I cattocomunisti visti da Gramsci
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"Il cattolicesimo democratico fa quello che il socialismo non potrebbe fare: amalgama, ordina, vivifica e si suicida... Non vorranno più Pastori per autorità, ma comprenderanno di muoversi per impulso proprio: uomini che spezzano gli idoli, che decapitano Dio"***
(A. Gramsci: Ordine Nuovo 1919-20, Cap. 86 pag. 273).
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gramsci
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L'antiamericanismo è comico, prima di essere stupido.(Antonio Gramsci, 1924)
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gramsci
A 150 anni dalla malaunità
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di Francesco Agnoli - il Foglio del 26/09/2009A 150 dall’Unità si preparano le celebrazioni. Solo che stavolta, causa la crisi economica, i fondi sono pochi e quindi il fiume di retorica a pagamento forse non ci sommergerà. Chi scrive non sogna un’Italia pre-unitaria, né la divisione del paese, che oggi non interessa a nessuno. Anche la Lega ha utilizzato quest’idea più che altro come slogan, per farsi strada nel dibattito sul federalismo. E con indubbi risultati. Epperò, senza pensare affatto a improbabili nostalgie, è giusto piantarla con i miti fondatori. Altrimenti non si capisce nulla della nostra storia recente: dell’emigrazione di massa post unitaria; dell’aggravarsi del fenomeno del brigantaggio in meridione, dopo il 1960; della politica di Giolitti verso il sud del paese; della partecipazione dell’Italia a quell’ “inutile strage” che fu la I guerra mondiale; dello strapotere torinese e agnelliano nella storia italiana; dell’adesione delle plebi meridionali al fascismo, nel quale spesso videro una maggior attenzione alle loro esigenze; della nascita della Lega in Sicilia, all’indomani della seconda guerra mondiale, prima, e della Lega veneta e lombarda al nord, poi; infine, del partito del sud di cui si parla oggi. Ammettiamolo: Garibaldi, Cavour, Mazzini non hanno fatto risorgere nulla. Da cosa doveva risorgere la patria delle università, della scienza, della medicina, dell’arte, di Dante, Giotto, Cimabue, Petrarca….? La storia degli stati pre-unitari è storia sovente gloriosa, di repubbliche come Genova e Venezia, che hanno dominato i mari, di ducati come quelli di Mantova e Parma, delle decine di capitali che costellavano la nostra penisola… Insomma, il “bel paese” dove i romantici venivano a godere l’arte, la poesia, la musica, la buona cucina… Da cosa dovevamo risorgere, se non, come voleva Cavour, dalle tenebre della storia cristiana? L’unità politica ed economica era forse un’esigenza, benché i popoli della penisola non ne sapessero nulla. Anche Pio IX e buona parte del clero italiano la avrebbero appoggiata. Nei primi anni del Risorgimento non mancavano i sacerdoti e i seminaristi che partivano volontari, che agitavano la coccarda tricolore nelle strade, che si arruolarono nella I guerra di indipendenza. Ma ad un certo punto non fu più possibile farlo, perché si capì che chi si stava appropriando del movimento di unificazione voleva un’Italia elitaria, “illuminata”, che tagliasse le sue radici col passato. L’unità avrebbe potuto nascere per consenso, con la dovuta calma e cautela, federando stati, culture, economie diverse, e mantenendo uguali diritti per tutti. Coniugando la storia e i costumi del nord con quelli del centro e del sud. Invece Garibaldi, Mazzini, Cavour, le sette segrete, con l’appoggio di parte della borghesia capitalista, puntarono a fare dell’Italia un’appendice del Piemonte, con l’ausilio non degli italiani, ma dell’esercito di Napoleone e dei soldi dell’Inghilterra. Ha scritto Antonio Gramsci: “I liberali concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia…”. Si volle dunque fare dell’Italia un paese “liberale”, nel senso di borghese, dove contadini e operai non erano neppure considerati, mentre i diritti dei più ricchi erano garantiti dall’apertura delle frontiere, da leggi speciali a vantaggio di determinate industrie e di certe categorie di persone, e dal diritto di voto al 2% della popolazione (i benestanti). Anche da queste miopìe derivarono non solo i problemi del sud, ma anche i fatti di Milano del 1898, l’uccisione di Umberto I e un socialismo massimalista che avrebbe poi formato spiriti violenti e totalitari come quelli di