devo una risposta. “Neanche un po’” dico. “Neanche un po’ cosa?” “Dico che Gesù non è neanche un po’ pirla”. “E allora perché mi fa questo? Ti sembra giusto che Gesù faccia queste cose?”. Dentro di me dico: so forse qualcosa più di questa bambina, io? No, non so niente, non capisco un accidente, so soltanto che il nemico dice nel corpo di mia figlia: “Presente”! Stai davanti a questa realtà mi dico. Non scappare, non tirare in ballo Dio, né i santi, né Ripensandoci, le situazioni più tragiche sono quelle più semplici. Perché si può, si deve, solo accettare. Perché dall’accettare viene l’imparare. Riflettendoci, non è che la nostra pietà e la nostra compassione e il nostro amore siano falsi. E’ che non completano mai niente, è che per quanto buoni e sensibili e amorevoli e compassionevoli e pietosi possiamo essere, non siamo capaci, direbbe Ibsen, di un solo atto completo di virtù in tutta la nostra vita. Ci vuol niente a insegnare a disperare. Ma insegnare a vivere, questa sì che è un’impresa degna anche dell’ultimo malato terminale. |
Postato da: giacabi a 12:52 |
link | commenti
eutanasia, testimonianza
GRANDE ORIANA!
E
così Oriana Fallaci ha lasciato il segno, ha fatto parlare di sè anche
dopo la sua morte. Con un gesto per certi versi clamoroso: ha donato
alcune centinaia dei suoi libri più belli, quelli cha amava di più (come
ha testimoniato suo nipote) all'Università Lateranense. E insieme ad
essi anche il suo mitico zaino usato in Vietnam.
Ho
letto con interesse i suoi ultimi best seller, quelli che avevano il
sapore della crociata, e devo dire che, pur avendovi trovato molte
verità, non mi convincevano gli argomenti, non mi piaceva il livore,
insomma, il tono generale. Non starò dunque qui a farne una santa e a
scriverne un'agiografia, perchè sarebbe un tradire o travisare il
personaggio. Ma è anche vero che, pur non essendosi mai convertita alla
religione cattolica, la grande Oriana era riuscita a trovare un valido
interlocutore in Joseph Ratzinger.
Cosa
si saranno detti nel loro colloquio di qualche tempo fa? Avranno
parlato solo di Islam o anche di quel senso della vita sul quale Oriana
si è sempre interrogata, pur non trovando risposte convincenti? E questo
gesto inaspettato, questo dono di parte di sè alla biblioteca di uno
Stato estero e per giunta confessionale, è forse un ringraziamento, un
modo di testimoniare la propria affezione?
Certo
è che la laicissima Oriana Fallaci, con tutte le sue spigolosità, le
sue manie, le sue ostinazioni, è stata un esempio significativo della
possibilità di incontro e di dialogo tra chi possiede una fede forte e
radicata e chi, invece, non riesce a credere fino in fondo.
Ed
è quanto meno stupefacente la figura di questa anticlericale che lascia
alla Santa Romana Chiesa cattolica i suoi libri e i suoi oggetti più
cari. Misteri delle
coscienze! Oriana Fallaci non è stata la prima nè sarà l'ultima. La sua
vicenda mi dice che non è mai possibile dire una parola definitiva sul
cuore dell'uomo, la cui insondabile profondità è un segreto che
possiede solo chi l'ha fatto.
Gianluca Zappa
Postato da: giacabi a 20:44 |
link | commenti
fallaci, testimonianza
.
Il venerabile Matteo Talbot
|
Ex alcolizzato cronico
Da: http://www.preghiereagesuemaria.it/bambini/strade%20nuove%20con%20la%20mamma.htm
.
|
Dublino, inizio della seconda metà del secolo XIX. La famiglia Talbot, dal padre ai figli, era «consacrata» a bere. Il
padre, Charles Talbot, 33-enne, basso di statura, gran lavoratore del
porto, beveva molto, almeno nel fine-settimana, meglio ancora tutti i
giorni.
|
I
figli, 12, nei primi vent'anni di matrimonio di Charles con Elizabeth
Bagnall, quelli che riuscirono a crescere e a farsi adulti, furono gran
lavoratori, ed insieme bevitori potenti, implacabili.
|
Solo John e la madre facevano eccezione. La
mamma, Elisabeth, era una donna meravigliosa, fervente cristiana,
capace di sacrificarsi come una martire antica, ricca dell'indomabile
forza che è la preghiera.
