L’assenza
***
Un bacio. Ed è lungi. Dispare
giù in fondo, là dove si perde
la strada boschiva che pare
un gran corridoio nel verde.
Risalgo qui dove dianzi
Vestiva il bell’abito grigio:
rivedo l’uncino, romanzi
ed ogni sottile vestigio…
Mi piego al balcone. Abbandono
la gotta sopra la ringhiera.
Io non sono triste. Non sono
più triste. Ritorna stasera.
E intorno declina l’estate.
E sopra un geranio vermiglio,
fremendo le ali caudate
si libera un enorme Papilio…
L’azzurro infinito del giorno
è come una seta ben tesa;
ma sulla serena distesa
la luna già pensa al ritorno.
Lo stagno risplende. Si tace
la rana. Ma guizza un bagliore
d’acceso smeraldo, di brace
azzurra: il martin pescatore…
E non sono triste. Ma sono
stupito se guardo il giardino…
stupito di che? Non mi sono
sentito mai tanto bambino…
a
Stupito di che? Delle cose.
I fiori mi paiono strani:
Ci sono pur sempre le rose,
ci sono pur sempre i gerani…
Guido Gozzano
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Postato da: giacabi a 14:27 |
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bellezza, gozzano
Il Natale di Fortunato
***
Oggi
che l'ala della pace cristiana sembra sfiorare la terra, la mia
fantasia stanca non ama raccontarvi vicende di orchi e di fate, di gnomi
e di malefizi. Evocherò per voi una fiaba non mia, una leggenda che
ascoltavo dalla cara bocca d'una fantesca defunta, in altri Natali
lontani, quand'ero piccolo come voi, miei piccoli amici.
La
buona vecchia raccontava ed io fissavo attraverso i vetri il cielo
bigio e la città invernale e la mia fantasia s'attendeva di veder
rosseggiare la tunica di Gesù fra le rotaie dei tramvai, sotto il
bagliore delle lampade elettriche...
Quando
Gesù veramente compariva su questa terra e lasciava la tunica per
travestirsi e confondere i peccatori e confortare gli oppressi, viveva
in un paese lontano un contadino rimasto vedovo con molti figli troppo
piccoli ancora per guadagnarsi la vita.
Era
la Vigilia di -Natale e Fortunato - così si chiamava il pover'uomo -
stava sulla porta di casa, pensoso ed inquieto. Non aveva danaro, non
aveva lavoro, né sapeva come sfamare le sue creature.
Udiva
a tratto, dall'interno della casa, lo strillare dei bimbi e si chiudeva
gli orecchi e chinava il capo sulle ginocchia, col cuore spezzato..
- A che meditate, buon uomo? Perché siete così triste?
Fortunato alzò il viso sussultando e vide uno sconosciuto dinanzi a sé.
-
Signore, se sono triste, non è senza ragione; i miei bimbi hanno fame; e
non c'è in casa un tozzo di pane, non ho lavoro e non so come fare!
- Se voi voleste lavorare per me, vi pagherei lautamente.
- Non domando di meglio, signore!
- Sta bene. Andate domattina a falciare l'erica sulla brughiera e al tramonto verrò a pagarvi.
-
Voi dimenticate che domani è Natale, il giorno più santo dell'anno.
Comincerò dopo, con tutto lo zelo. - Allora non c'intendiamo... Comincio
a dubitare che siate un simulatore e che non abbiate quel gran bisogno
che dite.
- M'è testimonio Iddio che muoio di fame!
- Fate allora ciò che vi dico.
In
quell'istante Fortunato intese i gemiti dei bimbi che dall'interno
della casa imploravano disperati. - Sia! Farò come voi volete, per amore
dei miei figli. E Dio, che vede,. perdonerà!
- Sta bene. Trovatevi domani sulla brughiera e al tramonto sarò a pagarvi.
E lo sconosciuto disparve.
L'indomani
Fortunato s'alzò di buon mattino, fece le sue preghiere come di
costume, intinse le dita nell'acqua benedetta, si segnò con un lento
segno di croce, esitò ancora incerto, poi si decise, prese la falce e
andò sulla brughiera. Ed eccolo a tagliare l'erica secca.
Lavorò tutto il giorno, mentre dal villaggio veniva sul vento, or sì or no, l'armonia osannante delle campane.
- Dio che vede mi perdonerà...
E proseguiva il lavoro e accumulava fasci su fasci, pregando sommessamente.
Era
un Natale senza neve, gelido e sereno. Il sole declinava all'orizzonte
in un cielo acceso e Fortunato depose la falce, si sedette stanco sopra
una pietra, in attesa. Ma lo sconosciuto non giungeva.
Fortunato
cominciava ad inquietarsi, quando intese un crepitio e vide nell'ombra
del crepuscolo un vivo bagliore; si volse, balzò in piedi e vide che i
fasci dell'erica divampavano crepitando. S'adoperò invano per domare le
fiamme; in pochi secondi l'arido sterpame era in cenere.
-
Oh! misero me! Ho faticato tutto il giorno a stomaco digiuno, ho
profanato un giorno santo, ed eccomi a mani vuote, più miserabile di
prima.
-
Non desolarti, buon uomo! Non desolarti cosi! Fortunato si volse e vide
nell'ombra un altro sconosciuto che lo fissava dolcemente.
Ed egli gli raccontò la sua disavventura.