Mussolini e di tanti uomini del PcI. Non è un caso che Torino, per una sorta di vendetta della storia, dopo essere stata la prima capitale dell’Italia borghese, liberale, industriale, sia divenuta poi una delle patrie del comunismo italiano, ed infine la meta di migliaia e migliaia di meridionali e di extracomunitari. La politica di Cavour fu quella, furbesca, ma non certo patriottica, del carciofo: annettere gli stati italiani uno alla volta, come si sfoglia un carciofo, cercando di volta in volta alleati ingenui, da scaricare al momento opportuno. Persino Napoleone III fu concepito come un uomo da addomesticare con una bella donna e promesse irrealizzabili. Il tutto in vista di un centralismo alla francese, giacobino, che rinnegava le storie molteplici, e persino la varia geografia, del nostro paese. Riguardo alla Chiesa si volle servirsi di Pio IX, contro l’Austria, con cui si cercò a tutti i costi un ‘casus belli’: e così facendo prima trascinarono il papa, controvoglia, nella guerra del 1848, poi lo dipinsero come un mostro reazionario, nemico della modernità. A tirare le fila di tutto, quei politici piemontesi, che si definivano liberali, ma che per raggranellare i soldi per le loro imprese espansionistiche confiscavano i beni della Chiesa e indebitavano l’erario statale, in attesa poi di riempirlo nuovamente, ai danni degli stati conquistati; che mandavano a morire i soldati sabaudi in Crimea, a migliaia di chilometri da casa, e avrebbero poi imposto una leva militare obbligatoria lunghissima, negli stati italiani ove essa non esisteva. In effetti la I guerra di Indipendenza costò 295 milioni di lire, cioè quanto lo stato spendeva in due anni e mezzo di vita pacifica; costò tanti uomini, troppi per un paese così piccolo. Mentre i Savoia concepivano i loro sogni espansionistici, pronti a servirsi di chiunque, e creavano uno stato a misura di borghesia rampante, a costruire scuole, tipografie, falegnamerie per i poveri piemontesi, per gli orfani e le vittime dell’industrializzazione accelerata di Cavour, ci pensava Giovanni Bosco; mentre i malati incurabili li raccoglieva, nella sua splendida opera della Provvidenza, il canonico Cottolengo. I diritti dei più forti erano garantiti, quelli dei deboli ignorati. In questo il regno dei Savoia era all’avanguardia: “Fino al 1844 i rapporti tra apprendisti, garzoni di bottega e lavoratori erano regolati, in Piemonte, da norme precise che difendevano il giovane e obbligavano il padrone a insegnargli bene il mestiere e a non sfruttarlo. Un editto reale del 1844 (strappato dai liberali in nome del progresso) ha abolito queste norme. Da quel momento i garzoni e i giovani operai sono rimasti soli e indifesi nelle mani del padrone. A otto, nove anni vengono gettati in un lavoro estenuante di 12-15 ore al giorno, in mezzo ad abusi, scandali, sfruttamenti, negli ambienti malsani delle fabbriche e delle officine”. Nello stesso 1844 i ragazzini al di sotto dei 10 anni impiegati nelle fabbriche piemontesi sono quasi ottomila. Lo stesso Cavour, favorevole al liberismo, mentre Giovanni Bosco raccoglie questi ragazzi per le strade, gli insegna un mestiere e cerca di strappare per loro la domenica libera e contratti migliori, afferma: “forse troppo poco ci curiamo di sapere che da noi, nei nostri opifici, le donne e i fanciulli lavorano quasi un terzo di più, se non il doppio di quello che si lavori in Inghilterra” (Teresio Bosco, “Don Bosco”, 1988, p. 201) Dopo la vittoria, grazie ai francesi, nella II guerra d’indipendenza, i sabaudi si sarebbero spinti al sud, tramite gli avventurieri di quel Garibaldi che nelle sue memorie scriveva: “Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (e ciò importa veramente molto alle affamate popolazioni); sull’eucarestia, cioè sul modo di inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet qualunque. Sacrilegio che prova l’imbecillità degli uomini che non regalano d’un pugno di fango il nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX…. Un’altra volta, dal balcone del palazzo della Foresteria io dicevo a codesto popolo: Il più atroce nemico dell’Italia è il Papa!” (Giuseppe Garibaldi, “Memorie”, Rizzoli). Cosa fece Garibaldi in meridione? Basterebbe leggere gli autori siciliani che credettero in lui, da Giovanni Verga a Luigi Pirandello. Oppure quelli che non gli credettero mai: tutti quelli di cui è stata cancellata