|
Da quella famiglia, meglio sarebbe dire: dà quella tribù irlandese, nacque il sabato 3 maggio 1856 Matteo Talbot. Nella sua famiglia poté trovare quel che abbiamo detto: povertà, lavoro, vino, ubriacature solenni... e la fede della madre.
|
Un loro conoscente diceva:
|
«Questionavano sempre. Al sabato, quando avevano strabevuto, era un cozzare di contrasti». Una famiglia di spugne assorbenti vino e poi ancora vino.
|
Bacco dominava incontrastato. Schiavo del bicchiere
|
Andare
a scuola non era obbligato. Le scuole nazionali erano anticattoliche.
Perciò molti cattolici non mandavano a scuola i loro rampolli.
Esistevano però della scuolette per ragazzi poveri.
|
Matteo
- detto Matt, familiarmente - crebbe libero e vagabondo fino a undici
anni. Il 6 maggio 1867 fu mandato a scuola: vi imparò a leggere e a
scrivere, un po' di grammatica e di aritmetica, ebbe istruzione
religiosa e fu preparato a ricevere i sacramenti.
|
Cominciata la scuola a maggio, Matt imparò la prima poesia: era dedicata alla Madonna e diceva così:
|
O
Madre di bontà, di giorno in giorno di più col cuore mio ti voglio
amare, tu spargi i doni tutto a me dintorno come la sabbia in riva al
nostro mar. Anche se povertà, fatiche, affanni faran pesar la vita su di
me, chi non lo sa che fra i peggiori danni il buio è la luce per chi
ama Te?
|
Matt
cantava con amore gli inni della Madonna, specialmente quando i
ragazzini si radunavano insieme al suono dell'Angelus a mezzogiorno. La
mamma gli aveva insegnato ad amare Maria. Ma nel resto non si impegnava.
Il maestro, sul registro, scrisse una nota triste: «A Mitcher» cioè
«poltrone».
|
Cresciuto libero e selvaggio fino a undici anni, preferiva marinare la scuola. C'era più gusto. Là dentro, in fondo, era una prigione.
|
L'anno dopo fu mandato a lavorare, piccolo incauto dodicenne. Il padre lo impiegò in un magazzino di vini e di birra. Dopo poco tempo, Matt sentiva una voglia pazzesca di bere. E cominciò a bere allegramente.
|
A 16 anni, Matt era un alcoolizzato cronico che non si interessava più di nulla, né di feste, né di giochi o balli: solo il bere era per lui interessante.
|
Lavorava senza risparmiarsi. Guadagnava discretamente, ma «beveva» quasi tutto. Anzi faceva debiti per bere. Vendette persino scarpe e camicia, pur di avere soldi per bere.
Tuttavia aveva ancora un certo senso della dignità personale: non era
volgare, era ancora affettuoso e delicato con mamma e sorelle.
|
A suo modo, continuava ad essere devoto del
|
La
mamma però non disperava di recuperare quel ragazzo. La gente del luogo
diceva: «Povero Matt, va diritto al diavolo». La mamma gli sbarrava la
strada con una siepe di Rosari, sempre più spessa.
|
Eppure Matt fu un ubriacone fino a 28 anni. Un sabato del 1884 non aveva avuto lavoro quella settimana.
|
Era senza soldi: Sperava che gli amici lo invitassero a bere. Il bar era di fronte a lui, seducente. Ma nessuno dei suoi amici si fermò per farlo bere. Lo deridevano allegramente: «Toh, vedilo, l'ubriaco, oggi a bocca asciutta! ».
|
Matt
andò barcollante fino al parapetto del ponte sul fiume. Provava
vergogna di se stesso. Guardò un po' l'acqua che scorreva: veloce e
scura del fiume Liffey. Tentato suicidio? Nessuno può dirlo... Si
allontanò dal fiume e andò a casa, facendo gesti da rivoluzionario. Era
ora di finirla con quella vita disumana. Si sarebbe tolto a viva forza,
ce l'avrebbe fatta sarebbe riuscito ad essere un uomo normale.
|
Giunto
a casa, la mamma rimase stupitissima: per la prima volta non era
ubriaco: «Già qui, ragazzo mio?» gli disse. «Sì, mamma» - rispose.