-
Ho avuto torto, lo riconosco; ma i miei figli morivano di fame... ma
più della fame, più della vana fatica, mi duole d'aver profanato questo
giorno solenne... Lo sconosciuto gli prese una mano, lo fissò a lungo,
gli disse con voce soave:
-
Ebbene, datevi pace. Vi pagherò io la giornata e assai più lautamente.
Andate a casa e troverete il compenso. Ma adoperate pel meglio la vostra
fortuna; né la casa vostra, né la vostra borsa si chiudano mai dinanzi
alla sventura...
E lo sconosciuto disparve.
Fortunato
pensò d'aver male inteso, tanto la promessa era bella, e ritornò verso
casa con ansia frettolosa. Giunto in vista dell'abitazione, s'arrestò
sbigottito, soffregandosi gli occhi, palpandosi, credendo di sognare. La
misera capanna non c'era più, ma traspariva fra gli alberi una bella
casa, dalle finestre luminose nella notte serena. Sulla porta
l'attendevano i suoi figli festanti. Lo presero per mano, lo condussero
in una sala dov'era imbandita una sontuosa mensa natalizia.
-
Ad una parete, sul damasco azzurro, erano intrecciati la zappa, il
bidente, i suoi attrezzi di contadino con in mezzo la croce di legno
della preghiera consueta.
Fortunato piegò le ginocchia dinanzi a quel trofeo in muta adorazione verso il prodigio divino.
Da
quel giorno Fortunato cambiò vita. Acquistò i campi dei vicini,
ingrandì i suoi dominii a perdita di vista. Tutti erano sbigottiti da
tanta prosperità e tenevano per certo che Fortunato avesse scoperto un
tesoro favoloso.
Egli
mantenne la promessa data al benefattore sconosciuto. Nessuna miseria
sostava alla sua porta senza essere confortata di parola e di danaro.
Ma
col tempo il suo carattere andò mutando; come arriva sovente, la
ricchezza gl'indurì il cuore; a poco a poco si dimenticò del suo
passato, si circondò di adula tori e di potenti, divenne fantastico,
orgoglioso, arrogante.
Un
giorno - era il Natale e compiva l'anno dell'incontro miracoloso - egli
dava un pranzo di gala e aveva convitato tutti i ricchi e i nobili del
paese.
Dalla
sala di damasco azzurro era stato tolto il trofeo della croce e delle
zappe e confinato nel solaio, come un ricordo vergognoso.
Fortunato
aveva ordinato ai servi di non lasciare entrare nessun mendicante nel
cortile del castello. Due valletti armati di bastone vigilavano
l'ingresso per impedire il passo a chiunque non fosse invitato.
Tuttavia, all'ora di sedere a mensa, arrivò nel cortile, non si seppe
come, un vecchio mendicante. I servi gli furono sopra respingendolo e
malmenandolo.
- Come sei qui, mascalzone? Via! Via! Esci all'istante! - E lo minacciarono coi bastoni alzati.
- Soccorrete un miserabile, in nome di Dio – disse il poveretto con voce supplicante.
- Oggi no. Ritorna domani.
Ma quegli insisteva e alzava la voce per essere udito dai convitati.
Fortunato
intese, s'affacciò alle vetrate, furibondo, perché quei gemiti
freddavano l'allegria dei suoi amici. - V'avevo detto di vietare il
passo a quegl'intrusi! Scacciate quel miserabile e se resiste sciogliete
i cani.
Furono sciolti i molossi, ma questi lambivano le mani del mendicante, che s'allontanò lentamente, scuotendo il capo.
Fortunato ritornò fra i commensali, riprese a bere, a ridere, a celiare.
Poco
dopo entrò nel cortile, con gran fragore, una carrozza magnifica tirata
da quattro superbi cavalli. E nella carrozza stava un principe, coperto
d'oro e di gemme. I servi corsero ad avvertire il signore e tutti
s'alzarono da tavola, si protesero alle finestre, guardando curiosi nel
cortile.
Fortunato
s'avanzò verso la carrozza, col cappello in mano, inchinando fino a
terra lo sconosciuto; lo pregò di fargli l'onore di discendere e
d'entrare nella casa.
-
Grazie - rispose il forestiero - non discenderò, e non entrerò in casa
vostra. Già son venuto poco fa come mendicante e voi mi avete fatto
cacciare dai cani. Vengo ora con l'abito e l'equipaggio d'un signore e
v'inchinate fino a terra... Accompagnatemi prima in un luogo non lungi
di qui, dove parleremo delle cose nostre...
E il principe accompagnò Fortunato nella brughiera dove aveva falciato l'erica il Natale prima.
-
Fortunato, Fortunato! Avete dimenticato così bene il nostro colloquio
d'or è l'anno? Un anno di ricchezza e di prosperità è stato sufficiente
per fare dell'uomo pio un miserabile orgoglioso! La ricchezza improvvisa
v'ha inaridito il cuore: che la povertà ve lo rifaccia pietoso e
cristiano!
Lo sconosciuto disparve e Fortunato ritornò di corsa al castello.
Ma il castello non c'era più.
Nevicava,
nevicava, nel triste crepuscolo di dicembre; fra i tronchi e i rami
Fortunato intravide la sua capanna di prima, illuminata dalla triste
lucerna ad olio, intese le grida dei bimbi affamati. Castello, servi,
oro, mensa, commensali, tutto era scomparso come in un sogno.
Fortunato
sentì ripalpitare in cuore una tenerezza pietosa e riprese la via della
salvezza e della povertà... Questo accadeva quando Gesù compariva sulla
terra in misteriosi sembianti e visitava le campagne e sostava alle
soglie per ammonire gli uomini.
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