in buona parte la memoria, come i sessanta vescovi meridionali allontanati dalle loro sedi “per trame politiche contro il regno d’Italia”. Bisognerebbe ricordare coloro che divennero “briganti”, non di rado per lottare contro l’occupazione; coloro che nei plebisciti avrebbero votato contro l’unità, ma poi si trovarono ingannati, perché quella che doveva essere la loro prima esperienza di voto libero, fu invece una beffa vera e propria. Tomasi di Lampedusa ce la descrive ne “Il gattopardo”, attraverso la figura di Ciccio Tumeo: “Io, eccellenza, avevo votato no… e quei porci in municipio si inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco”. Dopo Garibaldi, Vittorio Emanuele II e le leggi marziali applicate nel meridione. Dovunque esercito, coprifuoco, pena di morte eseguita con estrema facilità; deportazione sulle montagne del nord; prefetti e sindaci piemontesi, di nomina governativa, in quelle terre che si proclamavano “liberate”, e, infine, l’acquisizione della complicità di parte della nobiltà e della borghesia meridionale con la cessione di terre del demanio, di proprietà ecclesiastiche confiscate, e di posti a sedere nel Senato di nomina regia, e cioè, ancora una volta, piemontese. Ne “Il gattopardo” questo tentativo di comperare le elite meridionali, allo scopo di completare la piemontesizzazione di tutto, è descritto nell’incontro tra il messo del re, Chevallay, dal cognome poco italico, e il principe di Salina, che alla proposta di far parte del nuovo Senato, risponde: “Stia a sentire, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare…”; ma “in questi sei ultimi mesi da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e di portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male”. E’ proprio per la rilettura della storia del recente passato che in meridione pullulano, ultimamente, le riviste e i libri revisionisti che ribaltano la storia degli ultimi 150 anni, e presentano Garibaldi per quello che fu veramente. Per questo le infinite vie dedicate all’ “eroe dei due mondi” vengono ormai sempre più spesso eliminate e sostituite, con una certa enfasi, da sindaci e consigli comunali iconoclasti e stufi della retorica. Certo non basterà a risollevare un sud in perenne difficoltà, ma personalmente penso che questa revisione, se condotta senza inutili vittimismi e con un certo patriottismo “leghista”, possa fare più bene al nostro sud, risvegliando in esso un sano orgoglio, delle ennesime celebrazioni che vogliono trasformare i fatti storici in mitologia patria. Dietro il fenomeno Raffaele Lombardo, in ogni modo, c’è anche questo desiderio di rivincita, questa revisione del Risorgimento, che non deve però divenire volontà di rifugiarsi nel pozzo oscuro dei soldi “romani”. Sarebbe un paradossale ricadere nel centralismo risorgimentale.
Postato da: giacabi a 08:39 |
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gramsci, risorgimento, agnoli
"Risorgimento" italiano: Brigantaggio
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"Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti" Antonio Gramsci in "Ordine Nuovo", 1920).
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“Gramsci disse già nel 1926 quel che dicono oggi i nuovi storici revisionisti cattolici, che ‘nel
Sud lo Stato italiano si comportò come in una colonia’. Oggi, gli eredi
di Gramsci intimano il silenzio a chi parla male della patria. E gli
intellettuali di sinistra agiscono da retroguardia conservatrice”.
"Da una parte perché dovrebbero confessare: non abbiamo capito nulla. E ciò è duro, per degli intellettuali. Dall'altra, perché
nella sinistra resiste l'impulso a considerare ciò che è "nuovo", ossia
non pensato a sinistra, non solo come un errore, ma come una malvagità
morale. Da smascherare e da denunciare. Manca loro l'idea che esista lo
spazio delle cose opinabili, su cui possono esserci più opinioni
legittime".
Ernesto Galli della Loggia,
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«Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio».
Giuseppe Garibaldi, in una lettera ad Adelaide Cairoli 1868
Postato da: giacabi a 12:59 |
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gramsci, risorgimento
L’attrazione di Cristo
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Le ultime ore del leader politico raccontate da don Ennio Innocenti, collaboratore di padre Virginio Rotondi.