Rimase in casa anche dopo pranzo, poi disse alla madre: «Vado a fare voto di non bere più».
|
Si recò da Padre Keane, docente del seminario di Dublino. Si confessò e chiese di fare il voto. Lo fece per tre mesi, come prova. La domenica successiva, Matt andò a Messa e fece, dopo tanti anni,
|
Potevano sembrare parole. Come resistere alla voglia di bere?
|
La
mattina dopo, il lunedì, era alla Messa delle cinque, per essere sul
lavoro alle sei. Da allora fece sempre così, tutti i giorni. Dopo
il lavoro, per fuggire le cattive compagnie, andava in una chiesa
lontana, a pregare fino all'ora di tornare a casa prima di notte.
|
La sorella Susanna diceva: «Matt è diventato un altro! ».
|
La
mamma, trasecolata di gioia, continuava a dire Rosari, perché Maria lo
sostenesse in quella lotta senza quartiere contro l'alcool e la
bestialità. Matt conserverà sempre il ricordo vivissimo che la sua conversione era dovuta ai Rosari sgranati da sua madre, e che era avvenuta di sabato dedicato alla Madonna.
|
Maria,
|
Una vita completamente diversa
|
Ora
era un convertito. D'accordo, ma quanta voglia di bere aveva ancora in
corpo! Una voglia strana da strozzarlo. Eppure resisteva con una forza
di volontà da far paura. Non si sentiva solo in quella lotta impari.
Quando provava « sete », fuggiva dai bar come dalla peste, correva
verso la chiesa, vi entrava, andava a mettersi ai piedi del Crocifisso,
pregava: «O Maria, mia buona mamma... ».
|
I
suoi compagni di bevute erano stupiti. Matt era diventato un altro, non
solo perché non beveva più, ma perché voleva liberare gli amici dal
vizio dell'alcool. Un giorno un amico, Pat Doyle, andò a cercarlo per
portarlo al bar. Rifiutò e lo accompagnò, quasi furiosamente, presso una
chiesa e lo affidò ad un sacerdote.
|
Pat si confessò di tutto il suo brutto passato, poi scappò via veloce. Anche lui aveva fatto voto di non bere piu!
|
Da
parte sua, Matt capiva che ora doveva costruire la sua vita in modo
completamente nuovo. La sua istruzione era molto elementare, sapeva
lavorare duro, era irascibile, insomma sembrava un «masso di pietra»
grezzo e spigoloso, ancora tutto da scolpire. Come avrebbe fatto a
«sgrossarsi»?
|
Come prima e più di prima, continuò a lavorare in modo deciso e costante, senza risparmiarsi. Poi riempì
le sue giornate di letture spirituali, per istruirsi a fondo nella
fede, di preghiera quasi ininterrotta, di penitenza, come un antico
eremita. Il cuore, con il passare del tempo, gli ardeva di un amore
fortissimo al Cristo e a Sua Madre. Questo amore lo trasformava dentro e
fuori.
|
Dal maggio del 1884 aveva un lavoro fisso, a cui fu così fedele da meritarsi il titolo del «migliore lavoratore di Dublino». La sua giornata, piena di lavoro, si apriva alle 5, prima dello spuntare del sole, con
|
Il
sabato pomeriggio e la domenica, libero dal lavoro, li trascorreva
inginocchiato, davanti al tabernacolo, in lunghe, interminabili ore di
preghiera eucaristica. A
volte, nei primi tempi, la sua voglia di bere ruggiva in petto. Fu
tentato fortemente di rompere il voto, ma resistette, ed allora rinnovò
il voto per altri sei mesi, poi per un anno, infine per tutta la vita.
|
La
mamma, felice perché quel suo figlio «che era morto, ora era tornato in
vita», lo sosteneva a resistere e lo affidava continuamente alla
Madonna.
|
Dopo
la sua conversione, andò ad abitare in una stanza da solo, vicino alla
sorella Maria. La buona sorella testimonierà un giorno che Matt dormiva su un tavolaccio con ún tronco per guanciale.