E
alla fine, non si convertì. Il vaticanista dell''Agenzia Italia,
Salvatore Izzo, ha ricostruito oggi la vicenda del fondatore del
Partito Comunista. Ecco la sua storia:
"Gli ultimi giorni di Antonio Gramsci alla clinica "Quisisana" di Roma, nell''aprile del 1937, sono stati ricostruiti in modo esatto sia dai sostenitori della sua conversione che da quanti dubitano che essa avvenne. Gramsci era stato battezzato con una certa solennita'' dal vicario generale della sua diocesi, e ha ragione mons. Luigi De Magistris, suo conterraneo e penitenziere emerito della Santa Sede, che ha rilanciato nei giorni scorsi la clamorosa notizia di un ritorno del grande politico sardo alla fede della sua infanzia, quando dice che il fondatore del Pci chiese di baciare l''immagine di Gesu'' Bambino e manifesto'' cosi'' alle suore della clinica Quisisana di aver ritrovato Dio. Ma e'' vero anche che Tania, la cognata russa, sbarro'' piu'' volte la strada al cappellano, padre Giuseppe Furrer, che doveva confessarlo. Il religioso, 30 anni dopo i fatti, ha raccontato allo studioso Arnaldo Nesti, grande sociologo della religione, di aver dovuto alla fine limitarsi a poggiare la stola viola sul malato ormai sconoscente, e ha dichiarato di non ricordare se nel compiere quel gesto aveva recitato o meno l''assoluzione "sotto condizione" che il paziente fosse ancora vivo. Gramsci, infatti, era stato colpito pochi giorni prima del decesso da un''imponente emorragia cerebrale e quindi non era piu'' in grado di esprimersi. A ricostruire in modo molto pacato (e in tempi non sospetti) il travaglio di Gramsci e di chi lo assisteva alla clinica "Quisisana" e'' stato don Ennio Innocenti, teologo e politologo, stretto collaboratore di padre Virginio Rotondi, il gesuita che converti'' Curzio Malaparte e Giuseppe Saragat. Nel volume "Temi di Apologetica" (pubblicato nel 2004), il sacerdote toscano mette infatti d''accordo le due versioni (contraddittorie solo in apparenza) e scrive: "ricoverato nella Clinica Quisisana di Roma, nessuna obiezione Gramsci mosse al fatto che il Crocifisso dominasse la parete bianca della sua camera; anzi: accetto'' di conversare amabilmente di religione non solo con il sacerdote cappellano, ma anche con le Suore Infermiere. Ad una disse che, a suo parere, il libro piu'' bello dopo il Vangelo e'' l''"Imitazione di Cristo"; ad un''altra disse che il santo piu'' vicino a Gesu'' e'' certamente Francesco d''Assisi; la notte di Natale la Madre Superiora porto'' anche a lui, come a tutti i malati, la statuetta di Gesu'' Bambino e anche lui la bacio''. Quando sopravvenne l''ultimo improvviso e tragico malore, Gramsci fece a tempo a sussurrare alla Suora accorsa queste parole: ''Madre, preghi per me, perche'' sento di essere alla fine''. E ancora: ''mi aiuti a pregare... mi sento proprio sfinito''". "Naturalmente - scrive ancora don Innocenti - il cappellano della clinica fu subito avvertito e si presento'' sulla soglia della camera in cotta e stola, ma gli fu decisamente sbarrato l''ingresso da una parente di Gramsci, una donna non italica, oriunda russa. Risulta, pero'', inoppugnabilmente, che giorni prima del citato malore, Antonio Gramsci fu visto, in clinica, sostare sulla porta della cappella nella quale si conservava l''eucaristia in un atteggiamento assorto, giudicato, non sprovvedutamente, di preghiera". Inoltre, continua Innocenti, risulta che all''amico generale Coppino, in visita abitualmente alla clinica Quisisana, Antonio Gramsci ribadi'', si'', la fiducia nella vittoria politica, ma temperata da questa nuova critica consapevolezza: ''Le nostre idee - confido'' - sono terrene; saranno le idee cristiane a durare: esse sono eterne''". Nel suo libro, don Innocenti, che e'' tra l''altro il promotore della causa di beatificazione del commissario Luigi Calabresi, altro figlio spirituale di padre Rotondi e membro del suo Movimento Oasi, ricostruisce alcune celebri conversioni: quella di Papini e del famoso Pitigrilli, ricorda, "provocarono una specie di terremoto delle coscienze. Fra gli scienziati che passarono dall''ateismo materialistico al cattolicesimo - scrive - e'' celebre il caso del premio Nobel Alexis Carrel, spettatore d''uno strepitoso miracolo a Lourdes". Destarono sorpresa in molti, annota, i funerali religiosi richiesti da Luchino Visconti e dal filosofo Ugo SPirito. E mentre "Pirandello e Saba erano probabilmente assai vicini a ricongiungersi a Cristo - e piu'' ancora Silone - ma il traguardo non fu da loro raggiunto, neppure ''in extremis'', tra i celebri convertiti ''in extremis'' vanno invece annoverati Carducci, Pascoli e Malaparte". Sul ritorno alla fede di quest''ultimo, c''e'' da registrare una emblematica risposta di padre Rotondi (chiamato nel 1957 alla clinica "Sanatrix", dove Malaparte era ricoverato, da suore altrettanto motivate di quelle che venti anni prima erano alla "Quisisana" con Gramsci) a Matteo Collura, che a suo tempo lo intervisto'': "L''ultima sua notte ha voluto che gli tenessi la mano per ore e ore. Volle che ripetessimo insieme la preghiera che gli avevo insegnato. Altro che droghe e sedativi: Malaparte fu lucidissimo sino all''ultimo istante. Hanno detto che gli ho strappato la conversione profittando del suo delirio preagonico. Tutte calunnie, lo ripeto: vorrei morire io in quel modo".Della conversione di Saragat, che disse a padre Rotondi "Adesso la sua fede e'' anche la mia", hanno scritto invece padre Ferdinando Castelli, critico letterario della rivista "Civilta'' Cattolica", e Carlo Testa nel volume "Padre Rotondi, le battaglie di un gesuita". Sulla conversione di Renato Guttuso, che suscito'' grandi polemiche, c''e'' la testimonianza del card. Fiorenzo Angelini, vicinissimo anche lui a padre Rotondi, che celebro'' la messa al Palazzo del Grillo il giorno dell''ultimo Natale dell''artista, che si era commosso e aveva pianto, e che prima della messa, volendo riconciliarsi, si era confessato. "Renato - ha rivelato Angelini - e'' sempre stato un credente non praticante, e non praticante per le vicende della sua vita. In lui la fede, pur velata e sofferta, non e'' mai stata spenta. Non e'' il convertito nel senso di sant''Agostino. Non e'' stato mai ateo. Parliamo di conversione come miglioramento. Guttuso non amava rispondere a chi gli chiedeva della sua fede, e soprattutto del rapporto con la sua adesione politica. Questi uomini, soprattutto gli artisti, hanno una vita piena di grovigli, magari originariamente con cause e colpe estranee; io stesso ho piu'' volte chiesto scusa per l''errato atteggiamento degli uomini di Chiesa".Con Angelini, uno dei pochi amici ammessi a visitare il maestro morente era Giulio Andreotti. Da parte sua don Innocenti (che ipotizza anche un estremo ritorno alla fede di Napoleone e di Benito Mussolini) racconta pure la mancata conversione di Augusto Guerriero, ex magistrato e grande editorialista con lo pseudonimo di ''Ricciardetto'', che "quando incontro'' Madre Teresa di Calcutta fece sapere a tutti: ''Io sentii tutta la vanita'' del mondo in cui sono vissuto, delle sue passioni, delle sue lotte, delle sue ambizioni. E avevo il sentimento acuto e doloroso di essere vissuto invano. Perche'' vi e'' un solo ideale per cui valga la pena di vivere: ed e'' la carita''''". "Proprio Madre Teresa - rivela don Innocenti - ando'' a trovarlo nell''ultima degenza ospedaliera, esortandolo a confessarsi e comunicarsi, ma ''Ricciardetto'' non si decise a compiere quel passo. Eppure vi era vicinissimo: padre Raimondo Spiazzi ebbe piu'' volte l''impressione, nei suoi intimi colloqui con Guerriero, che il suo interlocutore stesse predisponendo tutto per la confessione generale". Lo stesso religioso domenicano racconto'' che "Augusto ripeteva ''Agnus Dei qui tollis peccata mundi'' commovendosi fino al pianto". |
Postato da: giacabi a 14:21 |
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gramsci, guerriero augusto
Il cattocomunismo
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"Il cattolicesimo democratico fa quello che il socialismo non potrebbe fare: amalgama, ordina, vivifica e si suicida... Non vorranno più Pastori per autorità, ma comprenderanno di muoversi per impulso proprio: uomini che spezzano gli idoli, che decapitano Dio"
A.Gramsci: Ordine Nuovo 1919-20, Cap. 86 pag. 273
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«Il dialogo tra comunisti e cattolici è diventato possibile da quando i
comunisti falsificano Marx e i cattolici Cristo»
Nicolás Gómez Dávila
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Postato da: giacabi a 19:42 |
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gramsci, gomez davila
L'illusione
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"L'illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari. "
Antonio Gramsci |
Postato da: giacabi a 09:36 |
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ideologia, gramsci
Ecco le ultime ore cristiane di Gramsci
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Di Andrea Tornielli
Il Giornale 27/11/2008
«L’ho invitato molte volte con delicatezza a ricevere i sacramenti. Mi rispondeva sempre: “Non è che non voglio, non posso”».