E che pregava sempre, quando era in casa. Voleva essere povero come
Gesù. Nella stanza poverissima, non c'era che un letto di ferro, un
tavolo, una sedia, un Crocifisso. Si disfece di tutto. Si privò anche del fumo, oltre che del vino e della birra: e questo per lo stomaco di ex-alcoolizzato è un vero prodigio.
|
Dentro
di lui cresceva l'amore verso il Cristo ed è questo che conta. Si
mortificava per amare di più, per essere più libero per il suo Dio, per
rassomigliare di più al suo Signore Crocifisso.
|
Penitenza
per liberarsi dal vino e da ogni legame con il negativo o il
superfluo. Un tempo ebbro di vino, ora «ebbro di Dio», per il quale
incatenava il suo corpo e trovava la libertà più vera. A noi non è
chiesto di imitare la sua mortificazione se questa non è la nostra
vocazione, ma a tutti è dato di imitare il suo amore al Cristo e la sua
devozione filiale alla Madonna Santissima.
|
E Matt visse così per anni, passando di luce in luce...
|
Burlone e amico di tutti
|
Severo con se stesso, si scioglieva in tenerezza con gli altri. Tra i suoi compagni
di lavoro, non solo era gentile, pronto sempre ad aiutare chiunque in
qualsiasi difficoltà, ma aveva sempre la barzelletta pronta, la battuta
allegra per incoraggiare o sbloccare una situazione difficile e aspra.
|
Era
sempre felice, di un'intima gioia. Parlava con schiettezza, teneva
fede, e pretendeva che lo facessero con lui, alla parola data. Prestava
denaro, voleva che gli fosse restituito... per poterlo donare con
generosità, perché lui era fin troppo ricco di Dio!
|
Nel
1909 cambiò lavoro e passò presso i Martin, commercianti di legnami da
costruzione, perché con il loro orario aveva più tempo per leggere,
pregare, vivere la sua unione con Dio. Era
diventato popolarissimo tra gli altri lavoratori che, benché rudi, lo
stimavano per la sua laboriosità, il buono umore, la vita santa che
conduceva.
|
Alla
sera, quando il lavoro cessava, accompagnava a casa i suoi compagni di
lavoro e, durante il percorso, li invitava ad una visita in chiesa, per
pregare Gesù nell'Eucarestia, e la «sua» Regina,
|
Per conto suo era un eremita; con gli altri era migliore di un fratello.
|
Laico «consacrato»
|
Ancora
giovane ebbe una proposta di fidanzamento. Una ragazza che lo stimava,
piuttosto ricca, gli propose il matrimonio: sarebbe stata felice con
lui. Matt volle riflettere e fece una novena alla Madonna per essere
illuminato sul suo futuro. Aveva allora solo trent'anni ed era molto
equilibrato rispetto alla vita sregolata condotta prima.
|
Alla buona ragazza, disse di no: era stata
|
Il
18 ottobre 1891 entrò nel Terz'Ordine di S. Francesco, prendendo il
nome di «Fra Giuseppe». Si iscrisse pure all'Associazione di Maria
Immacolata e cercava di portarvi anche altri.
Proprio presso l'associazione mariana, parlava in quegli anni il Padre
gesuita Toni Murphy sui grandi problemi della fede. Matt ne era
entusiasta e s'industriava di portare i suoi amici ad ascoltare la
parola di quel grande uomo.
|
Un'attività
notevole come la sua, non poteva certo reggersi sul nulla. Gli era
necessaria una vita interiore ricchissima e insieme anche una
preparazione culturale, religiosa, cristiana, capace di attrezzarlo ad
essere un valido testimone di Cristo.
|
Matt diventò per questo un formidabile ed acuto divoratore di libri.
|
Leggeva assiduamente
|
Lesse
altresì molti libri di spiritualità di ottimi autori e libri di
teologia, così da apparire esperto in questioni religiose. Approfondì le
questioni della società e del lavoro nel suo tempo. Molti compagni lo
consultavano e ne ricevevano risposte esaurienti. Un giorno un compagno
gli pose un problema difficile... e Matt si procurò un libro facendolo
arrivare da New York, spendendo lo stipendio di una settimana, pur di
poter rispondere con competenza.
|
Appassionato dalla santità, desideroso di arrivarci, lesse numerose vite di santi, tra i quali si sentiva «a casa sua».
|
Nel
mondo del lavoro, seppe essere vicino ai compagni, condividendo
problemi e fatiche. Di loro, del loro benessere, si interessava con un
senso vivissimo dell'amicizia.
|
Un
giorno, uno dei direttori dell'azienda gli domandò: «Il tale è arrivato
in ritardo?». Gli rispose Matt: «Non desidero di ricevere di queste
domande!» Poi andò a cercare l'amico e gli spiegò: «Non voglio mentire
per coprirti».
|
Un'altra
volta una signora vide nella tasca di Matt «un catechismo socialista
del lavoro». Lo accusò di essere marxista. Matt le rispose con parole
di fuoco e la signora capì che quell'uomo era fedelissimo alla Chiesa e
nel medesimo tempo ai lavoratori.
|
Un
collega parlò con lui di uno dei proprietari chiamandolo «padrone».