Sta tutto in queste parole, testimoniate dal cappellano della clinica
“Quisisana“ di Roma che ebbe numerosi colloqui con Antonio Gramsci negli
ultimi mesi della sua vita, la soluzione del giallo sulla conversione
dell’intellettuale comunista.
Gramsci, che non aveva mai fatto professione di ateismo e «rivelava una
conoscenza profonda dei padri della Chiesa», non «poteva» ricevere i
sacramenti. Forse perché questo avrebbe significato la fine della sua
esperienza comunista?
I
dubbi e le reazioni polemiche sollevate dalle dichiarazioni del vescovo
Luigi De Magistris, rese martedì a margine della conferenza stampa di
presentazione del primo catalogo unificato dei santini, hanno voluto
chiudere un po’ troppo frettolosamente il caso. Un
caso che era stato aperto nell’aprile 1977 dal gesuita Giuseppe Della
Vedova sulla rivista Studi Sociali, il quale, basandosi sulle
testimonianze di alcune suore che prestavano servizio nella clinica
dov’era ricoverato Gramsci, aveva raccontato l’attenzione dell’ideologo
comunista per la religione. Una di queste suore era la zia del gesuita,
suor Piera Collini, addetta alla portineria.
Dopo le critiche sdegnate e le smentite (tutte dello stesso tono:
«impossibile», «comico», «non risulta»), padre Della Vedova - che, tra
parentesi, non ha mai parlato di «conversione» - scrisse un secondo e
più corposo articolo, pubblicato sempre su Studi Sociali nell’ottobre
dello stesso anno, e accolto con imbarazzato silenzio.
Il
gesuita aveva ritrovato e lungamente intervistato monsignor Giuseppe
Furrer, dal 1935 al 1938 giovane cappellano della clinica, dove dimorava
mentre completava gli studi alla Gregoriana. Furrer ha attestato che
faceva visita a Gramsci «una volta alla settimana» e restava «con lui
molto a lungo». Ha detto che «rivelava una conoscenza marcata dei Padri
della Chiesa, specialmente Agostino e Tommaso» e che «conosceva molto
bene le opere di Rosmini». Ha testimoniato di aver «molte volte con
delicatezza» invitato Gramsci «a ricevere i sacramenti» e ad entrare
nella cappella, che si trovava proprio di fronte alla stanza numero 26.
«Mi rispondeva sempre: “Non è che non voglio, non posso”» e «certamente
non lo diceva per i suoi mali fisici». Ogni incontro finiva con la
recita da parte del cappellano del Pater noster, dell’Ave Maria e con la
benedizione: «Mai ha minimamente protestato».
Ecco
che cosa accadde al momento della morte, nel racconto puntuale di don
Furrer: «Accorsi con cotta e stola violacea e acqua santa, e vidi il
dott. Gramsci quasi tutto paralizzato... Non ha mai aperto gli occhi in
mia presenza. C’erano le suore di servizio e la cognata Tatiana, che
protestò vivacemente per la mia visita. Tuttavia io pregai ugualmente
sulla porta... e aspersi con l’acqua benedetta il dott. Gramsci».
Il
cappellano, alla domanda sul perché non abbia amministrato l’estrema
unzione, dato che l’intellettuale comunista era un battezzato e non
aveva mai posto la condizione di morire senza sacramenti, don Furrer
risponde di essersi consultato con un vescovo ricoverato alla
“Quisisana”, il quale lo consigliò di «rispettare la volontà sempre
espressa dal paziente».