Matt ribattè: «Non è il mio padrone, è solo un datore di lavoro. Io ho
soltanto un Padrone in cielo».
|
Nel
1900 gli operai scioperarono, per una causa che Matt ritenne giusta. E
partecipò allo sciopero, senza ritornare al lavoro, fino a quando
pensò bene farlo. Di nuovo scioperò nel 1913. Non badava al proprio
interesse: i suoi colleghi gli misero tra le mani l'indennizzo di
sciopero, ma egli lo passò ai lavoratori più poveri.
|
E nelle vertenze di lavoro andava davanti al Tabernacolo a perorare i diritti dei lavoratori.
|
«Il cuor ch'elli ebbe»
|
Alla
morte di due fratelli, bevitori incorreggibili, Matt pagò lui le spese
per i funerali. Un giorno, prima di convertirsi, aveva rubato il
violino ad un mendicante. Pentito, andò a ricercarlo per restituirgli
tutto. Il pover'uomo, nel frattempo, era morto e Matt fece celebrare per
lui delle Messe.
|
Nel
1899 gli morì il padre. Matt andò ad abitare con la mamma che diventò
la testimone della sua profonda conversione. Quando la mamma morì, Matt
la pianse e ne suffragò l'anima con larghezza riconoscente.
|
Ad
alcuni compagni di lavoro, volle pagare un giorno un buon paio di
scarpe per ciascuno: ne avevano bisogno. Prestava volentieri il suo
denaro, ma non accettava più la restituzione. Venne una volta un
religioso a far «la questua» nella ditta dei legnami dove lavorava e
Matt gli diede tutto lo stipendio.
|
Aiutava i missionari, anzi fece studiare a sue spese alcuni aspiranti alla vita missionaria. Voleva bene ai ragazzi. Thomas
O'Kelly che diventò due volte Presidente dell'Irlanda, da ragazzo, tra
gli otto e i quindici anni conobbe Matt Talbot, quando faceva il
chierichetto. Scrive: «Gli parlai più volte. Ci conosceva e ci chiamava
per nome. Ci dava buoni consigli. Certi ragazzi lo burlavano, ma non se
la prendeva mai. Mai lo vidi adirato, era sempre calmo, sereno».
|
Ed
amava la sua patria, l'Irlanda, pregava per la sua libertà, ricordava
nella preghiera i suoi caduti e di essi conservava le foto ritagliate
dai giornali.
|
Era diventato l'uomo dell'amore.
|
La
sua capacità di amare gli veniva dalla preghiera, intensa,
fervorosissima, prolungata. Tutto il suo tempo libero lo passava in
preghiera.
|
Scrive il Presidente O'Kelly: «L'ho visto fare
|
Sul lavoro, nei momenti di requie, estraeva di tasca il suo Rosario e pregava
|
La
sua chiesa era «S. Francesco Saverio», ma di domenica frequentava
diverse chiese, per partecipare a tante Messe, ognuna secondo
un'intenzione diversa. Il suo secondo direttore spirituale, P. Michael
Hickey, un prete straordinario, lo aiutò a trasformare tutta la sua vita
in preghiera.
|
Si
lasciava guidare: per questo non fu mai strano nelle sue
manifestazioni. Un uomo tutto di Dio, ma sempre gentile, cortese,
profondamente umano.
|
«La mia buona Regina»
|
Per
tutta la vita Matt si ritenne un «privilegiato» di Maria. Non era
stata lei la buona Mamma che l'aveva aiutato a strapparsi al bere e
l'aveva avviato sulla strada della conversione al Cristo? Dunque, con
Maria, occorreva continuare il cammino.
|
La mamma, mentre negli ultimi anni della sua vita, abitava con lui, si alzava di notte per vedere il «suo bambino» che pregava
|
Un giorno Matt disse alla sua mamma: «Nessuno sa che buona Regina è Maria per me». Ogni
gesto della sua vita, la preghiera, il digiuno, gli atti di carità, il
lavoro, tutto doveva essere ringraziamento per la conversione che Maria
gli aveva donato. Gli sembrava di non poter mai fare abbastanza per quell'intervento della Madonna nella sua vita.
|
Al sabato digiunava in onore della Madonna. Ogni giorno diceva il Rosario intero di quindici decine alla Madonna. Lo testimonia anche il Presidente O'Kelly,
che da ragazzo, vedeva spesso Matt in ginocchio sugli scalini della
chiesa, col Rosario tra le mani, oppure all'altare della Madonna. Allo
stesso modo raccomandava ai ragazzi di dire tutti i giorni il Rosario.
|
Parlava della Madonna ai suoi compagni di lavoro. Recitava tutti i giorni l'Angelus.
Viveva unito alla Madonna la sua «vita con Maria»: ne riviveva i
sentimenti, la fede, l'adorazione umile a Dio, il servizio agli uomini.
|
«O beata Madre, ottienimi da Gesù di partecipare alla sua follia» - era questa la invocazione prediletta.
|
E alla sera si addormentava con una statuina di Maria col Bambino Gesù sul cuore.
|
Maria
lo condusse a vivere un lungo ininterrotto «a tu per tu» con Cristo.
Per Lui voleva essere limpido, puro, senza macchia, come l'Immacolata.
Aveva una fame senza limiti di Gesù, Pane della vita, che voleva
ricevere ogni giorno nella Comunione.
|
Le
ore libere del lavoro, le trascorreva davanti al Tabernacolo: sempre
davanti al Cristo, con sua Madre, come per una cura di sole che lo
penetrasse tutto e lo riempisse di amore. Arrivò a trascorrere sette
ore della giornata davanti al Tabernacolo.
|
Discorreva
un giorno con una signora. Costei le confidò che era sola e desolata
perché suo fratello era andato in America. Matt le rispose: «Sola?!
Come può sentirsi sola con Gesù nel Tabernacolo?».
|
Gesù-Eucarestia era divenuto il centro vivo della sua esistenza.
|
Sulla vetta
|
Nel 1921 la sua salute si indebolì. Aveva 64 anni. Fu ricoverato al Mater Hospital. Il dottor
Moore capì che stava curando un santo. Matt si riprese e ricominciò la
scalata verso la santità. La vetta non era più lontana.
|
Nel
1923 fu due volte all'ospedale. Si riprese ancora. Un'altra ricaduta
nel 1925, ma la sua fine sembrava ancora lontana. Lavorava ancora. Il 17
giugno, domenica, festa della Trinità, partecipò al
|
Stramazzò
al suolo, colpito da infarto. Nella zona nessuno lo conosceva. Lo
portarono all'ospedale. Morì quella sera, solo, poverissimo,
sconosciuto. All'indomani la sorella Susanna, non ritrovandolo, andò
all'ospedale e riconobbe la salma. Sui fianchi aveva una catena che gli
stringeva le carni.
|
Il manovale di Dublino ora vedeva il volto di Dio e della sua Mamma, felice.
|
Il
giovedì seguente, - solennità del Corpus Domini, si svolsero i
funerali. Lo vestirono con il suo abito da Terziario francescano.
Seguirono la sua bara i suoi amici operai, i suoi poveri che lui aveva
aiutato di nascosto, perché solo Dio sapesse.
|
In breve tempo tutta l'Irlanda ne parlava. In soli sei mesi furono venduti centoventimila esemplari della biografia.
|
I
leaders sindacali irlandesi si dissero orgogliosi di porre una lapide
commemorativa dove Matt era vissuto e lo considerarono uno dei
fondatori del loro movimento, anzi «un faro di luce» per tutti i
lavoratori.
|
Dopo
i processi diocesani per sondare la sua fama di santità, iniziati nel
1931, e quelli apostolici a Roma, Papa Paolo VI lo proclamo
«Venerabile», cioè eroico nella sua vita cristiana. Lo stesso Paolo VI
disse ad alcuni pellegrini di Dublino: «Ho letto la vita di Matteo
Talbot; ne sono commosso. È tempo che venga canonizzato. Farò del mio
meglio».
|
Matt Talbot, un povero facchino di Dublino, che Maria trasformò in un eroe del Cristo.
|
Nessun commento:
Posta un commento