Come
si vede, un racconto che combacia con la lettera scritta dalla cognata
di Gramsci, Tatiana Schucht, la quale, scrivendo a Pietro Sraffa il 12
maggio 1937 scriveva: «Venne il prete, altre suore, ho dovuto protestare
nel modo più veemente perché lasciassero tranquillo Antonio, mentre
questi hanno voluto proseguire nel rivolgersi a Nino per chiedergli se
voleva questo, quest’altro, ecc.
Il
prete mi disse perfino che non potevo comandare». Sull’autenticità
della lettera ha sollevato dubbi il professor Luigi Nieddu, autore del
libro L’altro Gramsci (edizioni Gia, 1990) che sarà presto rieditato con
nuovi documenti. In ogni caso, lettere e testimonianze erano sottoposte
alla censura togliattiana.
Esiste
però una sostanziale conferma, rappresentata dalla nota conservata
nell’archivio delle suore della “Quisisana”, nella quale si legge che
«la signora Schucht» impedì al prete di entrare e che «si aveva
l’impressione che se non fosse stata presente la cognata di continuo»,
Gramsci «avrebbe almeno accettato la visita del sig. cappellano».
Ma se don Furrer si limitò a benedire Gramsci morente dalla porta della stanza, stavano dentro altre suore.
I
loro racconti sono stati puntualmente raccolti da padre Della Vedova
tra il 1946 e il 1952. E in un caso, nel 1977, dopo le sdegnate
smentite. Mentre suor Piera Collini gli metteva sotto il cuscino
un’immaginetta del Bambino Gesù dell’Ara Coeli, a madre Angelina
Zürcher, che era al suo capezzale, l’ideologo comunista disse: «Madre,
preghi per me, perché sento di essere alla fine», e poco dopo aggiunse:
«Madre, mi aiuti lei a pregare, mi sento proprio sfinito». Un’altra
suora, Palmira Petretti, rimasta alla “Quisisana” fino al 1959, ha raccontato
a padre Della Vedova di aver visto Gramsci fermo davanti alla cappella,
con lo sguardo fisso al tabernacolo, poche ore prima che arrivasse la
crisi finale. «Verso le ore 11 del giorno 25 aprile 1937, lo vidi fermo
nel corridoio davanti alla porta aperta della chiesa, che guardava fisso
al Santo Tabernacolo non per curiosità, ma con un contegno che ricordo
con emozione. Si vedeva che in quel momento c’era in lui un sentimento
di preghiera e di supplica». «Non è che non voglio, non posso», ripeteva
al prete l’ideologo del Pci, che prima di morire chiese alla suora di
pregare per lui.
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Postato da: giacabi a 22:24 |
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gramsci
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· Monsignor Luigi De Magistris, già pro-penitenziere maggiore del Vaticano (dicastero preposto alle indulgenze, ai perdoni e a controversie interne) ha parlato basandosi sulle rivelazioni di una religiosa svizzera, suor Gertrude, e di una religiosa sarda, suor Pinna. Entrambe prestavano servizio nella clinica «Quisisana» di Roma al tempo in cui Antonio Gramsci era ricoverato. È in base, infatti, a quanto le
due hanno rivelato tempo addietro al fratello di suor Pinna, monsignor
Giovanni Maria, ex segretario del tribunale della segnatura apostolica,
che De Magistris ha potuto affermare ieri mattina nel corso di una
conferenza stampa di presentazione del primo catalogo internazionale dei
Santini che Antonio Gramsci, ideologo del Partito Comunista italiano, si convertì in punto di morte. Proprio così. Gramsci venne seppellito nel cimitero acattolico di Roma. Eppure, poco prima di morire, volle ricevere i sacramenti: confessione ed eucaristia insieme.
La rivelazione di De Magistris, in sostanza, conferma direttamente e autorevolmente quanto già era stato ipotizzato, seppur più velatamente, da Emilio Cavaterra in un editoriale apparso dieci anni fa sul Giornale diretto da Mario Cervi. Una rivelazione che conferma anche le ipotesi avanzate anni addietro da una serie di indicazioni contenute nel libro di un insegnante sassarese, Luigi Nieddu, pubblicato in Sardegna ma scarsamente conosciuto, sull’«altro Gramsci». Le rivelazioni delle due suore riguardano il periodo di permanenza dell’esponente comunista nella clinica «Quisisana» di Roma. Gramsci venne ricoverato 24 agosto del 1935. Suor Gertrude rivelò che l’anno in cui Gramsci morì, il 1937, nella camera numero 26 della clinica c’era una piccola immagine di santa Teresa del Bambino Gesù «verso la quale Gramsci sembrava nutrire una simpatia umana», tant’è che «non volle che fosse tolta e nemmeno spostata e l’affermò quasi per giustificare quello che poteva sembrare, dato il tipo, soltanto un momento di debolezza». Ma il Gramsci malato fece di più. Secondo quanto disse suor Pinna qualche anno fa a un gruppo di sacerdoti in occasione della celebrazione di una Messa in suffragio del fratello nella chiesa di San Lorenzo in Damaso a Roma (tra questi, c’erano De Magistris e monsignor Sebastiano Masala, allora giudice della Sacra Rota), fu sempre nel ’37 che le religiose della clinica riproposero una pia tradizione per i malati: quella di portare, durante le festività natalizie, di stanza in stanza, «offrendola al bacio di quelli che vi si trovavano», una statua di Gesù Bambino. Tutti i ricoverati ricevettero quella singolare visita a eccezione di Gramsci il quale, saputa la cosa, ne chiese spiegazione alle suore. Queste si scusarono, dicendo di aver voluto evitargli qualsiasi fastidio. Al che, continuò suor Pinna, «il signor Gramsci disse di voler vedere quella statuetta e quando l’ebbe di fronte la baciò con evidenti segni di commozione». Sulla conversione di Gramsci già c’è chi, tempo addietro, si è espresso in modo critico. C’è, ad esempio, Fabio Giovannini che su La Rinascita della Sinistra dello scorso ottobre ha citato una lettera del 12 maggio 1937 di Tatiana Schucht, cognata di Gramsci e assiduamente presente al suo capezzale, a Piero Sraffa. Qui la Schucht offre un’altra versione della morte di Gramsci: la sera del 25 aprile 1937 questi venne colto da emorragia cerebrale mentre si trova al gabinetto. Chiese aiuto. Venne soccorso, ma perse la sensibilità e la mobilità del lato sinistro del corpo. Per due giorni lottò con la morte. E a Tatiana toccò protestare perché «preti e suore lo lasciassero tranquillo». Per Beppe Vacca, invece, filosofo, ex parlamentare comunista e presidente della Fondazione Istituto Gramsci, non solo le lettere di Tatiana a Sraffa non parlano della conversione, ma non ne parla nemmeno una del fratello Carlo a Togliatti: qui si legge della volontà di Gramsci di essere cremato. Cosa che inizialmente trovò qualche ostacolo perché, si dice, non era credente.
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Postato da: giacabi a 18:51 |
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gramsci
La conversione di Gramsci
e santa Teresina di Lisieux
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Questa
mattina il vescovo Luigi De Magistris, pro-penitenziere maggiore
emerito, intervenendo alla presentazione del primo catalogo
internazionale dei santini, ha rivelato i particolari delle ultime ore di vita dell’ideologo del Pci Antonio Gramsci: “Il
mio conterraneo, Gramsci, aveva nella sua stanza l’immagine di Santa
Teresa del Bambino Gesù. Durante la sua ultima malattia, le suore della
clinica dove era ricoverato portavano ai malati l’immagine di Gesù
Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: ‘Perché non
me l’avete portato?’ Gli portarono allora l’immagine di Gesù Bambino e
Gramsci la baciò. Gramsci è morto con i Sacramenti, è tornato alla fede
della sua infanzia. La misericordia di Dio santamente ci ‘perseguita’. Il Signore non si rassegna a perderci"
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Postato da: giacabi a 19:05 |
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gramsci
Gramsci favorevole alla scuola privata
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”Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato.
Noi dobbiamo farci propugnatori della scuola libera, e conquistarci la
libertà di crearci la nostra scuola. I cattolici faranno altrettanto
dove sono in maggioranza: chi avrà più filo tesserà più tela”."
Gramsci: (Scritti,1915 – 1921) in Nuovi Contributi
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Postato da: giacabi a 14:48 |
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gramsci
Don Oreste,
piccola antologia scelta***
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Postato da: giacabi a 22:33 |
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santi, gramsci, don benzi
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La verità deve essere rispettata sempre qualsiasi conseguenza possa apportare,nella bugia non si costruisce che castelli di vento.
Scritti giovanili Antonio Gramsci
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Postato da: giacabi a 14:58 |
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verità, gramsci
La grande alternativa è
tra ideologia e tradizione
Articolo di Monsignor Luigi Giussani La Repubblica 27-12-1997
Natale, per dimenticare il nulla
Caro direttore,
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